Informare per allargare i "Ristretti Orizzonti" di Agnese Moro La Stampa, 3 maggio 2015 Ornella Favero è ideatrice e direttore della rivista "Ristretti orizzonti", www.ristretti.it, realizzata nel carcere Due Palazzi di Padova. Quando e perché hai cominciato a occuparti di carcere? "Era il 1997, ed ero stata invitata da mia sorella, che insegnava in carcere, a fare una lezione sull'informazione: con un gruppo di detenuti, abbiamo così cominciato a discutere di quanto poco corretta fosse spesso l'informazione sui reati, sulle pene, sulla giustizia. Da lì ci è venuta l'idea di cominciare a fare un po' di "controinformazione" su questi temi. E fare informazione da un luogo poco trasparente come il carcere mi è sembrata una sfida appassionante, la sfida di cercare di far uscire notizie corrette, documentate, "oneste", da un luogo dove l'onestà non è esattamente di casa. Ed è nata così la redazione di Ristretti Orizzonti". Sei contenta di farlo? "Ho iniziato quasi vent'anni fa e non so cosa sia la noia, perché ogni giorno è una scoperta e una possibilità di confronto, che nel mondo "libero" è impensabile avere: io parlo del male con persone che il male l'hanno fatto davvero, mi scontro, imparo, conosco meglio anche me stessa, sto più attenta perché vedo dove portano certi comportamenti superficiali, frettolosi, poco rispettosi dell'altro. Da parte mia poi porto un'idea semplice: che non si riesce a essere un po' felici se si parte sempre da "io, io, io... e gli altri". Alle persone detenute, che difficilmente concepiscono l'idea che si possa fare qualcosa di "gratuito", il pensiero che cerco di trasmettere è che, se si fa qualcosa anche per gli altri, si vive meglio, ci si appassiona, ci si diverte pure, si è meno schiavi delle proprie piccole insoddisfazioni". Le cose più difficili? "La prima difficoltà, in un luogo di sofferenza come il carcere, è riuscire a fare un giornale senza usare toni lamentosi, anche quando ci sarebbero buone ragioni per lamentarsi, perché la prima reazione che si suscita è "potevate pensarci prima". Meglio uno stile asciutto e poco urlato, è molto più efficace. Poi bisogna cercare di trasmettere alle persone detenute l'idea che discutere, leggere, approfondire temi importanti che riguardano la vita in carcere, il rapporto con la famiglia, le fatiche del reinserimento significa prendersi in mano il proprio destino e non affidarlo sempre agli altri". Giustizia: il nostro mondo liberato dalle galere, perché è possibile abbattere il tabù Il Garantista, 3 maggio 2015 Dal Presidente della Commissione diritti umani del Senato, Luigi Manconi, un libro che non è una provocazione, ma una tesi argomentata che ha radici lontane. Pubblichiamo qui di seguito la premessa di "Abolire il carcere", ultima opera di Luigi Manconi, che il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani del Senato ha scritto insieme con il ricercatore dell'università di Perugia Stefano Anastasia (ex presidente dell'associazione Antigone), la direttrice di "A buon diritto" Valentina Calderone e con Federico Resta, ricercatore in Diritto penale e funzionario dell'Authority per la Privacy. E stata Belén, all'anagrafe Maria Belén Rodriguez, a esprimere le considerazioni più pertinenti a proposito della condanna a tredici anni e due mesi dì carcere inflitta a Fabrizio Corona. La donna, a quanto si sa, non viene da severi studi giuridici ma è evidentemente dotata di buon senso e, soprattutto, conosce la personalità del condannato, col quale ha avuto una lunga relazione, e la sua particolare patologia. "Lui ha un problema, ha fatto degli errori, ma in realtà l'unico problema che ha sono i soldi". E ancora: "Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta. Lui è in galera perché ha una malattia per i soldi" afferma Belén in una intervista al settimanale "Oggi", il 22 dicembre 2014. Nelle parole della donna c'è l'eco (poco importa se inconsapevole) della più avanzata dottrina penalistica e della più ragionevole pedagogia per l'età adulta. Entrambe le ispirazioni tengono conto, nel ponderare qualità ed entità della sanzione per chi infrange le regole, della personalità del reo e dell'esigenza di rendere la pena effettivamente deterrente - dunque utile alla società - oltre che non inutilmente vessatoria nei confronti del condannato. Ed entrambe intendono sottrarre la misura punitiva al cupo e ottuso automatismo del "chiudere la cella" per tot anni o per sempre e "gettare via la chiave". E, infatti, nel caso di Corona, solo un tipo di sanzione capace di intervenire efficacemente sulla sua "patologia", la dipendenza dal denaro, può rispondere a quanto previsto dalla Carta costituzionale e dal nostro ordinamento. Può, cioè, sia svolgere una funzione preventiva - ovvero dissuaderlo dall'acquisire illegalmente risorse economiche - sia perseguire una finalità rieducativa, inducendolo a riflettere criticamente sulle conseguenze della propria dipendenza dal denaro. Le parole di Belén aggiungono, quindi, un'ulteriore motivazione, se mai ve ne fosse stato bisogno, alla pertinenza e alla urgenza dell'interrogativo: possiamo fare a meno del carcere? Questo libro ambisce a dimostrare l'opportunità di una simile domanda e la fondatezza della nostra risposta positiva. Sì, abolire il carcere è possibile, innanzitutto nell'interesse della collettività, di quella maggioranza di persone che pensano di non essere destinate mai a finirci e che, con lo stesso, mai avranno alcun rapporto nel corso della intera esistenza. L'abolizione del carcere è, insomma, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, che ne avrebbero tutto da guadagnare. Perché, dunque, fare a meno del carcere? Semplice: per- che a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all'infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente. E perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che è quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali. Sono passati più di trent'anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per "liberarsi dalla necessità del carcere" (questo il titolo di un convegno tenuto all'università di Parma dal 30 novembre al 2 dicembre 1984). Trent'anni in cui le migliori intenzioni si sono scontrate con la ruvida materialità di un sistema penitenziario che è sembrato irriformabile. E che, per contro, ha riprodotto ottusamente se stesso, anche oltre se stesso, in altri luoghi di detenzione, non meno afflittiva, non meno degradante, non meno inumana: dagli ospedali psichiatrici giudiziari ai centri di identificazione ed espulsione per stranieri. Proviamo allora a invertire l'ordine del discorso. Il carcere come luogo di pena non è sempre esistito. Anzi, nella lunga storia dell'umanità è un'invenzione relativamente recente. E ciò nonostante costellata di denunce e contestazioni, dalla grande letteratura agli scritti dei costituenti riuniti in un fascicolo de "Il Ponte" da Piero Calamandrei nel 1949. Insomma, non siamo gli unici né i primi a pensare che il carcere possa essere abolito. L'idea di fare a meno della galera come luogo di esecuzione delle pene, infatti, ha ormai una lunga storio, fatta di teorie filosofiche, suggestioni letterarie, manifesti politici e sperimentazioni pratiche che illustreremo in questo libro. Ben 2368 persone sono morte nelle carceri italiane negli ultimi quindici anni: quasi 160 ogni anno, di cui almeno un terzo per propria scelta, ricorrendo ai vari strumenti che consentono a chi si trovi recluso di togliersi la vita: dall'impiccagione alle sbarre della cella all'aspirazione del gas del fornello. Più della metà dei detenuti sopporta la reclusione solo grazie all'uso abituale di psicofarmaci, mentre la gran parte, quasi il 70 per cento, è destinata a rientrare in carcere entro un breve periodo di tempo. Per questo parleremo più diffusamente della sua intollerabilità e degli effetti altamente letali che ha su chi vi è recluso e su chi vi lavora come una delle ragioni che inducono a considerare l'opportunità della sua abolizione. Abolire il carcere dunque, ma come? Il nostro e altri ordinamenti penali conoscono una grande varietà di pene non detentive come quelle che limitano la libertà di movimento senza ricorrere a una cella: quelle che impediscono ai condannati di compiere determinati atti o che costringono a realizzare qualcosa a favore della collettività. Passeremo in rassegna le alternative già oggi sperimentate in molte parti del mondo, e persino in Italia. E infine, individueremo dieci cose da fare subito per indirizzare energie e risorse verso l'abolizione della pena detentiva. Certo, il nostro ambizioso obiettivo va avvicinato e raggiunto attraverso un tragitto inevitabilmente lungo e faticoso. Ma anche i piccoli passi e i modesti risultati possono essere alla nostra portata e rivelarsi efficaci solo se collocati all'interno di una prospettiva che è necessariamente quella: l'abolizione del carcere. La riforma più elementare e l'intervento più prudente sono destinati ad avere successo solo se pensati e perseguiti come altrettanti passaggi verso quella meta finale che è appunto rendere superflua la prigione. Giustizia: vandalismo anti-Expo, così si brucia la protesta di Norma Rangeri Il Manifesto, 3 maggio 2015 Che senso ha incenerire la giusta lotta per il diritto al cibo con una raffica di molotov? Come si possono contrastare la povertà e la fame nel mondo, se si danneggiano negozi, se si incendiano le auto di cittadini incolpevoli, se si mette in campo solo una anarchica voglia di distruzione? Cosa significa manifestare indossando una maschera antigas? Ha ragione il sindaco di Milano, Pisapia, a definire imbecilli questi travestiti di nero che si divertono a fare i cattivi. A volto coperto. Tuttavia non basta qualche aggettivo per catalogare dei comportamenti sconsiderati. Perché chi agisce ricorrendo ad una violenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la politica, il diritto di manifestare pacificamente, mette in un angolo i movimenti che vogliono esprimere - anche in piazza - un'altra visione del mondo. Gli effetti del vandalismo anti-Expo del primo maggio non sono solo quelli che abbiamo visto nelle immagini tv. Ce ne sono altri, meno evidenti. Eppure molto concreti. Perché secondo il prevedibile copione, la legittima protesta e la contestazione della rassegna universale sono state offuscate proprio dal fumo nero che si è levato dai tanti focolai di incendio provocati dai piromani di professione. Questi cosiddetti black bloc conoscono bene le regole della comunicazione, sanno benissimo che il sensazionalismo delle loro azioni viene usato per ignorare i comportamenti, pacifici, altrui. E questo ruolo non gli va più concesso: i movimenti devono essere i primi a sentirsi danneggiati per quanto è accaduto. E comportarsi di conseguenza, prendendo le distanze e difendendosi da chi ha nulla a che fare con la politica. L'Expo può essere e deve essere criticato. Perché non risolverà i problemi degli affamati della Terra. Perché l'economia mondiale non può restare nelle mani delle multinazionali che, come dice Vandana Shiva, pensano soprattutto a nutrire se stesse, non certo il Pianeta. Perché come accade con i grandi eventi, sempre molto costosi, difficilmente sedimenterà qualcosa che durerà nel tempo. Perché bisogna essere davvero ottimisti per credere che risolleverà il nostro Pil di qualche decimale. Perché una delle "vocazioni" del paese, il turismo, non si alimenta con le manifestazioni a termine ma con una strategia e investimenti di ampio respiro. La violenza ha messo in un angolo anche l'altro Primo Maggio, quello più autentico e storico: la festa del lavoro che non c'è. La messa a soqquadro di Milano ha fatto passare in secondo piano la protesta sindacale contro il governo e i suoi fallaci e patetici proclami sulle magnifiche e progressive sorti del Jobs Act. E ha messo in sordina il forte messaggio lanciato da un luogo simbolico dell'accoglienza agli immigrati in fuga da guerre, disperazione, fame. Forse Pozzallo, piccolo paese siciliano, rappresentava il vero contraltare all'abusata retorica del presidente del Consiglio all'inaugurazione dell'Expo. Tutto questo è stato "bruciato" da chi ama distruggere le cose e anche le idee e le opinioni costruite faticosamente. E soprattutto quelle dietro le quali si nascondono. Perché agiscono insinuandosi e confondendosi nei cortei, nei movimenti. Ai quali diamo un modesto consiglio: la prossima volta si scenda in piazza con un efficiente servizio d'ordine. Un tempo si organizzavano come strumento di autodifesa. In primo luogo dalla polizia che, stavolta, ha fatto un'opera di contenimento, evitando di provocare uno scontro generalizzato che avrebbe avuto ben altre conseguenze. Adesso i servizi d'ordine devono servire anche per distinguersi da chi pensa che ferire il centro di una città sia la soluzione. Ma una presenza organizzata in piazza non si improvvisa, richiede una coesione politica e sociale che manca sia nei movimenti che nella sinistra di alternativa. Giustizia: una lezione chiamata Diaz di Roberto Saviano La Repubblica, 3 maggio 2015 Nessuna carica contro il corteo la scelta vincente che ha evitato il caos. Che cosa è successo davvero venerdì pomeriggio a Milano? Quale lezione dobbiamo trarre all'indomani della violenta devastazione che avrebbe voluto farci ripiombare nell'incubo da guerriglia urbana? Diciamo subito che a Milano in quell'incubo non siamo ripiombati. E proviamo a dare anche un nome a quella lezione: chiamiamola dunque la lezione della Diaz. Sì, a 14 anni da Genova, il primo maggio di Milano ha segnato davvero un cambiamento radicale nella gestione dell'ordine pubblico. Chiariamo. Anche l'azione di questi violenti andrebbe definita col nome che merita: squadrista. Perché di squadrismo s'è trattato: il modo paramilitare in cui s'è sviluppata l'azione, l'utilizzo delle tute. Azione squadrista: perché i violenti si muovevano come squadre con obiettivi solo a loro noti - e non al resto del corteo. Sembrava un'operazione vista molte volte e invece non lo era. Chi immaginava continuità con il movimento antagonista ispirato alla strategia da guerriglia urbana anni 70 è rimasto sorpreso. Il blocco nero è storia vecchia: ma a Milano ha agito con una capacità tutta militare (togliersi le tute per mimetizzarsi disperdendosi poi nei tronconi pacifici della manifestazione) rinunciando completamente a ogni simbologia politica. Cercare "l'affinità informale" ossia persone che non si conoscono tra loro ma che si ritrovano nello spazio del corteo unite nella volontà di attaccare obiettivi per poi tornare ad ignorarsi. Nessuna rivendicazione: in azione c'era solo la teppa. Eppure non è stata questa l'unica vera mutazione a cui abbiamo assistito. La tattica dei violenti sembrava semplicissima: aggredire i poliziotti dopo aver costruito barricate e sfasciato tutto ciò che può esser sfasciato, per poi far caricare l'intero corteo, soprattutto la parte pacifica. La sequenza agghiacciante dell'assalto a bastonate del poliziotto dice tutto. Come avrebbero potuto reagire le forze dell'ordine? Con una carica generalizzata: che trascina inevitabilmente tutti negli scontri. È la vecchia strategia per stanare e "arruolare" i manifestanti - anche i più prudenti: far partire le cariche costringendo perfino i pacifici a difendersi con la guerriglia. Questa volta, però, sia le forze di polizia che i manifestanti non ci sono cascati. E la scelta di non intervenire, di isolare i violenti e di non cadere nel trucco che gli squadristi-antagonisti avevano preparato si è rivelata vincente. A riassumerla nel facile gioco delle pagelle, dalla battaglia di venerdì escono vincenti Tullio Del Sette, comandante generale dei Carabinieri, e Alessandro Pansa, il capo Polizia - mentre certamente è sconfitta l'Intelligence, che non ha saputo prevedere i flussi e fermarli. Ed è proprio quando fallisce l'Intelligence, quando la politica non riesce a far fronte all'emergenza, che tutto viene riposto nell'ultimo anello di gestione: i celerini. Certo i reparti speciali come i Gis avrebbero potuti fermarli, ammanettarli e neutralizzarli in una manciata di minuti, questi militanti - o presunti tali - che imbrattavano muri con le bombolette e sfondavano negozi. Ma si sarebbe dovuto fare ricorso a un'azione militare seria con il rischio di avere costi tragici. Per questo la decisione di circoscrivere i violenti e dare libero sfogo è stata strategica. Ha fatto emergere la loro reale identità che - se la polizia avesse caricato - pochi avrebbero riconosciuto. Un cambio di gestione della piazza che lascia ben sperare. La lezione della Diaz. E adesso? Chi pagherà le auto bruciate? Chi le vetrine sfondate? Lo Stato dovrebbe rispondere subito a tutto questo e non in tempi infiniti riuscendo soprattutto ad ottenere risarcimenti arrestando i responsabili. Bisognerebbe aggiungere che l'unica vittoria dei nuovi squadristi è stata quella di oscurare le legittime critiche della manifestazione contro l'Expo: il regalo più grande che potevano fare agli organizzatori. In un attimo hanno messo sotto silenzio tutti i temi che con difficoltà nei giorni scorsi erano stati posti al centro dell'attenzione pubblica. Hanno ridotto tutto a uno scontro di vetrine rotte e immondizia. Sento già partire il coro dei cospirazionisti: le violenze l'hanno organizzate gli stessi poliziotti - per questo i manifestanti non sono stati caricati! L'ingenuità di queste interpretazioni è smontata dalle dinamiche che raccontano purtroppo ben altro: la totale incapacità di infiltrazione delle forze di polizia e anzi l'inadeguatezza dei servizi segreti italiani in questa vicenda. La rabbia, il dolore, il disagio sono ben altro. E a rappresentarle non saranno certo questi gruppetti all'assalto di vetrine incustodite. Giustizia: bravo il ministro dell'interno Alfano… o volevate un'altra Diaz? di Angela Azzaro Il Garantista, 3 maggio 2015 Subito dopo gli scontri, uno dei post su Facebook e dei tweet più gettonati sono stati quelli che chiedevano le dimissioni del ministro dell'Interno Alfano. Nell'italica abitudine, di cercare subito un capro espiatorio, ancora meglio se politico, non si è invece fatta la considerazione più ovvia: Alfano - anche questa volta - ha limitato i danni. E, nonostante le devastazione di cose, non c'è stato nessun morto e nessun ferito. Dalle richieste degli utenti social si è invece passati alla politica, con la Lega e Grillo che chiedono le dimissioni del ministro. Cosa avrebbe dovuto fare: sparare? Far uccidere qualcuno? Comportarsi come ha fatto Scajola a Genova, dove è morto Carlo Giuliani? Alfano ha dato l'ordine, rispettato dalle forze di polizia, di contenere le tute nere e di limitare i danni. Impresa compiuta, visto che i black bloc sono stati isolati dagli altri manifestanti e nessuno, né tra le forze dell'ordine né tra coloro che hanno compiuto la devastazione, è rimasto a terra o è stato gravemente ferito. Ma se la richiesta, della Lega e di Grillo, sembra la solita tattica politicista per cui ogni occasione è buona per attaccare il governo avversario, ciò che colpisce è il furor di popolo contro il ministro. Gli stessi che commemorano Carlo Giuliani e che hanno giustamente gioito alla condanna della Corte di Strasburgo per la macelleria della Diaz, ieri l'altro si lamentavano della debolezza della polizia, imputando la colpa al ministro dell'Interno e invocando pene severe contro i manifestanti violenti. Le analisi di ciò che accaduto sono state poche e frettolose. Non perché si debba giustificare quello che è accaduto, ma perché - più che altro - il compito della politica e del giornalismo dovrebbe essere anche quello di capire la natura dei fenomeni. Invece, anche in questo caso, ha prevalso un'altra cultura, e ha prevalso a destra come a sinistra. La cultura cioè della legge e dell'ordine. La legge che va fatta rispettare a ogni costo, anche rischiando morti e feriti; l'ordine che va ripristinato con la galera, se non - strano che a nessuno sia venuto in mente - con la pena di morte. Era già accaduto di recente, dopo le violenze e le devastazioni compiute da parte dei gli ultra olandesi a Roma. Erano stati messi in mezzo il prefetto, poi infatti sostituito da Gabrieli, il questore e il capo del Viminale. L'accusa era di non aver bloccato i tifosi, ma anche in quel caso nessuno si era fatto male e non si erano viste scene di violenza da parte delle forze dell'ordine. Scene a cui Invece avevamo assistito contro gli operai inermi, e lì si era giustamente criticato il capo del governo e il ministro dell'Interno che anche qualora non fossero direttamente responsabili, hanno però il compito di vigilare. Per fortuna non si sono invece usati metodi cileni l'altro ieri a Milano, dove la situazione avrebbe potuto degenerare. Se così fosse stato fatto a Genova, probabilmente Carlo Giuliani sarebbe ancora vivo. E non avremmo avuto il richiamo della Corte di Strasburgo per ciò che è accaduto alla Diaz e a Bolzaneto. È come se godessimo di cattiva memoria o come se, a seconda delle occasioni, fossimo pronti a sposare una tesi o l'altra. Forse però la verità è un'altra ancora: da Genova a oggi assistiamo a una profonda crisi della politica e della cultura. Se ieri ci arrabbiavamo per la violenza della polizia, oggi la invochiamo e chiediamo le dimissioni di un ministro non abbastanza cattivo. Tante sarebbero le ragioni per criticare l'operato di Alfano, non per i fatti di Milano. Invece è come se la voglia di manette avesse contagiato anche quella sinistra che prima non credeva nella punizione, ma nel cambiamento. Da Genova in poi siamo peggiorati anche da questo punto di vista. Giustizia: i black bloc erano stati denunciati e rilasciati nei giorni precedenti di Carlo Bonini La Repubblica, 3 maggio 2015 Il Pd: "Basta alibi, approviamo le nuove norme sull'arresto in differita, come nel calcio". C'è un "prima" nei fatti di Milano che spiega molto di quanto è accaduto il pomeriggio del primo maggio. Ed è una storia che non racconta né di sciagurate scelte di ordine pubblico, né di inefficienze imperdonabili del sistema di prevenzione degli apparati della nostra sicurezza. Ma di un Paese dove la violenza sociopatica di pochi (due giorni fa un centinaio di "neri", neppure due mesi fa, un'orda alcolizzata di hooligans del Feyenoord in trasferta a Roma rimpatriati con un buffetto dopo aver devastato la "Barcaccia") trova regolarmente spazio nel vuoto garantito da buchi legislativi, da singolari pronunce della magistratura ordinaria, dalla certezza che l'Italia sia territorio sostanzialmente "franco" per i professionisti della violenza. Accade infatti che i brogliacci della Polizia di Prevenzione documentino come, tra la mattina del 28 aprile e la sera del 30, il lavoro di indagine per togliere dalla strada chi sulla strada cercava la guerra sia stato di fatto annichilito. Consentendo a un piccolo esercito di francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi e a qualche decina di "neri" di casa nostra di passare indenni attraverso la rete di controlli in cui pure erano rimasti impigliati. È una sequenza istruttiva. La mattina del 28 aprile, la Digos di Milano fa irruzione in quattro stabili occupati da militanti della cosiddetta "area antagonista". Le informazioni raccolte dal Viminale e condivise con le polizie di Parigi, Berlino, Madrid, indicano che lì hanno trovato ospitalità i "neri" scesi in città per un pomeriggio di devastazione. L'indicazione è esatta. La perquisizione mette le mani su un piccolo quanto significativo arsenale. Maschere antigas, petardi, bombe carta, caschi integrali, martelli da scasso. Vengono identificati e denunciati a piede libero 6 cittadini italiani (la legge non ne consente né il fermo, né l'arresto) e 20 stranieri. Sono tutti senza documenti. Perché tutti in Europa sanno che se si vuole venire a fare un po' di casino in Italia la prima regola è mettersi nelle condizioni di non essere identificati. Tredici parlano francese, altri tedesco. I tedeschi hanno un problema in più. Nella macchina con cui hanno raggiunto Milano, trasportano un singolare bagaglio a mano. Due taniche di benzina, decine di stoppini per molotov, due mazze con anima d'acciaio. Il proprietario della macchina viene arrestato. Per i suoi compagni di viaggio, insieme ai tredici francesi, viene chiesta l'immediata espulsione dal Paese. Il tempo a disposizione per decidere è 12 ore. Che passeranno inutilmente. Il Consolato Francese a Milano, decisivo per l'identificazione dei fermati, lascia che il tempo trascorra senza offrire una sola indicazione. Un giudice di pace non convalida né i fermi, né i provvedimenti di espulsione. Francesi e tedeschi tornano a piede libero il giorno stesso del loro fermo. Il 29 aprile, secondo giorno di perquisizioni. Vengono "visitati" altri quattro immobili occupati. E anche questa volta la pesca è a colpo sicuro. Viene trovato il solito armamentario da casseur. Caschi, mazze di legno, filtri antigas. Nove italiani vengono denunciati a piede libero e rispediti nei comuni di residenza con foglio di via obbligatorio. Ma la sorpresa - diciamo così - è che in un grottesco gioco di guardie e ladri, con loro, vengono trovati gli stessi tre tedeschi per i quali, poche ore prima non era stata convalidata l'espulsione. La sera di quello stesso giorno, ancora un fermo. Ancora dei tedeschi. Su un furgone, tre ragazzi trasportano 58 bombolette di vernice spray e dei passamontagna. Anche per loro viene chiesta l'espulsione. E, anche per loro, l'espulsione non verrà convalidata dal giudice di Pace. "Siamo semplici writers", dicono. Vengono creduti sulla parola. Né va peggio a 2 francesi che, il 29 sera, durante un controllo vengono trovati con due coltelli, taniche di benzina vuote in macchina e stoppini per molotov. O al francese e all'inglese, che, non lontano da via Solferino, girano in macchina con un po' di mazze da baseball. Per tutti, una denuncia a piede libero e un invito ad allontanarsi dal Paese. Un invito. Che evidentemente non deve essere troppo convincente, visto che il 30 mattina, durante una terza perquisizione - questa volta nella case Aler di via de Pretis - altri dieci "neri" (8 italiani e 2 spagnoli) vengono trovati con la loro collezione di mazze (70 di legno, 10 di ferro), caschi integrali (8), estintori (2) e coltelli (2). Sostengono fonti qualificate di Polizia che i francesi "graziati" il 28 aprile siano stati rivisti in piazza il pomeriggio del primo maggio. Per fare il "lavoro" per cui erano scesi in città. Dunque? "Dunque - dice ora Emanuele Fiano, responsabile per le questioni della sicurezza della segreteria nazionale del Pd - i tempi sono più che maturi per un cambio di passo. È necessario approvare in tempi brevi nuove norme sul fermo in flagranza differita di reato, come accade nel calcio. Norme che consentano alla polizia e anche alla magistratura di avere strumenti efficaci che non vanifichino la prevenzione e consentano di togliere dalla strada i violenti. Senza se, senza ma e senza alibi". Giustizia: una guerriglia annunciata ma era impossibile fermarli prima di Silvia D'Onghia Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2015 Sa cosa rispondo a chi adesso ci dice "dovevate prenderli prima"? Che finché viviamo in uno Stato democratico, la polizia risponde alla legge. E la legge impedisce gli arresti preventivi". Tiene la linea un alto funzionario del Dipartimento di Pubblica sicurezza e non accetta provocazioni: "Volete davvero che si torni alla legge Reale nella sua integrità e al fermo di polizia? O che l'istituzione tenuta a far rispettare la legge sia la prima a violarla? La democrazia vale per tutti, non ci sono eccezioni". Il giorno dopo la guerriglia, la devastazione, lo scempio operato da un gruppo di 500 incappucciati per le vie del centro di Milano, senza che una sola testa sia stata spaccata, lo stesso capo della polizia difende la strategia adottata: arginare i danni, non cadere nelle provocazioni dei violenti, tenere bassi i manganelli, evitare lo spargimento di sangue. "Il fatto che le forze dell'ordine abbiano atteso e lasciato che alcune azioni violente venissero compiute - ha commentato ieri il prefetto Alessandro Pansa - è una scelta fatta a monte. Noi infatti, grazie all'attività di intelligence, sapevamo benissimo che gli obiettivi dei manifestanti violenti erano ben altri: volevano fare danni molto maggiori, raggiungere piazza Duomo e la Scala, distruggere i simboli di Expo disposti nella città". E allora a chi sostiene che i violenti ("teppistelli figli di papà" ha detto il premier Renzi, con una definizione che stona parecchio con le immagini di roghi e barricate) potevano essere fermati, la polizia contrappone la rigidità del "lecito". Suddiviso persino in una scansione temporale: prima, durante, dopo. La legge impedisce gli arresti preventivi: quindi, anche qualora fossero stati individuati nei giorni precedenti singoli soggetti potenzialmente pericolosi, più che tenerli d'occhio a distanza e mettere sotto controllo i loro telefoni non si poteva fare. "Abbiamo operato numerose perquisizioni - racconta ancora l'alto funzionario - e sequestrato materiale contundente. Questo ha fatto arrivare un segnale preciso, ma già così in quelle ore siamo stati accusati di aver esagerato". Quello che la polizia è riuscita a fare - stavolta a differenza di altre - è stato individuare l'obiettivo di questi gruppi. Grazie ai contatti con l'Interpol e ai servizi segreti, si è compreso che i black bloc avrebbero voluto colpire i luoghi simbolo della cultura milanese e italiana, come il Duomo e la Scala, e per farlo avrebbero tentato di attirare in trappola le forze dell'ordine: veniteci a prendere in mezzo al corteo, così voi fate una mattanza e noi riusciamo a passare indisturbati. "Abbiamo scelto di non caricare - prosegue il funzionario, perché avremmo dovuto farlo su interi pezzi del corteo pacifico: le operazioni chirurgiche in questi casi non sono ipotizzabili. Dovete comprendere che non si tratta di gruppi organizzati che fanno capo a pochi leader, ma di individualità molto forti sparse per Francia, Spagna, Grecia, Italia. Conoscono benissimo le tecniche di indagine, motivo per cui non si scambiano informazioni al telefono, e conoscono le regole della guerriglia urbana. I più noti poi, sono bravissimi a reclutare ragazzini sconosciuti da mandare in prima linea". Non solo: per il Trattato di Schengen i cittadini europei sono liberi di circolare e quindi l'Italia non avrebbe potuto, da sola, sospendere gli accordi e controllare tutte le frontiere. Sempre ammesso - e, allo stato delle indagini, non concesso - che i violenti siano arrivati per lo più dall'estero (alcune espulsioni di cittadini europei, peraltro, non sono state convalidate). Sul "dopo", il ragionamento fatto nelle stanze del Viminale ci riporta alla questione centrale: si potrebbe applicare anche alle manifestazioni di piazza il cosiddetto "arresto differito" previsto per il calcio: la flagranza di reato vale 48 ore. Ma, appunto, servirebbe una nuova legge. Se Renzi ha parlato di "teppistelli", il ministro Alfano, difendendosi da chi ne chiede - ancora una volta - le dimissioni, ha dichiarato di aver visto "farabutti con il cappuccio e figli di papà con il Rolex. Abbiamo rischiato un altro G8, ma abbiamo evitato il peggio". E a proposito del G8 di Genova, la nuova linea della polizia, oltre a non essere piaciuta a molti reazionari, non è andata a genio ai tanti "siamo tutti Tortosa" (l'agente che si è fatto sospendere per aver scritto su Facebook di voler "rientrare alla scuola Diaz mille e mille volte"). Sui profili e sui forum si sprecano i "C'era una volta la polizia... ma è successo tanto tempo fa". "Sparare, sparare e ancora sparare... in America sarebbero già all'obitorio" e i messaggi a Pansa: "Dare del cretino a un agente che sbaglia, poche ore. Intervenire per un ‘mi piacè, mezza giornata. Dare solidarietà a un agente ustionato da una molotov, non pervenuto" (riferimenti al poliziotto che passò su una manifestante a terra, stigmatizzato da Pansa tempo fa, ai commenti al post di Tortosa costati il posto a un funzionario e a un episodio di ieri, ndr). Il sindacato Coisp tende la mano alla "delusione" e alla "frustrazione" e si scatena sulle "torture di cui non frega nulla a nessuno", cioè le violenze contro i poliziotti. I duri e puri non mollano facilmente. Aiutati dal sempreverde Salvini, che ieri da Genova ha fatto sapere: "Se divento io premier, la gente con casco e spranga viene arrestata dopo venti metri". Giustizia: 5 arrestati, l'accusa di devastazione. Secondo la Procura i responsabili sono 500 di Federico Berni e Andrea Galli Corriere della Sera, 3 maggio 2015 L'"ideologia" dei violenti, sintetizzata da un manuale di guerriglia scritto dagli anarchici greci in galera, punta genericamente a colpire il "potere", rappresentato da "banche, capi, ricchi, giornalisti". Venerdì hanno devastato i luoghi di Milano. Ma non volevano risparmiare le persone. Antonio D'Urso, che dirige il commissariato di Quarto Oggiaro, è stato circondato da sei persone, bastonato alle spalle, in testa, sul volto. Succedeva nei momenti più duri della battaglia. Cinque persone erano state subito arrestate. Altre 33 sono state denunciate tra venerdì sera e ieri mattina. Secondo la Procura di Milano, i responsabili della distruzione sono stati cinquecento. Di questi, due terzi italiani. Il resto sono francesi, tedeschi, spagnoli: hanno trovato appoggio logistico nei covi anarchici, nei "fortini" delle case popolari dove le sigle ingannano la povera gente per averla poi in forza al proprio servizio. Gli stranieri erano arrivati in città tre giorni prima del corteo, ed erano stati intercettati dalle azioni preventive della Questura. Non tutti. Altri potrebbero essersi fermati a ridosso di Milano, per avvicinarsi in tempo con la manifestazione. I denunciati, bloccati da poliziotti, carabinieri e vigili, sono italiani. Vengono da Napoli, dal Piemonte, dal Trentino. Sono stati intercettati in fuga: chi nelle stazioni del metrò, chi in quelle ferroviarie, chi ancora ai terminal dei bus. Negli zaini c'erano maschere antigas, bombe carta, caschi, felpe e sciarpe nere, fumogeni, bengala. Nelle loro case sono partite le perquisizioni. Altri controlli ci saranno, nelle prossime ore e nelle prossime settimane. Non per forza lontano, anzi: gli anarchici milanesi hanno pesanti responsabilità. Sono stati complici. Sapevano dei propositi dei violenti e non hanno fatto niente per isolarli. Nella guerriglia, li hanno pure sostenuti, coperti. Adesso si attende la convalida dei cinque arrestati, tre dei quali noti per reati vari. Non sempre, finora, i giudici hanno "confermato" le operazioni delle forze dell'ordine. Un tedesco, obbligato all'allontanamento in quanto trovato con maschere antigas e bombolette spray, è rimasto qui. Nessun ordine di lasciare la città. Il giudice non l'ha ritenuto opportuno. Le bombolette spray? Servivano per far graffiti. La maschera antigas? Per proteggersi dai fumi delle vernici. Non è escluso che il tedesco, uno con la fedina penale sporca da quand'era ragazzino, abbia partecipato al corteo, che ha provocato il ferimento, oltre a D'Urso, ieri prontamente al lavoro, di dieci carabinieri e poliziotti (un agente, che ha avuto la gamba avvolta dalle fiamme d'una molotov, ha ricevuto la telefonata del capo della polizia Alessandro Pansa). Nessun contuso per i violenti, seguiti a breve distanza nei momenti più concitati dal pool di avvocati "Legal team". Appena un poliziotto fermava un devastatore gli si facevano addosso per pretendere una spiegazione. Giustizia: quei ragazzi italiani per il Jihad di Paolo Biondani L'Espresso, 3 maggio 2015 Due amici cresciuti a Milano. Poi uno è finito a San Vittore ed è stato indottrinato. Ora sono partiti insieme e combattono per il califfato. I tagliagole del califfato riescono ad arruolare giovanissimi anche in Italia. Ragazzini cresciuti a Milano, tra scuole e parrocchie, che all'improvviso spariscono, per andare a combattere la cosiddetta guerra santa in Siria. E ora pubblicano su Facebook le loro foto da guerriglieri, con un pesante kalashnikov in spalla. Fieri di mostrare al mondo di Internet il loro "documento ufficiale di arruolamento nello Stato Islamico". Tra i miliziani dell'esercito nero che sta seminando il terrore in Siria e in Iraq, da un paio di mesi sembrano aver trovato spazio altri due "combattenti stranieri" partiti dall'Italia. Per quanto se ne sa, sono i più giovani integralisti che abbiano mai scelto la strada del jihad nel nostro Paese. Almeno uno di loro, il più duro, si è radicalizzato in un luogo in teoria deputato a fermare ogni violenza criminale: un carcere simbolo come quello di San Vittore a Milano. I due ragazzini-soldato si chiamano Monsef e Tarik e sono da poco maggiorenni. Nati in due diverse città del Marocco, erano arrivati in Italia da bambini, separatamente. Insieme hanno fatto le scuole medie a Milano, dove hanno ancora decine di amici. Attorno al 2010, quando avevano poco più di 14 anni, sono rimasti senza famiglia, uno dopo l'altro, per dolorose ragioni private. A quanto raccontano loro stessi su Internet, a quel punto è intervenuto il tribunale dei minori, che li ha affidati a una delle migliori comunità di accoglienza dell'area milanese, fondata da un sacerdote cattolico e diretta da personale specializzato italiano. Fino all'anno scorso, nessuno dei due ragazzini sembrava interessato a questioni religiose e tantomeno alle armi. Dopo tanti anni di lontananza dal Marocco, con pochi e difficili rapporti con le famiglie d'origine, ormai sembravano due giovani occidentali: vestivano come i loro coetanei milanesi, usavano Internet per scambiarsi innocui video musicali, battute di comici, foto di ragazze, messaggi tra amici. Il più giovane, Tarik, viene descritto da chi lo frequentava come un ragazzo pacifico, sensibile, un po' timido, che non ha mai creato problemi a scuola o nella casa-alloggio per minori dove ha vissuto per anni. Monsef invece tendeva a fare il ribelle. Si dava le regole, violava i precetti del buon musulmano, beveva alcolici, si atteggiava a bullo. Circa un anno fa è finito in un giro di droga. Dopo aver compiuto diciotto anni, è stato arrestato. E rinchiuso a San Vittore. Dove molto probabilmente ha trovato qualcuno che lo ha cambiato. Un cattivo maestro del jihad "made in Italy". Di certo, quando esce dal carcere di Milano, Monsef è trasformato. Non beve più, condanna ogni tipo di droga, ha smesso anche di fumare sigarette. Prega cinque volte al giorno. Parla solo del Corano. Cerca di indottrinare i coetanei predicando una visione integralista che è estranea alla tradizione musulmana moderata che caratterizza il Marocco. Prima dello choc di San Vittore, dice chi lo conosce, Monsef non era certo il tipo da fare discorsi religiosi: è il carcere che lo ha trasformato. Ma in cella quel ragazzino non aveva cellulari o computer, per cui non poteva collegarsi a Internet per subire l'influenza di lontani predicatori jihadisti. Dunque è stato radicalizzato da qualche altro detenuto. Che forse è ancora all'interno di San Vittore. Fatto sta che, quando viene scarcerato, Monsef usa Internet in modo molto diverso da prima. Circa sei mesi fa comincia a scaricare e diffondere inni alla guerra santa. Tra ottobre e dicembre rilancia su Facebook "il video dei combattenti stranieri che bruciano i loro passaporti per creare uno Stato Islamico"; invita a "vedere" i fotomontaggi con le bandiere nere del Califfato che sventolano sul Colosseo o sulla Torre Eiffel; consiglia i sermoni incendiari di un predicatore saudita bandito dalla Gran Bretagna: "Siria, la vittoria sta arrivando". Nella lista dei preferiti inserisce "l'organizzazione Stato Islamico". E clicca "mi piace" sull'appello di uno sceicco kuwaitiano contro il dittatore siriano: "Dove sono le vostre armi? Perché non sostenete il jihad contro il nemico Assad?". Non manca un "selfie" di Monsef in tunica nera e copricapo bianco che punta un indice accusatore. Tra gli amici musulmani di Milano, solo Tarik si fa influenzare dal suo compagno di scuola e di comunità. I due ragazzini organizzano il viaggio in silenzio, ai primi di gennaio, negli stessi giorni degli attentati di Parigi: stragi organizzate da terroristi nati in Francia, radicalizzati in carcere e addestrati tra Siria e Yemen. Probabilmente seguono la stessa rotta di decine di altri jihadisti partiti dall'Italia: un biglietto aereo per Istanbul, il veicolo di un fiancheggiatore per varcare il conine. Quando entrano in Siria, hanno appena 19 anni. Il 18 gennaio, alle 23.31, Monsef mette in rete una foto: è con l'amico su un pullman. Il messaggio è eloquente: "Verso la strada di Allah". Il giorno dopo, spiega di aver "incontrato un fratello che ci ha aiutato: è veramente un leone, che Allah lo benedica". Un amico con un nome arabo gli scrive preoccupato in italiano: "Ma dove sei?". Poi c'è un black-out che dura due mesi e mezzo. Le indagini internazionali spiegano che le reclute del Califfato in arrivo dall'Europa vengono messe sotto esame e poi smistate in diversi campi di addestramento specializzati: per i più giovani e inesperti, da mandare in guerra come carne da cannone, il "corso" di combattimento dura solo 45 giorni. In quel periodo cellulari e computer vengono sequestrati dai capi istruttori dell'esercito nero. Monsef ricompare su Internet l'undici aprile 2015. Nella prima foto è da solo, seduto in un veicolo militare, con un kalashnikov tra le braccia. Nella seconda, che diventa il suo profilo su Facebook, è in piedi, vestito di nero, con il mitra in spalla e un pugnale alla cintola, accanto a un altro guerrigliero armato in tuta mimetica. Le sue foto con il kalashnikov "piacciono" a otto "amici", tra cui una donna che vive in Piemonte e un ragazzo che si firma con un nome arabo ma scrive in italiano: "Allah è grande". Interpellati da "l'Espresso", i responsabili italiani dell'antiterrorismo si limitano a dire che "erano già informati" della vicenda di Monsef e Tarik, ma non possono fornire particolari perché c'è un'inchiesta in corso. A Milano la Procura indaga da mesi su diverse organizzazioni di reclutamento. I carabinieri del Ros seguono le tracce di una donna di origine albanese che ha lasciato il marito, immigrato regolare a Lecco, per fuggire in Siria con il figlioletto maschio di pochi anni. I poliziotti della Digos indagano su una spaventosa rete jihadista che punta a reclutare per la guerra in Siria anche italiani convertiti all'Islam: uomini e donne da immolare al Califfo. In questi giorni i due ragazzini partiti dalla Lombardia hanno pubblicato un'altra foto dal fronte siriano. C'è una mano che mostra un documento plastificato, intestato a Monsef: nome, cognome, luogo e data di nascita, rilascio e scadenza, gruppo sanguigno. In alto c'è il simbolo dell'autorità che ha emesso il documento: "Stato Islamico". Giustizia: il Papa telefona a Emma Bonino; parlano di carceri, migranti e diritti umani Alessandra Arachi Corriere della Sera, 3 maggio 2015 Nel gergo vaticano si chiamano "telefonate personali", quelle che il Santo Padre fa per un suo sentire intimo e non per doveri di protocollo. L'altro pomeriggio papa Francesco ha alzato la cornetta per chiamare Emma Bonino (nella foto Ansa). È stata la stessa leader storica radicale a diffondere la notizia: "Ho ricevuto una chiamata da Sua Santità papa Bergoglio. Una telefonata tanto inaspettata quanto graditissima. Un segno di attenzione straordinaria di cui sono molto, molto grata". Lo scorso anno papa Francesco aveva già chiamato Marco Pannella. Quella volta era stato per far interrompere al leader radicale lo sciopero della fame e della sete che stavano compromettendo seriamente la sua salute. Questa volta il Santo Padre ha voluto sapere delle condizioni di salute di Emma Bonino, che qualche tempo fa ha dichiarato di stare combattendo contro un tumore. Ha raccontato Emma Bonino: "Il Papa mi ha incoraggiato a tenere duro, cosa che sto facendo con tutte le mie forze. Mi ha rinnovato l'impegno a tenere duro perché poi l'erba cattiva non muore mai, ma mia madre diceva che sono un'erba resistente, cattiva no". Da sempre i radicali, ed Emma Bonino in testa, non si muovono esattamente nel solco delle linee clericali. Della leader storica Emma Bonino, poi, si possono ricordare attivissime battaglie di diritti laici, tra queste, quella sul divorzio prima e sull'aborto, poi. Ma per papa Francesco queste non sono state un ostacolo. "Abbiamo parlato di migranti, povertà e del Mediterraneo", ha detto ancora Emma Bonino aggiungendo di aver esposto al Santo Padre anche il problema delle carceri italiane. "Gli ho ricordato che i migranti, se mai riusciamo ad accoglierli, poi li mettiamo in carcere e per questo le carceri sono piene. E poi gli ho ricordato anche la conversazione che abbiamo avuto nell'aprile dello scorso anno e che poi propiziò la sua telefonata a Marco Pannella, all'epoca in clinica allora per un difficile intervento. Ho detto al Santo Padre che, in ogni caso, Pannella e i radicali continuano su questo fronte di attenzione: sulle carceri, ma anche allo stato di diritto e ai più poveri". Emma Bonino nella telefonata con il Santo Padre ha voluto ricordare Marco Pannella perché proprio ieri era il compleanno del leader radicale che ha compiuto ottantacinque anni. Ha spiegato Emma Bonino: "Ognuno ha un suo modo per fare gli auguri a Marco, io penso in questa maniera di aver trovato uno che gli faccia piacere". Lazio: nonostante le rassicurazioni del Dap continuano trasferimenti dall'AS di Rebibbia Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2015 Dopo gli attori che hanno vinto l'Orso D'Oro, lo sfollamento tocca al responsabile del circolo Arci Uisp. Nonostante le rassicurazioni del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria un ulteriore colpo arriva a quel sistema di attività ricreative e trattamentali che aveva fatto dell'Alta Sicurezza di Rebibbia Nuovo Complesso un esempio per le carceri di tutta Italia. Nelle ultime ore, infatti, è stata diffusa la notizia del trasferimento ad Asti, "per motivi di sfollamento", di un altro detenuto storico della sezione: Antonio Giannone, presidente del Circolo interno Arci Uisp, attore e studente universitario. La notizia è stata confermata da Angiolo Marroni, già Garante dei detenuti del Lazio, oggi presidente della neonata associazione Onlus Articolo 27, dedicata alla tutela dei diritti delle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale. Nelle scorse settimane Marroni aveva denunciato lo sfollamento di 5 detenuti storici dell'Alta Sicurezza di Rebibbia fra i quali il capocomico della Compagnia teatrale Liberi Artisti Associati, Antonio Frasca (trasferito a Parma, dove è tutt'ora recluso). L'esperienza della compagnia aveva ispirato il film Cesare deve morire dei fratelli Taviani, vincitore 3 anni fa dell'Orso d'Oro al Festival di Berlino, con i detenuti chiamati ad interpretare se stessi. "Un mese fa avevo denunciato quella che reputavo fosse una scelta sbagliata - ha detto Marroni - che rischiava di scrivere la parola fine ad una grade esperienza umana ed artistica. Per altro, sono stati trasferiti anche detenuti iscritti all'Università. Una decisione poco comprensibile, visto che il Ministero ha indicato l'Alta Sicurezza di Rebibbia come riferimento nazionale per i detenuti che intendono frequentare corsi universitari. L'intervento ufficiale dei vertici del Dap sembrava aver scongiurato questa minaccia, ma la mancata revoca dei trasferimenti già decisi e, oggi., lo sfollamento del presidente del Circolo Arci ripropongono da capo la questione". Marroni ha contestato la logica dei trasferimenti. "Non sono contrario agli sfollamenti - ha detto - purché fatti con raziocinio e nel rispetto dei diritti dei reclusi. Nel caso di specie, con il generico riferimento ad operazioni di messa in sicurezza si giustifica un'operazione senza fondamento che, di fatto, scrive la parola fine ad un'esperienza trattamentale coraggiosa e ricca di risultati. Il nodo non è solo spostare, per motivi burocratici, detenuti da una parte all'altra d'Italia per far quadrare i conti rispetto ai dettami di Strasburgo. Questi trasferimenti decapitano un sistema che funziona e vanno a punire persone detenute da tempo a Rebibbia N.C., che avevano fatto del Teatro e dell'Università una ragione di riscatto personale e sociale". Veneto: a Nogara (Vr) contestato in Consiglio comunale il Centro per detenuti psichiatrici L'Arena di Verona, 3 maggio 2015 Minoranze all'attacco del sindaco Luciano Mirandola per contrastare la costruzione della nuova "Rems" (Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza) destinata ad ospitare a Nogara ex detenuti psichiatrici. Nel consiglio comunale convocato su richiesta delle minoranze sono emerse tutte le posizioni critiche e nettamente contrarie al progetto portato avanti da Comune, Ulss 21 e Regione per realizzare una struttura in grado di accogliere 40 pazienti e già finanziata con 12 milioni di euro dallo Stato. "La Rems", ha accusato l'ex sindaco Oliviero Olivieri, "non è stata condivisa con i cittadini e c'è un forte malcontento per il timore di problemi legati alla sicurezza Nogara è diventato il salvagente per un progetto che altri Comuni del Veneto hanno bocciato". Secco no al centro è arrivato anche dal leghista Simone Falco, che ha addirittura preso le distanze dall'assessore regionale alla Sanità, Luca Coletto, che milita nel suo stesso partito. "Non vogliamo la Rems a Nogara", ha attaccato l'esponente del Carroccio, "per il bene del paese. Non si capisce il perché questo progetto debba essere fatto proprio qui". Critico, seppure su posizioni diverse dai colleghi di minoranza, anche il grillino Mirco Moreschi, che ha ribadito l'opportunità di realizzare la "Rems" nell'ex ospedale Stelli-ni invece di sprecare terreno agricolo. "Su questa vicenda", ha ribadito il rappresentante del M5S, "chiediamo un referendum consultivo promosso dal Comune". Agli strali delle minoranze ha replicato il sindaco Luciano Mirandola sostenendo "l'importanza della Rems per il paese e per la riconversione dello "Stellini". "Ci assumiamo tutte le responsabilità di questa scelta che racchiude una grande opportunità perii paese", ha tuonato il primo cittadino. "Abbiamo intrapreso una strada per dare una risposta a chi è emarginato e a chi soffre di disagi mentali. Come può il consiglio comunale dire che si crea un danno a Nogara con un investimento di 12 milioni di euro a cui se ne aggiungeranno altri 15 per il funzionamento della struttura?". "Lo Stellini", ha aggiunto, "era un contenitore vuoto da anni e ora si sta riempendo con una vocazione rivolta al sociale. Comunque, di questa questione ne ha già parlato il consiglio comunale un anno fa e sono stati fatti quattro incontri pubblici". Sull'argomento sono poi intervenuti anche alcuni cittadini presenti in sala, che hanno rivolto critiche a Olivieri per la sua posizione contraria. Il sindaco è stato invece messo sotto torchio da due militanti grillini, che hanno contestato l'iniziativa e in particolare il fatto che nella delibera regionale di approvazione della Rems si paria di demolizione dei rustici adiacenti all'ex ospedale. Circostanza smentita dallo stesso Mirandola. Palermo: un "viaggio statistico" nelle carceri italiane premiato al concorso di matematica La Repubblica, 3 maggio 2015 Lo hanno intitolato "La realtà dietro le sbarre" il progetto dedicato ad un simbolico viaggio nel sistema carcerario italiano visto con gli occhi di un detenuto e con il quale un gruppo di giovani studenti ha vinto il primo premio per la categoria junior del concorso nazionale per la migliore presentazione multimediale nell'ambito del progetto "Matematica e Realtà", promosso dal dipartimento di Matematica dell'università di Perugia, che, in sintonia con la Matematica per il Cittadino, le indicazioni del Miur per i nuovi curricula, e le indagini Invalsi e Ocse-Pisa, propone un'innovazione didattica basata sull'introduzione elementare alla modellizzazione matematica. Voltaire diceva che "Il grado di civiltà di una nazione si misura attraverso lo stato delle sue carceri", e cosa direbbe oggi il filosofo francese se entrasse nei nostri penitenziari? È questa la domanda che si sono posti gli alunni Luisa Alfisi, Giuditta Bucalo, Silvia Ferrera, Sergio Gallo, Carmelo Pecoraro, Sofia Ravaglioli, Erika Stassi, Andrea Strazzeri e Matteo Volante del quinto ginnasio del liceo Garibaldi di Palermo. Per rispondere gli studenti hanno condotto un'indagine sotto la guida della professoressa Alessandra Provenzano. Presi in esame i dati sulla presenza media dei detenuti dagli anni 60 fino ai nostri giorni è stata calcolata una funzione matematica che ne descrivesse l'andamento e potesse fornire un modello di previsione, quindi i numeri agghiaccianti del sovraffollamento carcerario che a fronte di una capienza regolamentare di quasi 45.000 unità ne ospita più di 68.000, con punte di un surplus in alcune regioni del 50% di presenze. A questo allarmante dato si affianca il terribile fenomeno dei suicidi: gli studenti hanno stimato, nell'ultimo ventennio, in una scala da 1: 10.000 una media di circa 10,18 decessi a fronte di 0,51 ogni 10 mila abitanti tra la popolazione libera. Dunque circa 20 volte superiore. È stata elaborata allora una funzione matematica che descrivesse il grado di vivibilità delle nostre carceri mettendo a confronto i suicidi tra la popolazione libera e quella sottoposta a regime carcerario. Ma l'indagine si è spinta oltre: è stato calcolato il costo giornaliero per ogni detenuto, dividendo la somma totale che ha a disposizione l'amministrazione penitenziaria per il numero medio di detenuti presenti in Italia, e poi per 365 giorni in un anno pervenendo così a circa 138 euro al giorno. Tuttavia, escludendo le voci per il personale penitenziario e per la sanità, i giovani studenti hanno stimato che si arriva all'irrisoria cifra di 13 euro al giorno che rappresenta il costo effettivo spettante ad un detenuto. L'unica soluzione che in questo disarmante quadro ritengono praticabile gli studenti è sfruttare al massimo la legge Smuraglia e incentivare il lavoro presso la popolazione detenuta. Infatti è stato dimostrato che 7 detenuti su 10 incorrono nella recidiva (circa il 68%) con uno spreco di risorse da parte dello stato di circa 6 miliardi di euro, mentre solo il 4% di essi torna a delinquere se durante il periodo di detenzione ha avuto la possibilità di lavorare. Trascorrendo dunque la propria pena immersi in un "nulla" senza fine un detenuto, che innanzitutto è un essere umano, non avrà mai la possibilità di riabilitarsi né dinanzi alla società né rispetto alla propria coscienza ma attraverso il lavoro che possa ridare dignità alla persona. Milano: Assessore regionale Parolini; ottima iniziativa Pensando Expositivo a San Vittore Askanews, 3 maggio 2015 "Affiancare alla grande Esposizione di Rho, l'Expo del carcere di San Vittore, con i prodotti delle Cooperative che lavorano all'interno delle strutture penitenziarie non è un'idea bizzarra, piuttosto un'iniziativa che consente di capire che non c'è una società che funzioni se non tiene conto di tutti i fattori che la compongono. E tra questi c'è anche la necessità di recuperare chi ha sbagliato, perché questo deve essere lo scopo della pena detentiva". Lo ha detto l'assessore al Commercio, Turismo e Terziario di Regione Lombardia Mauro Parolini nel corso della visita a Pensando EXPOsitivo. Pensando EXPOsitivo è una speciale esposizione dei prodotti realizzati dalle Cooperative che lavorano all'interno degli Istituti penitenziari, inaugurata ieri nel primo Raggio della Casa Circondariale di San Vittore, a Milano, in concomitanza con l'Expo di Rho. "A Pensando EXPOsitivo c'è un po' di tutto - racconta l'assessore - dal tessile, all'alimentare, tutte le attività produttive legate al cibo e all'ambiente, in piena coerenza con il tema di Expo. Ma soprattutto - sottolinea Parolini - è un'occasione importante per un recupero dei detenuti. I dati, infatti, parlano chiaro: in carcere chi è coinvolto, chi impara un mestiere, chi ha modo di trovare un graduale reinserimento nella società, ha una recidività molto bassa". "Ecco che allora - ha concluso l'assessore - favorire la messa in comune di queste iniziative, farle conoscere fuori dal circuito in cui normalmente si muovono, è fondamentale. E qui entra in gioco il ruolo di Regione Lombardia e dell'Assessorato che rappresento, perché si possono trovare forme che favoriscano anche la commercializzazione di questi prodotti, dandogli maggior rilievo, anche economico, rendendoli più stabili e quindi più efficaci". Verbania: la Banda Biscotti, una seconda opportunità in carcere www.ilgiornaledigitale.it, 3 maggio 2015 Il nobile lavoro dei detenuti da luogo a produzioni di vario genere. La banda biscotti produce piccole delizie per il palato, con cura e incredibile passione. Ognuno di noi si trova a dovere fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni, ma per fortuna solo alcuni sono costretti a doverlo fare dentro una cella. Pensare al carcere significa, il più delle volte, immaginare un luogo degradato e asfittico, nel quale qualsiasi forma di vita viene meno per dare spazio all'espiazione di una colpa. La situazione delle carceri italiane non è certo idilliaca, ma sicuramente neanche la peggiore; l'obbiettivo della detenzione dovrebbe essere quello di riabilitare il colpevole, di umanizzarlo e renderlo di nuovo "a portata di mondo". Se è vero che in alcune celle non c'è spazio per la vita e le sue gioie, né per una degna forma di riabilitazione, è vero anche che in alcune strutture il tempo dei detenuti viene sfruttato in maniera dignitosa e utile, ovvero attraverso l'esercizio di un lavoro. In molti luoghi di detenzione i detenuti svolgono attività manuali, dando luogo alla produzione di beni come vestiti, utensili e alimenti. Ne sanno qualcosa gli appartenenti alla Banda Biscotti, ovvero quei detenuti che producono piccole delizie per il palato trasformando il carcere in un luogo di opportunità per la rinascita interiore di chi nella vita ha commesso un errore. Queste anime invisibili, macchiate da azioni riprovevoli, si mettono in gioco per rinascere eticamente; nelle carceri si producono magliette, caffè, oggetti di design, borse e stampe. L'obbiettivo principale non è quello di trarre profitti, bensì quello di ricercare la qualità. Nel caso della Banda Biscotti le specialità incontrano i gusti di tutti: dai golosi baci di Dama alle deliziose mini polentine a base di farina di mais. Sul sito www.bandabiscotti.it, queste persone invisibili si presentano così: "Abbiamo scelto di produrre biscotti all'interno del multiforme mondo della pena; creiamo golosità artigianali da dietro le sbarre impiegando materie prime accurate e non aggiungendo altro se non la passione per il nostro lavoro e la voglia di migliorarci giorno dopo giorno. Investiamo nelle persone, nel loro potenziale, nella loro voglia di riscatto e di senso. Ognuno dei nostri biscotti ha una storia particolare, che è la storia delle mani che li hanno trasformati una storia fatta di eredità, di passati tortuosi, di resistenza in presenti di distacco e fatica di attese di futuri migliori. Ad ognuno di noi deve poter essere concessa un'altra occasione per ricominciare, perché la vita non si ferma ai reati, alle sentenze e alle punizioni". Può un biscotto cambiare una vita? Probabilmente si. La dignità umana è fatalmente legata al lavoro e alle opportunità, senza le quali ciascuno verrebbe sputato via dalla comunità al primo accenno di debolezza. Degli oltre 60 mila detenuti italiani purtroppo solo 2 mila hanno l'opportunità di lavorare e rendersi utili per la società. Il progetto de La Banda Biscotti sorprende e intenerisce chi ne viene in contatto; offre uno spunto insostituibile per una riflessione sulle seconde possibilità, non sempre possibili, ma che dovrebbero essere teorema, e non semplice corollario, della esistenza dell'uomo. Massa Carrara: "Il dono", le detenute minorenni dell'Ipm di Pontremoli diventano attrici Gazzetta della Spezia, 3 maggio 2015 I prossimi 8 e 9 maggio debutta al Teatro della Rosa di Pontremoli "Il dono", il nuovo spettacolo realizzato dalle ragazze dell'Istituto Penale Minorile di Pontremoli. La rappresentazione costituisce il coronamento di un lungo periodo di lavoro, durante il quale le ragazze detenute, con la collaborazione dell'associazione locale Centro Teatro Pontremoli, hanno dovuto cimentarsi con tutta la complessa macchina organizzativa, attivando, all'interno e all'esterno dell'istituto, laboratori di sartoria e maschere per la realizzazione dei costumi, laboratori di scenografia per la costruzione della scena e laboratori di movimento e di teatro per la preparazione dello spettacolo. Lo spettacolo, con la regia del bolognese Paolo Billi, le coreografie di Elvio Pereira De Assunçao e le scene di Irene Ferrari, è una rilettura de "La sagra della primavera" di Igor Stravinsky, che mette in risalto valori di particolare significato nell'ottica del percorso rieducativo/pedagogico e di risocializzazione all'interno del quale le ragazze sono inserite, come ad esempio il donare e l'agire disinteressato e la dimensione comunitaria del vivere. L'evento si colloca in un più ampio progetto culturale, volto a favorire l'apertura della struttura dell'istituto verso territorio, mediante un più ampio coinvolgimento di collaborazione tra le ragazze e le realtà istituzionali e associative della zona circostante. Bologna: "Dolce evasione", pubblicato il libro di un detenuto si che si reinventa chef di Federico Taddia La Stampa, 3 maggio 2015 Una raccolta di ricette scritte in collaborazione con la redazione del settimanale del carcere di Bologna. "Ai fornelli mi sento libero: è lì che penso al mio futuro e ho scoperto cosa significa avere una passione e impegnarsi per qualcosa che ti renda vivo". È uno chef a zero stelle ma con tanto entusiasmo Gazmend Kullav, albanese di 43 anni detenuto alla Dozza di Bologna, autore del libro "La dolce evasione", una raccolta di ricette scritte in collaborazione con la redazione del settimanale del carcere "Ne vale la pena". Nei 5 anni di reclusione, grazie ad un corso di cucina, Gaz ha scoperto di saperci fare con gusti e sapori, trasformando il fornello da campeggio e il tavolino di mezzo metro in dotazione all'interno della cella nel regno del suo talento culinario. "Cucinare piatti prelibato in questo spazio minimo è stata la mia grande sfida. Grazie alle teglie acquistate nello spaccio settimanale e con gli ingredienti giusti mi sono divertito a ideare piatti nuovi e colorati. Ho iniziato per i miei compagni di stanza, poi quando si è sparsa la voce ho attraverso un sistema di corde e fili sono riuscito a far assaggiare i miei dolci anche ai vicini di cella". Una piramide di teglie d'alluminio con cui realizzare un "forno fai da te", il manico da scopa che diventa il mattarello con cui stendere la sfoglia fresca, una bottiglia di plastica con dentro una posata di metallo da usare come frusta per montare la panna, un filo per tagliare il pan di spagna: l'arte dell'arrangiarsi è l'ingrediente segreto di Gaz, che nell'improvvisato angolo cottura mignon ha fatto esplodere tutto il suo estro. "Ci sono state giornate in cui ho passato 22 ore dentro a questi 10 metri quadrati, e l'unico modo per sopravvivere è stata la cucina. Principalmente i dolci, che sono il mio forte, molti dei quali creati per celebrare determinati momenti della quotidianità dietro le sbarre". Ecco allora le istruzioni per la "Crostata di crema", infornata mentre scriveva una lettera al figlio, la "Torta dell'amicizia", dedicata ad un tunisino finalmente libero o la "Torta dei bei sogni", per cacciare gli incubi notturni. E ancora: il "Dolce del permesso", nata quando le porte del carcere si sono aperte la prima volta per alcune ore o i "Bignè al mascarpone della libertà" per l'avvicinarsi del fine pena. Trenta ricette, spiegate nei dettagli e narrate con testa e cuore. "A volte ho chiesto anche alle guardie carcerarie se volevano assaggiare le mie torte: mi hanno confessato che lo avrebbero fatto volentieri e con golosità, ma il regolamento glielo proibiva. Speriamo ci sia occasione per invitarli fuori dal carcere. Perché per il mio domani ho le idee chiare e un solo grande sogno: datemi una cucina e lasciatemi lavorare con la fantasia. Non voglio e non chiedo nient'altro". (Per ricevere il libro "La dolce evasione" scrivere a infocarcere@centropoggeschi.org). Il naufragio dei migranti e l'incapacità di capire del nostro ceto politico di Franco Piperno Il Garantista, 3 maggio 2015 La qualità del ceto politico che ci governa emerge tutta intera, con la sua tragica pochezza, nella questione delle migrazioni di massa verso il nostro paese. Si badi, non si tratta tanto delle funamboliche e pasticciate soluzioni avanzate quanto e ancor più della rappresentazione del fenomeno quale appare nel discorso pubblico. Così capita che Matteo Renzi, capo del governo, attribuisca agli scafisti - più o meno associati ad organizzazioni criminali, più o meno trafficanti di carne umana, più o meno schiavisti - tutte le colpe. Cioè, oltre alle colpe per i naufragi, addirittura la responsabilità dello stesso fenomeno migratorio. Detto altrimenti, secondo Renzi sarebbero gli scafisti a indurre nei migranti un desiderio di migrazione: una sorta di offerta che crea la domanda. Il che equivale a pensare che sia il contrabbandiere di sigarette a creare il fumatore; e non viceversa. Gli scafisti non fanno altro che rispondere ad una richiesta di mercato nei modi propri dell'attività imprenditoriale. Di conseguenza, c'è da giurarci, per ogni scafista arrestato ve ne sono dieci potenziali pronti ad improvvisarsi tali. Il punto è che il migrare, vero e proprio attributo della specie, non è provocato se non in misura irrisoria dalle guerre, le tirannie e men che mai dalla fame - basta ricordare come a migrare non siano i disperati, i più indigenti, ma gli speranzosi, quelli che dispongono di un piccolo capitale finanziario che li rende nei paesi d'origine una sorta di classe media. A riprova di questa affermazione, sta la circostanza che la migrazione di massa non è una particolarità mediterranea ma investe l'intero pianeta - gli indonesiani verso l'Australia, i sudamericani verso gli Usa, gli angolani verso il Sud Africa, i vietnamiti verso il Giappone è così via. La grande migrazione è avvenuta tante e tante volte nella storia dell'umanità - ogni volta con una propria causa ed una adeguata forma. Nel nostro tempo, si presenta come un esodo dai paesi a regime precapitalistico - finanziariamente e industrialmente poveri - verso il mondo a tardo capitalismo dove la relazione mercantile domina su ogni tipo di rapporto inter-umano. Va da sé che questo esodo per risalire il gradiente di ricchezza mercantile è all'opera da secoli; ma quel che di nuovo è accaduto, sì da segnare la nostra epoca, è che, finita la guerra fredda, il mercato mondiale si è allargato ed unificato oltre ogni misura, finendo col ingoiare pressoché il mondo intero. In altri termini, l'invasione planetaria del mercato capitalistico non ha solo comportato l'abbandono di forme di produzione che avevano assicurato per secoli la sovranità alimentare, degradando così a folklore usi e relazioni non mercantili; questa invasione è riuscita a penetrare nell'interiorità, a colonizzare le coscienze di centinaia di milioni di esseri umani fino ad alienare in qualche modo l'immaginario originario con quello prodotto e riprodotto dal sistema capitalistico, quello che identifica la felicità con la capacità di consumare, con l'arricchirsi di valori di scambio. Per chiudere senza concludere, se l'esodo, indotto dall'unificazione del mercato mondiale, di milioni di potenziali consumatori dai luoghi d'origine verso il mondo ricco; se questo flusso migratorio, come tutto lascia credere, è un fenomeno secolare, non v'è alcun potere statuale in grado d'arrestarlo; anzi ogni tentativo chirurgico d'usare la forza per contrastarlo, non farà che aumentare inutilmente la sofferenza dei migranti, e ricoprire di vergogna il ceto politico che ci governa. Lampedusa, porta di dolore e speranza di Bruno Forte Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2015 Lampedusa vuol dire ormai "porta": per tanti, uomini, donne, bambini, in fuga dal loro passato carico di dolore, di prove, di privazioni, di attese, l'approdo a quell'isola significa la meta e il nuovo inizio di un viaggio della speranza, lo spazio di un ingresso, che chiede accoglienza, dignità, amore. Proprio cosi, quella "porta" ci sfida tutti, provocandoci a capire le ragioni dell'altro, il mondo interiore dell'emigrante, le ferite della sua anima, profonde aldilà di ogni visibilità e di qualsiasi possibile calcolo. Porta del dolore, porta della speranza e porta dell'amore concreto e vissuto, Lampedusa ci convoca tutti a un esame di coscienza, che sia verifica della nostra storia personale e collettiva sulla misura che sola può veramente valutarla, quella aperta sull'orizzonte di Dio, Signore di tutto e di tutti Porta del dolore, custodito nel cuore della persona che l'ha provato e lo prova, Lampedusa accoglie storie di sradicamento, di estraneazione, di umiliazioni subite, quando non di torture inflitte dai mercanti di uomini Chi ha lasciato la propria terra, si è sradicato da un'appartenenza che spesso era la sua sicurezza, il suo rifugio antico, la promessa tante volte priva di ogni certezza del suo domani. Chi affronta la sfida del mare infido e grande, visto come unico sentiero della speranza, ha lasciato dietro di sé un mondo, il suo mondo, intrecciato di affetti, di storie vissute, di racconti trasmessi, di desideri accesi: dietro i volti segnati dal vento, dal sole, dall'aria del deserto e del mare, dentro i cuori, ci sono legami spezzati, addii spesso laceranti e costosi, sacrifici superiori a ogni immaginabile calcolo, affrontati in nome di una sete di vita e di futuro diverso, voluto a ogni costo perse e per quanti si amano o si potranno amare. La porta del dolore non cancella il passato, lo accoglie, custodendolo anzi nel profondo dell'anima come ragione per andare avanti e sfidare l'oscurità del domani, cercando la luce di un'alba diversa. Proprio cosi, Lampedusa, porta del dolore, è inseparabilmente porta della speranza: quelle donne e quegli uomini, sopravvissuti a innumerevoli rischi e pericoli, portano in sé un desiderio più grande di ogni ostacolo affrontato e superato. Li ferisce, certo, il ricordo dei tanti che avevano condiviso con loro la decisione difficile, la sfida ragionevolmente impossibile, e non ce l'hanno fatta. I salvati non potranno certo dimenticare i sommersi, schiacciati dal male degli uomini e inghiottiti dalla natura indomabile. Sarà il ricordo dei morti a far compagnia ai loro sogni, a sostenere le loro speranze di una vita diversa, degna della persona umana, immagine del Creatore e Signore del cielo e della terra, unico Dio di tutti. E quelle morti grideranno nelle menti e nei cuori dei salvati per avere un futuro fra gli uomini, oltre quello che hanno nelle braccia dell'Eterno. H futuro che i vivi aspirano a costruire per sé e per quanti amarono e amano, è anche un po' il futuro di chi non ce l'ha fatta: lottare, sparare, andare avanti è debito verso i sommersi! È dall'intreccio di questa memoria e di tutte le attese portate nel cuore che si alimenta la speranza di chi è arrivato al porto sospirato, alla porta di una nuova, possibile esistenza datigli dell'unico Padre di tutti. Perciò Lampedusa, porta del dolore e della speranza, è porta di amore: è l'amore che ha sostenuto lo sradicamento, la lontananza, la nostalgia, l'abbraccio asfissiante del caldo del deserto e l'incontro con la terribile forza del mare, anche quando appare tranquillo. È l'amore che sostiene lo sguardo puntato al domani delle speranze e dei desideri custoditi nel cuore. È la solidarietà dell'uno verso l'altro, fatta di segni e di gesti che nessuna cronaca potrà registrare. È l'esperienza dolorosa del non amore di alcuni, alimentato dall'egoismo, dalla paura, dallo sfinimento di ogni capacità di riconoscenza e di dono. Ma è anche l'amore di voler tessere nuovi rapporti, di voler costruire un nuovo domani per sé e quanti si amano o si potranno amare. È l'amore di chi si sacrifica per cercare sulle acque e salvare le carrette del maree il loro carico di dolore, di speranza, di desiderio e di voglia di vivere. Lampedusa diventa cosi la cartina da tornasole anche del nostro amore, di noi gente dell'Italia di oggi, dell'Europa che vorremmo, di un Paese che dimostri la sua grandezza precisamente nella sua capacità di accogliere, di comprendere il dolore, di organizzare la speranza, il rispetto della dignità di chi sbarca nell'isola baciata dal "Mare nostrum" diventa misura della dignità stessa di chi accoglie e apre con la solidarietà le vie di un nuovo futuro a elfi ha lasciato tutto per cercare una vita più degna dell'essere immagine di Dio. A Lampedusa il confine fra l'umano e il divino, fra il barbarico dell'odio, della violenza e del rifiuto, e il civile e cristiano e pienamente umano dell'accoglienza solidale e responsabile, è il vero confine su cui si misura il domani di tutti, la qualità della vita e delle scelte di ciascuno. Proprio cosi, a Lampedusa s'intrecciano tutti i motivi ispiratori del Giubileo della Misericordia indetto da Papa Francesco: il perdono ricevuto e donato, a partire dal dialogo con Dio e fra gli uomini, e in particolare dal dialogo interreligioso; la grazia di un giubileo decentrato nel mondo, per raggiungere ogni creatura e toccare veramente ogni cuore; il Vangelo della Croce, come buona novella dell'amore infinito del Dio vivente per ognuna delle Sue creature; la rivelazione e il dono del Crocifisso Risorto per la speranza del mondo, la rinascita di quanto sembrava perduto e la pienezza dell'amore e della vita, com'è desiderata dal Signore. Lampedusa "porta del dolore" evoca la misericordia come consolazione e medicina di tutte le ferite dell'anima; "porta della speranza" richiama il volto misericordioso del Dio che fra il già della resurrezione di Cristo e il non ancora del Suo ritorno glorioso vuole costruire con noi un mondo più giusto, più vero e più bello; "porta dell'amore" rende presente il Figlio di Dio, fatto uomo per noi, e la potenza del Suo amore misericordioso e fedele, che libera e salva chiunque in Lui confidi. A Lampedusa la misericordia si lascia veramente comprendere come la porta del cielo per tutti coloro che ne invochino e ne accolgano il dono: ed è cosi che la Croce realizzata con i legni dei barconi dei migranti giunti in quell'Isola diventa a sua volta segno particolarmente eloquente per ognuno che voglia raccoglierne il messaggio. Stati Uniti: "la tortura del furgone per uccidere Freddie", incriminati sei poliziotti di Federico Rampini La Repubblica, 3 maggio 2015 "Quello che chiede la gente di Baltimora, è la verità". Barack Obama aveva appena pronunciato queste parole venerdì; non poteva sapere che il suo desiderio sarebbe stato esaudito così presto. Poche ore dopo, una prima verità è arrivata. Esemplare e rapida, è stata la decisione della procura di Baltimora sulla morte di Freddie Gray. Sei poliziotti sono stati incriminati per omicidio. Proprio come sospettava la gente del quartiere a West Baltimore, i vicini dei caseggiati popolari che avevano intuito subito la brutalità dell'arresto, quando il 12 aprile videro i poliziotti che caricavano il 25enne nero sul furgone, e lui che arrancava zoppicando. Sospetti che già erano stati alimentati dal primo referto medico, quello che poco dopo la morte di Gray avvenuta il 19 aprile parlò di lesione alla spina dorsale. Dei sei agenti incriminati, quello su cui pende l'accusa più pesante è l'autista del furgone. La procuratrice di Stato Marilyn Mosby gli imputa diversi reati, tra cui uno che si può tradurre come "omicidio preterintenzionale con crudele indifferenza alla vita umana". Gli altri se la cavano con incriminazioni relativamente più lievi come l'omicidio colposo, però aggravate da percosse. Su tutti pende anche un reato che non viene quasi mai addebitato alla polizia: "arresto abusivo". Gray non aveva commesso alcun reato quel giorno (anche se era pregiudicato e aveva scontato due anni di carcere), il coltellino che gli trovarono addosso non è un'arma né tantomeno proibito. La rapida decisione della Mosby - che solo poche ore prima aveva ricevuto i risultati dell'indagine interna alla polizia e i referti medici completi - è stata accolta con sollievo dalla popolazione di Baltimora. Ha scatenato invece le ire del sindacato di polizia: "Decisione frettolosa, precipitosa", l'hanno definita. Fino a insinuare che si tratta di un gesto politico: da una parte teso a calmare la piazza dopo una settimana di proteste; dall'altra a soddisfare la constituency che solo pochi mesi fa aveva eletto la giovanissima procuratrice afroamericana (la sua è una delle cariche giudiziarie elettive in America). La ricostruzione degli eventi rilancia un'ipotesi avanzata da diversi media americani. È la pista della "tortura del furgone". Un metodo in voga tra le polizie locali tempo fa, e che si credeva caduto in disuso. "Rough drive", guida dura, è l'eufemismo per descriverlo. L'arrestato viene ammanettato, sbattuto sul retro di un furgone di polizia, e da quel momento inizia una guida spericolata, con frenate brusche, curve improvvise, che fanno sobbalzare il mezzo. I poliziotti a bordo si tengono saldi come in un "rodeo". L'arrestato, ammanettato e a volte bendato, sbatte da tutte le parti. È una vera tortura, al termine della quale la vittima subisce contusioni, ferite, a volte gravi. Il "vantaggio" di questo metodo, per gli agenti che lo praticano: le loro mani restano per così dire pulite, non sono loro direttamente a pestare chi è in stato di fermo, i maltrattamenti li infligge… il furgone. E dunque, nei rari casi in cui si viene scoperti, è più facile che gli agenti la facciano franca e rimangano impuniti. Per ora le accuse della procuratrice riguardano soprattutto la mancata assistenza ad un cittadino che non doveva neppure essere arrestato, e che durante il percorso sul furgone perse conoscenza. Dei sei agenti la metà sono neri, di cui una donna sergente afroamericana. Ma altre donne sono le vere protagoniste, in positivo, di questa svolta nella tragedia di Baltimora. Al centro dell'attenzione ora c'è la 35enne Mosby, la più giovane procuratrice di tutta l'America, eletta proprio per le sue posizioni avanzate sui diritti civili e le sue ripetute denunce contro i difetti del sistema penale americano. Oggi tutti ricordano il duro discorso che lei aveva fatto in occasione delle proteste di Ferguson, criticando la magistratura locale per i ritardi nell'inchiesta sulla morte di Michael Brown. Un'altra figura chiave è il sindaco, anche lei una donna afroamericana, Stephanie Rawlings-Blake. Se gli eventi di Baltimora stanno prendendo una piega molto diversa rispetto a quelli di Ferguson, lo si deve anche a lei che ha evitato un'eccessiva militarizzazione nella risposta della polizia alle proteste. La prossima prova però sarà il processo: la parola finale spetta alla giuria popolare, e la polizia spera che i giurati sconfessino la Mosby. Maldive: Segretario di Stato Usa Kerry "democrazia in pericolo dopo arresto presidente" Askanews, 3 maggio 2015 Il Segretario di stato americano John Kerry ha detto che alle Maldive la democrazia è in pericolo e ha espresso disappunto per l'arresto del primo presidente eletto dell'arcipelago, Mohamed Nasheed. "Abbiamo ricevuto segnali preoccupanti per la democrazia alle Maldive dove l'ex presidente Nasheed è stato arrestato senza un regolare processo", ha detto Kerry nel corso di una visita nel vicino Sri Lanka. "È un'ingiustizia cui bisogna presto porre rimedio". Nel corso di una imponente manifestazione di protesta in sostegno dell'ex presidente arrestato Mohamed Nasheed e per chiedere il suo rilascio, la polizia delle Maldive ha effettuato arresti di massa, rinchiudendo in carcere almeno 200 persone. Nel corso della manifestazione è stato arrestato anche il numero due del partito di Nasheed, il Maldivian Democratic Party (Mdp). Secondo il Mdp alle proteste hanno partecipato 25mila persone su una popolazione complessiva di 330.000 abitanti. L'ex presidente delle Maldive Mohamed Nasheed è stato condannato a marzo scorso a 13 anni di prigione per "terrorismo", una condanna ampiamente denunciata dalla comunità internazionale. Nasheed è stato battuto alle elezioni presidenziali a fine 2013 dal presidente oggi in carica, Abdulla Yameen, al termine di uno scrutino molto contestato.