Giustizia: la via giudiziaria del moralismo e il preventivo sputtanamento degli indagati di Valerio Spigarelli (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 5 maggio 2015 Tra qualche anno le foto di Bossetti inginocchiato per terra con le manette ai polsi diventeranno iconografiche, come quelle di Carra per i corridoi del Tribunale di Milano ai tempi di tangentopoli. E sarà l'immagine della coscienza sporca di molti protagonisti, vessilliferi o oppositori, della via giudiziaria al moralismo. Proprio per lavarsela, la coscienza, nei convegni di quell'epoca futura si dirà tutto il male possibile di questo rituale autodafé, comprensivo di incaprettamento mediatico dei mostri giudiziari da esposizione. Sicuramente ci sarà anche un qualche pentito, un direttore di telegiornale, o un grande inviato, ad ammettere che durante gli anni in cui il complesso mediatico/giudiziario gettava le basi della terza Repubblica si era esagerato un po' da parte dei colleghi; anche se, ovviamente, giustificherà la cosa con l'ansia da prestazione grandguignolesca. Quella ben illustrata, agli albori della seconda repubblica, dai mandarini della tv alla commissione parlamentare guidata da Violante, secondo la quale un fattaccio giudiziario, meglio se in odore di reality, deve per forza arrivare a metà di un TG, a pena di calo drastico di spettatori e dunque di grana da pubblicità. Il giornalista pentito concluderà, però, tra gli applausi, "non lo facevo per piacer mio ma per rendere grazie a Dio", quello dell'audience, ovviamente, cui non si possono far torti da omissione altrimenti ci rimette la democrazia. Non dirà audience, naturalmente, ma diritto all'informazione, che è molto più elegante, anche se le due cose non coincidono affatto. Non mancherà un magistrato probo ed onesto, di quelli che non passano carte giudiziarie neppure se gliele chiede una cronista avvenente come Belen e popolare come Gigi Riva in Sardegna nei settanta, a spiegare che l'orrenda pratica di filmare, all'alba, arresti, e persino perquisizioni, a casa di gente insonnolita e terrorizzata, era del tutto inutile dal punto di vista giudiziario. Grande riprovazione susciterà, al riguardo, la proiezione della pulsantiera del citofono di Gianni Alemanno, ripresa in tutti i suoi particolari dai carabinieri del Ros al momento delle perquisizione domiciliare effettuata nell'ambito della inchiesta denominata Mafia Capitale, simbolo imperituro di un degrado non alieno da schietti vertici di stupidità assoluta. Il togato si spingerà anche ad ammettere, con accenti di sincero pentimento, che quella ignobile moda altro non era che una sottospecie di pubblicità occulta, che le varie polizie avevano imposto in quello sciagurato periodo e che gli uffici di procura avevano tollerato per mancanza di coraggio, in molti casi, o addirittura teleguidato, in altri, consapevoli del fatto che distruggere l'immagine pubblica di una persona può essere un bell'aiutino durante un processo. Anche in questo caso una certa pruderie linguistica ammorbidirà l'intervento, molto più comprensibile se, invece che di distruzione dell'immagine, il nostro più propriamente parlasse di preventivo sputtanamento degli indagati. Poi interverrà un accademico, il quale, con poche citazioni dotte di articoli e pandette, dimostrerà che tale pratica, nel tempo in cui si era affermata, era sicuramente illegale, posto che tanto il codice di procedura penale, quanto le regole deontologiche di tutti protagonisti, giornalisti, magistrati e forze dell'ordine, la vietavano espressamente, di tal che chi avesse voluto fermare quello sconcio non avrebbe avuto bisogno di nuove norme ma solo di un minimo di coraggio. I più assertivi saranno i politici, uno di destra, uno di sinistra e uno del Pd, i quali, come i loro predecessori post tangentopoli, ammetteranno che quelle cose erano ributtanti, che forse la faccenda era stata sottovalutata e non contrastata con la dovuta energia, che in ogni caso loro veneravano tanto la libertà di informazione che i diritti fondamentali degli individui, con ciò cerchiobottando a tutto spiano. In sala, probabilmente, di fronte a tali ultimi interventi più di uno rifletterà sul fatto che, forse, la proposta avanzata dai grillini del 2020, quella di chiudere il parlamento e sostituirlo con una gigantesca stampante 3D, non era poi così peregrina. Concluderà il convegno un avvocato penalista, spero di quelli senza peli sulla lingua e un po' provocatori, il quale - rivolto ai convegnisti non meno che al pubblico plaudente - dirà solo sette parole: "ma voi, all'epoca, dove cazzo stavate?". Giustizia: la Messa alla prova non si applica per il passato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2015 Corte di cassazione, seconda sezione penale, sentenza 4 maggio 2015 n. 18265. La messa alla prova non è retroattiva. Si tratta di una misura della quale va valorizzato soprattutto il profilo processuale e proprio per questo la sua prima fase di applicazione, in assenza di un specifica norma sulla fase transitoria, va regolata dal principio di ordine generale in base al quale tempus regit actum. A chiarire la questione è la sentenza n. 18265 della Corte di cassazione, Seconda sezione penale depositata ieri. Ma sul punto è atteso anche il giudizio delle Sezioni unite. La Cassazione ricorda che con la legge n. 67 del 28 aprile 2014 è stato introdotto l'istituto della messa alla prova anche per gli imputati maggiorenni con l'obiettivo di offrire subito all'imputato, analogamente a quanto si verificava per i minorenni, un trattamento personalizzato per facilitarne il recupero senza il traumatico passaggio dal carcere e senza le conseguenze sociali derivanti da una condanna. Va però sottolineato come la novità ha avuto un impatto sia sul versante sostanziale sia su quello processuale, da una parte introducendo un beneficio che va a integrare una nuova causa di estinzione del reato e dall'altra disciplinando un nuovo rito che conduce alla definizione anticipata del procedimento. Fatta questa premessa però la Corte si è trovata a dovere affrontare il caso di una richiesta presentata per la rima volta in appello da parte di un imputato già condannato in primo grado per i reati di truffa e appropriazione indebita. La difesa sosteneva che gli effetti sostanziali dell'istituto permetterebbero un'applicazione retroattiva con riferimento anche alle giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. In realtà, la Cassazione spiega che l'articolo 464 bis del Codice penale che individua un termine finale per la presentazione della richiesta di messa alla prova con differenze legate alla diversa natura dei procedimenti ma comunque restringendola al giudizio di primo, può anche rispondere a una scelta precisa del legislatore che avrebbe individuato in questo modo i procedimenti penali in cui la disciplina sostanziale può trovare applicazione. Nella densa ricostruzione successiva, la Corte si sofferma sulle ragioni dell'applicazione retroattiva della legge penale più favorevole e anche sugli sviluppi delle Sezioni unite penali per quanto riguarda gli atti processuali e le situazioni esaurite. In ogni caso, osserva la Cassazione, "il nuovo istituto della messa alla prova si configura come un percorso del tutto alternativo rispetto all'accertamento giudiziale penale, ma non incide affatto sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto per imporre all'imputato, il quale ne abbia fatto esplicita richiesta un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua l'estinzione del reato". La Corte ne conclude così che la nuova disciplina è esclusa dall'ambito di operatività del principio di retroattività della legge più favorevole, come pure è da escludere un profilo di contrasto con la giurisprudenza della Cedu. Giustizia: l'articolo 35-ter O.P. alla Consulta per impossibile applicazione agli ergastolani di Lorenzo Pispero www.leggioggi.it, 5 maggio 2015 Sollevata questione di legittimità costituzionale dell'articolo 35-ter O.P. per impossibile applicazione dei rimedi risarcitori ai detenuti ergastolani Il decreto legge n. 92 del 2014, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117 (contenenti "Disposizioni urgenti concernenti il risarcimento in favore dei detenuti, la custodia cautelare in carcere e ulteriori interventi in materia penitenziaria"), ha apportato significative modifiche al settore dell'esecuzione della pena, in particolare ha aggiunto un nuovo articolo alla legge sull'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), l'articolo 35-ter rubricato "Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati"), che introduce un meccanismo (non poco farraginoso) per "risarcire" colui il quale, in virtù di una sentenza di condanna, si trovi o si sia trovato "in condizioni di detenzioni tali da violare l'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo" (qui è ovvio il riferimento alla sentenza Torreggiani del 2013, richiamata anche nell'ordinanza in commento). Questa norma dispone che il soggetto che si trovi a scontare la pena inflitta in tali condizioni possa richiedere uno sconto di pena (un giorno per ogni dieci trascorsi nelle condizioni accertate dalla Corte Edu) o, nel caso non sia possibile beneficiare di tale sconto di pena, un "risarcimento" monetario pari a 8 euro al giorno. La norma ha già trovato sue applicazioni concrete ma ha sollevato anche dubbi sulla sua legittimità costituzionale. In data 20 marzo 2015, il magistrato di sorveglianza presso l'ufficio di sorveglianza di Padova ha ritenuto "rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo in esame nella parte in cui non prevede, nel caso di condannati alla pena dell'ergastolo che abbiano già scontato una frazione della pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell'articolo 35-ter O.P. e, in ogni caso, nella parte in cui non prevede un effettivo rimedio compensativo nei confronti del condannato alla pena dell'ergastolo, per violazione degli articoli 3, 24, 27 comma 3, 117 comma 1, Costituzione". Procediamo con ordine. L'ordinanza che solleva la questione sulla legittimità costituzionale della neonata disposizione trae origine dall'istanza avanzata da un soggetto detenuto presso la Casa di reclusione di Padova, condannato alla pena dell'ergastolo con una sentenza della Corte d'Appello di Catania in relazione al reato di omicidio. Il detenuto asseriva di aver subito, dalla data della sua detenzione in vari istituti italiani, una restrizione dello spazio disponibile nella cella al di sotto dei 3 mq (richiesti dalla Corte EDU) e chiedeva, a titolo di risarcimento, una riduzione della pena di un giorno per ogni dieci di pregiudizio sofferto in relazione al periodo detentivo. Il giudice sottolinea come "la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il parametro dei 3 mq debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe violazione flagrante dell'art. 3 della Convenzione e dunque, per ciò solo, trattamento inumano e degradante, indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva". L'istruttoria che viene svolta, molto complessa perché spesso riferita a periodi remoti nel tempo e complicata dal fatto che il soggetto è stato detenuto in diversi istituti penitenziari, ha confermato il presupposto dell'istanza di applicazione dell'articolo 35-ter, ossia la detenzione in condizioni disumane e degradanti per almeno 404 giorni, pari ad una ipotetica riduzione della pena, applicando il criterio proporzionale di cui al comma 1 del suddetto articolo di 40 giorni. Ma come si fa a sottrarre ad una condanna all'ergastolo 40 giorni di sconto-pena? Ovvio che tale riduzione di pena potrebbe operare nel caso in cui fosse noto il dies ad quem della condanna. Il legislatore non introduce alcuna fictio iuris come nel caso della riduzione per liberazione anticipata, né si può dar corso al rimedio pecuniario, essendo quest'ultimo un rimedio solo residuale e previsto in relazione al "residuo di pena". Da qui, la denuncia di illegittimità costituzionale per violazione di varie disposizioni costituzionali, in particolare, dell'articolo 3 (in quanto esclude gli ergastolani dal trattamento risarcitorio senza alcuna ragionevole giustificazione), dell'articolo 24 (in quanto rende lo strumento giudiziale di tutela privo di effettività), dell'articolo 27 (per la necessità di non comprimere in modo irragionevole il percorso rieducativo dei condannati all'ergastolo impedendo loro la progressiva umanizzazione della pena), nonché dell'articolo 117 comma 2 con riferimento all'articolo 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo. Il giudice precisa come "nei confronti degli ergastolani sarebbe possibile ridurre la sanzione solo tramite una fictio iuris che consenta di diminuire proporzionalmente i limiti di pena previsti dalla legge per l'accesso ai benefici penitenziari, tuttavia una simile operazione non è possibile in assenza di un'espressa previsione normativa". Per "ristabilire una condizione di legalità dell'esecuzione della pena nel caso in concreto", il giudice prospetta due addizioni normative all'articolo 35-ter o.p., entrambe riferibili alla condizione del condannato alla pena dell'ergastolo: 1) una riduzione di pena a titolo risarcitorio agli effetti del computo della misura di pena scontata per accedere ai benefici penitenziari dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale; 2) l'estensione del ristoro economico, previsto al comma 2 della disposizione impugnata, al caso dell'ergastolano che abbia già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la concessione della liberazione condizionale. Ora la Corte Costituzionale adita dovrà decidere se effettivamente sussiste la violazione delle diverse disposizioni costituzionali richiamate da parte dell'articolo 35-ter ma il tenore letterale della norma esclude ogni possibile applicazione nel caso di una condanna all'ergastolo. Forse una dimenticanza dovuta al vorace, ma non sempre razionale, intento riformista del legislatore? Giustizia: obblighi antiriciclaggio, possibile una verifica su dati già forniti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2015 Corte di cassazione, seconda sezione penale, sentenza 4 maggio 2015 n. 18141. Anche dati precedentemente ottenuti sull'identità di un cliente da parte di un operatore finanziario possono essere oggetto di un obbligo di segnalazioni antiriciclaggio. Almeno quando esistono dubbi sulla loro corrispondenza al vero e adeguatezza. Su queste basi la Corte di cassazione, con la sentenza n. 18141 della Seconda sezione penale, depositata lo scorso 30 aprile, ha confermato la condanna inflitta dalla Corte d'appello nei confronti di due operatori finanziari. La Cassazione, di fronte alle argomentazioni della difesa che sottolineava come obblighi di identificazione e verifica possono riguardare solo fasi precedenti o contestuali all'apertura del conto corrente, fa notare che l'articolo 15 del decreto 231 del 2007 dice altro. E cioè che gli intermediari finanziari devono osservare gli obblighi di adeguata verifica della clientela in una serie di casi ben identificati e, tra questi, trovano spazio anche i dubbi sulla veridicità e adeguatezza dei dati in precedenza ottenuti per l'identificazione di un cliente. Dubbi che ben avrebbero potuto sorgere vista la natura del cliente, correntista di una banca di San Marino. Paese quest'ultimo che ai tempi in cui vengono contestate le condotte illecite, oltre 5 anni fa, era ancora lontano dall'uscire dalle liste dei Paesi "sospetti". Inoltre, quanto al perimetro della clientela oggetto dell'obbligo, la Cassazione ricorda che è il decreto stesso a prevedere che questo si applica a tutti i nuovi clienti, ma anche, dopo valutazione dell'entità del rischio, alla clientela già acquisita. La sentenza avverte che il decreto 231 del 2001 non ha solo creato nuove fattispecie penali, ma si è anche mosso per dare corpo a specifiche metodologie di approccio alla valutazione del rischio di riciclaggio nelle attività economiche e finanziarie estendendo la rete delle misure amministrative per rafforzare la collaborazione nell'attività di contrasto al riciclaggio, passando dai vincoli sull'identificazione della clientela alla segnalazione delle operazioni sospette. Infine la Corte ripercorre le tappe che hanno portato al rafforzamento della collaborazione internazionale con un significativo processo di armonizzazione della disciplina di prevenzione. In questo contesto, a fare testo è il decreto del ministero dell'Economia del 18 agosto del 2008 con l'elenco dei paesi che impongono obblighi equivalenti a quelli previsti dalla direttiva comunitaria 2005/60. E tra questi San Marino non era compreso. Pertanto chi operava con soggetti sanmarinesi non poteva fare riferimento e utilizzare quelle disposizioni relative agli obblighi semplificati di adeguata verifica che fanno leva sul fatto che il Paese interessato sia già in possesso di una disciplina antiriciclaggio soddisfacente. Giustizia: non basta la guida in stato di ebbrezza per negare la cittadinanza di Tiziana Krasna Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2015 Con la sentenza 29 aprile 2015 n. 2185, la Sezione III del Consiglio di Stato, si è pronunciata sul se ai fini della concessione della cittadinanza italiana vada considerata ostativa la circostanza della condanna con decreto penale per il reato di cui all'articolo 186, comma 2, del Dlgs 285/1992 (guida in stato di ebbrezza). Il primo Giudice, dopo aver valorizzato la natura ampiamente discrezionale della concessione della cittadinanza ai sensi dell'articolo 9, comma 1, lett. f), della legge 91/1992, aveva sottolineato che l'istanza di riabilitazione per la condanna subita non era ancora intervenuta e che, comunque, essa era successiva all'adozione del provvedimento qui impugnato e non poteva essere presa in considerazione dall'Amministrazione. Nel dissentire dalla decisione del Tar, i giudici di Palazzo Spada hanno osservato che occorre considerare che, ferma restando la natura ampiamente discrezionale della concessione della cittadinanza, nel provvedimento ministeriale era assente qualsivoglia motivazione che esplicitasse le ragioni per le quali una condanna, risalente a quattordici anni prima e per un fatto punito nelle ipotesi più gravi solo con l'ammenda (guida in stato di ebbrezza), sia in sé ostativa al riconoscimento della cittadinanza, sicché non è dato comprendere, dalla lettura del provvedimento, in cosa si sostanzi, effettivamente e al di là di formule stereotipe, quella "valutazione complessiva dell'impatto che avrebbe sull'ordinamento l'attribuzione dello status civitatis, evitando che dalla concessione possa derivarne danno o nocumento all'ordinamento nazionale". Al riguardo, la III Sezione ha richiamato un proprio precedente, laddove, in caso analogo, si è puntualizzato che la valutazione discrezionale sull'integrazione dello straniero nel tessuto sociale della Repubblica deve certo tener conto anche degli illeciti penali da questo commessi nel periodo in cui egli dimora in Italia, ma non può legittimamente prescindere da un giudizio globale sulla di lui personalità e, soprattutto, dal giudizio sulla gravità in sé della vicenda penale, a fronte di ogni altro comportamento del soggetto. Per quanto possa, infatti, essere reputata fonte di rilevante allarme sociale la guida di autoveicoli in stato di ebbrezza, è necessario che il Ministero dell'Interno valuti, al di là del dato fattuale del decreto penale di condanna (peraltro di un reato meramente contravvenzionale, previsto dal Codice della strada a prevenzione di eventuali sinistri), l'effettiva gravità della vicenda, la quale si sostanzia in un caso isolato e risalente rispetto alla data della statuizione dell'Amministrazione stessa (v., in questi termini, già Consiglio di Stato, sez. III, 28 maggio 2013, n. 2920). Nella specie, il Ministero dell'Interno aveva denegato la concessione della cittadinanza italiana al richiedente, ritenendo ostativa la circostanza che questi era stato condannato con decreto penale per il reato di cui all'articolo 186, comma 2, del Dlgs 285/1992 (guida in stato di ebbrezza). La conclusione del Consiglio di Stato persuade. Al di là di quello che può sembrare a prima vista, la decisione si limita a ribadire un concetto che dovrebbe essere ormai pacifico. Laddove la legge ha inteso affidare alla PA una valutazione discrezionale, questa va fatta per davvero, sino in fondo, e deve sfociare in un atto congruamente motivato. Al bando, dunque, comunque acutamente chiosano i giudici di Palazzo Spada, "formule stereotipe", come quella che si rifaccia alla "valutazione complessiva dell'impatto che avrebbe sull'ordinamento l'attribuzione dello status civitatis, evitando che dalla concessione possa derivarne danno o nocumento all'ordinamento nazionale". Giustizia: no-Expo, la prova di forza che mima una rivolta che non c'è di Marco Bascetta e Sandro Mezzadra Il Manifesto, 5 maggio 2015 Uno scontro giocato sul simbolico. E che non apre nessun spazio politico. Non sappiamo quali siano stati i motivi che hanno indotto la Rete No Expo a rinviare l'assemblea prevista per domenica 3 maggio (l'assemblea, si legge nel sito della rete, "si riconvoca nei prossimi giorni"). Resta il fatto che, dopo quanto avvenuto in piazza durante la Mayday, un importante spazio di confronto politico si è chiuso. E quelle che dovevano essere le "cinque giornate di Milano", preludio a sei mesi di "alterexpo", sono state fagocitate, non solo sui media mainstream ma anche nell'esperienza di migliaia di attivisti/e, da un paio d'ore di duri scontri. Il risultato è un certo spaesamento diffuso, la difficoltà nel prendere parola e nel rilanciare la mobilitazione (cosa che comunque la Rete No Expo fa con un comunicato). Meno di due mesi fa, a Francoforte, le cose erano andate in modo diverso. Il tentativo di blocco dell'inaugurazione della nuova sede della Bce era stato accompagnato da azioni e comportamenti non dissimili da quelli che si sono visti a Milano (pur in altre condizioni, dispiegandosi parallelamente a un insieme di blocchi appunto, e non durante il corteo che ha attraversato la città). E tuttavia la coalizione Blockupy, sottoposta a duri attacchi da parte dei media e delle istituzioni, era stata in grado di riaffermare immediatamente le ragioni dell'opposizione all'austerity e della costruzione di uno spazio transnazionale di azione politica contro il management europeo della crisi. Le stesse iniziative "militanti" assunte da gruppi esterni alla coalizione avevano finito per illuminare quelle ragioni, o comunque non le avevano oscurate. È quel che non è avvenuto a Milano. A noi pare che nella preparazione delle iniziative contro expo siano convissute due prospettive piuttosto diverse: da una parte quella che individuava nella manifestazione espositiva un grande laboratorio sociale, in cui venivano sperimentate nuove forme di sfruttamento e di messa al lavoro della cooperazione sociale, in cui si forgiavano nuovi spazi urbani, nuove gerarchie e nuovi immaginari (e se ne rilanciavano al contempo altri, niente affatto nuovi, come segnalato ad esempio dalla campagna contro "We-Women for Expo"); dall'altra quella che considerava l'Expo come la realizzazione paradigmatica di una "grande opera". Ci sembra evidente che la prima prospettiva, attorno a cui in questi anni sono nate importanti esperienze di inchiesta e sono stati messi in campo generosi tentativi di auto-organizzazione e di lotta, è risultata completamente spiazzata durante la Mayday: non è cioè riuscita a imporsi come polo di aggregazione e di indirizzo politico. A prevalere è stata la seconda: assunta l'Expo come simbolo delle "grandi opere", il simbolismo è dilagato tra le fiamme e le bombe carta, con una serie di slittamenti che dalle banche e dalle agenzie immobiliari sono giunti a investire normali negozi e qualche utilitaria. È un punto che va ribadito: a Milano tutto si è giocato sul piano del simbolico. Non v'è stata espressione di una rabbia sociale diffusa (che pure non manca), ma azione organizzata di soggetti che hanno scelto di attaccare i simboli del "potere" e del "capitale" perché convinti - almeno una parte significativa di essi - che non vi sia alternativa a una politica di pura distruzione, che non vi sia alcuno spazio per una lotta capace di distendersi nel tempo, di consolidare delle conquiste e di affermare nuovi principi di organizzazione della vita e della cooperazione sociale. Davvero il paragone con Ferguson e Baltimora, con movimenti di rivolta sociale che attraversano, coinvolgono e dividono intere comunità, è fuori luogo, a meno che non ci si voglia fissare esclusivamente sulle apparenze, sulle forme e sulle immagini dello scontro! Si potrà poi dire che qualche vetrina infranta, qualche banca e qualche automobile in fiamme non sono nulla di fronte alla violenza quotidiana della crisi, della povertà e delle guerre, che il disordine e la violenza che regnano nel mondo si sono palesati per una volta con segno rovesciato. Si potrà aggiungere che il riot milanese ha rovinato lo spettacolo della città tirata a lustro per l'Expo, ha offerto un controcanto alle fiamme tricolori e agli orribili pennacchi dei carabinieri in tenuta di gala, alle penose retoriche del "futuro che comincia adesso" e dell'"aspirazione di rimettersi all'onor del mondo". A noi sembrano, nel migliore dei casi, magre consolazioni: nelle strade di Milano, il primo di maggio, abbiamo visto piuttosto l'immagine della nostra impotenza, della nostra incapacità di mettere in campo forme efficaci di azione politica orientata alla destrutturazione dei rapporti di sfruttamento e alla trasformazione radicale dell'esistente. Abbiamo sempre pensato che l'esercizio della forza da parte dei movimenti debba essere commisurato prima di tutto a un principio: quello degli spazi politici che è in grado di aprire, dell'effettivo avanzamento del terreno di scontro che determina, delle conquiste e delle mediazioni che garantisce e consolida. Difficilmente questo principio può essere applicato a quanto abbiamo visto a Milano: il simbolismo dello scontro è stato esasperato fino ad assumere forme iperboliche, secondo una logica della messa in scena e della rappresentazione (mai troppo lontana dall'aborrita rappresentanza) di una rivolta che continua a non manifestarsi nella quotidianità. Ripensare forme conflittuali espansive e condivisibili, radicarle nei rapporti e nelle lotte sociali in modi capaci di moltiplicare la partecipazione, il consenso e il "contagio" torna a essere un problema politico fondamentale. Non auspichiamo certo piazze e manifestazioni pacificate (del resto, la "nuova etica" della polizia celebrata dai media, si è estinta nel giro di due giorni spaccando le teste senza casco nero di chi fischiava Renzi a Bologna): si tratta piuttosto di costruire collettivamente, e dunque politicamente, le condizioni perché la stessa espressione di antagonismo e rabbia trovi forme di canalizzazione affermativa, al di là di ogni estetica della distruzione. Giustizia: no-Expo; evviva! finalmente la polizia non è più violenta di Piero Sansonetti Il Garantista, 5 maggio 2015 La Regione Lombardia ha quantificato in un milione e mezzo l'ammontare dei danni per le violenze dei black block. È una bella cifra (anche se forse un po' gonfiata per esigenze comprensibili di propaganda politica). Per ripulire Milano e ricomprare le macchine incendiate e aggiustare le vetrine si spenderà quasi quanto si è speso per fare il processo Ruby. Questi black block, se non li fermiamo, finiranno per fare più danni della Procura di Milano. Stavo scherzando (mica tanto). Però è chiaro che questa mobilitazione nazionale compatta contro gli orchi anarchici, e anche questa esaltazione dei danni (funzionale alla mobilitazione nazionale) ha una sua ragione e un suo scopo. Anzi, ha molte ragioni e molti scopi. La ragione fondamentale è quella di rassicurare. "C'è una Milano buona". Laboriosa, pulita intelligente. Ed è rappresentata da quella manifestazione della maggioranza silenziosa che si è auto-battezzata "Nessuno tocchi Milano". Gente in strada per cancellare le scritte dai muri, con spugne, sapone e vernice. Molto simile alla famosa maggioranza silenziosa - allora guidata da un certo Adamo degli Occhi - che negli anni settanta tentò di opporsi alla forza straripante dei movimenti studenteschi e operai (allora però la quantità di violenza era infinitamente superiore: alla fine delle manifestazioni studentesche non si contavano i Suv ma i morti... morti tra gli studenti e anche tra i poliziotti). Allora la maggioranza silenziosa era dichiaratamente di destra. Ed era ingiustamente criminalizzata, dalla sinistra, ovviamente, ma anche dalla stampa. Perché ingiustamente? Perché chi ha voglia di esprimere dei punti di vista moderati, o anche reazionari, non si capisce perché non debba avere il diritto di farlo. Aveva il diritto allora e ha lo stesso diritto oggi. Lo scopo dell'operazione "dagli al black block" invece credo che sia leggermente diverso. Colpire il ministro Alfano, il capo della polizia Pansa e più in generale la nuova linea politica sulla difesa dell'ordine pubblico che spinge verso comportamenti non violenti della polizia. È curioso che non ci se ne accorga. Da qualche tempo la polizia - forse scioccata dalle polemiche su Genova, forse impaurita dai telefonini che filmano tutto - ha avviato una politica quasi di disarmo. Adottando tecniche che puntano soprattutto a ridurre al minimo i danni umani. Niente morti, pochi feriti. Stabilendo un principio elementare: le persone, chiunque siano, valgono più delle cose. Diciamo un semplice principio di civiltà. Ieri, a un mio interlocutore che sosteneva che il mio atteggiamento sarebbe stato ben diverso se avessero bruciato la macchina mia, ho risposto così: ma se tu avessi un figlio poliziotto, o black block, preferiresti che ti bruciano la macchina o che ti ammazzano il figlio? Questa mi pare la domanda fondamentale, e non vedo come possa esserci una risposta diversa da quella che do io. E se la riposta è quella, non posso fare altro che gridare: viva Alfano! Viva Pansa! Dopodiché c'è un problema che alcuni pongono e che riguarda la possibilità di prevenire. Lo fa nell'articolo qui accanto il professor d'Amato, che io stimo molto e col quale spessissimo mi trovo d'accordo. Si chiede: i servizi di intelligence non potevano scoprire in anticipo i capi, i progetti, le mosse, a prevenire, e arrestare? È una questione molto delicata. La proposta è quella di applicare ai black block (che si è scoperto non sono né stranieri né figli di papà, ma in grande maggioranza figli della classe povera lombarda) misure che solitamente si applicano al terrorismo internazionale. È legittimo? Si può arrestare un cittadino italiano per le sue intenzioni? E qual è il limite che separa il black block, o l'anarchico, dal dissidente democratico, dall'oppositore legittimo? Non si presenta forse il rischio che questo limite sia molto labile, e che domani gli 007 siano chiamati a prevenire le violenze possibili dei metalmeccanici, o magari degli insegnanti precari che non piacciono molto né alla Giannini né a Renzi? Io penso che questo pericolo esista. E penso che la democrazia e lo Stato di diritto abbiano un costo. O si accetta quel costo o si perdono. Non mi sembra, francamente, che il costo del primo maggio sia insopportabile per una comunità nazionale. Credo che sia stato insopportabile il costo di Genova-2001. Giustizia: no Expo; dovrei ringraziare perché non c'è stato il morto? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 5 maggio 2015 Expo, tre domande. La prima: perché mai dovrei ringraziare qualcuno del fatto che a Milano il primo maggio "non c'è stato il morto"? La seconda: perché una modesta manifestazione di partito (un migliaio di persone), convocata dal sindaco Pisapia due giorni dopo, deve essere contrabbandata come "la città intera che risponde alle violenze"? La terza domanda: perché il progetto ispirativo di Expo, "Nutrire il pianeta. Energia per la vita" è stato trasformato in una sagra della ristorazione? La prima domanda mi è stata suscitata (forse) anche dal fatto che abito in zona contigua a quella devastata e che la mattina dopo mi sono svegliata su una specie di strano pianeta che poco aveva in comune con quello su cui mi ero addormentata la sera prima. Facciamo il punto della situazione in cui si è ritrovato un chilometro e duecento metri di centro cittadino dopo il passaggio dei black bloc. Ventisette auto danneggiate di cui 17 date a fuoco, 13 banche assaltate e dodici negozi, distrutto un ascensore della metropolitana, divelti i sedili di tre intere carrozze del metro, inutilizzate le telecamere di sicurezza, abbattute due paline informative. E centinaia e centinaia di scritte su tutti i muri della zona. Certo, "non c'è stato il morto". La polizia, pur cor qualche incazzatura tra gli agenti, ha deciso di lasciar fare. Lo ha deciso il ministro dell'interno, e dietro di lui il prefetto di Milano e lo stesso questore che pure alla viglia della manifestazione aveva minacciato - ricordandolo addirittura a un gruppo di avvocati che si erano costituiti in legal team - di non consentire la presenza in corteo di persone con il volto coperto. Basta guardare le tante immagini comparse ovunque per vedere come sia stato consentito il contrario: non solo caschi e maschere antigas, ma anche e soprattutto devastazione. Ma che cosa significa "non c'è stato il morto"? Vuol dire che dobbiamo abituarci al fatto che le manifestazioni di piazza, che sono un diritto di tutti, debbano comportare per i partecipanti o per le forze dell'ordine il rischio della vita? Vuol dire che dobbiamo a questo essere assuefatti? Si citano continuamente i fatti di Genova in concomitanza con il G8. In quell'occasione si sono verificati due fatti tragici, la morte di Carlo Giuliani (un fatto però che ha riguardato un rapporto tra due persone, il manifestante ucciso e il carabiniere minacciato, non un'intera comunità) e le violenze alla scuola Diaz e in caserma, che sono state però una sorta di vendetta a posteriori e al freddo. Tutto ciò non c'entra con un'attività di prevenzione e di controllo sulle violenze e anche sui mascheramenti che a Milano si poteva e si doveva fare. I cittadini si incazzano anche per un'auto bruciata, sapete? E i commercianti e i lavoratori che vedono la propria attività bloccata schiumano tra rabbia e disperazione. Vogliamo tenerne conto, o no? O dobbiamo pensare che la sentenza di Strasburgo (sacrosanta) di condanna sulle violenze della polizia a Genova sia stata così condizionante da renderla addirittura passiva sulle violenze altrui? Seconda questione, la manifestazione di domenica. Io c'ero. Il sindaco Giuliano Pisapia ha fatto un errore politico: avrebbe dovuto chiamare a raccolta tutta la città, le forze politiche e sociali, i sindacati e il volontariato. Tutti insieme avremmo dato una grande risposta alla ferita che pochi avevano dato a un'intera comunità. Ha preferito radunare pochi suoi amici. Ho partecipato a troppe manifestazioni nella vita per non saper contare una piazza e per non conoscere la differenza tra la cifra reale e la "cifra politica" di una manifestazione. Così i mille amici di Pisapia sono diventati ventimila nel suo comizio e nel titolo del Corriere della sera. Complimenti, ma si è persa l'occasione per far vedere chi sono davvero i cittadini milanesi. Ultima (ma non ultima) questione. Qualche argomento dei manifestanti "No Expo" lo condivido anch'io. Letizia Moratti, il sindaco che ideò, volle e conquistò l'Exposition (il presidente Prodi si limitò ad appoggiarla in seguito) lo ha ricordato in un'intervista nei giorni scorsi. Lo spirito iniziale del progetto riguardava la povertà e la fame nel mondo. Il focus del progetto era la nutrizione, non l'alimentazione. Lo ricordo molto bene, perché ero assessore alle attività produttive e tra le mia competenze c'era anche l'agricoltura, che avrebbe dovuto avere un ruolo importante nella manifestazione. L'Expo, così come è diventata, è nei fatti un grande ristorante costruito su misura per i vari Farinetti. Sia chiaro però che se, come pare fino a ora, questo evento porterà turismo, commercio e affari (quindi muoverà l'economia) a Milano e all'Italia intera, sarà comunque un fatto positivo. Però il fatto di essere in parte d'accordo con alcune tematiche della manifestazione del primo maggio mi ha posto con forza gli altri due interrogativi, e mi domando perché i primi a protestare per quel che è successo non siano stati proprio i manifestanti, quelli che avevano un vero programma di protesta che non riguardasse incendi e devastazioni. Giustizia: riforma delle ferie dei magistrati… ognuno fa come vuole di Grazia Longo La Stampa, 5 maggio 2015 Il ministero della Giustizia le ha fatte scendere da 45 a 30 Ma il numero varia a seconda delle scelte dei tribunali. Non è ancora finita la guerra per le ferie tra i magistrati e il governo Renzi. Anzi, a dirla tutta, è appena cominciata. Perché se è vero che alcune procure si sono già attrezzate, e altre stanno per farlo, con una circolare che definisce il periodo in 30 giorni, nelle procure generali la tendenza è quella di sfidare il decreto del ministero della Giustizia, del 13 gennaio scorso, che ha tagliato di 15 giorni le vacanze. In che modo? Aspettando indicazioni dal Csm, al quale qualcuno, come il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena si è rivolto con una lettera per "sollecitare, in modo urgente, disposizioni in merito: altrimenti si ritiene per buona l'interpretazione delle circolari del Csm del 25 e 26 marzo dalle quali si evince che le ferie consteranno di 45 giorni". Non finisce qui. Sul caso è stato chiamato ad intervenire anche il Tar del Lazio: due pm della Capitale hanno fatto ricorso individuale per "rivendicare il diritto ai 45 giorni". In controtendenza con il procuratore capo Giuseppe Pignatone, che ha applicato la legge e ha diramato una circolare tra i suoi sostituti con chiaro riferimento ai 30 giorni per la villeggiatura (più 6 di festività soppresse, che comunque sono da aggiungersi anche ai 45 giorni). Un mese ribadito anche dal procuratore di Torino Armando Spataro e quello di Palermo, Francesco Lo Voi. Sulla stessa lunghezza d'onda sembra essere anche Edmondo Bruti Liberati, a Milano, nonostante non si sia ancora espresso ufficialmente. La pensa invece diversamente la guida della procura di Vercelli, Renato Tamponi, che non ha dubbi sul mese e mezzo di riposo a disposizione dei magistrati. Una linea caldeggiata anche dal procuratore generale di Torino Maddalena, che sottolinea, tuttavia, la sua disponibilità ad "attenersi ai parametri fissati dal Consiglio superiore della magistratura. La legge firmata dal Guardasigilli, checché se ne dica, non è affatto chiara. Tant'è vero che persino il Csm nelle due circolari dello scorso marzo lascia adito a un'interpretazione che privilegia l'ipotesi dei 45 giorni in virtù dell'articolo 8 della legge 97 del 1979: "Tutti i magistrati che esercitano funzioni giudiziarie hanno diritto a 45 giorni di ferie". Tesi ribadita anche dall'Anni, che auspica "una risoluzione definitiva, perché così com'è, la legge non è chiara". E nell'attesa che le nubi della confusione si disperdano, da molti magistrati della procura generale di Roma (in questo momento è vacante, retta da un facente funzioni), giunge l'invito a un provvedimento del Csm. "Io l'ho chiesto il 13 aprile scorso, sottolineando l'urgenza - chiosa Maddalena - ma ancora non ho ricevuto riscontro". Giustizia: a Platì niente elezioni "tanto poi ci sciolgono per mafia…" di Piero Sansonetti Il Garantista, 5 maggio 2015 Platì, sapete dov'è Platì? Sapete cosa succede a Platì? Sapete chi comanda a Platì? Se non siete calabresi, non lo sapete. Platì è un paese di circa 3500 abitanti, in Aspromonte, è considerato uno dei paesi della mafia. Paga cara per questa sua fama. È un paese antico, sorto nel 500, e anche abbastanza glorioso. Nel 1861 un capo brigante, quasi mitico, un certo Fernando Mittica, resistette a lungo all'assedio dei piemontesi, poi fu sconfitto, inseguito, catturato, ucciso. A Platì non piace molto il Nord. Però, qui, il Nord comanda. Perché Platì fa parte di quel pezzetto (sempre meno piccolo) di Mezzogiorno, dove le garanzie democratiche sono sospese. È da quasi 10 anni che a Platì non governano le giunte elette dai cittadini ma il commissario mandato da Roma. Dal 2006 tutti i consigli comunali eletti dal popolo vengono immediatamente sciolti per sospetto di infiltrazioni mafiose, e il potere passa al Prefetto. Ieri era l'ultimo giorno, a Platì, per presentare le liste in vista dell'appuntamento elettorale di fine maggio. Quante liste sono state presentate? Zero. Nessuno ha formato una lista perché i cittadini e i partiti hanno detto: "Che le facciamo a fare le elezioni? Sono una farsa: il giorno dopo la proclamazione degli eletti il Comune sarà sciolto per mafia. E allora tanto vale rinunciare". A Platì non ci saranno elezioni: resta il commissario. Così stanno le cose. Anche se non sembra che la questione appassioni il nostro mondo politico, ci sono delle zone del Mezzogiorno del tutte escluse dai vantaggi e dagli svantaggi del sistema democratico che vige nel resto del paese. In Calabria queste zone "non-democratiche" sono molto estese. Decine di comuni. Nella Locride la maggioranza dei Comuni è o è stata sciolta per mafia, e alcuni comuni, come, appunto, Platì, sono in regime commissariale praticamente permanente. La parte maggioritaria dell'opinione pubblica italiana commenta: "Ben gli sta. Se il paese brulica di mafiosi è giusto che sia punito con la perdita dei diritti democratici". Ecco, questo è il punto: non solo non è giusto ma è chiaramente del tutto anticostituzionale. Sottrarre a una comunità i diritti politici - con l'argomento che è una buona misura per combattere la mafia - è la negazione della democrazia e dei principi costituzionali sui quali si basa la legalità repubblicana. E punire un'intera comunità per le colpe di alcuni suoi esponenti, con la privazione del diritto di voto, è l'esempio più limpido di stato totalitario. È una vera e propria prepotenza: illegale e illiberale. Ma a Platì c'è la mafia? Certo che c'è. In tutta la Locride la mafia è radicata e forte. Controlla un bel pezzo dell'economia e della vita della comunità. Impone potere, abitudini, culture, modi di comportarsi, modelli di vita. Condiziona la vita pubblica. Esiste il problema di combattere la mafia? Certo che esiste, perché è evidente che la Calabria, oggi, ha un problema fondamentale: entrare nella modernità. La Calabria (e la Locride specialmente) non è mai entrata nella modernità e questo è il motivo per il quale oggi è la regione più povera e più debole d'Europa. Il problema è che fin qui è stata proprio la ‘ndrangheta ad occuparsi di questo problema, e cioè di trovare il modo per sostituire se stessa alla necessità di modernità. E di fare scudo alla Calabria contro l'aggressività e lo sfruttamento del Nord e dello Stato. Bastano tre dati: Platì è sulla costa Ionica della Calabria, dove non esiste un treno elettrico, dove non esistono strade veloci, dove tra il 1950 e il 1970 quasi la metà della popolazione è emigrata al Nord. Basta dire che l'Ospedale della Locride sembra un ospedale di guerra. È controllato dai carabinieri che impediscono che le attese lunghissime e il super sfruttamento di medici e personale provochino tensione e risse. Voi pensate che se per caso, domattina, sparisse la mafia (magari catturata tutta da Gratteri) Platì avrebbe risolto i suoi problemi e potrebbe finalmente entrare nella modernità, come Rovigo, come Cuneo? Chiaro che no. La struttura sociale, l'assenza di infrastrutture, la mancanza di risorse, una classe dirigente interamente succube della politica e dei poteri del Nord, lascerebbero Platì inchiodata alla sua arretratezza. E nel giro di una settimana nascerebbe una nuova ‘ndrangheta pronta a prendere il posto della vecchia. Certo che bisogna battere la ‘ndrangheta, ma aumentando i diritti, e non sopprimendoli. L'idea che la mafia si batta abolendo la democrazia e i diritti e le garanzie, e confondendo popolo e cosche, e vietando le elezioni, è l'idea più fessa che mai si sia sentita al mondo. Purtroppo è l'idea di gran parte della magistratura, e siccome oggi chi fa opinione è la magistratura, è l'idea diffusa anche nella politica e tra la gente perbene del Nord. Se non riusciamo a cancellare questa idea, se non tornano almeno lampi di democrazia, se non si riduce l'ondata di pensiero che considera le manette il principale strumento della modernità, la partita è persa. Ha vinto la mafia. Giustizia: caso Yara; ieri Massimo Bossetti in aula per udienza formazione fascicolo di Stefano Rottigni Ansa, 5 maggio 2015 Dell'accertamento cardine dell'inchiesta sull'omicidio di Yara Gambirasio, che ha portato in carcere oltre dieci mesi fa Massimo Bossetti, si discuterà davanti ai giudici della Corte d'assise di Bergamo dal 3 luglio. Quella relazione del Ris, confermata da altri tre laboratori, che attribuisce il Dna trovato sul corpo della tredicenne al muratore di Mapello è entrata nel fascicolo del dibattimento, come deciso da Ciro Iacomino, il giudice dell'udienza preliminare che esattamente una settimana fa ha rinviato a giudizio Bossetti per omicidio aggravato dalle sevizie e crudeltà e dalla minorata difesa della vittima e per calunnia ai danni di un collega del muratore su quale Bossetti avrebbe cercato di sviare le indagini. La difesa aveva chiesto che la relazione fosse esclusa dal fascicolo in quanto atto irripetibile ma il gup Iacomino l'ha ammessa, spiegando che saranno i giudici del dibattimento a decidere sulla ripetibilità o meno dell'atto. Lo scontro, quindi, su quello che è l'indizio principale a carico di Bossetti è solo rinviato in Corte d'assise: "Perché è quella la sede in cui poter dissipare tutti i dubbi", hanno spiegato i suoi legali, Claudio Salvagni e Paolo Camporini: "Stiamo lavorando intensamente - hanno aggiunto - perché rimaniamo profondamente convinti dell'estraneità di Bossetti". Il muratore ieri era in aula, è arrivato poco prima dell'udienza dal carcere bergamasco di via Gleno a bordo di un furgone cellulare della Polizia penitenziaria. È stato fatto entrare da un ingresso posteriore del tribunale per evitare fosse visto da giornalisti e cameramen. Davanti al giudice, al pm Letizia Ruggeri, ai suoi avvocati e a quelli della famiglia di Yara non ha detto parola. Anche perché si trattava di un'udienza tecnica in cui non sono state compiute attività istruttorie. Ha voluto comunque esserci, un poco forse per interrompere la monotonia delle sue giornate da detenuto ma soprattutto perché, come ribadito dai suoi legali, "vuole essere presente a tutte le fasi del processo". Sarà quindi in aula anche il prossimo 3 luglio, quando comincerà davvero per lui la resa dei conti. Napoli: detenuto suicida a Poggioreale, inutili i tentativi di soccorso di Nino Pannella Roma, 5 maggio 2015 È un detenuto italiano, Giovanni I., di Afragola, l'ennesimo ristretto suicida in un carcere italiano. È accaduto a Napoli Poggioreale, dove il suicida era ristretto nel padiglione Roma. Difficile comprendere come si sia consumato il suicidio, visto che nessuna nota ufficiale è stata diramata dalla direzione della Casa circondariale. L'uomo, che era considerato un elemento di scarso spessore della mala nostrana, aveva precedenti per furto di auto e stupefacenti. A trovarlo morto, sarebbero stati i suoi colleghi di cella. Ad avvisare del suicidio i familiari dell'uomo, sono stati gli uomini della polizia di stato di Afragola, avuta notizia del prematuro decesso, si sono portati presso l'abitazione dei congiunti del ristretto comunicando la tragica notizia. Molto probabilmente già oggi, il magistrato incaricato dalla procura partenopea, darà le necessarie indicazioni per effettuare l'autopsia, cercando di comprendere le reali cause del decesso. Secondo fonti non ufficiali, per tentare di salvare l'uomo sarebbero intervenuti anche gli uomini della polizia penitenziaria, ma l'intervento sarebbe stato del tutto inutile. Purtroppo, con le criticità che l'affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere, probabilmente a causa delle inumane condizioni in cui si è costretti a vivere nella casa circondariale di Poggioreale, dove purtroppo ci sono più detenuti rispetto al numero consentito e talune volte le condizioni di sopravvivenza sono del lutto disumane, tenendo conto Poggioreale potrebbe ospitare poco più di 1500 detenuti. Scontato che questo nuovo ed inquietante suicidio, farà tornare sul piede di guerra i sindacati di polizia, che da tempo immemore, hanno lanciato l'allarme. Nei mesi scorsi per nome e per conto di uno dei maggiori Sindacati della Polizia Penitenziaria, uno dei maggiori vertici nazionali, punto l'indice cercando di focalizzare l'attenzione non solo sulla vertenza detenuti, ma anche sulla professionalità dì uomini e donne della Polizia penitenziaria, costretti troppo spesso a lavorare in condizioni che definire difficili è decisamente poca cosa, di fronte al sovraffollamento della struttura carceraria partenopea e delle gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. In ogni modo, nel corso degli ultimi anni, sono stati migliaia i tentativi di suicidio messi in essere nelle carcere italiane. A Napoli, la situazione è decisamente pesante, "è una vera emergenza" - dice un agente - della penitenziaria, chiedendoci di rispettare l'anonimato. Genova: detenuto "fu picchiato col manganello", indagato un agente penitenziario di Damiano Aliprandi Il Garantista, 5 maggio 2015 Il poliziotto riferì che il detenuto si era fatto male cadendo dalle scale. Ora è stato "collocato" in ferie forzate e gli è stato "consigliato" di non rientrare fino a quando non sarà fatta chiarezza. Diceva che il detenuto si era fatto male cadendo dalle scale, ma in realtà lo picchiò con una manganello. Per questo motivo è stato indagato per lesioni personali l'agente di polizia penitenziaria denunciato da un detenuto del carcere di Marassi che lo ha accusato di averlo picchiato con un manganello. Il poliziotto penitenziario al momento è stato collocato in ferie forzate e gli è stato "consigliato" di non rientrare fino a quando non sarà fatta chiarezza. Cosa sarebbe accaduto? Nel fine settimana tra l'11 e il 12 di aprile la vittima - un detenuto con problemi di tossicodipendenza - avrebbe denunciato di essere stato manganellato e picchiato da un agente penitenziario. Tant'è che avrebbe chiesto di essere visitato dai medici della struttura di medicina penitenziaria che lavorano all'interno del carcere e - secondo i referti - le lesioni sarebbero compatibili con il manganello. Pare che l'accaduto non sia stato segnalato ai vertici della casa circondariale. Successivamente, grazie ad una psicologa della Asl, la vicenda sarebbe stata finalmente denunciata. Il direttore del carcere genovese ha assicurato: "Appena ho ricevuto il rapporto da parte del comandante ho trasmesso tutto in Procura". Così ha fatto anche il Provveditore alle carceri, Carmelo Cantone, che da parte sua ha aperto un'inchiesta interna e negli scorsi giorni nei suoi uffici di viale Brigate Partigiane ha convocato i tre medici. Della vicenda ne è stato messo al corrente pure il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. L'accaduto rimane ancora tutto da accertare. Lo avrebbe scritto il comandante della polizia penitenziaria, Massimo Di Bisceglie, nel rapporto che ha consegnato al direttore che, a sua volta, ha chiesto una relazione all'agente. Quest'ultimo (un abruzzese assegnato a Genova solo da poco tempo) avrebbe dichiarato di essere stato prima bersaglio di sputi e poi aggredito. Sarebbe seguita una colluttazione e in questa fase il recluso sarebbe caduto, riportando ematomi alle braccia. All'aggressione, però, non avrebbe assistito nessuno e, la zona in cui si sarebbe verificata, non è coperta da telecamere. Versione che però contrasterebbe con quella fornita dal recluso: sarebbe stato picchiato con un manganello e secondo quanto avrebbero scritto i medici nel referto, le lesioni potrebbero essere compatibili con i colpi del manganello, arma che può essere usata solo con il permesso del direttore del carcere o del comandante della Penitenziaria e viene custodito in armeria. Per questo, nei giorni scorsi, la polizia giudiziaria delegata nelle indagini ha effettuato una serie di perquisizioni per verificare se vi siano stati degli accessi non autorizzati nell'armeria. Potrebbero esistere delle "schegge impazzite" tra gli agenti della polizia penitenziaria che, di nascosto, prelevano i manganelli custoditi? "Radio Carcere" - il programma di Radio Radicale condotto da Riccardo Arena - sostiene che all'interno delle "Case Rosse" del Marassi ci sarebbe un gruppetto di agenti, piuttosto giovani, che non avrebbero rispettato gli ordini gerarchici, con azioni punitive nei confronti di detenuti ritenuti particolarmente irrequieti ed oltraggiosi. Il carcere di Marassi non è nuovo per gli episodi di violenza e il degrado è sempre più dirompente. Solo qualche mese fa ci fu l'ennesimo tentativo di suicidio nel carcere genovese. Un giovane detenuto straniero aveva tentato di togliersi la vita mediante impiccagione ed è stato salvato grazie alla tempestività dell'agente di polizia penitenziaria addetto al controllo. Anche la convivenza tra detenuti è diventata insopportabile. Come la violenta rissa originata da un detenuto di origini magrebina che, con impercepibile violenza, aveva prima sfregiato il viso di un detenuto italiano con una lama, poi aveva rischiato di essere linciato da altri tre detenuti italiani. Oppure quando, ai primi di gennaio di quest'anno, un detenuto nigeriano ha aggredito il suo compagno di cella, un romeno, staccandogli a morsi un orecchio: episodio avvenuto all'interno dei pochi metri quadrati di un "cubicolo", una cella microscopica dove i due erano rinchiusi. E, per finire, l'altro ieri un detenuto con problemi psichici - sempre recluso nel carcere genovese - ha aggredito con calci e pugni due agenti della polizia penitenziaria nel reparto psichiatrico dell'ospedale San Martino di Genova. Ma il carcere di Marassi ha ancora un conto in sospeso dal 2008. Ovvero il caso di Manuel Eliantonio, di soli 22 anni, che scriveva: "Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta la settimana e mi riempiono di psicofarmaci...". E lo trovarono morto nel bagno del carcere con il volto coperto di ecchimosi. Il carcere di Marassi vive una tremenda situazione dettata dall'insostenibile sistema penitenziario dove rinchiudono tutti, senza distinzione, e senza soprattutto una ricerca della pena alternativa partendo dai detenuti con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici. Un sistema dove la violenza coinvolge tutti, detenuti e agenti. Trento: comunicato della Direzione; 150 addetti per 208 detenuti (75% extracomunitari) Agi, 5 maggio 2015 La direzione del carcere di Trento, da poco guidata da Valerio Pappalardo, in una nota stampa fornisce i dati aggiornati alla presenza dei detenuti. Dopo aver raggiunto picchi di oltre 300 presenti, ospita ad oggi 208 detenuti, di cui dieci donne. Circa due terzi dei presenti sono extracomunitari, spesso irregolari; circa 150 detenuti sono già condannati in via definitiva a pene medio-brevi. Nell'istituto carcerario di Spini di Gardolo (Tn) lavorano 130 unità di Polizia penitenziaria ed una ventina di funzionari e impiegati appartenenti al Comparto ministeri (di cui quattro Educatori). La direzione del Carcere di Trento, da poco guidata da Valerio Pappalardo, in una nota stampa fornisce i dati aggiornati alla presenza dei detenuti. Dopo aver raggiunto picchi di oltre 300 presenti, ospita ad oggi 208detenuti, di cui dieci donne. Circa due terzi dei presenti sono extracomunitari, spesso irregolari; circa 150 detenuti sono già condannati in via definitiva a pene medio-brevi. Nell'istituto carcerario di Spini di Gardolo (Tn) lavorano 130unità di Polizia penitenziaria ed una ventina di funzionari e impiegati appartenenti al Comparto ministeri (di cui quattro Educatori). La Casa circondariale di Trento - inaugurata il 31 gennaio2011- ha attivato numerose collaborazioni istituzionali da parte di enti pubblici e convenzioni con soggetti del privato sociale. Tali numerose partnership creano una continua e proficua osmosi tra carcere e territorio: il primo detta le linee guida generali della vita detentiva, le seconde gestiscono servizi sanitari, educativi e socio-assistenziali. Tra queste il rapporto con l'Azienda sanitaria del Trentino, che fornisce al carcere i servizi specialistici medici, psicologici e di supporto sociale per le tossico e alcol-dipendenze ed il disagio psichico. Per l'ambito dell'istruzione il Liceo Rosmini di Trento cura l'intero versante scolastico all'interno della Casa circondariale. L'offerta formativa prevede 6 moduli annuali di alfabetizzazione diversificati per livello di competenze, 12moduli trimestrali di informatica di base, 9 moduli trimestrali di inglese; un corso annuale di scuola media; un biennio liceale, ulteriormente diversificato in un indirizzo socio-economico e uno tecnico. Palermo: convegno sulla rieducazione dei detenuti, ricordato capitano Basile, dalla mafia Ansa, 5 maggio 2015 Il modello europeo delle carceri a celle aperte e la rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro sono alcuni dei temi al centro della seconda sessione del convegno "Carcere, città e giustizia", in corso nell'aula consiliare del Comune e organizzato dal coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams) nell'ambito del progetto europeo "Prisoners litigation network", in collaborazione con l'Anm, l'Università e il Comune di Palermo, e un cartello di 25 associazioni. Durante l'iniziativa è stato anche ricordato il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, ucciso 35 anni fa dalla mafia: "Il 4 maggio 1980 Basile viene ucciso nel pieno di una festa cittadina, come a dimostrare che la mafia non ha paura di niente", ha detto Giuseppe Di Lello, ex giudice istruttore del pool antimafia di Falcone, che ha ricordato la rabbia per le assoluzioni seguite a una vicenda giudiziaria tortuosa. "Per anni la figlia, che aveva appena 4 anni la sera dell'agguato - ha raccontato Michela Giordano, autrice di un libro sulla vicenda - è stata tormentata dai sensi di colpa per avere rimosso il ricordo visivo dell'arrivo dei killer armati alle spalle del padre. Una memoria riaffiorata quando aveva 7 anni, alla vista di un vigilante armato davanti a una banca, ma non aveva capito che quei cattivi erano lì per suo padre". Nell'aula consiliare del palazzo di Città, oltre al sindaco sono intervenuti anche il comandante dell'Arma della Legione carabinieri Sicilia, Giuseppe Governale, il questore di Palermo, Guido Longo e i presidenti di alcune delle associazioni che hanno promosso l'iniziativa. Dalla presidenza della Repubblica è stato inviato un saluto agli organizzatori della manifestazione per esprimere "convinta partecipazione al commosso omaggio del sacrificio del procuratore Pietro Scaglione e del capitano Emanuele Basile". Questa sera, alle 21, è prevista una fiaccolata dal Genio di Palermo in piazza Rivoluzione verso le sedi che in città prestano accoglienza ai bisognosi, come quella femminile di via Garibaldi, la missione di Speranza e Carità di Biagio Conte in via Archirafi fino alla cittadella del povero, in via Decollati. Domani la prosecuzione dei lavori nell'aula magna del palazzo di giustizia. Sindaco Palermo: umanizzare la pena "Occorre recuperare l'attenzione alla pena. Nonostante ciò che è accaduto in questa città, noi non abbiamo perso di vista l'esigenza di umanizzare la pena". Lo ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando partecipando oggi al convegno "Carcere, città e giustizia" organizzato dal progetto europeo "Prison litigation network" e dal coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. Il convegno si è svolto per la prima parte al carcere Ucciardone di Palermo e per la seconda sessione nell'aula consiliare di Palazzo delle Aquile. "Il senso di questo incontro - ha detto il primo cittadino - è la dimensione umana della vita. Non c'è una sola storia, di quelle che ho sentito qui ricordate, che non ha richiamato un pezzo della mia e nostra vita e della nostra storia. Siamo tutti tessere di un mosaico, dentro e fuori di queste mura. Se Palermo è un mosaico, composto da tante tessere diverse, anche l'Ucciardone è un mosaico. La domanda è: che cornice diamo a questo mosaico? Palermo è l'Ucciardone e l'Ucciardone è Palermo. Qui dentro c'è tutto il bene e il male che c'è fuori da qui". Orlando ha quindi espresso il suo ringraziamento per un'iniziativa che "conserva la memoria e rinnova il ricordo del sacrificio di tanti servitori dello Stato di cui andiamo fieri". Il sindaco ha quindi ricordato uomini come l'agente di custodia Antonio Lo Russo, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, l'agente Giuseppe Montalto e tutte le vittime della mafia. "Iniziative come questa sono importanti perché non bisogna dimenticare - ha concluso - Ognuno di noi deve dire grazie ad ognuno di loro, perché non sono mai scesi a patti con nessuno e hanno combattuto con coraggio la criminalità organizzata. Se oggi la mafia non governa più questa città lo dobbiamo anche al valore e al sacrificio di tutti i caduti nella lotta alla mafia". Sondrio: il carcere è vivibile, ma serve intervenire per un corretto reinserimento sociale www.valtellinanews.it, 5 maggio 2015 Il sovraffollamento della struttura è stato risolto soprattutto per effetto di una serie di provvedimenti legislativi, ora nella casa circondariale del Capoluogo rimangono soprattutto quelle persone che risultano "particolarmente fragili dal punto di vista personale e sociale, essendo prive di risorse e già in partenza provenienti da condizioni di grande disagio e da percorsi di forte emarginazione". Nel carcere di Sondrio "non sussiste più alcun problema di sovraffollamento" è quanto afferma nella sua relazione presentata in Cosiglio Comunale, Francesco Racchetti, Garante dei Diritti delle persone limitate nella libertà personale. Infatti "A Sondrio dove la capienza è di 27 posti, i detenuti presenti all'ultima rilevazione del 16 aprile risultavano 22(rispetto agli oltre 60 di tre anni fa)" si legge nella relazione fornita agli organi di stampa "e, per quanto in una Casa Circondariale l'andamento delle presenze sia strutturalmente e fisiologicamente oscillante - dipendendo da eventuali operazioni di polizia e da provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria, valutando l'andamento dell'ultimo anno e tenendo conto delle dichiarazioni fornite dal Provveditorato Regionale (Prap), si può ritenere che la soglia della capienza regolamentare verrà oramai stabilmente rispettata". Dei 22 detenuti che risultavano presenti al 16 aprile, 6 sono in attesa di giudizio, mentre 16 stanno scontando una condanna definitiva, per lo più breve: la più lunga dovrebbe scadere nel dicembre del 2020, due nel 2018, una nel 2017, 5 nel 2016 ed i restanti sette usciranno nel corso del 2015. Gli stranieri sono 7, gli italiani 15. Quattro hanno meno di 25 anni, il più giovane ne ha 19, il più anziano 71. L'età media è di 36 anni. Il numero complessivo è, come s'è detto, fortemente diminuito soprattutto per effetto di una serie di provvedimenti legislativi in gran parte attuati in risposta alla condanna della Cedu: "notevole diminuzione delle misure cautelari, liberazione anticipata, maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione" continua Racchetti. La conseguenza in relazione ad una Casa Circondariale quale è quella di Sondrio è che sono rimaste in carcere soprattutto quelle persone che risultano "particolarmente fragili dal punto di vista personale e sociale, essendo prive di risorse e già in partenza provenienti da condizioni di grande disagio e da percorsi di forte emarginazione: tossicodipendenti ed alcol dipendenti (non di rado le due cose contemporaneamente), persone senza fissa dimora ed a volte persino prive di residenza, immigrati che hanno perso (o non hanno mai avuto) il permesso di soggiorno, soggetti affetti da patologie fisiche e psichiche con estreme difficoltà di relazione. Soggetti deboli, bisognosi di interventi e sostegni che l'istituzione penitenziaria da sola non è in grado di fornire e sui quali risulta particolarmente delicato e complesso progettare ed implementare percorsi di formazione e di inclusione". Racchetti fa sapere anche che "sono ora giunti a compimento i lavori di adeguamento e riqualificazione della struttura" infatti con un investimento di 80.000 euro (di cui 30.000 forniti dall'Amministrazione Provinciale) si è realizzata la copertura del cortile per il passeggio, consentendone così la fruizione anche in caso di precipitazioni e, soprattutto, sono state realizzate due aule-laboratorio, una adibita all'insegnamento dell'informatica e l'altra con un destino ancora da decidere ma sicuramente dedicata ad un'attività con valenza formativa e lavorativa (che potrebbe, per esempio, consistere in qualche semplice lavoro di assemblaggio). La casa circondariale così viene incontro all'imperativo della Costituzione e dello stesso Ordinamento Penitenziario, cioè che la pena abbia una valenza rieducativa e che rappresenti un tempo efficacemente utilizzato per il reinserimento dell'ex-detenuto. "Si apre quindi nel nostro Carcere" afferma Racchetti "una fase del tutto nuova, resa possibile anche da altre importanti trasformazioni". "Intanto, applicando integralmente (ed anche su questo punto siamo più avanti della media nazionale) le recenti direttive del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) sulla così detta "sorveglianza dinamica", le celle sono ora aperte dal mattino alla sera, consentendo ai detenuti di partecipare a diverse attività nei differenti momenti della giornata". Un segnale importante ed assai significativo delle trasformazioni in atto è rappresentato dall'imminente introduzione di attività formative nel giorno di domenica. "Può sembrare cosa da poco o addirittura ovvia, ma non è affatto così: fino a pochissimo tempo fa questo non era mai stato proponibile, anzi quando capitava che qualche incontro delle attività programmate dovesse cadere in un giorno festivo, veniva soppresso, così che i giorni festivi sono sempre stati i più tristi e vuoti". "L'attenzione e la sensibilità della nuova Direzione per i bisogni e le esigenze di tutti i detenuti, senza alcuna discriminazione, si è tradotta anche nell'apertura all'imam della Unione Comunità Islamica Valtellinese Mostef Zouhaid che, dopo aver ottenuto il parere favorevole della Digos, ha cominciato ad incontrare i suoi correligionari fornendo loro una assai apprezzata assistenza spirituale ed un quanto mai opportuno sostegno umano". Gli interventi da fare, secondo il Garante Francesco Racchetti, che raccoglie i bisogni e i suggerimenti dei detenuti, restano ancora molti. Ad esempio andrebbe ristrutturata la palestra, collocando un pavimento appropriato e rinnovando gli attrezzi, che risultano estremamente obsoleti. "l tema dell'attività fisica in carcere è di primaria importanza. Gli spazi ristretti, la prolungata immobilità e la carenza di stimoli hanno un effetto fortemente deprimente, sia sul corpo sia sulla psiche ed inducono facilmente atteggiamenti di passività assolutamente controproducenti in relazione ad un possibile recupero di persone già fortemente deprivate" commenta Racchetti. Inoltre servirebbe attrezzare in modo adeguato l'aula di informatica per avviare cosri di formazione adeguati che possano dare competenze reali e certificabili. Sempre in questa direzione, fondamentale quanto problematica, della formazione e dell'inclusione lavorativa, "occorre individuare la più opportuna attività (che potrebbe essere qualche semplice forma di assemblaggio) da realizzare nella nuova aula-laboratorio che si è creata. Si tratta, qui, di trovare qualche soggetto esterno (nella fase iniziale di questo percorso si erano avuti promettenti contatti con il Presidente dell'Unione Artigiani) che proponga semplici processi di lavorazione, che possano venire appresi in tempi relativamente brevi - e quindi non risultino penalizzati in presenza di un accentuato turnover -, che forniscano competenze professionali e garantiscano un certo guadagno, indispensabile per la maggior parte dei detenuti, anche in vista dei problemi del reinserimento". In quest'ottica non va dimenticato l'Articolo 21 dell'Ordinamento Penitenziario che prevede il lavoro o la frequenza di corsi professionali all'esterno. Con la recente legge 9 agosto 2013, n. 94 sono stati potenziati gli incentivi fiscali a vantaggio di coloro che assumono detenuti, sia nella forma di sgravi contributivi, sia di crediti di imposta. In secondo luogo, con l'introduzione di un nuovo comma 4 ter all'art. 21 O.P., si è prevista la possibilità di ammettere "di norma" i detenuti a lavori di pubblica utilità, cioè a prestazioni lavorative fornite a titolo volontario e gratuito. "Questo può essere estremamente importante, in quanto favorire le attività lavorative ed anche di volontariato all'esterno può costituire la migliore forma di rieducazione e di inclusione e rappresenta un potente antidoto alla recidiva, dando così alle persone detenute concreti strumenti per attuare un processo di revisione del proprio vissuto e per progettare il proprio futuro e, garantendo, nel contempo, la sicurezza del territorio. Risulta, infatti, dai dati statistici che il tasso di recidiva - che è del 79% per i detenuti che scontano l'intero periodo della pena senza fruire di misure alternative o di percorsi di reinserimento, scende al 19% per coloro che, al contrario, ne possono beneficiare. Il tasso poi cala ulteriormente - fino al 5% - qualora tali percorsi realizzino uno stabile inserimento lavorativo" commenta Racchetti. Roma: le ville sequestrate alla mafia verranno utilizzate per i bimbi "detenuti" di Rory Cappelli La Repubblica, 5 maggio 2015 Accordo tra tribunale, Comune e Dap per accogliere in una casa le carcerate di Rebibbia e i loro figli. Pronte 2 palazzine dell'Eur sottratte alla criminalità organizzata. "Finalmente parte "Antimafia Capitale". È felice Francesca Danese, l'assessore minacciata, l'assessore sotto scorta, l'assessore "del mondo di sotto" come lei stessa si definisce. È felice perché "lo avevo promesso quando accettai questo incarico. Avevo giurato che avrei tirato fuori i bambini dal carcere: e ora, grazie a un giudice coraggioso come Guglielmo Muntoni, grazie alla sua determinazione e alla sua forza, ecco che questo sogno diventa realtà". Manca solo la Delibera di giunta, infatti, perché all'assessore Danese, all'assessore alla Legalità Alfonso Sabella, in collaborazione con il Dap, vengano assegnate due ville di 500 metri quadri l'una, circondate da un giardino, che ospiteranno le donne con bambini oggi detenute insieme ai loro piccoli nel carcere di Rebibbia. Perché insomma diventi realtà, per la prima volta in Italia, la Legge 62 del 21 aprile 2011 che prevede non possa essere applicata la misura del carcere alle donne che hanno figli di età inferiore ai sei anni. E che gli arresti domiciliari possano essere scontati in una struttura protetta. O in un Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri): e di Icam invece ce ne sono soltanto due, uno a Milano e uno a Venezia. Una legge arrivata dopo lunghe battaglie per accendere l'attenzione sul problema: come fece la giornalista Luisa Betti, qualche anno fa, realizzando un documentario toccante girato proprio nel carcere di Rebibbia, Il carcere sotto i tre anni di vita. "Sono felice perché voglio dare segnali positivi alle organizzazioni e alle associazioni oneste e per bene che lavorano a favore degli ultimi" continua Francesca Danese. "Queste due strutture saranno seguite direttamente dall'amministrazione: non accadrà più quello che si è visto negli ultimi anni. Ci sarà un monitoraggio costante". Il giudice Guglielmo Muntoni, a capo della III sezione del Tribunale penale di Roma che si occupa delle misure di prevenzione, non solo ha ideato ma si è anche battuto per firmare un Protocollo d'intesa con Regione, Comune, Abi, Confindustria, Confcommercio, Camera di commercio pur di mettere a frutto i beni mobili e immobili sequestrati e confiscati alla criminalità. La sua sezione (composta di tre giudici) che gestisce beni per oltre un miliardo di euro, 250 aziende e 800 immobili, farebbe qualsiasi cosa pur di metterli a frutto: e forse un po' meno le maglie burocratiche della troppo spesso borbonica macchina amministrativa comunale, visto che sono settimane che si attende una firma perché la cosa diventi operativa. "Eppure questa giunta, questa amministrazione, il mio assessorato e questo sindaco stanno lavorando per velocizzare il più possibile i percorsi burocratici - amministrativi" spiega l'assessore Danese. "Anche perché io voglio passare subito allo step successivo. C'è un problema molto serio rispetto alla nuova povertà: sempre più romani perdono il lavoro e poi la casa, perché non riescono a pagare l'affitto o il mutuo. Ci sono lise d'attesa per la casa con famiglie che aspettano anche da anni. Ci sono studenti fuori sede che troppo spesso finiscono con contratti a nero. Ci sono i senza fissa dimora. A questo voglio pensare". In attesa di firme e timbri, dunque, non si può che gioire per quei piccoli che, se solo si guardano le immagini del documentario di Luisa Betti, fanno stringere il cuore. Un'infanzia dietro le sbarre, bambini costretti ad alzare gli occhi verso il cielo senza mai poter spaziare con lo sguardo. Brindisi: "Shkspr: sezione due", i detenuti-attori in scena al teatro Verdi www.senzacolonnenews.it, 5 maggio 2015 Uno spettacolo comincia sempre quando un ordine entra in crisi. "Shkspr: sezione due" realizzato nell'ambito del progetto "Dentro/Fuori: carcere & dintorni", e in collaborazione con la Casa Circondariale di Brindisi, parte dal presupposto che ogni rappresentazione può diventare l'occasione per dare un ordine diverso alle parole e alle cose, sovvertendone il significato. Il testo è stato scritto partendo da un lavoro di lettura e studio delle opere di Shakespeare all'interno della Casa Circondariale di Brindisi. Ogni detenuto ha potuto scegliere le battute più significative in relazione alla propria storia per provare a raccontare il proprio disagio e il malessere che deriva dalla reclusione, che accetta l'errore e la pena da espiare ma non l'assuefazione alla non-vita a cui la detenzione spesso conduce. I protagonisti di "Shkspr: sezione due" sono quei personaggi rimasti ai bordi delle storie a cui appartengono, tagliati fuori dallo Shakespeare più conosciuto e che rivendicano il desiderio di esserci ancora. Come i detenuti, si ribellano all'oblio del tempo e chiedono di nuovo il diritto alla battuta per rientrare nella storia delle loro vite. "Il nostro peggior delitto? Volere ancora vivere!", grida uno dei personaggi in questa storia che inizia là dove finiscono tutte le storie di Shakespeare. Ma cosa comincia dopo la parola fine? "Shkspr: sezione due" con Marcantonio Gallo, Salvatore Buonomo, Ivan Pedone, Stefania Savarese, Marius Iliazi, Maurizio Lasalvia, Sara Palizzotto, Carmine Tomaselli, Mirela Karlica, Luigi Blasi, Stefano Lanzo e la partecipazione straordinaria di Beppe Loiacono, performer e Fabio Perillo, tenore costumi Angelo Antelmi, editing musiche Pino Corsa, foto Studio Cromatica Progetto grafico LeonardoStudio, una produzione TDP Temporary Theatre - TeatroDellePietre, in collaborazione con Casa Circondariale di Brindisi e il patrocinio di Comune di Brindisi - Ministero di Grazia e Giustizia - Fondazione Nuovo Teatro Verdi - Garante dei Diritti Detenuti Info & prenotazioni botteghino Nuovo Teatro Verdi 0831 562 554 - 327 392 8001. Cagliari: Sdr; Annino Mele torna dopo la declassificazione, ha scontat0 32 anni di carcere Ansa, 5 maggio 2015 "Dopo 32 anni di carcere, 28 senza soluzione di continuità in regime di Alta Sicurezza, sei libri pubblicati, collaborazioni in progetti scolastici, Annino Mele, 64 anni, di Mamoiada, finalmente è stato declassificato e ha fatto ritorno nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Un positivo riscontro che testimonia l'impegno riabilitativo dell'ergastolano-scrittore". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "l'aggiornamento delle informazioni fornite dalla Questura di Nuoro si sono positivamente sommate a quelle della Dda di Cagliari consentendo all'uomo di continuare nel percorso verso la risocializzazione e poter ottenere almeno un permesso, finora negato". "Annino Mele, infatti, benché abbia tenuto un comportamento eccellente, non ha mai - ricorda Caligaris - usufruito di un permesso premio. Oltre ai libri, è coinvolto in un progetto didattico con due classi del Liceo Scientifico e Classico Marie Curie di Meda. Partecipa alle iniziative culturali e rieducative promosse all'interno degli Istituti in cui è stato ristretto. Dipinge, costruisce vasi e cestini con gli stecchini, confeziona centri tavola con filati di viscosa che mette a disposizione per progetti di solidarietà". "Mele, circa un anno fa, essendo stata chiusa la sezione di Alta Sicurezza di Buoncammino, era stato trasferito - ricorda la presidente di Sdr - nel carcere di Tempio-Nuchis. Sei mesi dopo il rigetto dell'istanza di declassificazione, lo scorso mese di ottobre, aveva ripresentato la richiesta. Stavolta le informazioni hanno dato tutte esito positivo ed è potuto rientrare nella nuova Casa Circondariale cagliaritana. Si conclude così un lungo iter burocratico". "È appena il caso di ricordare che troppo spesso le informazioni fornite dagli organi di sicurezza ricalcano - conclude Caligaris - il profilo del detenuto all'atto dell'arresto. È quindi fondamentale per una persona privata della libertà poter contare su un aggiornamento costante e continuo del percorso riabilitativo e culturale da parte delle forze dell'ordine. Ciò garantisce una maggiore sicurezza e offre a chi ha mantenuto un comportamento corretto la possibilità di riabilitarsi e accedere alle premialità di legge". Genova: Sappe; trovati smartphone e anabolizzanti in cella, nei guai detenuto di Marassi Askanews, 5 maggio 2015 È stato tra uno dei detenuti-attori che nei giorni scorsi hanno messo in scena la pièce teatrale "Angeli con la pistola", al Teatro della Tosse di Genova. Oggi è finito di nuovo nei guai, dopo che una perquisizione dei poliziotti penitenziari del carcere di Marassi nella sua cella ha rivenuto tanti, troppi oggetti vietati: uno smartphone, una micro sd, due lettori MP3, sostanze per le attività sportive, come integratori e, forse, anabolizzanti. "Verrebbe da dire che "il lupo perde il pelo ma non il vizio", come recita l'antico adagio. Ma è una cosa gravissima che detenesse tutto quel materiale in cella. Altro che teatro e rieducazione!", commenta il segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece, che ha dato la notizia. "Il telefono sequestrato, tra l'altro, permette anche di fare foto e video, e stiamo accertando se è stato impiegato anche per fotografare e riprendere i volti dei poliziotti penitenziari in servizio per eventuali ritorsioni e se foto e video sono stati trasmessi ad altri utenti". Il segretario regionale Sappe della Liguria, Michele Lorenzo aggiunge: "Questo detenuto era noto da tempo per le sue intemperanze e la sua strafottenza. Non solo aveva già aggredito e ferito un poliziotto penitenziario in carcere, ma nei giorni in cui al Teatro della Tosse di Genova andava in la scena pièce teatrale "Angeli con la pistola" era arrivato a minacciare di morte una nostra Sovrintendente di Polizia Penitenziaria. E nonostante le nostre proteste, è rimasto a fare l'attore senza alcun provvedimento disciplinare nei suoi confronti o, come invece sarebbe stato auspicabile, la revoca del suo ruolo teatrale!". "Fatti di questo tipo sono gravi ed inqualificabili", conclude Capece. "Questo soggetto meriterebbe di starsene in isolamento per mesi, visto che non solo aveva materiale vietato in cella ma che con il suo modo di fare ha vanificato tutto quello che era stato fatto per creare un percorso di trattamento e rieducazione attraverso il teatro. Un'opportunità, questa, non data a tutti i detenuti e che questo soggetto ha buttato all'aria per la sua strafottenza ed arroganza. Deve essere punito severamente e mandato via da Marassi!". Torino: Cgil; dopo lunga "battaglia" il capolinea dell'autobus 29 torna davanti al carcere Comunicato stampa, 5 maggio 2015 Oltre 10 anni fa, avevamo sostenuto una lunga battaglia per porre rimedio alla grave assenza di un collegamento con la città del più grande carcere della Regione, costante e quotidiano crocevia di operatori penitenziari, volontari, famigliari di detenuti e persone che fruiscono di semilibertà o lavoro all'esterno. Alla fine, era giunta la risposta della Città di Torino, con la decisione di istituire non solo una fermata, ma addirittura il capolinea del 29 nel piazzale antistante la Casa Circondariale, a significare sia concretamente che simbolicamente una rinnovata attenzione verso il sofferente mondo del carcere. Grave sconcerto aveva perciò creato, nello scorso Luglio, lo spostamento del capolinea dal sito di via Maria Adelaide Aglietta 35, sede della Casa Circondariale di Torino, in Piazzale delle Vallette, via delle Primule. Anche questa volta non abbiamo fatto mancare il nostro impegno, rappresentando al Comune di Torino, alla Direzione Gtt e all'Agenzia Mobilità Metropolitana e Regionale il disagio per la forte dilatazione dei tempi di attesa del passaggio dell'autobus, e sollecitando più volte il ripristino del Capolinea. Dal 2 Maggio il Capolinea è tornato davanti al Carcere, e di questo ringraziamo tutti coloro che hanno inteso dare concreta continuità all'attenzione che la Città di Torino riserva al mondo del penitenziario e al disagio sociale che vi è dentro racchiuso. Un ringraziamento particolare va ai consiglieri comunali Michele Curto e Maurizio Trombotto, per l'attenzione che hanno riservato alla vicenda , presentando anche un'interpellanza in Consiglio comunale. Dal canto nostro, continueremo a impegnarci perché non venga mai meno la consapevolezza delle Istituzioni e della politica sui bisogni del carcere, e sulla necessità di rafforzare il suo percorso di integrazione col territorio. Fp Cgil Piemonte Coord. Regionale Dap Ministeri Anna Donata Greco Fp Cgil Piemonte Segreteria Regionale Roberto Galasso Libri: "Processo e legge penale nella Seconda Repubblica" di Guido Vitiello Il Foglio, 5 maggio 2015 Un ventennio della giustizia italiana demolito da autorevoli giuristi. Perfino in questi grigi tempi democratici capita, a noi megalomani, di sentirci per un giorno come all'epoca dei Medici o dei Gonzaga, quando il signore poteva radunare a corte i migliori musicisti d'Europa, commissionare loro mottetti e madrigali e farli eseguire per il proprio diletto. L'anno scorso, in un impeto di mecenatismo rinascimentale, ho detto al giovane giurista Andrea Apollonio: ci vorrebbe un bel libro a più voci sulla giustizia italiana nell'ultimo ventennio, che faccia capire cosa è accaduto al processo; ma io, che in materia sto a metà tra il loggionista e lo strimpellatore, non saprei neppure da dove cominciare, perché non lo fai tu? Lo sventurato mi ha preso in parola, e il madrigale polifonico è pronto: si chiama "Processo e legge penale nella Seconda Repubblica", e lo ha pubblicato Carocci il 30 aprile. Sapeste che Camerata de Bardi mi ha portato a corte! Esordisce il maestro Giovanni Fiandaca, che gorgheggia sui populismi giudiziari di destra e di sinistra, sugli intellettuali ridotti a tifosi, sulla strana piega che sta prendendo l'ideologia professionale dei magistrati. E non è che l'introduzione. C'è Luigi Ferrajoli, che dissipa gli equivoci concettuali cresciuti come funghi tossici sul tronco sano del garantismo ed elenca le tre calamità che hanno rischiato di abbatterlo, ossia l'inflazione legislativa, il classismo della giustizia italiana e, di nuovo, l'uso populistico dei processi. C'è Mauro Mellini, che vede nell'ultimo ventennio la concitata fase terminale di una deriva istituzionale in atto fin dalla fondazione della Repubblica, che ha portato i magistrati, di forzatura in forzatura, a costituirsi in partito. C'è Massimo Donini, che descrive un diritto penale diventato un pericoloso surrogato dell'etica pubblica. C'è Alfredo Biondi, che rivendica le ragioni del suo famigerato decreto che i sanculotti e gli enragés dell'epoca battezzarono "salvaladri". Altri capitoli riguardano i mutamenti nella prassi sull'arresto dei parlamentari, il rapporto degli ultimi presidenti della Repubblica con la giustizia penale, la custodia cautelare in carcere dopo Mani pulite, la legislazione antimafia (è il capitolo di Apollonio). I madrigalisti coprono tutto l'arco che va dalla destra berlusconiana alla sinistra vendo-liana, e si esercitano sui registri più vari, dal saggio alla testimonianza all'invettiva. Il mecenate rinascimentale che vive nei miei deliri di grandezza è specialmente incapricciato dal capitolo di Luigi Testa sugli "inquilini del Quirinale", dove alcuni episodi emblematici - il "non ci sto" di Scalfaro, le tribolazioni di Ciampi alle prese con la grazia a Bompressi, le telefonate di Napolitano con Mancino - sono letti nella chiave del conflitto tra il privato cittadino e la dignitas istituzionale (gli ormai famosi due corpi del re). Mi pare che negli scontri con il supremo garante, specie nello showdown quasi insolente della Procura di Palermo, si lasci intravedere la grande tentazione che attraversa l'ideologia professionale dei magistrati. Ma già che sono un committente aristocratico, non un giurista, preferisco che a illustrarla sia Fiandaca: "A riprova di una simile ideologia di ruolo, un pubblico ministero in atto impegnato nel processo palermitano sulla cd. trattativa Stato-mafia ha dichiarato alla stampa: "Lo Stato non vuole il processo". Ora, che la magistratura possa giungere ad auto-rappresentare se stessa come un'istituzione che fa il processo addirittura allo Stato, quasi che essa fosse un'istituzione esterna ed estranea all'organizzazione statale, non è soltanto una visione errata costituzionalmente. Piuttosto, questa autorappresentazione - al di là della sua insostenibilità politico-costituzionale - costituisce un'importante spia di quella che possiamo considerare l'ideologia reale di non pochi esponenti della magistratura penale di punta". È questa, forse, la novità più minacciosa del ventennio. Fortuna che appartengo a un altro secolo, e ora se non vi spiace torno a esercitarmi sul liuto. Profughi, servono altri 9 mila posti di Carlo Lania Il Manifesto, 5 maggio 2015 Oltre seimila gli arrivi. Il Viminale sollecita i prefetti a reperire nuove strutture dove ospitare i migranti, cento dei quali verranno distribuiti in ogni provincia. Giovedì vertice con Comuni e Regioni. Gentiloni ad Avramopoulos: "Da Bruxelles servono passi concreti" Che i posti a disposizione dei migranti fossero ormai agli sgoccioli al Viminale è stato chiaro fin da domenica ma gli ultimi arrivi - più di seimila fino a ieri sera - hanno spinto il ministero a correre ai ripari inviando una nuova circolare ai prefetti con la richiesta di reperire al più presto almeno altri 8-9 mila posti letto. Secondo i tecnici del dipartimento immigrazione i rifugiati dovranno essere smistati tra le varie province, ognuna delle quali dovrà attrezzarsi a ospitarne un centinaio con l'unica eccezione di quelle siciliane, che oggi sopportano il peso maggiore dell'accoglienza. E proprio a Palermo e a Catania si è recato ieri il ministro degli Interni Angelino Alfano per un punto con i prefetti i cui si è parlato di sbarchi ma anche di Muos, il sistema radaristico che gli americani vorrebbero realizzare a Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Le buone condizioni del tempo di questi ultimi giorni hanno incentivato sempre più le partenze dalla Libia pur non risparmiando nuove tragedie come dimostrano i dieci migranti morti nel naufragio avvenuto domenica subito dopo essere partiti dalla Libia. Per fortuna c'è anche qualche buona notizia, come la bambina nata sulla nave Bettica della Marina militare e battezzata dall'equipaggio Francesca Marina. La mamma, una donna nigeriana, aveva iniziato ad avere le contrazioni subito dopo essere stata tratta in salvo dal barcone sul quale viaggiava e ha dato alla luce la bambina dopo otto ore di travaglio. La frequenza degli arrivi conferma comunque che si sta preparando una stagione durissima. Situazione che, al di là delle tante parole spese finora, l'Italia rischia di dover continuare ad affrontare da sola. Ed è proprio quello che il ministro degli Esteri Palo Gentiloni ha ricordato ieri nel corso di un colloquio telefonico al commissario Ue per l'Immigrazione Dimitri Avramopoulos. "Un'emergenza europea non può continuare ad avere risposte solo italiane", ha detto il responsabile della Farnesina chiedendo che Bruxelles si decida finalmente a compiere "passi concreti". È probabile che una risposta alle richieste italiane non arriverà - ammesso che arrivi davvero- prima del 13 maggio prossimo, quando proprio Avramopoulos presenterà la nuova agenda dell'Ue sull'immigrazione. A Gentiloni il commissario europea ha assicurato che tra i contenuti ci sarà anche una attenta analisi dell'intensificarsi dei flussi migratori, che dovrebbe tradursi in una più equa spartizione dei migranti tra gli Stati europei. Un punto che era stato sottolineato anche la scorsa settimana nel corso della plenaria sull'immigrazione tenuta nella sede di Strasburgo del parlamento europeo, durante la quale il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ha anche criticato l'Italia per aver chiuso la missione Mare nostrum. Perché ciò avvenga, perché i migranti non restino più solo in carico all'Italia, servirebbe però rimettere mano al regolamento di Dublino III e bisogna vedere se il Consiglio europeo sarà d'accordo. E sempre dal Consiglio europeo dipende anche la possibilità, annunciata come cosa fatta, di triplicare il budget a disposizione di Triton, che passerebbe così da 3 a 9 milioni di euro al mese. In ogni caso l'aumento dei finanziamenti richiede ancora tempo. "La Commissione europea spera di presentare un emendamento al budget a Consiglio e Commissione per metà maggio e speriamo che possa essere adottato molto velocemente", ha spiegato ieri la portavoce dell'esecutivo Ue, Natasha Bertaud. Aspettando che l'Europa si decida a battere un colpo, giovedì si terrà al Viminale il previsto incontro tra governo, Regioni e Comuni proprio per decidere i nuovi interventi sull'accoglienza dei migranti. Alfano sembra intenzionato a forzare il muro alzato da Veneto e Lombardia - le due regioni a guida leghista e ribadito anche ieri dal governatore della Lombardia Roberto Maroni. "Noi abbiamo fatto come Italia una battaglia e stiamo ottenendo i primi risultati sulla equa distribuzione in Europa - ha spiegato Alfano da Palermo -. Se l'equa distribuzione deve esserci tra i 28 Paesi europei è chiaro che ci deve essere prima tra le Regioni italiane". Brasile: l'On. Giovanardi su caso Pizzolato "il governo revochi estradizione già concessa" Ansa, 5 maggio 2015 "Ieri mattina nel carcere di Sant'Anna di Modena, Carlo Giovanardi, capogruppo di Ap in Commissione Giustizia del Senato ha incontrato Henrique Pizzolato, cittadino italo-brasiliano, condannato a 13 anni di carcere dal Supremo Tribunale Federale del Brasile, in un processo senza possibilità di appello che ha coinvolto politici ed ex ministri del governo Lula". È quanto si legge in una nota del senatore di Ap. "Pizzolato - hanno spiegato Giovanardi e l'avvocato Alessandro Sivelli in una conferenza stampa dopo la visita - aveva ottenuto il diniego all'estradizione dalla Corte d'Appello di Bologna, mentre la Cassazione ha rinviato la decisione al governo italiano che incomprensibilmente ha stabilito che Pizzolato, cittadino italiano, l'11 maggio debba essere estradato in Brasile". Giovanardi ha sottolineato come "nel Carcere di Papuda, dove Pizzolato dovrebbe scontare la pena, solo nel 2013 solo stati accertati 2 suicidi, 14 omicidi, 30 morti, 147 ferimenti, 109 lesioni corporali; una situazione, quella dei carceri brasiliani, che ha fatto dire al ministro della Giustizia brasiliano "preferirei morire piuttosto che scontare le pena per anni in un penitenziario brasiliano"". Sivelli e Giovanardi chiedono pertanto al ministro della Giustizia di "revocare questa decisione, che mette a rischio la vita di Pizzolato, che comunque si è costituito in Italia dove intende espiare la pena, pur nella legittima richiesta di una revisione del processo che l'ha coinvolto in Brasile". "Ho trovato Pizzolato abbastanza sereno in carcere, ma ovviamente c'è preoccupazione per quanto potrà avvenire in futuro", ha detto Giovanardi. "Accadono cose anomale - ha proseguito Giovanardi -. I ministri condannati in Brasile sono già fuori dal carcere, mentre i pesci piccoli hanno avuto condanne pesanti. Gli stessi governatori brasiliani ammettono che quelle carceri sono orrori invivibili". Il legale di Pizzolato, l'avvocato Alessandro Sivelli, ha detto di nutrire ancora "l'aspettativa e la speranza di potere ottenere una sospensiva di questo provvedimento. Mi rendo conto che la vicenda di Pizzolato può interessare solo a pochi, ma qui siamo di fronte alla violazione di diritti fondamentali. È incomprensibile - ha detto Sivelli - come il Parlamento approvi una legge che consente ai detenuti italiani detenuti in Brasile di scontare la pena in Italia proprio prendendo atto della situazione tragica delle carceri brasiliane, e il nostro governo vada di segno contrario. Pizzolato ha sempre chiesto di rifare il processo in Italia perché il processo che ha subito in Brasile è di carattere politico e si è svolto in un unico grado di giudizio senza possibilità di appello". Siria: Rete per i Diritti Umani; in un mese 100 persone uccise sotto tortura Agi, 5 maggio 2015 Oltre cento persone sono state uccise sotto tortura in Siria ad aprile. E la maggior parte delle vittime sono morte nelle carceri governative siriane. È la denuncia della Rete siriani per i diritti umani, una delle piattaforme che da anni documenta le violazioni nel Paese. Secondo il dettagliato rapporto diffuso nelle ultime ore, dei 107 uccisi, 104 sono morti nelle prigioni dei servizi di repressione siriani a Idlib (19 morti), Hama (18), Daraa (17), nella regione di Damasco (14), a Damasco e Homs (11), Dayr az Zor (7), Aleppo (5), Hasake (2), Suwayda e Qunaytra. Altre tre vittime sono morte nelle carceri della Jabhat an Nusra, ala qaedista siriana e una nelle prigioni dello Stato islamico (Isis). Non è possibile verificare in maniera indipendente l'autenticità delle informazioni nonostante la Rete siriana per i diritti umani abbia documentato nel dettaglio le circostanze delle uccisioni e abbia fornito le generalità delle vittime. Libia: circa 7.000 i migranti clandestini detenuti in carcere Askanews, 5 maggio 2015 Circa settemila migranti che tentavano di raggiungere via mare l'Europa sono detenuti in Libia. Lo ha reso noto Mohammed Abdelsalam Al-Qoueiri, responsabile libico del dipartimento per la lotta all'immigrazione, che ha rivolto una richiesta di aiuto ai Paesi vicini ed europei. Questi migranti, per lo più provenienti dall'Africa, sono stati arrestati al largo della Libia o prima ancora di imbarcarsi e sono rinchiusi in 16 centri di detenzione nelle regioni di Tripoli, a Misurata e in altri settori ancora, tutti controllati dalle milizie islamiste. Il dipartimento fa capo al governo parallelo che si è insediato nella capitale libica e che risponde a una coalizione di milizie filo-islamiche denominata Fajr Libya. "Nei centri sono rinchiusi fino a 7.000 migranti, cui viene dato cibo, materassi e cure mediche", ha detto il responsabile, senza precisare però da quanto tempo sono rinchiusi nei centri. Qoueiri ha spiegato che nel 2014 i migranti fermati venivano immediatamente rinviati nei loro paesi di origine, ma quest'anno il suo governo, non riconosciuto dalla comunità internazionale, non riesce a trovare aerei per trasportarli. Nel 2014 "25.251 migranti sono stati rimandati a casa, ma dall'inizio di quest'anno solo 1.615". Secondo stime delle Nazioni Unite, più di 110.000 migranti hanno raggiunto la Libia nel 2014. Eritrea: una campagna internazionale per i giornalisti incarcerati Il Manifesto, 5 maggio 2015 Libertà di stampa. A Stoccolma un'installazione ricorda la vicenda dei 12 reporter arrestati nel 2001. Ne restano in vita solo 4. E attendono ancora il processo. 12 sedie schierate nella centralissima Sergels Torg a Stoccolma, di cui solo 4 occupate da persone vestite di nero e imbavagliate. È l'installazione realizzata domenica scorsa, in coincidenza con il World Press Freedom Day, per ricordare la vicenda di 12 giornalisti imprigionati in Eritrea nel lontano 2001. Di questi solo 4 sono ancora vivi. E ancora in attesa di processo. Tra loro il 54enne Seyoum Tsehaye, che nel 2002 fu protagonista di uno sciopero della fame. Secondo gli attivisti per i diritti umani sarebbe stato arrestato per i suoi articoli a favore della libertà di espressione, secondo il governo invece si sarebbe macchiato di "atti di sedizione, tradimento e di reati contro la sicurezza nazionale". Nel 2001 il governo di Isaias Afewerki ha chiuso praticamente tutti i media indipendenti. E ha rimandato le elezioni che si sarebbero dovute svolgere proprio quell'anno (non se ne è saputo più niente). Un altro giornalista nella stessa situazione è Dawit Isaak, doppia nazionalità eritrea e svedese. In Svezia, dove vivono 40 mila esiliati eritrei, il sito della rivista "Expressen" pubblica un banner con gli anni, mesi, giorni, ore e minuti da cui Isaak aspetta un processo. Alla campagna che chiede la liberazione dei quattro si può aderire su one?day?sey?oum?.com. Egitto: strage di Kerdasa, condannati a morte 5 membri della Fratellanza islamica Nova, 5 maggio 2015 Un tribunale egiziano ha condannato a morte cinque esponenti dei Fratelli musulmani coinvolti nel massacro dell'agosto 2013 a Kerdasa, a Giza, che costò la vita a 11 agenti di polizia. La sentenza deve ancora ricevere il parere del Gran mufti d'Egitto, Shawqy Allam. Situata appena a ovest del Cairo e considerata una roccaforte dei Fratelli Musulmani, Kerdasa ha assistito nel 2013 a uno dei più gravi attacchi contro le forze di polizia che hanno avuto luogo sull'onda delle proteste per la destituzione del presidente islamista Mohamed Morsi il 3 luglio 2013. Il 14 agosto del 2013, in concomitanza con lo sgombero forzato dei sit-in dei Fratelli Musulmani nelle zone di Rabaa ed el Nahda (Il Cairo), un gruppo composto da diverse persone appartenenti al movimento islamico ha assaltato la stazione di polizia di Kerdasa uccidendo e mutilando undici agenti di polizia, fra cui l'ufficiale Mahmoud Ibrahim Abdul Latif. Lo scorso 20 aprile il tribunale penale del Cairo ha condannato a morte altri 22 membri dei Fratelli Musulmani coinvolti nell'attacco. Fra i condannati 14 sono al momento detenuti nelle carceri egiziane, mentre otto sono stati condannati in contumacia. La corte ha inoltre condannato a dieci anni di carcere altri 14 imputati minorenni, per i reati di tentato omicidio, possesso illegale di armi e violenza contro agenti di polizia.