"Io un padre ce l'ho ma è sepolto vivo, alla morte ci si rassegna… al carcere a vita no" Il Mattino di Padova, 4 maggio 2015 Abbiamo parlato molto delle sezioni di Alta Sicurezza della Casa di reclusione di Padova, che stanno per essere chiuse, ma vorremmo spiegare perché quello che chiediamo è la declassificazione di molte delle persone rinchiuse in quelle sezioni. Definirle "mafiosi" non rende meno pesante la responsabilità di chi le ha trattate con poca umanità, e soprattutto ha trattato in modo inumano i loro figli. Dopo anni passati in un regime crudele come il 41 bis, il carcere duro che tanto assomiglia alla tortura, e anni passati nelle sezioni di Alta Sicurezza, se vogliamo che le persone si stacchino davvero dalla "cultura" delle associazioni criminali a cui appartenevano, è importante che siano tirate fuori da quelle sezioni, che sono spesso ghetti dove si resta ancorati al linguaggio e alla cultura del proprio passato, e possano vivere una carcerazione un po' più civile per sé e per i propri figli. La mia famiglia dall'inferno del mio 41 bis è uscita unita di Tommaso Romeo In questo io sono fra i pochi fortunati, ma ne ho passati di giorni neri, arrivi al punto di convincerti che non sei un essere umano ma un fantasma. Il 27 maggio 1993 vengo arrestato e portato nel carcere di Locri, mi mettono in una sezione che anni prima fungeva da isolamento, vi erano dieci cellette, era la nuova sezione speciale dell'Alta Sorveglianza con passeggi piccolissimi e con la rete sopra, in quel reparto ci ho passato nove anni, mai visto un educatore, mai un volontario anzi non sapevo che esistessero, e gli agenti erano quelli della squadretta che cambiavano ogni sei mesi, i colloqui con i famigliari si svolgevano in una stanzetta divisa da un bancone di cemento. Le mie figlie gemelle, Francesca e Rossella, avevano quindici mesi quando sono stato arrestato, ho visto crescere le mie figlie dietro quel bancone. Ma il peggio doveva venire: infatti il 22 giugno 2002 si presentano davanti alla mia cella gli agenti e mi portano alla matricola e mi informano che mi era stato applicato il regime del 41bis, e che dovevo prepararmi la roba che entro un paio d'ore ero in partenza. In poche ore mi ritrovo nel super carcere di Spoleto, appena arrivato vengo denudato e costretto a fare la famosa flessione, dopo essermi rivestito entro in una stanza dove l'ispettore responsabile mi elenca tutto quello di cui non potevo usufruire "niente telefonate, un'ora di colloquio al mese, un'ora d'aria al giorno, posta censurata, vestiario contato, perquisizione in cella tutti i giorni", vengo portato in sezione, il mio gruppo era composto da cinque detenuti compreso me, gli oggetti personali (rasoio, pettine, taglia unghie) venivano ritirati alle ore 19:00 compreso il fornellino, perciò dopo di quell'orario non potevi farti un caffè o un tè, ti veniva ridato il tutto il mattino seguente alle ore 7:00, ogni volta che uscivo dalla cella venivo perquisito, non potevo leggere quotidiani della mia regione d'origine, alla tv potevo vedere sette canali decisi dalla direzione. Quando andavo al colloquio avvocati venivo denudato sia all'entrata che all'uscita, lo stesso accadeva al colloquio famigliari. C'è da precisare che il detenuto non ha nessun contatto con i famigliari in quanto è separato da un vetro blindato, perciò non riuscivo a spiegarmi perché dovevo essere denudato, gli agenti giustificavano il tutto con il fatto che lo prevedeva il regolamento. Dopo molti anni per spiegarvi come si svolgevano i colloqui familiari al 41bis devo fare un profondo respiro per reprimere la rabbia, rivedere nella mia mente le mie figlie dietro quel vetro blindato senza potergli dare una carezza, vedere le loro manine battere su quel vetro maledetto ti fa vedere tutto nero, la rabbia sale alle stelle perché ogni minuto che passi in quella stanza le voci dei tuoi cari ti arrivano distorte da quello spesso vetro, perciò cominci a parlare a gesti le parole diventano sempre più poche come pure i gesti, pollice alzato tutto ok, ti rimangono impressi gli occhi dilatati dei tuoi cari, esci dal colloquio che non hai provato la gioia di aver visto i tuoi cari ma ritorni in cella pieno di rabbia, pensi di recuperare scrivendo qualche lettera con tutto quello che non gli hai potuto dire in quell'ora di colloquio, scrivi due, tre pagine ma poi ti ricordi che quella lettera intima verrà letta da un agente che vedi tutti i giorni e decidi di strapparla. In sette anni quante lettere ho strappato! dopo un po' di tempo le mie lettere sono diventate un rigo freddo "ciao io sto bene vi voglio bene", in quei sette anni ne ho visti di detenuti cadere nella depressione perché le loro famiglie si sono sfasciate, mi viene in mente un mio giovane paesano che vedevo triste, un giorno riesco a domandargli che cosa avesse e lui mi risponde "mi sono lasciato con mia moglie". Io sono uno di quelli fortunati perché la mia famiglia da quell'inferno è uscita unita, ma ne ho passati di giorni neri, arrivi al punto di convincerti che non sei un essere umano ma un fantasma, o solo una grande foto nella stanzetta dei tuoi figli, perché sai che a qualunque loro richiesta di aiuto non puoi fare altro che dire "vi affido a Dio" e se non sei forte cominci a pensare che la migliore soluzione è quella di addormentarti e di non svegliarti più. 12 giugno 2009: si presenta davanti alla mia cella un agente, mi fa uscire, gli domando dove devo andare, mentre mi perquisisce mi risponde che non lo sa, fuori dalla sezione mi sta aspettando un ispettore e gli faccio la stessa domanda, anche lui mi risponde che non lo sa, arrivati alla matricola il responsabile mi comunica "Le è stato revocato il 41bis non può più tornare in sezione". Dopo dodici giorni d'isolamento dal carcere di Ascoli Piceno arrivo a Padova, vengo collocato nella sezione di alta sorveglianza AS1, ci sono da sei anni, i miei ventidue anni di detenzione li ho passati nelle sezioni speciali, in altri stati esiste una legge per cui dopo la condanna definitiva vieni inserito nelle carceri di media sicurezza, solo in Italia c'è gente al 41bis da quando è stato applicato quel regime, cioè dal 1992, e c'è gente da decenni nei circuiti di Alta Sicurezza. Non riuscirò mai a dimenticare il mio primo colloquio del 41bis di Francesca, figlia di Tommaso Era il 14 giugno del 1991 quando io e per fortuna mia sorella gemella veniamo al mondo in quella che era una famiglia felice, o perlomeno dalle poche foto che io ho, perché purtroppo io non ne ho memoria dato che dopo 15 mesi il mio papà viene arrestato e quelle maledette porte del carcere non si sono più riaperte ad oggi, che sono passati 23 anni, qualunque errore abbia potuto commettere lo ha pagato con tanti anni della propria libertà e non si sa se quel maledetto cancello si riaprirà mai. Ho tanta rabbia dentro un po' con il mondo intero e non solo, visto che mi è stata negata per tutti questi anni la presenza di mio padre accanto a me, ero piccola e non riuscivo a capire perché il mio papà ad ogni mio compleanno, ad ogni Natale, ad ogni Pasqua o semplicemente al mio primo giorno di scuola non c'era, mentre tutti gli altri bambini erano accompagnati dal proprio papà, io purtroppo ero quella diversa quella senza un papà. Ho tanta rabbia dentro perché non riesco neanche a ricordarmi il mio papà dentro casa mia, non riesco a ricordare neanche il poco tempo che siamo riusciti a passare insieme perché ero troppo piccola, quanto vorrei ricordare! Stare rinchiuso in quattro mura per 23 anni e non si sa ancora quanti anni passeranno è come essere sepolti vivi, questa è la mia rabbia perché io un padre ce l'ho ma è sepolto vivo, alla morte ci si rassegna al carcere a vita no. Ogni tanto penso tra me e me come sarebbe stata la mia vita con il mio papà accanto, ma invece purtroppo per passare qualche ora con mio padre devo fare un viaggio lunghissimo e vederlo in mezzo a persone che non conosco. Questo calvario è iniziato quando ero piccolissima. Non mi ricordo il mio primo colloquio con mio papà, ma sicuramente uno non riuscirò mai a dimenticarlo, cioè il mio primo colloquio del 41bis. Avevo solo 11 anni, eravamo abituate io e mia sorella a colloqui molto affettuosi pieni di abbracci e baci, e vedersi dietro un vetro blindato e non capire nemmeno cosa ti dice tuo padre è stato traumatico, poggiavamo la mano sul vetro per fare finta che ci toccassimo ma in realtà toccavamo un vetro freddo. Per sette anni non ho sentito il calore di mio padre, non ho potuto abbracciarlo né baciarlo né stare sulle sue gambe, cosa che faccio a tutt'oggi anche se ho 23 anni, forse per la troppa voglia di avere un papà come tutti gli altri. Il carcere secondo me deve essere una struttura che aiuti il detenuto a prendere coscienza dei propri errori e a essere reinserito al meglio nella società, e non come hanno fatto con mio padre che è entrato a causa dei suoi errori, ma poi hanno gettato la chiave, per forza sono arrabbiata con il mondo intero, perché crescere con un padre in carcere non è stato facile, affrontare ogni mio problema da sola non è stato per niente facile, se sei la figlia di un detenuto la gente ignorante ti giudica, ti discrimina, ti emargina e ti addita come se essere figlia di un detenuto fosse colpa mia, quindi sì ce l'ho con il mondo intero. Tutto questo è stato devastante, la cosa più brutta è stata quando leggendo una lettera di mio padre domandai a mia madre perché sul mio pezzo di lettera c'era un timbro, mia madre diventò bianca e mi disse che significava che prima di essere spedita quella lettera, la mia lettera, era stata letta da un estraneo. Io non dissi nulla per non fare rimanere male mia madre, però dentro di me sapere che le parole che mi scriveva mio padre fossero state lette da qualcun altro mi suscitava tanta rabbia. Fortunatamente questo periodo di 41bis è passato e a Padova facciamo un bel colloquio pieno di abbracci risate baci, tutti quelli che mi sono persa in 7 anni che mai nessuno mi potrà restituire. Spero che mio padre non debba essere trasferito via da Padova, e che un giorno non molto lontano possa tornare a casa per viverci finalmente un po' di vita insieme o perlomeno vivere quello, che non ha potuto vivere con le sue figlie, con i suoi nipoti, visto che mia sorella ha due bimbi piccoli. La notizia del mio trasferimento ha fatto ripiombare la mia famiglia nel buio di Ugo De Lucia Ristretti Orizzonti, 4 maggio 2015 Mi chiamo Ugo De Lucia, sono detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova da tre anni. Sono arrivato in quel di Padova dopo aver girato un po' di istituti italiani, affrontando difficoltà sempre più grandi, difficoltà che non mi permettevano di guardare oltre, non riuscivo a trovare quell'equilibrio che potesse dare serenità a me e soprattutto alla mia famiglia. Sono un detenuto condannato all'ergastolo, sono un padre di due bambini, e nell'ultimo periodo riesco anche ad aiutare la loro crescita economicamente. Dal mio ingresso nell'Istituto di Padova ho scoperto molte cose per cui vale la pena di guardare oltre. Lavoro presso il call center che si occupa delle prenotazioni per l'ospedale di Padova e Mestre, un lavoro che mi ha aiutato a crescere moltissimo, a rivedere quello che potevo essere per il futuro, il mio e quella della mia famiglia, Infatti, nonostante abbia due bambini non sono mai riuscito a coronare il sogno di mia moglie, sposarsi in chiesa. Il mio rapporto anche con la fede non era del tutto chiaro, non sapevo cosa fosse, solitamente ero abituato a credere in ciò che la vita mi mostra o riuscivo a vedere. Oggi a distanza di tre anni sono riuscito a capire tante cose, scoprire quale fosse in realtà il desiderio di mia moglie, cioè, non tanto il fatto di andare a scambiare le promesse davanti alla fede, ma aggrapparsi all'unica "cosa" che lei riconoscesse come miracolosa. Padova mi ha regalato la gioia di apprezzare le cose semplici della vita, quelle che tante volte nemmeno facciamo caso di vedere. Il mio percorso lavorativo ha fatto si che crescessi anche personalmente. Oggi mi sento un padre di famiglia un po' più sereno e consapevole del mio posto nella società, questo mi ha portato a prendere decisioni definitive per me e la mia famiglia, infatti prima del 6 aprile avevo progettato insieme alla mia famiglia di sposarmi in chiesa, e far trasferire loro qui a Padova, per riprendermi la vita che mi era sfuggita, ho preso già casa a Ponterotto, dove la mia famiglia doveva trasferirsi in modo da iniziare a starle vicino durante i miei permessi, (perché usufruisco di permessi, e avendo una sorella che è portatrice di handicap, qui sono riuscito a portarla in giro il giorno di Pasqua dopo 13 anni che non riuscivo a vederla). Padova è diventata per me il luogo dove ho messo le mie radici, dove cercare di riparare a tutto quello che è stata la mia vita passata, cercare di regalare a chi mi sta vicino da tanti anni una vita normale e serena. La notizia del mio trasferimento ha fatto ripiombare principalmente la mia famiglia nel buio, trasferirmi significherebbe per me e per loro il ripercorrere un calvario senza via di uscita, qui posso essere parte attiva per loro anche economicamente, possibilità che non troverei in nessun altro Istituto italiano, in particolare nella mia futura sede di destinazione che è Parma. Quello che chiedo a chi può fare qualcosa per me è di prendere in considerazione tutti i sogni che verrebbero tolti alla mia famiglia e la possibilità a me stesso di dimostrare che posso essere una persona diversa. Ringrazio tutti per l'attenzione che avete mostrato a questo mio sfogo. Giustizia: il diritto e la certezza perduta, una babele normativa che divide anche i giuristi di Giovanni Fiandaca Il Mattino, 4 maggio 2015 Che fine ha fatto la certezza del diritto? Si ha l'impressione, oggi, non solo che il diritto diventi sempre più incerto, ma che il suo impiego talvolta renda le cose ancora più ingarbugliate. Perché? Le cause sono molteplici e di varia natura. Da tempo, si chiama in causa la fitta e oscura boscaglia delle leggi, eccedenti di numero, poco chiare e non di rado contraddittorie tra di loro. Manon si tratta solo di questo. C'entra anche una diffusa tendenza degli interpreti, inclusi i giudici, a concedersi ampi spazi di latitudine interpretativa, forzando il testo delle norme: per correggerle, nel caso in cui appaiano tecnicamente mal fatte; ma anche per manipolarle, quando i contenuti delle scelte legislative non piacciano (come sempre più spesso avviene) a quanti devono applicarle. Si aggiunga la crescente apertura del traffico giuridico interno agli afflussi e agli influssi di fonte sovranazionale e internazionale: l'interazione tra le molteplici Corti (nazionali ed extranazionali), se da un lato arricchisce la tutela dei diritti fondamentali, rischia per altro verso di rendere più caotici i circuiti normativi che gli operatori del diritto sono chiamati a gestire. In ogni caso, la "creatività" ermeneutica tende inevitabilmente ad aumentare: e lo stesso giudice, da "pianista-interprete" che esegue trame normative intessute dai legislatori, va sempre più trasformandosi in un "compositore" in proprio. In un contesto in cui cresce sensibilmente la quantità delle interpretazioni (ad opera di giudici a vari livelli, avvocati, professori ecc.), è però giocoforza che incomba il duplice pericolo del disorientamento dei cittadini e della perdita di credibilità della figura professionale del giurista. Gli esempi, negli ultimi anni, abbondano. Merita tuttora di essere richiamata la controversissima questione che, come si ricorderà, fu al centro di un tormentone politico-giuridico-mediatico due estati fa: l'applicabilità retroattiva della legge Severino a Silvio Berlusconi. Che in proposito fossero di opinioni opposte gli esponenti del Pd e del Pdl, non sorprende: è comprensibile, nel caso dei politici, la tentazione di subordinare la ragione giuridica all'utilità o convenienza politica. Ma appariva meno scontato che manifestassero pareri molto contrastanti anche qualificati giuristi di mestiere, tra i quali alcuni presidenti emeriti della Corte costituzionale. Pure loro sospettabili di interpretazioni condizionate da ragioni extra giuridiche? Chissà. Il diritto non è quasi mai scienza esatta e neutrale: agli argomenti razionali si mescolano pregiudizi e preferenze soggettive di varia matrice (anche emozionale), senza che sia possibile distinguere con nettezza le diverse componenti. Un'altra questione esposta alla pluralità delle interpretazioni, forse anche questa volta non tutte disinteressate, è molto recente: si tratta del problema, se possano continuare a percepire i cosiddetti "vitalizi" i parlamentari decaduti in seguito a condanna irrevocabile per reati di particolare gravità. Anche in questo caso, prestigiosi giuristi e costituzionalisti consultati hanno sostenuto quasi tutto e il contrario di tutto. Sino al punto di indurre Gustavo Zagrebelsky, non nuovo nello stigmatizzare il libertinaggio interpretativo contiguo all'arbitrio, a questo amaro commento: "Come giuristi non stiamo facendo una bella figura. Se tutto è giuridicamente sostenibile, allora i nostri argomenti sono perfettamente inutili" (cfr. la Repubblica del 15 aprile 2015). Ma la babele, purtroppo, è constatabile persino in quell'ambito normativo nel quale il diritto fondamentale alla certezza dovrebbe - in teoria - essere garantito al massimo livello: com'è intuibile, alludiamo al settore penale. La presenza anche qui di un eccessivo pluralismo interpretativo, e la insufficiente disponibilità di pubblici ministeri e giudici di merito ad uniformarsi ai precedenti giurisprudenziali anche quando provengono dalla Cassazione (per non parlare del loro prevalente disinteresse nei confronti delle tesi interpretative della dottrina accademica, tacciata di astrattezza teorica), spesso non consentono al cittadino di distinguere tra lecito e illecito penale. Per limitarci a un solo esempio emblematico, si consideri la tuttora sfuggente fisionomia del cosiddetto concorso esterno nel reato associativo, che ha sollecitato anche una recente presa di posizione censoria della Corte di Strasburgo nel noto caso Contrada. Più in generale, dovrebbe comunque destare preoccupazione il fatto che i rigorosi principi in tema di concorso esterno fissati dalle sezioni unite della Cassazione, con una celebre sentenza del 2005, non sono davvero riusciti a porre su binari più sicuri la giurisprudenza successiva (come risulta - tra l'altro -da una sentenza del 2014 che ha rinnegato apertamente i principi suddetti). In un simile orizzonte d'insieme, può esserci più posto per una certezza del diritto tradizionalmente intesa - nel solco dell'eredità ideologica dell'Illuminismo - come prevedibilità degli orientamenti interpretativi e del contenuto delle singole decisioni giudiziarie? Oppure, c'è un modo di concepirla diversamente, riadattandola al nostro tempo? Ad esempio, Juergen Habermas ha suggerito di trasferire l'aspettativa di certezza dagli esiti delle singole decisioni al patrimonio dei valori fondamentali condivisi su cui il diritto poggia. Come suggestione teorica, la tesi ha un suo fascino. Ma, nell'ottica pragmatica del cittadino, il problema si sposta e si complica. Se è plausibile un consenso diffuso sui valori costituzionali come entità generiche e astratte, il conflitto torna infatti invece ad esplodere al momento di specificarli e bilanciarli nelle singole situazioni concrete. E ciò perché in questo momento riaffiorano le interpretazioni differenziate ad opera di interpreti differenti, i quali a loro volta muovono da presupposti di fondo e da sensibilità diverse. Dalla ricercata certezza si ricade così in una condizione di imprevedibilità e incertezza. Un destino ineluttabile, in questa fase storica? Verosimilmente, sì. Giustizia: la "pentita" che sapeva di dover morire "nelle nostre famiglie non c'è perdono" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 maggio 2015 Il suicidio della teste anti ‘ndrangheta Maria Concetta Cacciola. L'avvocato condannato per violenze. Era un destino segnato quello di Maria Concetta Cacciola, donna di ‘ndrangheta di appena trent'anni che sognava il riscatto. Ma i genitori le avevano preso i figli, e subì il ricatto: per rivederli doveva ritrattare le accuse e scagionare i parenti dai rapporti con le cosche che lei stessa aveva ricostruito nelle dichiarazioni a magistrati e carabinieri. L'unico modo per riabbracciarli era districarsi dallo Stato e tornare a casa, nella braccia della famiglia. "Ti perdoniamo", le avevano detto, ma lei sapeva che così non sarebbe stato. "Le sappiamo queste cose come vanno nelle famiglie nostre, no?", confessava a un'amica il 6 agosto 2011. Due settimane dopo, rientrata in Calabria, morì per apparente suicidio ingurgitando acido muriatico. Padre, madre e fratello sono già stati condannati per maltrattamenti e minacce, e così un avvocato che s'era prestato al gioco della ritrattazione "indotta". Nei giorni scorsi è toccato a un altro avvocato, Gregorio Cacciola, zio di secondo grado della vittima, condannato a 6 anni e 4 mesi dal tribunale di Palmi: è un ulteriore segnale - anche se è solo un verdetto di primo grado - del coinvolgimento della "zona grigia" negli affari di ‘ndrangheta, professionisti che si piegano alle esigenze dell'organizzazione criminale, ben oltre il mandato legale. Ma dietro questo storia riemerge il dramma consumatosi in una famiglia della Piana di Gioia Tauro appena quattro anni fa, in pieno ventunesimo secolo. Genitori e fratello che ricattano una giovane madre per disinnescare una "pentita" pericolosa per loro e per il clan, e lavare l'onta dalle sue dichiarazioni agli "sbirri" fino a farla morire. "È materia per una tragedia greca", ha spiegato agli increduli parlamentari della commissione antimafia il pubblico ministero Giovanni Musarò, che ha sostenuto l'accusa nel processo contro l'avvocato Cacciola. E nel dibattimento ha utilizzato le intercettazioni della donna cosciente di dover morire, ma incapace di resistere alle pressioni per amore dei figli che altrimenti non le avrebbero fatto rivedere. Le accuse di Maria Concetta riguardavano il clan Bellocco di Rosarno. "L'ascoltammo con la collega Alessandra Cereti - ha raccontato il pm Musarò all'Antimafia, nel primo verbale parlò di una serie di omicidi, e ci rendemmo conto che era attendibile; lei era terrorizzata". A maggio 2011 fu inserita nel programma di protezione, poi però tornò in contatto con i familiari che cominciarono a pressarla facendo leva sui figli - 16, 12 e 7 anni di età, rimasti in Calabria coi nonni - che le mancavano tanto. "Io vorrei tornare a casa per i miei figli, perché i figli non me li mandano - diceva all'amica Emanuela. I miei non me li hanno mandati, i figli, perché loro hanno capito che se mi mandano i figli... è finita, no?! Non ritorno più... Non mi sento pronta, mi spavento a ritornare". In seguito per loro, i suoi ragazzi, Concetta si arrese e tornò, ma ad agosto 2011 richiamò i carabinieri. E quando sembrava tutto pronto per l'ultimo passo verso la nuova vita protetta, morì avvelenata. Agli atti dei processi e della tragedia restano le telefonate intercettate con Emanuela, in cui la donna si mostrava consapevole di ciò che l'attendeva. Ma nonostante tutto scelse di andare incontro al suo destino. Ancor prima di rientrare in Calabria confidava all'amica: "Mi ha detto che mi perdonano, che basta che ritorno a casa e per loro sono perdonata... Mio padre mi ha detto "vieni a casa, che ti giuro che non ti tocca nessuno"... Però io ti dico la verità... io un poco mi spavento". Ed ecco, subito dopo, il motivo della paura: "Tu lo sai che questi fatti non te li perdonano, no?... La verità... Loro lo fanno apposta per farmi tornare, hai capito?. Dice "così ritratti tutte cose, quello che hai detto e quello che non hai detto", capito?... Dice "tu te la vedi con l'avvocato", dice "mettiamo l'avvocato, ti togli tutte queste cose". Ma all'idea della clemenza in famiglia, Concetta non credeva affatto: "Questo è quello che mi spaventa, Emanuela. Le sappiamo queste cose come vanno nelle famiglia nostre, no?! Almeno nella mia famiglia. Ti dicono che ti perdonano però che so, nel cuore... Già l'onore non lo perdonano, questa cosa poi gli è caduta più del fuoco e della fiamma". Poi c'era l'altro problema: finché doveva ritrattare le proprie deposizioni la donna serviva viva, ma una volta rinnegate le accuse, chi l'avrebbe salvata dalla ritorsione? Glielo chiese Emanuela, in quel colloquio intercettato: "Tu dici "la garanzia mia, della mia vita, dov'è?". La risposta di Maria Concetta confermò i dubbi che l'attanagliavano: "E la vita mia poi dov'è?. Emanuela se eri tu cosa facevi? Ti facevi ammazzare?... Penso io: "e chi me lo fa fare a ritornare, poi so se vivo un anno, un altro anno e mezzo". Il massimo che si concedeva di tempo prima della vendetta: un anno, uno e mezzo al massimo. Invece non è durata che pochi giorni l'attesa di Maria Concetta Cacciola, che una volta riabbracciati i figli meditava di tornare dalla parte dello Stato. È morta con l'acido muriatico due settimane dopo queste parole, non appena registrata su un nastro la ritrattazione. E ora, dopo le condanne per maltrattamenti e minacce, la Procura antimafia di Reggio Calabria indaga per omicidio. Giustizia: misure cautelari, dall'8 maggio prossimo più "paletti" per il giudice di Renato Bricchetti e Luca Pistorelli Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2015 Legge 16 aprile 2015, n. 47. C'è chi ha parlato di "stop alle manette facili" e ci sembra di ricordare come non sia la prima volta che si rispolveri questo slogan. Stiamo parlando della legge 16 aprile 2015 n. 47, recante "Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità", pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" del 23 aprile 2015 n. 94. Misure cautelari personali: le finalità dell'intervento Naturalmente, come sempre, questo dipenderà dalla sensibilità "interpretativa" dei giudici. Nondimeno, la legge 16 aprile 2015 n. 47 interviene sulla carcerazione preventiva (oltre che sulle altre misure cautelari personali) con la manifesta intenzione di richiamare i protagonisti al rispetto dei canoni probatori e all'osservanza degli obblighi motivazionali delle decisioni e di ricordare ai medesimi che il carcere è - come si è soliti dire - la extrema ratio. L'intervento normativo investe numerosi temi: a) esigenze cautelari e criteri di valutazione delle medesime; b) criteri di scelta delle misure cautelari personali con particolare riguardo ai criteri di adeguatezza e proporzionalità rispetto al fatto e alla pena, nonché agli automatismi applicativi; c) l'ampliamento dell'area applicativa delle misure interdittive, anche combinate con l'impiego di misure coercitive non carcerarie; d) la ridefinizione dei termini del giudizio di riesame e dei poteri decisori di quel giudice, insieme col rafforzamento indiretto dell'obbligo motivazionale del provvedimento cautelare per gli aspetti più significativi. La novella legislativa e i lavori della commissione Canzio L'intervento normativo è per larga parte il frutto del lavoro della Commissione istituita il 10 giugno 2013, voluta dal precedente ministro della Giustizia e presieduta da Giovanni Canzio; lavoro sfociato, il 22 luglio e il 28 novembre 2013, in un più ampio ventaglio di proposte sulla disciplina del processo penale e animato, nella parte dedicata alle misure cautelari personali, dall'obiettivo di ridimensionare "l'area della restrizione della libertà personale, con speciale riguardo alla custodia cautelare in carcere, per ottemperare sia alle raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, sia all'umiliante condanna della Corte Edu dell'8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, e al conseguente, severo monito della Corte costituzionale (sentenza n. 279 del 2013), che ribadiscono la necessità e l'obbligo di "una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere" (Canzio, Il processo penale: le riforme "possibili", in Criminalia 2013, pagina 487). Valutazione delle esigenze cautelari di cui all'articolo 274 del Cpp, lettere b) e c) (articoli 1 e 2 della legge 74/2015) - I primi interventi riguardano l'articolo 274 del Cpp che contiene le disposizioni sulle esigenze cautelari che legittimano l'adozione del carcere preventivo e delle altre misure personali. Pericolo di reiterazione di determinati reati - Il pericolo di commissione di delitti ("gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede"), previsto dalla lettera c), deve ora essere, oltre che concreto, "attuale" (articolo 2, comma 1, lettera a), della legge 47). Il riferimento all'attualità del pericolo può apparire ridondante. Una inutile specificazione del requisito di "concretezza" che la norma già prevede. Peraltro, ancora recentemente la giurisprudenza (cfr. Cassazione V, 15 maggio 2014 n. 24051. L. e altro, Rv 260143) ha avuto modo di affermare che, ai fini della valutazione del pericolo di consumazione di ulteriori reati della stessa specie, "il requisito della "concretezza" non si identifica con quello di "attualità" derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo, al contrario, essere riconosciuto alla sola condizione, necessaria e sufficiente, che esistano elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che l'imputato, verificandosi l'occasione, possa facilmente commettere reati che offendono lo stesso bene giuridico di quello per cui si procede". La precisazione, dunque, oltre a essere uno dei simboli della ratio dell'intervento normativo, non è pleonastica e mette a fuoco un altro dei requisiti della motivazione dell'ordinanza applicativa della misura, contenitore trasparente del modo in cui il giudice applica lo standard probatorio definito dalla legge. D'altra parte, più precise sono le regole di valutazione, più si attenua il rischio dell'abuso delle misure cautelari personali (in particolare il rischio che il giudice se ne serva come mezzo per raggiungere la prova o le consideri meritata anticipazione della pena) e la libertà diventa "sicura" (non "provvisoria" come un tempo ormai lontano, quando il legislatore non si nascondeva dietro le parole). La sussistenza di detta situazione di pericolo va ancorata alle "specifiche modalità e circostanze del fatto" e alla "personalità" dell'indiziato, a sua volta da desumersi "da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali". La novella ha inteso precisare che "le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell'imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del reato per cui si procede" (articolo 2, comma 1, lettera c), della legge n. 47). Si vuole in tal modo evitare che la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza assorba di fatto la valutazione delle esigenze cautelari, in relazione alla quale occorre invece una motivazione autonoma e specifica, che tenga conto effettivamente delle circostanze del fatto e della personalità dell'indiziato. Questo è uno dei punti sui quali si misurerà il "successo" della riforma. L'esperienza insegna che, con riguardo alla congruità della motivazione in ordine alle esigenze cautelari e ai connessi profili di adeguatezza della misura prescelta, i provvedimenti de libertate lasciano spesso a desiderare. Sono frequenti, invero, le prospettazioni che, da un lato, non fuoriescono da un sostanziale tautologico rinvio agli addebiti cautelari rivolti all'indagato, dall'altro, trascurano completamente di esaminare tutta una serie di significative circostanze favorevoli all'indagato, che il ricorrente deve sforzarsi di richiamare puntualmente. Concretezza, attualità e grado delle esigenze cautelari, così come il criterio di adeguatezza, sono temi fondamentali in materia, che non possono essere soffocati in formule stereotipate e generiche ovvero in riferimenti neutri o di non accertata rilevanza. Il problema vero, forse, è che il giudice si avvicina a questa esigenza cautelare come se essa riguardasse un presunto colpevole, non un presunto innocente che deve ancora avere un giusto processo. E questo spiega, tra l'altro, come sopra si diceva, perché, il più delle volte, l'esigenza cautelare di impedire la reiterazione dei reati viene in sostanza desunta dalla sussistenza di "gravi" indizi di colpevolezza di un fatto "grave", dal quale si trae la probabilità che l'indagato sia pericoloso. In altre parole: chi ha commesso un fatto grave è pericoloso e può commetterne altri. Affermazione apodittica che mostra la sua arbitrarietà soprattutto quando, come sovente accade, dopo breve tempo, spesso pochi giorni, la misura cautelare viene revocata o attenuata. La valutazione dell'elemento del pericolo di fuga Disposizioni analoghe sono state inserite con riguardo all'esigenza cautelare di cui alla lettera b) (articolo 1, comma 1, della legge 47): anche il pericolo che l'indiziato fugga deve ora essere, oltre che concreto, "attuale", e "le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del reato per cui si procede". Tornando alle esigenze cautelari di cui alla lettera c), le misure custodiali (articoli 284 -286 del Cpp) , qualora il pericolo riguardi la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, possono essere disposte soltanto se per detti delitti sia prevista la reclusione non inferiore a 4 anni, 5 in caso in caso di custodia cautelare in carcere. In uno degli ultimi passaggi, il legislatore ha aggiunto "il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all'art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195" (articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 47); quindi anche per questo reato, nonostante il comma 3 dell'articolo 7 preveda la pena della reclusione da sei mesi a 4 anni, può essere disposta la custodia cautelare in carcere "qualora il pericolo riguardi la commissione di delitti della stessa specie". Giustizia: diritto all'oblio, è l'ora dei legali di Antonio Ranalli Italia Oggi, 4 maggio 2015 Sempre più cittadini ed aziende si rivolgono agli studi legali per chiedere la rimozione da motori di ricerca e siti web la cancellazione di dati e notizie relativi a dati personali e fatti avvenuti nel passato. Il "diritto all'oblio" (vale a dire il diritto dell'interessato ad ottenere la cancellazione e la rinuncia ad ogni ulteriore diffusione dei dati personali che lo riguardano) è ormai entrato nell'agenda quotidiana dei professionisti. Un diritto che, come spiega l'avvocato Sara Rizzon, associate di Jones Day, "non è del tutto estraneo alla normativa attualmente vigente in materia di protezione di dati personali: a livello europeo, la Direttiva 95/46/CE, e in recepimento di questa, il nostro Codice in materia di protezione dei dati personali, sanciscono già, al ricorrere di determinati requisiti, il diritto dell'interessato ad ottenere la cancellazione dei propri dati personali dal titolare del trattamento. In tale contesto, si colloca la famosa pronuncia del maggio 2014 della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (caso "Google Spain and Inc. v Agencia Española de Protección de datos e Mario Costeja Gonzàles"). Considerata la preponderanza di Internet nell'"era digitale", e rilevata la capacità dei motori di ricerca di incidere significativamente sui diritti fondamentali di ogni individuo, la Corte di Giustizia sancisce l'obbligo dei motori di ricerca, in presenza di determinate condizioni, di rimuovere dall'elenco dei risultati di una ricerca effettuate a partire dal nome di una persona, i link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a tale persona, e ciò anche in assenza di previa o contemporanea cancellazione di tali informazioni dalle relative pagine web. Gli effetti di tale pronuncia per i motori di ricerca in Europa sono a dir poco dirompenti. A fronte di tale sentenza, Google, ad esempio, si è attivata mettendo a disposizione degli utenti un modulo on-line per effettuare richieste di rimozione di risultati di ricerca". Le richieste dei clienti sono molteplici. "Abbiamo ricevuto richieste da clienti, persone fisiche particolarmente note, per arginare la diffusione in rete di articoli sul loro conto", afferma l'avvocato Tommaso Faelli, socio di Bonelli Erede Pappalardo, "si tratta in genere di articoli su inchieste di varia natura, i quali talvolta speculano sulla notorietà del personaggio narrando episodi non sempre attinenti ai fatti di cronaca. In questi casi, è possibile anzitutto chiedere all'editore la rettifica dell'articolo. In caso di riscontro negativo, è possibile rivolgersi ai motori di ricerca per la deindicizzazione dei contenuti. In caso di ulteriore diniego, o in alternativa, una forma di tutela rapida, relativamente economica ed efficace, è il ricorso al Garante Privacy. Infatti, le misure sanzionatorie disposte dal Codice Privacy rappresentano una valida alternativa alla giustizia ordinaria. Inoltre il Garante Privacy ha una spiccata sensibilità per questi temi". Secondo Faelli, pur in difetto di un'espressa menzione normativa, il diritto all'oblio ha trovato applicazione in Italia ormai da alcuni anni. "In particolare nel 2012, la Cassazione ha riconosciuto, come equa espressione del diritto all'oblio, il diritto a ottenere l'integrazione di una notizia. Tale orientamento è stato poi seguito dal Garante Privacy, che ha ordinato la predisposizione di sistemi che permettano di segnalare, a margine di articoli online, successivi sviluppi delle vicende". Sull'argomento si batte da anni l'avvocato Giovanni Carta dello studio legale Carta, che, quasi dieci anni fa, durante la XV legislatura, partecipò attivamente alla predisposizione di una proposta di legge, la n. 1829 del 16 ottobre 2006, intitolata "Disposizioni in materia di tutela del diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale", di iniziativa, quale primo firmatario, dell'on. Giorgio Carta (allora segretario nazionale del Psdi). "L'iniziativa", afferma Carta, "era nata dal fatto che, nell'esercizio della mia professione, avevo potuto constatare l'insensibile reiterata invasione da parte dei media della propria sfera personale e reputazione di una donna, che, condannata ad oltre 20 anni di reclusione per un omicidio (peraltro da lei sempre negato) risalente al 1987 e che all'epoca aveva avuto un grande risalto sulla stampa, nonostante il fatto che fossero passati ormai quasi vent'anni e la donna avesse fatto di tutto per vivere nel silenzio l'espiazione della pena carceraria, veniva periodicamente aggredita dai media che, soprattutto nella stagione estiva ed evidentemente a corto di notizie interessanti, riproponevano al pubblico, con dovizia di particolari, incluse le foto e le immagini della donna, detto caso giudiziario. Grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, accade molto spesso che un soggetto, in passato sottoposto a procedimento penale, subisca continue aggressioni alla sua privacy attraverso la periodica rievocazione (e in alcuni casi, attraverso internet, la definitiva cristallizzazione) di fatti ormai risalenti nel tempo e che non hanno più alcun interesse pubblico. Orbene, a dispetto della copiosa normativa in materia di privacy e di protezione dei dati personali, in realtà non esisteva alcuna disposizione che tutelasse, in modo chiaro e preciso, il cosiddetto diritto all'oblio, ossia che limitasse efficacemente - per giornali, televisioni e web provider - la possibilità di pubblicare indiscriminatamente informazioni personali afferenti a soggetti che hanno scontato (o stanno scontando) condanne penali in relazione a vicende risalenti nel tempo o che, addirittura assolti, hanno soltanto avuto la sventura di essere stati, con riferimento alle medesime vicende, sottoposti a procedimento penale. Si era ritenuto che, in ossequio ai vigenti principi costituzionali (nazionali e comunitari), si rendesse necessario predeterminare il periodo di tempo oltre il quale un soggetto sottoposto a procedimento penale maturasse il diritto di non vedere più il proprio nome "accostato" alla vicenda. Per quanto concerne, in particolare, il condannato, in funzione della necessità di un suo pieno reinserimento sociale, fatto salvo l'eventuale effettivo interesse pubblico (da provare rigorosamente), si era reputato "non attuale" (e, quindi, non pubblicabile e "non trattabile") una informazione personale direttamente o indirettamente correlata alla precedente condanna subita da un soggetto, una volta trascorso il suindicato periodo di tempo". La proposta di legge, pur avendo raccolto il consenso di importanti esponenti politici - avendo avuto, quali firmatari, oltre trenta deputati, tra i quali l'attuale Presidente della Repubblica Mattarella, Luciano Violante e Roberta Pinotti - stante l'anticipata fine della XV Legislatura, non è riuscita a completare l'iter parlamentare per diventare legge. Per Sara Rizzon, la nuova proposta di Regolamento europeo in materia di trattamento dei dati personali "codifica" il diritto all'oblio in chiave digitale "stabilendo che, al ricorrere di determinate circostanze (e.g., mancanza di necessità dei dati rispetto alle finalità originarie che ne avevano giustificato la raccolta, revoca del consenso, decisione di un'autorità, illecito trattamento, etc.), l'interessato possa ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei propri dati personali e altresì ottenere da terzi la cancellazione di qualsiasi link, copia o riproduzione di tali dati. Non solo: la proposta di Regolamento si spinge oltre gli orizzonti solcati dalla Corte di Giustizia, e, per il caso di ingiustificata pubblicazione di dati personali, pone espressamente a carico del titolare del trattamento (nel mondo Internet: l'editore di pagine web) l'onere di cancellare e di adottate tutte le misure ragionevoli al fine di far cancellare i dati personali anche da parte di terzi (ivi inclusi i motori di ricerca). Per valutare la concreta efficacia delle nuove norme, non solo dovremo attendere la conclusione dell'iter di gestazione del nuovo Regolamento, ma anche aspettare l'adozione di provvedimenti esecutivi volti a specificare i criteri e le condizioni per la cancellazione di link, copie o riproduzioni di dati personali derivanti dalla pubblicazione - potere che la proposta di Regolamento demanda alla Commissione. Potranno gli utenti dormire sonni tranquilli? Difficile a dirsi. Intanto, si registra la nascita ed il proliferare di società e software che assistono gli utenti nel tentativo di dare concreta attuazione al diritto all'oblio. Tuttavia, in uno scenario tanto suggestivo quanto innovativo quale quello attuale, per il concreto esercizio del cosiddetto right to be forgotten non sembra possibile prescindere dal diretto coinvolgimento dei motori di ricerca e degli web-master, allo stato depositari, ciascuno per la parte di propria competenza, di un ruolo attivo in tema de-indicizzazione e cancellazione dei dati". Anche Giovanni Carta è scettico sui software che consentirebbero di garantire una tutela del diritto all'oblio. "Da quanto mi risulta", spiega, "le Società che li propongo in realtà forniscono tutta una serie di servizi inerenti a contenuti web illegali, ma che non attengono alla tutela del diritto all'oblio così come prospettata dalla decisione della Corte di Giustizia. Si tratta, in sostanza, di servizi finalizzati alla tutela di attività illecita svolta tramite il web (per esempio, la pirateria commerciale), rispetto alla quale, tuttavia, esiste già una normativa posta a regolamentare le relativa tutela". Carta invece punta sul ruolo delle Autorità garanti della privacy dei singoli paesi europei che "possono essere investite della decisione dei casi in cui il cittadino si sia visto rigettare da parte del motore di ricerca la richiesta di de-indicizzazione di articoli relativi ad una sua vicenda processuale. Il nostro Garante della privacy ha adottato i primi provvedimenti in merito alle segnalazioni presentate dagli utenti dopo il mancato accoglimento da parte di Google delle loro richieste di deindicizzazione. In sette dei nove casi definiti il Garante non ha accolto la richiesta degli interessati, ritenendo che la posizione di Google fosse corretta in quanto è risultato prevalente l'aspetto dell'interesse pubblico ad accedere alle informazioni tramite motori di ricerca, sulla base del fatto che le vicende processuali sono risultate essere troppo recenti e non ancora espletati tutti i gradi di giudizio. In due casi, invece, l'Authority ha accolto la richiesta dei segnalanti. Nel primo, perché nei documenti pubblicati su un sito erano presenti numerose informazioni eccedenti, riferite anche a persone estranee alla vicenda giudiziaria narrata. Nel secondo, perché la notizia pubblicata era inserita in un contesto idoneo a ledere la sfera privata della persona". Secondo Tommaso Faelli "il diritto all'oblio giocherà dunque un ruolo fondamentale nell'equilibrio tra diffusione delle notizie in rete, tutela della riservatezza e ruolo pubblico della persona, il quale giustifica - in un'ottica di trasparenza - la permanenza della sua condotta al centro della scena". Giustizia: piazze e stadi, la balbuzie ideologica dei violenti di Claudio Magris Corriere della Sera, 4 maggio 2015 Di fronte a violenze di massa la certezza della sanzione vacilla, quasi sparisce, talora per colpa delle stesse autorità, le quali sembrano preferire che le randellate colpiscano i carabinieri, perché ciò non provoca alcun caso. Le bestiali violenze negli stadi e quelle nelle città aggredite da teppisti spesso nerovestiti - il color nero evidentemente piace agli squadristi di ogni genere - dimostrano con la logica di un teorema che l'applicazione della legge non è uguale per tutti. Spesso non lo è nei confronti di ladri, corruttori e corrotti rispettivamente potenti o poveracci e non lo è nemmeno nei confronti di chi compie violenze su persone e su cose. Se aggredisco un negoziante o gli sfascio il negozio, intervengono decise le forze dell'ordine a impedirmi di continuare e, successivamente, a farmi pagare, penalmente e pecuniariamente, il danno e la violenza. Non capisco perché se compio le stesse violenze - distruzione di beni che mette in difficoltà chi li ha prodotti o acquistati con faticoso lavoro, lesioni anche gravi alle persone - in nome di qualche ideologia o, ancor peggio, di una squadra di calcio godo di una sostanziale impunità. Ho visto una volta un gruppo di cosiddetti tifosi eccitati, reduci da una partita, devastare, per puro sfogo subumano, un bar che non aveva a che fare con alcuna partita di calcio, distruggendo il frutto di anni di lavoro dei proprietari e mettendoli dunque in difficoltà di lavorare e quindi di vivere. Se quei delinquenti avessero saputo di dover pagare le conseguenze dei loro atti delinquenziali - anche economicamente, risarcendo il danno - non avrebbero distrutto quel bar. Se chi va allo stadio con un coltello in tasca subisse una dura sanzione - aggravata da motivi futili e abietti, perché non è lecito bucare la pancia di nessuno per nessun motivo, ma farlo in nome di una squadra di calcio è una sanguinosa imbecillità - ci sarebbe meno gente che si busca una coltellata. Le torme nerovestite che si scatenano nelle città in occasione di ricorrenze ed eventi - ieri il G8, oggi l'Expo - possono essere mosse da idee e passioni in sé più nobili perdendo l'elementare intelligenza della gerarchia d'importanza tra un calcio di rigore e un calcio sferrato da un ebete al basso ventre del suo vicino nella curva, magari spappolandogli il fegato. È difficile capire perché ciò accada. Forse si ritiene, sbagliando in pieno, che i violenti siano sventurati emarginati e senza lavoro. Non è vero; molti sono, come è stato detto, figli di papà o comunque persone che per tutta la settimana, fino alla bruta domenica, lavorano e ne traggono di che vivere. Non si sono visti immigrati scatenarsi in violenze di massa. Forse si crede, erroneamente, che sia necessario dare alla violenza una possibilità di sfogarsi perché tutto poi ritorni alla normalità. Non è vero; la violenza è un appetito che vien mangiando, che si accende perché può infuriare impunemente. Dare una spranga in testa al prossimo non è un bisogno umano, come la fame o il sesso; è un prodotto artificiale. Altri Paesi - ad esempio l'Inghilterra - hanno eliminato la violenza negli stadi con un preciso lavoro di individuazione e poi di repressione dei colpevoli. Talora viene il sospetto che in Italia qualcuno si rallegri del polverone, magari sanguinoso, che svia l'attenzione da altri problemi. C'è inoltre chi fa distinzione tra i reati dell'individuo singolo e quelli di una massa che aggrega gli individui in un'indistinta unità. A parte la difficoltà di accertare le responsabilità del singolo individuo - unico soggetto dell'eventuale sanzione - è inaccettabile tollerare violenze collettive in quanto tali. Come la Storia ha spesso terribilmente dimostrato, è proprio da ogni totalità indistinta che l'individuo deve essere protetto. Il branco non ha alcun diritto privilegiato di azzannare. Talvolta la legge sembra inchinarsi - consapevolmente o meno - alla violenza. Dove manca la certezza della legge, la nitidezza della norma, dilaga la più assurda imbecillità, come la proposta di punire le violenze allo stadio impedendo ai loro autori di frequentare per un paio di settimane lo stadio dove le hanno commesse. Con questo criterio, se io derubo, aggredisco o stupro una persona nel mio amato Giardino pubblico di Trieste, la giusta punizione sarebbe quella di impedirmi di frequentare per un certo periodo quel giardino, costringendomi ad andare in un altro a compiere quelle prodezze. Tutti i cittadini devono essere garantiti da tutte le violenze, di qualsiasi colore politico, sportivo o d'altro genere. Anche - anzi, soprattutto - da eventuali violenze compiute criminosamente dalle forze dell'ordine - come a Genova nei confronti di persone arrestate e ferite che dovevano essere sottoposte alla verifica di loro eventuali reati e all'eventuale conseguente giudizio, ma non sottoposte a barbare violenze, ancor più criminose perché compiute da chi deve tutelare la legge. Se le violenze continueranno, bisognerà prevedere nel bilancio dello Stato la costruzione di nuove galere. Galere civili, dotate magari di qualche piccolo campo di calcio. Giustizia: la rivincita del paese che dice "sì" di Mario Calabresi La Stampa, 4 maggio 2015 Sono passati ormai tre giorni dalla manifestazione violenta di venerdì a Milano, ma contati i danni, puliti i vetri, cancellate le scritte, coperti i negozi distrutti e rimosse le auto bruciate, ci si rende conto che sta accadendo qualcosa di più: quell'ondata di distruzione e di negatività è stata il detonatore di una reazione d'orgoglio. L'abbiamo vista nella gente che è scesa per la strada a pulire, in quella che ieri manifestava in positivo, nei discorsi che si ascoltano per la strada e perfino nella stragrande maggioranza dei commenti sui social network. Non è solo una reazione dei milanesi, ma di molti italiani che sentono crescere la stanchezza verso l'idea che si debba sempre dire no, che l'unico pensiero lecito e corretto sia sostenere che ogni tentativo di cambiamento sia sbagliato, negativo, da rifiutare. Sembra emergere finalmente quell'orgoglio che impedisce, per amor proprio e per amore dei propri figli oltre che del proprio Paese, di denigrare ogni cosa e di autodenigrarci. Ma saremo pure capaci di fare qualcosa, ma ci sarà pure un motivo per cui continuano a venire da tutto il mondo a visitarci, per cui abbiamo eccellenze nella manifattura, nell'artigianato, nel lusso? Viviamo da troppo tempo dentro la crisi, sei anni sono un periodo lunghissimo e quasi senza precedenti che ha fiaccato gli animi e la voglia di reagire, che ha paralizzato le iniziative e gli slanci. E su questo è cresciuta la pianta del pessimismo, dello scetticismo continuo e assoluto. Ma viviamo anche da troppo tempo nella dittatura della critica ossessiva, che quando non lascia alcuno spazio alla speranza diventa autolesionismo. Poi c'è un momento in cui ci si rende conto, come svegliandosi da un incubo, che dipende anche da noi, da quello che saremo capaci di fare, dalla quantità di innovazione e cambiamento che riusciremo a mettere in circolo. Ci rendiamo conto che non possiamo assistere immobili alla partenza dei figli e dei nipoti, che se siamo ragazzi non possiamo avere solo la prospettiva di emigrare. E pensare che di campanelli d'allarme ne suona uno ogni giorno: quando scopriamo che lo scorso anno se ne sono andati all'estero 2400 medici, esattamente la metà di quelli che si sono specializzati, come possiamo pensare che abbia senso continuare a fare le stesse cose? Non solo la partenza di questi giovani è uno sperpero notevole di soldi pubblici (avete idea di quanto possa costare alla collettività formare un solo medico, dalla scuola elementare alla specializzazione, per poi regalarlo a un altro Paese che beneficia della sua preparazione? Stime approssimative sostengono oltre mezzo milione di euro) ma è anche la dimostrazione che il sistema sanitario non funziona, che incapace di riformarsi e fare tagli sceglie la strada più semplice, lasciare fuori le nuove generazioni dei medici. Invece di tagliare sprechi ed errori si taglia il futuro. Ci si deve rendere conto che il futuro non è già scritto e non è qualcosa di predestinato. Il futuro è tutto da costruire, potrà essere anche peggiore ma ci sono due certezze: nulla resta immutato, il presente non è per sempre, e molto dipenderà da noi, dal nostro impegno, dalla nostra forza di non arrenderci, dalla nostra creatività e dal nostro coraggio. Lo abbiamo già fatto tante volte, risollevandoci dalle macerie esattamente settant'anni fa alla fine della guerra, o trovando la forza di uscire dalla stagione del terrorismo e delle stragi 35 anni fa. Credo che il Paese sia a un nuovo punto di svolta, non per forza legato alla politica, e si ha la sensazione che molti cittadini si rendano conto che non possono più stare a guardare il declino, a farsi ipnotizzare dalla spirale della negatività, dall'avvitarsi di un Paese che resta pieno di risorse. Sono quei ragazzi che aprono nuove attività, che scommettono sulla loro fantasia, che continuano a studiare nonostante gli si dica che non serve a nulla. Sono quelli che si tappano le orecchie quando gli ripetono che "non si può fare", quelli che vedono uno spazio dove le convenzioni e gli occhiali del passato negano che esista. Sono quelle donne e quegli uomini di ogni età che a Milano si sono rimboccati lemaniche e che ieri hanno camminato a lungo per dire che non vogliono buttare via la loro città e l'occasione rappresentata da Expo. Ma sono perfino quei turisti che hanno affollato Torino in questo fine settimana con un record storico di presenze, a dimostrazione che fare investimenti anche in tempo di crisi e avere vista lunga paga sempre, come dimostra il successo strepitoso del nuovo Museo Egizio. E poi c'erano la Sindone, l'autoritratto di Leonardo, il Museo del Cinema, ma soprattutto un sistema città che ha creduto nella scommessa di Expo e ci si è legato. Le strade piene di turisti non significano che la crisi sia finita ma certo aiutano a rialzare la testa e soprattutto segnalano una voglia di ricominciare. Ai cultori del No, vorrei segnalare che se questo accade è anche merito della tanto detestata alta velocità che porta in tre quarti d'ora a Milano e che sta aiutando Torino ad uscire dalla sua marginalità geografica. Sono segnali, che certamente verranno gelati da una miriade di cattive notizie in cui siamo campioni, ma se saremo capaci di tenerceli stretti e di coltivarli, chissà che non diventino una pianta robusta, capace di dare i suoi frutti. E allora forse scopriremo che anche quei ragazzi incappucciati che hanno distrutto senza sosta hanno ottenuto un risultato, ma è il contrario di quello che volevano: hanno svegliato la nostra voglia di vivere, di non arrenderci. Giustizia: ecco perché sembra impossibile fermare la violenza nelle piazze di Francesco Grignetti La Stampa, 4 maggio 2015 Giudici troppo garantisti? Ora si pensa all'arresto in flagranza "posticipato". La cronaca è fin troppo ricca di manifestazioni che degenerano in violenze. Ed ogni volta tutti a chiedersi se sia un prezzo inevitabile. Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ora propone l'arresto in flagranza differita per i violenti. Ma funzionerà? La polizia ha il potere di arrestare in flagranza chi commette un reato punibile con una pena superiore a 3 anni. Vi rientra la devastazione, ad esempio. Con la flagranza differita - che negli stadi è fissata in 48 ore - si bloccano gli orologi e la polizia ha il tempo di visionare i video di sorveglianza o le fotografie riprese in piazza, magari arricchite dall'immenso materiale visuale che immediatamente si affolla sul web, per "fissare" una flagranza che altrimenti è destinata a sfuggire. Il Viminale è convinto che con la flagranza differita, e con la collaborazione internazionale delle altre polizie, sarebbe possibile individuare molti devastatori di piazza e arrestarli nei due giorni seguenti ai tafferugli. Perché la polizia non interviene sul momento? È questo il potere dei funzionari di pubblica sicurezza: a loro spetta la decisione su come muoversi nella gestione dell'ordine pubblico. Anche quando un reato avviene sotto i loro occhi - e incendiare una macchina o distruggere una vetrina sicuramente lo è - il funzionario di Ps deve valutare e decidere nel giro di qualche minuto se ci sono le condizioni di sicurezza per procedere all'arresto del colpevole oppure se non si incorra in pericoli maggiori, magari esasperando ancor di più la violenza. E la strategia della polizia italiana è sempre più incline al "contenimento del danno" quando si tratta di ordine pubblico. Di arresti in piazza se ne fanno sempre il minimo indispensabile. Ecco perché, dicono, sarebbe molto utile l'arresto in flagranza differita: quando le acque si sono calmate, e ci sono prove solide, si va e si prende il responsabile. Dove sono le falle della legge e quali provvedimenti potrebbero essere presi? È clamoroso il ritardo della nostra legislazione in materia. La polizia ha a disposizione le norme fasciste del codice Rocco oppure le norme antiterrorismo degli Anni di Piombo, quando i cellulari e i social network non esistevano. Così avviene che la partecipazione a una manifestazione con il volto travisato, ovvero coperti con casco integrale, felpe e maschere, sia vietato, ma anche punito con una banale ammenda. Il reato è considerato minimale. Di nuovo, mutuando dalle norme per le manifestazioni sportive, il ministero dell'Interno immagina un forte inasprimento di pene per il lancio di petardi e di bombe carta, per il lancio di oggetti atti ad offendere, per il travisamento del volto. L'assenza di reati specifici e di pene severe, comporta anche l'impossibilità di intercettazione - delle telefonate, ma anche delle chat - e una rapida prescrizione. Sono ricette che i tecnici del settore propongono da tempo, ma finora hanno trovato la politica sorda. Il tabù della libertà assoluta nelle manifestazioni di piazza è duro a cadere. Che cosa non ha funzionato a Milano? Il bilancio del primo maggio meneghino è fatto di ombre e di luci. È sicuramente vero che non ci sono stati feriti, nonostante l'aggressività estrema degli antagonisti. Forse qualcuno aveva sperato di replicare la Genova del G8, mandando dei ragazzini allo sbaraglio, magari per poi poter indicare la polizia italiana come la stessa di Bolzaneto, ma ha sbagliato i conti. Però è anche vero che non ci si può arrendere alla retorica del "peggio evitato". In realtà la polizia recrimina un po' perchè il lavoro preparatorio a Milano è stato vanificato da un giudice di pace particolarmente garantista. Che cosa c'entrano i giudici di pace? Alla vigilia delle manifestazioni, il giudice di pace ha negato l'espulsione coatta di diversi antagonisti stranieri. È accaduto con dei francesi fermati dai carabinieri in possesso di spray urticanti e bombolette di vernice. E di nuovo con tre tedeschi trovati con un'auto zeppa di taniche di benzina e di stoppini. Il giudice ordinario ha arrestato il proprietario della macchina. Per gli altri, la polizia ha chiesto al giudice di pace un ordine di accompagnamento alla frontiera. Invano. Il giorno dopo, gli stessi tedeschi sono stati pizzicati di nuovo e stavolta il giudice di pace ha acconsentito all'espulsione coatta. Altro tipo di inciampi c'è stato con un gruppo di francesi, fermati nello stesso stabile occupato dove erano i tedeschi e una ventina di italiani (denunciati a piede libero per possesso di armi improprie). Siccome non avevano documenti, è stato coinvolto il Consolato francese per l'identificazione. Ma il Consolato è stato lentissimo e il fermo per esigenze di riconoscimento - di 12 ore - è sfumato. I francesi, in assenza di meglio, sono stati "invitati" dal prefetto a lasciare l'Italia. Del clamoroso ritardo è stata informata la Farnesina. Giustizia: il "manuale di guerra" del black bloc è stato scritto nelle carceri greche Corriere della Sera, 4 maggio 2015 "Per noi non esiste azione anarchica carente di violenza. Il nostro grido si fa più forte quando parte da un viso coperto da un cappuccio, da una mano armata di molotov, da un cuore che batte al ritmo dell'attacco". Eccole le regole del "blocco nero", l'organizzazione teorica e pratica dell'ala dura degli scontri del Primo maggio. Sei-settecento "soldati" tra milanesi, napoletani, veneti, torinesi e una più ridotta quota di stranieri: tedeschi, greci, spagnoli e francesi. Non si riconoscono nell'abusata definizione di black bloc e neppure in quella di casseur . Loro sono anarchici anticapitalisti. Si richiamano alla lezione del greco Theofilos Mavrapoulos e della Cospirazione delle cellule di fuoco, un manuale sulla "Nuova guerriglia urbana anarchica" che i greci hanno scritto dal carcere. La teoria del nuovo scontro di piazza che gli italiani del circuito anticapitalista hanno tradotto e pubblicato attraverso la casa editrice anarchica "Sole nero", realtà che ha contatti con il circuito milanese dell'ex Corvaccio e della Rosa Nera al Corvetto e della ex Bottiglieria occupata. Un network di piccole realtà del nuovo anarchismo con forti legami alla rete europea: dalla Federazione anarchica informale al Fronte rivoluzionario internazionale. Ma soprattutto teorici (ed esecutori) della guerra urbana, sostenitori della violenza per la violenza. "Non alimentiamo illusioni tipiche degli anarchici sociali che hanno il sogno di "risvegliare tutta una massa di persone" semplicemente perché la crisi li ha colpiti e ha svuotato i loro portafogli. Vogliamo superare il ruolo della massa che protesta e diventare coscientemente ribelli". Ma come si muove il blocco nero in corteo? "In una situazione di esplosione sociale crediamo che una minoranza organizzata di guerriglieri sia in grado di intensificare il proprio intervento violento in due modi. Può scegliere di assentarsi dal corteo e riunire le proprie forze per realizzare attacchi nelle zone periferiche, oppure affondare le mani nel cuore della sommossa". Per i "nuovi guerriglieri anarchici" la guerra delle classi è "obsoleta", la lotta è contro il potere. E allora anche "la psicologia e l'autoconvinzione insieme a una infrastruttura tecnica giocano un ruolo enorme in una battaglia contro la polizia in ambiente urbano: chi mostra segnali di paura spesso ha già perso". "Se durante una manifestazione si sta svolgendo una battaglia con i poliziotti anti sommossa e allo stesso tempo un gruppo di 15-20 compagni decisi colpisce un commissariato meno vigilato e gli dà fuoco, queste due situazioni si incrociano in un punto preciso: nell'attacco contro il potere". Ma la tecnica della nuova guerriglia urbana "richiede progettazione": "È molto importante che l'intervento sia organizzato e pianificato in anticipo, per guadagnare più tempo per lo scontro e maggiore libertà di movimento nel territorio nemico". I più giovani hanno bisogno di allenamento "pratico": "Durante i momenti di combattimento con la polizia possono imparare gli attacchi a sorpresa, il lancio di molotov, la strategia del "colpisci e scappa", le fughe rapide, come affrontare gas lacrimogeni, la distruzione di obiettivi come le banche e vivere quell'emozione unica di essere uno al lato degli altri con una solidarietà che vince la paura. Siamo tutti partiti dagli stessi percorsi e nel mezzo dei gas lacrimogeni, degli incendi, degli scontri con gli sbirri sentiamo il bisogno di rendere il conflitto la parte fissa della nostra esistenza senza aspettare la manifestazione successiva". Gli obiettivi delle "cellule di fuoco" sono "la polizia, i ministeri, le banche e tutti coloro che detengono il Potere: i capi, i ricchi, i giornalisti, i giudici. Ne abbiamo abbastanza delle menzogne lanciate dai giornali che dietro la distruzione di una banca o di un hotel di lusso vedono la "distruzione di proprietà di persone semplici". Mettiamo in chiaro che non abbiamo il benché minimo rispetto per la proprietà delle multinazionali e delle grandi imprese, che tutta la loro ricchezza è rubata a noi e per questo meritano di essere distrutte o espropriate". Esattamente quello che è successo venerdì alla Bpm di via Carducci o la Bnl di piazza Virgilio, bruciate e distrutte dai "neri". Nelle 72 pagine si affronta anche il ruolo di coloro che nel corteo potrebbero agire come "polizia interna che ci spinge via, ci toglie i cappucci o forma catene umane contro di noi: non abbiamo il minimo scrupolo di attaccarli e passargli sopra come meritano trattandoli da aspiranti poliziotti". Non esistono regole, non esiste pentimento: "Per questi atti di guerra non sentiamo neanche per un momento la necessità di giustificarci o di chiedere scusa a qualcuno. La violenza che esercitiamo è sempre ben determinata e mirata. Non è una gara a chi tira più molotov" Lettere: "indifferenti mai"? noi indifferenti, sempre di Marina Valcarenghi Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2015 "Indifferenti mai" era il graffito sul portone della casa dello studente a Milano fino a non molti anni fa. Due parole che potremmo scrivere ancora, magari nei nostri cuori. Le immigrazioni non sono guerre, gli esodi qualche volta sì. Sono guerre in differita, una difesa che arriva anche secoli dopo l'attacco. L'Europa porta la responsabilità della miseria, delle guerre fratricide e dell'arretratezza economica dell'Africa. Per secoli in quel continente abbiamo occupato territori, stravolto culture, credenze e stili di vita, sfruttato giacimenti, schiavizzato popoli inermi, imposto la nostra presenza di padroni. Insomma abbiamo portato la civiltà, no? Sì buana. La nostra invasione continua oggi coi governi fantoccio, gli attacchi aerei, i droni, i soldi e le armi alle opposte fazioni e lo sfruttamento delle risorse. Ma ormai da molti anni subiamo anche noi in Europa l'invasione dell'Africa, la loro tragica suicidale difesa. Non vogliono più morire di fame lì in quelle bidonville polverose, infette e soffocanti ai margini di città che abbiamo inventato noi e allora vengono qui a "cercare fortuna": donne, uomini, bambini. Sono sconsolati e rabbiosi e hanno mille volte ragione. Una gran parte di loro muore in mare durante il viaggio, i superstiti vengono consegnati al loro destino, verso altre bidonville, di cui però non conoscono la lingua, la moneta, i costumi. Il Mediterraneo non è più il mare nostrum, è il loro mare, ultimo confine della speranza e cimitero dei loro morti. E noi qui in Europa? Certe indifferenze sono oscene. La decenza, non la solidarietà o la giustizia ma proprio solo la decenza, vorrebbe che l'Europa si facesse carico delle sue responsabilità e della vita di questi popoli senza terra. Trovi il modo, è il suo lavoro: traghetti regolari? Soccorso sulle rotte? Così saremo invasi? Certo, ma saremo invasi comunque. Dopo aver distrutto un continente, che si trovi almeno il modo di salvarne i sopravvissuti. Vicenza: dopo protesta dei detenuti riemerge il problema-spazi, si attende l'ampliamento di Chiara Roverotto Giornale di Vicenza, 4 maggio 2015 Il Ministero non eroga le risorse per pagare le ditte e il cantiere per creare 200 posti è fermo da Natale. I sindacati: "Organici ridotti e proteste continue". "L'amministrazione penitenziaria dopo la protesta dell'altro giorno con i detenuti saliti sul tetto di San Pio X ha dato una risposta veloce e immediata, inviandoli in altre case circondariali e, soprattutto, ricorrendo a provvedimenti più restrittivi. Era la giusta risposta dopo quanto accaduto". Luigi Bono, segretario provinciale degli agenti penitenziari del Sappe, punta il dito su una pianta organica che risale al 2011 e che prevede 190 unità in servizio. In realtà sono poco più di 140. Inoltre, il cantiere per l'ampliamento del carcere di San Pio X è ancora in alto mare. I lavori, dopo oltre tre mesi di sospensione, sono ripresi dopo le festività natalizie, per una settimana. Poi, ancora il deserto. Eppure, quei 200 posti in più sono fondamentali per la struttura penitenziaria di Vicenza, la sola ad aver mantenuto i fondi ministeriali per proseguire con l'intervento. "E siamo solo all'inizio, la lista dei problemi è ben più lunga". Giampietro Pegoraro, responsabile regionale del settore penitenziario della Funzione pubblica della Cgil conosce bene la situazione della casa circondariale di via Della Scola. "Anche dopo quanto accaduto a Verona - prosegue, con i detenuti che hanno incendiato i materassi e con agenti penitenziari finiti all'ospedale intossicati, non possiamo che essere preoccupati e richiedere correttivi immediati. San Pio X è un edificio datato, che risale agli Anni Ottanta: il nuovo padiglione è indispensabile, ma dal Ministero non arrivano finanziamenti. C'è stato l'allontanamento del commissario governativo, ma da allora di mesi ne sono trascorsi parecchi. Quella che, fino ad un paio d'anni fa, era un'emergenza da superare nel più breve tempo possibile anche pervenire incontro a quanto l'Unione europea ci aveva chiesto in materia carceraria, pare sia stata chiusa in un cassetto". I reclusi - a detta dei sindacati - sono circa 240 per effetto del decreto svuota carceri che permette ai detenuti, che hanno già scontato alcuni anni, di chiedere i domiciliari oppure l'affidamento in strutture per i cosiddetti lavori sociali. "Però tutto questo non cambiai problemi - conclude Pegoraro, l'organico è sempre ridotto. Anche a Vicenza in passato ci sono stati detenuti che hanno incendiato il materasso per protesta. Ecco perchè chiederemo subito al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria che vengano sostituite le suppellettili con materiale ignifugo. Altrimenti i problemi resteranno. E questo vale per Vicenza, Verona e le altre strutture carcerarie del Veneto". A San Pio X da tempo sono state aperte le celle perchè i detenuti non potevano rimanere in spazi angusti. "E tutto questo comporta un'organizzazione diversa, ma difficile da organizzare se mancano agenti. Senza contare che alcuni sono distaccati in un reparto particolare, il Gom (Gruppo operativo mobile), che opera solamente nelle carceri di massima sicurezza dove ci sono persone con condanne per terrorismo e mafia. Abbiamo chiesto più volte che questo reparto venisse smantellato, se accadesse molti agenti potrebbero rientrare in servizio rialzando, almeno in parte, i numeri della pianta organica". Trapani: il Senatore Santangelo presenta un'interrogazione sulle condizioni del carcere www.tp24.it, 4 maggio 2015 Il senatore del Movimento Cinque Stelle Maurizio Santangelo ha presentato un'interrogazione sulle condizioni del carcere di San Giuliano a Trapani, dopo la visita che ha fatto la Uil e la relazione drammatica pubblicata ieri da tp24.it. "In molte sezioni - ha scritto il parlamentare - sono stati evidenziati diversi stati di degrado a causa delle infiltrazioni d'acqua, con il conseguente stato d'insalubrità degli ambienti e con la caduta di parti del rivestimento dei soffitti". La struttura carceraria è del 1965. Nel piano carceri è prevista la realizzazione di un nuovo settore che potrà ospitare circa 250 detenuti, ma non sono programmati interventi per il mantenimento di ciò che c'è. Santangelo scrive anche: "La pianta organica del corpo di Polizia penitenziaria risulta sottodimensionata". Imperia: tunisino fuggì dal carcere, il pm chiede 4 mesi per due agenti penitenziari di Maurizio Vezzaro La Stampa, 4 maggio 2015 Quattro mesi di reclusione: è la pena chiesa dal pm Alessandro Bogliolo per i due agenti penitenziari che, stando alle accuse, nel luglio del 2009 avrebbero favorito, con la loro condotta colposa, la fuga del detenuto tunisino Farah Ben Trabelsi, mai più riacciuffato. Il giudice Sonja Anerdi ha rinviato le repliche all'udienza dell'11 maggio. Nell'udienza precedente era stato mostrato un video registrato dalle telecamere di sorveglianza in cui si vedeva il detenuto scappare dopo essere salito sul muro di cinta arrampicandosi sulla rete che delimita il campo di calcio interno al penitenziario. Ciò che viene contestato ai due agenti, Elia Leonardo ormai in pensione e il collega Felice Serafino, è la mancata sorveglianza delle rispettive zone di competenza, ovvero i passeggi e la sala monitor. Gli avvocati difensori, i legali Erminio Annoni e Silvio Carrara, hanno invece sottolineato come l'evasione fosse dovuta principalmente a carenze strutturali del carcere: impianti difettosi, zone interne dove si stavano svolgendo lavori di ristrutturazione, e la cronica mancanza di personale che da anni contraddistingue la polizia penitenziaria imperiese. Trabelsi era detenuto a Imperia per scontare una condanna a 10 anni per spaccio di droga. In realtà avrebbe dovuto essere presto trasferito ma simulò il suicidio per poter restare ancora a Imperia. In mente aveva già il piano per la clamorosa fuga. Particolare curioso: una volta saltato giù dalle mura e già lontano, chiese un passaggio a un automobilista. Per ironia della sorte l'automobilista era un ignaro agente penitenziario del carcere di Sanremo che accompagnò il fuggitivo fino ad Arma di Taggia. Palermo: "La finestra sul cortile", i detenuti minorenni si raccontano in un libro di Alessandra Ferraro Giornale di Sicilia, 4 maggio 2015 Le testimonianze di 45 ragazzi e ragazze, autori di reati, sono state raccolte in un libro della giornalista Stefania Covello. I giovani sono stati coinvolti pure in laboratori di narrazione. Luca è un ragazzo di 20 anni, che ha avuto il coraggio di chiedere scusa alla vittima del proprio reato. "La vita è bella e sbagliare e brutto - spiega. Ti rendi conto che doveva accadere, ma non bisogna permettere più che accada. Il reato mi ha tolto tanto - dice - frequentavo da sei mesi una scuola calcio e ho dovuto rinunciarci, dicendo addio anche a un provino con una squadra importante, al contrario di mio fratello che oggi gioca nelle giovanili del Borussia Dortmund". Bruno, invece, ha scontato quattro anni all'istituto penale minorile. "I primi sei mesi sono stati durissimi - racconta - mi sono chiuso in me stesso, rifiutandomi anche di parlare con l'assistente sociale. Ogni giorno mi svegliavo e pensavo di non farcela più. Per chi non rispettava le regole c'era l'isolamento fino a 15 giorni in un braccio deserto del carcere all'interno di celle sporchissime, in cui eri sprovvisto di tutto, anche dei vestiti. Quando ci sono incappato, il mio unico passatempo è stato guardare il sole da dietro le sbarre". Quelle di Luca e Bruno sono solo due delle 45 testimonianze di ragazzi e ragazze minorenni, autori di reati, racchiusi nelle pagine del volume scritto dalla giornalista Stefania Covello e intitolato "La finestra sul cortile". Firenze: progetto primavera 2015 "Galàgalera Orkestra Ristretta di Sollicciano" www.gonews.it, 4 maggio 2015 Si chiamano Pastis, ma dietro ci sono due talenti, estrosi e creativi, la coniugazione dell'arte attraverso la fotografia e la musica, uno è Marco Lanza, uno dei fotografi italiani del fashion più quotati e il fratello, Saverio Lanza, musicista. Ma nel descriverli è riduttivo dare una connotazione, sono questo ed altro…insieme per ricombinazioni ricreative. Il loro programma si chiama Pastis ricombinazioni creative "Suoni e musica di ricerca a Firenze" per un'intensa stagione di concerti dal vivo di musica sperimentale e di eventi che mettono in relazione suono, sensibilizzazione sociale e nuova musica elettronica con prime assolute e prime nazionali, giovani autori e interpreti internazionali. Ricombinazioni, quasi una domanda, il loro è un combinare di nuovo, mettere insieme due affinità, colori, musica, suoni, arte, fantasia, curiosità per mescolarli armoniosamente in una sorta di combinazione chimica, forse per dire creare di nuovo, per sottintendere una scomposizione per poi ridare armonia, scompigliare le carte per ricomporre un mosaico, dove entrano emozioni ma anche tormento, gioia ma anche dolore, solitudine ma anche speranza, tutto raccontato lievemente, mai banale, ma con forza e determinazione Pastis ricombina e nella sua creatività va al cuore delle persone, fa "vedere" il mondo deformato attraverso l'obiettivo, a volte crudo, violento ma anche addolcito dalla musica, dai suoni, e l'armonia che porta attraverso le suggestioni del cuore dove il concetto di Pastis può essere definito poesia, in quanto obbliga, gli spettatori, ad un viaggio dentro di sé, dentro alla nostra umanità, anche se inconsapevole perché tra le arti non ci sono distinzioni, come nel mondo, non ci dovrebbero essere frontiere. Un viaggio, quello di Marco e Saverio Lanza, per ascoltare gli altri. In collaborazione con Ministero di Giustizia, Comune di Firenze/Q4, Casa Circondariale di Sollicciano e Arci Firenze Il 19 maggio, ore 21 Casa Circondariale di Sollicciano, Firenze, Tempo Reale / Progetto Primavera 2015 Galàgalera Orkestra Ristretta di Sollicciano / Pastis Direttore, Massimo Altomare Con Marco e Saverio Lanza, Regia del suono, Tempo Reale. Per il Progetto Primavera prosegue l'esperienza di Tempo Reale all'interno della Casa Circondariale di Sollicciano. Galàgalera vuole essere un approccio di apertura alle culture musicali del mondo all'insegna dell'accoglienza, dove musicisti molto diversi tra loro suonano insieme: dai detenuti fino ai professionisti della musica leggera di oggi, uniti da uno spirito di comunione artistica e di gioia di vivere. La prenotazione è obbligatoria e deve essere effettuata tassativamente entro l'8 maggio utilizzando l'indirizzo galagalera@temporeale.it, inviando copia del proprio documento di identità per email oppure al numero di fax 055717712, specificando un contatto telefonico. Le prenotazioni (nominali e non vincolanti) saranno registrate secondo la data di ricezione. Solo nei casi in cui non sia possibile confermare la partecipazione verrà inviata una mail di risposta nei giorni precedenti all'evento. La troika e i diritti umani di Luciano Gallino La Repubblica, 4 maggio 2015 La gestione delle crisi nell'Unione Europea ha condotto a massicce violazioni di diritti umani. Inoltre il modo in cui le crisi sono state gestite ha esposto una serie di buchi neri quando si tratta di individuare le responsabilità per la violazione di diritti umani". Lo ha scritto di recente una giurista del Centro per lo Studio dei Diritti umani della London School of Economics, Margot E. Salomon. Il suo saggio è uno dei più approfonditi finora apparsi sul tema, dopo quello del 2014 di Andreas Fischer-Lescano, docente a Brema ("Diritti umani ai tempi delle politiche di austerità"). I tagli a sanità, pensioni, stipendi, diritti del lavoro, istruzione, servizi pubblici imposti da Commissione Europea, Fmi e Bce a Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e altri paesi hanno inflitto gravi privazioni a milioni di persone. È sempre più evidente che le istituzioni Ue e il Fmi non avevano il diritto di compiere azioni del genere. Non soltanto: si può sostenere che compiendole hanno violato dozzine di articoli di patti, trattati, carte e convenzioni sottoscritti da esse medesime, a cominciare dal Trattato fondativo dell'Unione. Vediamo qualche caso. Tra i diritti legalmente sanciti dalla Carta Sociale Europea (versione riveduta del 1996) figurano i seguenti: "Tutti i lavoratori hanno diritto a un'equa retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente" (art. 4); "I bambini e gli adolescenti hanno diritto a una speciale tutela contro i pericoli fisici e morali cui sono esposti" (art. 7); "Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del migliore stato di salute ottenibile" (art. 11); "Tutti i lavoratori e i loro aventi diritto hanno diritto alla sicurezza sociale" (art. 12); "Ogni persona sprovvista di risorse sufficienti ha diritto all'assistenza sociale e medica" (art. 13); "Ogni persona anziana ha diritto ad una protezione sociale" (art. 23); "Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento" (art, 24); "Ogni persona ha diritto alla protezione dalla povertà e dall'emarginazione sociale" (art. 30). Si potrebbe continuare citando articoli analoghi del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (New York 1966); della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea; di una mezza dozzina almeno di Convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, dal 1948 in avanti. Per finire magari con l'articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, intitolato "Crimini contro l'umanità", che al comma "k" recita: "Altri atti inumani di carattere simile che causano intenzionalmente grande sofferenza, o seria menomazione al corpo o alla salute mentale o fisica". Allo scopo di portare la Commissione, la Bce e il Fmi davanti alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, o alla Corte penale internazionale, e perché no qualche governo europeo, affinché rispondano delle violazioni dei diritti umani delineate sopra, vi sarebbero diversi punti critici da affrontare. I rapporti menzionati all'inizio scartano subito l'argomento principe dei fautori dell'austerità: le ristrettezze inflitte alle popolazioni Ue sarebbero state necessarie a causa della crisi finanziaria, l'urgenza di migliorare lo stato dei bilanci pubblici, il dovere degli stati debitori di ripagare i creditori. Le violazioni dei diritti umani, anche se comprovate, sarebbero quindi giustificate dalla situazione di emergenza, ovvero dallo "stato di eccezione" in cui versa o versava l'intera Ue. Tuttavia, se si accetta questo punto di vista, ha scritto un altro giurista (Paul Kirchhof), l'Europa intera, quale comunità fondata sul primato della legge, sarebbe privata della sua ragion d'essere. L'effetto sarebbe che nessun capo di Stato o ministro o membro del parlamento potrebbe intraprendere azioni vincolanti che riguardassero i cittadini, poiché il loro mandato ha una base legale: però la legge non esisterebbe più. Per cui il sistema legale europeo non può cedere il passo dinanzi a un presunto stato di emergenza, conclude il rapporto di Brema, ovvero non può che un sistema di competenze legali sia soppiantato da pratiche considerazioni politiche. Un secondo punto critico riguarda l'individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni dei diritti umani. Il principale strumento utilizzato nella Ue per imporre a un paese dure politiche di austerità ha preso in genere forma di un "Memorandum di intesa" (sigla inglese MoU), un documento che elenca in modo ossessivamente dettagliato le decurtazioni che un paese deve effettuare alla propria spesa pubblica per potere ottenere determinate concessioni dalla Troika. Su un piano affine ai MoU si collocano le lettere-diktat inviate da istituzioni europee a stati membri. Sia nella formulazione che nell'esecuzione, i MoU e affini sono opera di diversi soggetti, le cui rispettive responsabilità sarebbero da accertare. Tra di essi non rientra la Troika, poiché non ha personalità giuridica. Vi rientrano invece gli stati membri con i loro governi, il Fmi, la Bce, la Commissione Europea. Si aggiunga che la responsabilità di tali soggetti nell'infliggere sofferenze a milioni di cittadini, violando i diritti umani riconosciuti dalla stessa Ue, è aggravata dal fatto che le politiche di austerità che hanno veicolato le violazioni si sono rivelate un fallimento totale. Dopo cinque anni, nei paesi destinatari dei MoU e delle lettere stile militare della Bce la disoccupazione è cresciuta a dismisura, la povertà assoluta e relativa anche, il Pil è diminuito di decine di punti, la struttura industriale è stata compromessa - vedi il caso Italia - e ad una intera generazione di giovani è stato rubato in gran parte il futuro. Per cui le suddette politiche non possono venire invocate come circostanze attenuanti. Se le istituzioni della Ue e i loro dirigenti fossero riconosciuti responsabili dall'una o dall'altra Corte europea di violazione dei diritti umani e delle estese sofferenze che hanno provocato, non correrebbero certo il rischio di serie penalità. Ma sarebbe quanto meno un riconoscimento ufficiale di un fatto inaudito: milioni di vittime della crisi apertasi nel 2008 sono state chiamate, tramite le politiche di austerità, a pagare i danni della crisi da quelli stessi che l'hanno provocata, a cominciare dai loro governanti nazionali e internazionali. Stati Uniti: riforma carceraria in America, il boomerang di Hillary Clinton di Mattia Ferraresi Panorama, 4 maggio 2015 Fine della "carcerazione di massa", chiede la candidata democratica. Ma fu il marito (con il suo supporto) a indurire il sistema penale e detentivo. Per un politico americano invocare una rivoluzione del sistema penale e delle carceri è un modo sicuro per ottenere applausi, specialmente nel momento in cui un'inquietante serie di omicidi da parte di poliziotti da Baltimora a Ferguson, fino a Charleston e Cleveland, ha riportato al centro della scena non solo il tema razziale, ma anche quello degli abusi delle forze dell'ordine. Il tasso di carcerazione negli Stati Uniti è di gran lunga il più alto del mondo e la capacità rieducativa delle prigioni americane è una pura illusione. Le ragioni del deprimente stato dell'arte sono molteplici, hanno a che fare con le condizioni economiche e con l'eredità irrisolta della segregazione, ma anche con precise scelte politiche fatte nel corso dei decenni: la War on Drugs proclamata da Nixon nel 1971 ha dato l'impulso a un'ondata di costruzione di prigioni, oppure le leggi sulle pene detentive obbligatorie anche per i reati non violenti promulgate dal democratico Nelson Rockefeller nello stato di New York sono state il modello per i politici di destra e di sinistra che volevano mostrarsi duri nella lotta alla criminalità. Il consenso attorno alla necessità di una riforma è talmente diffuso che i fratelli Koch, gli odiati finanziatori della destra, stanno versando milioni di dollari per cambiare le cose, in una strana alleanza con la galassia delle associazioni dei diritti civili progressiste, a partire dall'Aclu, colosso del settore. Il Congresso americano è diviso su tutto, ma sul tema delle carceri il senatore progressista Cory Booker e quello libertario Rand Paul hanno scritto senza sforzo un progetto di legge congiunto. Perciò, quando l'altro giorno la candidata democratica Hillary Clinton ha tuonato dalla aule della Columbia Univeristy che "è tempo di chiudere l'era della carcerazione di massa" ha detto una cosa popolare e bipartisan, priva di rischi. Peccato però che molte scelte politiche che hanno portato alla situazione insostenibile che lei depreca siano state fatte da suo marito, Bill, quando era alla Casa Bianca. E all'epoca la first lady ha contribuito attivamente a far passare i provvedimenti. Come molti democratici, Clinton doveva scrollarsi di dosso la reputazione di essere troppo leggero sul crimine, così ha promosso linee guida più dure sulle sentenze, ha approvato il passaggio dell'equipaggiamento militare dismesso o in eccesso ai dipartimenti di polizia (il motivo per cui quando scoppiano rivolte come a Ferguson o Baltimora le città si trasformano immediatamente in teatri di guerra, cosa che solitamente non favorisce lo stemperarsi degli animi), ha tagliato i fondi per l'educazione nelle carceri e quelli per la promozione di pene alternative. Negli anni Novanta si è registrata una diminuzione del crimine in America, accompagnata però da un'esplosione del numero dei carcerati, anche per reati non violenti o minori. La legge sul crimine del 1994 ha stanziato quasi 10 miliardi di dollari per la costruzione di nuove prigioni e una del 1997 ha autorizzato il passaggio di armamenti militari ai dipartimenti di polizia locali per un valore di 6 miliardi di dollari. In entrambi i casi Hillary non è stata una spettatrice del processo ma ha attivamente aiutato il marito a trovare i voti necessari al Congresso per far passare le leggi. Ora che quelle leggi sono tremendamente impopolari la candidata alla Casa Bianca è pronta a ritrattare. Arabia Saudita: il blogger dal carcere "le frustate non fermeranno la mia lotta per i diritti" di Raif Badawi La Repubblica, 4 maggio 2015 Mi ero assegnato il compito di proporre una nuova chiave di lettura del liberalismo in Arabia Saudita, per dare un contributo all'emancipazione della società nel mio Paese. Ho cercato di abbattere i muri dell'insipienza e la sacralità del clero, di diffondere un po' di pluralismo e di rispetto per valori quali la libertà d'espressione, i diritti delle donne, delle minoranze e dei nullatenenti in Arabia Saudita: è stata questa la mia vita, fino al mio arresto nel 2012, quando sono finito in una cella, in mezzo a gente incarcerata per i crimini più diversi. Dagli assassini ai ladri, ai trafficanti di droga, fino ai pedofili, stupratori di bambini. La vita accanto a loro mi ha cambiato per molti aspetti, soprattutto sul piano puramente umano, cancellando molti dei miei precedenti stereotipi. Immaginate di trascorrere la vostra vita quotidiana, fin nei suoi minimi dettagli, in una stanza di appena venti metri quadrati, condivisi con altre trenta persone incolpate di ogni possibile atto criminale. In passato, prima di coricarmi avevo l'abitudine, probabilmente molto comune, di accertarmi che tutte le porte e finestre fossero ben chiuse, per timore dei delinquenti. Mentre ora vivo in mezzo a loro! Dormo, mangio, mi lavo, mi cambio, rido, piango, gioisco, mi arrabbio o grido … sempre in mezzo a loro, sotto i loro occhi. Dopo molti tentativi di abituarmi a vivere tra queste persone, ho fatto uno sforzo consapevole per vederle da un punto di vista diverso e solo dopo qualche tempo ho avuto la certezza che anche i criminali sanno ridere! Sì, anche loro amano, soffrono, e alcuni danno prova di una delicatezza, di una sensibilità umana così straordinaria che a volte soffro profondamente nel compararla a quella delle persone "normali" che un tempo mi erano vicine. Recentemente, entrando in uno dei gabinetti, lo trovai cosparso di carta igienica lurida, con le pareti inzaccherate, la porta sconnessa, pieno di sporcizia ovunque: uno spettacolo angoscioso. Ma tant'è: dovevo pur ritrovarmi in quel caos, gestire al meglio la situazione. Mentre mi concentravo a decifrare le centinaia di scritte che imbrattavano quelle pareti appiccicose, mi saltò agli occhi una frase: "Il secolarismo è la soluzione!" Fui sopraffatto da uno sconfinato stupore. Mi sfregai gli occhi per convincermi che quella scritta esisteva davvero. Era come se in un misero locale notturno, in mezzo a un assembramento di squallide ragazze in vendita, entrasse improvvisamente, al tocco della mezzanotte, una bellissima dispensatrice d'amore, irradiando vita e gioia intorno a sé. Non saprei dire tutto ciò che in quel momento mi passò per la testa, né perché mi fosse venuta in mente quell'immagine. A quanto pare, in questo nuovo tipo di vita l'uso di un cesso diverso può cambiare il destino. Le idee sfrecciavano nella mia mente mentre procedevo all'incombenza per la quale ero lì. Sorridendo, incominciai a riflettere su chi potesse essere l'autore di quella scritta, in quel carcere stracolmo di migliaia di delinquenti, condannati per reati comuni. Quella breve frase, così bella, così diversa, mi aveva riempito di stupore e di gioia. Se mi era dato di leggere quelle parole tra centinaia di volgarità in tutti i dialetti arabi possibili e immaginabili, di cui erano gremite le luride pareti di quel gabinetto, voleva dire che in questo carcere c'era da qualche parte almeno una persona capace di capirmi. Qualcuno che comprendesse le ragioni per le quali avevo lottato ed ero stato rinchiuso qui. Pochi giorni dopo quell'esperienza, dovevo ricevere una notizia che avrebbe trasformato per me quel mondo di criminali in un vero paradiso: un paradiso con condizioni particolari, rispondenti ai miei personali criteri. Quando Enaf, la mia amatissima moglie, mi ha detto che un'importante casa editrice tedesca aveva raccolto e fatto tradurre i miei articoli per farne un libro, ho reagito dapprima con molto scetticismo. Sinceramente, devo dire che quando scrissi il mio primo blog non avrei mai immaginato di vedere un giorno i miei articoli raccolti e pubblicati in arabo - e men che meno in un'altra lingua! Cara lettrice, caro lettore: se siete arrivati fin qui, vuol dire che siete interessati a leggere quanto ho da dire. C'è veramente chi pensa che io abbia qualcosa da dire. Mentre per tanti altri sono semplicemente un uomo comune, uno che non merita di vedere i suoi blog tradotti e pubblicati in un libro. Quanto a me, mi vedo semplicemente come un uomo esile ma tenace, sopravvissuto miracolosamente a cinquanta colpi di frusta, subiti davanti a una folla giubilante che urlava Allahu akbar: tutto questo a causa dei miei articoli. Il tribunale mi aveva condannato a morte, vista la "gravità dell'apostasia e dell'offesa all'Islam" di cui ero incolpato. Poi la mia pena è stata commutata a 10 anni di carcere, mille frustate e una gravosa multa, di un milione di riyal. Oggi, nel momento in cui scrivo per voi queste righe, ho subito le frustate e scontato tre anni di carcere: mia moglie, sottoposta a pressioni sempre più forti, è stata costretta ad emigrare all'estero coi nostri tre figli. Tutte queste crudeli sofferenze sono state inflitte a me e alla mia famiglia per la sola colpa di aver espresso la mia opinione. Grecia: maxi rissa nel carcere di Korydallos ad Atene, 2 detenuti morti e altri 21 feriti Ansa, 4 maggio 2015 Due detenuti di origine pakistana sono rimasti uccisi e altri 18 sono rimasti feriti negli scontri scoppiati in una sovraffollata prigione alla periferia di Atene. Due e ben distinte le fazioni di prigionieri che si sono affrontati: pakistani da una parte e albanesi insieme ad arabi dall'altra. La ragione degli scontri non è ancora chiara. I disordini sono scoppiati nella struttura che ospita 500 detenuti stranieri, fra cui alcuni terroristi. Lo ha reso noto il ministero della Giustizia greco, specificando che gli scontri, durati una trentina di minuti, sono divampati nel penitenziario di Korydallos nella zona occidentale di Atene. Dopo la cena, un gruppo di detenuti albanesi e arabi, ha attaccato con oggetti affilati diversi pakistani e bengalesi, uccidendone due. Tra i feriti 8 sono gravi.