Giustizia: quella pena di morte mascherata chiamata "ergastolo" di Domenico Letizia Il Garantista, 31 maggio 2015 Storicamente, molti degli Stati che decidono di abolire la pena di morte dal proprio codice giuridico rafforzano il "fine pena mai". L'Organizzazione che dal 1993 si batte per la moratoria universale sulla pena di morte, Nessuno Tocchi Caino, ha deciso che il prossimo congresso, che dovrebbe tenersi nel dicembre 2015, sarà dedicato alla questione dell'ergastolo. Proprio in Italia vi sono state significative novità, non introdotte dall'azione del Parlamento o dalla classe politica ma dal Papa. Il 23 Ottobre 2014, Papa Francesco parlando ai delegati dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale ha definito l'ergastolo "una pena di morte mascherata" che dovrebbe essere abolita insieme alla pena capitale. Le significative parole del Papa evidenziano che la battaglia contro la pena di morte in quei paesi dove viene abolita deve concentrarsi sull'abolizione del fine pena mai, che altro non è che una diversa formulazione della pena di morte stessa. Non è vero che l'ergastolo in Italia non esiste più. Il fine pena mai vige ancora per gli ergastolani ostativi che al 22 settembre 2014 si contavano in 1.162 su 1.576 condannati a vita. I condannati all'ergastolo ostativi sono esclusi per legge dalle misure alternative e, quindi, anche da quella liberazione condizionale teoricamente possibile agli ergastolani che hanno scontato almeno 26 anni di carcere. Chi è condannato all'ergastolo in relazione ai reati previsti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario deve morire in carcere. Non solo, ma anche per chi, condannato all'ergastolo, non si trova in queste condizioni, le difficoltà a uscire dopo ventisei anni in liberazione condizionale sono aumentate considerevolmente. Non a caso, si è passati dalla presenza, negli istituti di pena, di poco più di 400 condannati all'ergastolo a metà degli anni Novanta a oltre 1.500 nell'attualità. Papa Francesco ha messo in discussione anche l'isolamento nelle "prigioni di massima sicurezza" ribadendo, come ha già ampiamente documentato la letteratura scientifica sulla materia, che il fine pena mai e l'isolamento prolungato provocano danni irrimediabili sullo stato psico-fisico del detenuto, sindrome simile a quella dei condannati a morte, nota come "fenomeno del braccio della morte". L'ergastolo non appartiene alla cultura della pena, ma a quella della vendetta. Come la pena di morte. Semplicemente, è una vendetta consumata in un tempo infinito, invece che in un solo momento. Parente del supplizio più che delle iniezioni letali. Il professore di diritto pubblico Davide Galliani ha ben descritto come nel nostro ordinamento, le vicende riguardanti l'ergastolo hanno visto il susseguirsi di momenti di apertura e di chiusura. Al pari di quanto successo con l'ordinamento penitenziario, se si rivolge lo sguardo all'ergastolo è facile costatare interventi legislativi prima riformisti e poi conservatori. L'attualità giurisdizionale deve tenere conto del ruolo svolto dalla Corte di Strasburgo. Se si discute di ergastolo, si discute anche di dignità umana, fondamento cardine che sta alla base sia della Corte Europea dei diritti dell'uomo che dell'Unione Europea. Ciò che la giurisprudenza italiana ha prodotto per giustificare la presenza nell'ordinamento dell'ergastolo è degno di dettagliata analisi. Rieducare il condannato per la cassazione, in passato, non voleva dire solo recuperarlo socialmente, poiché poteva bastare anche la sua redenzione morale, ovvero, liberare il condannato dal peso del gravoso crimine commesso. Ma, ragionando seguendo tale ottica, anche la pena di morte potrebbe non andare incontro ad alcuna obiezione da un punto di vista costituzionale. Occorre, e occorreva in passato, una visione realistica dell'ergastolo. Non vi è nessun dubbio che la grazia possa essere concessa anche all'ergastolano, ma l'analisi della realtà dimostra che sono quasi del tutto assenti i casi in cui ciò è avvenuto. Tale elaborazione fu sostenuta anche da Piero Calamandrei affermando che l'ergastolo, così come è previsto nel codice, è incompatibile con la Costituzione. Sostenere giuridicamente l'ergastolo significa sostenere che la rieducazione, così come vorrebbe la nostra Costituzione, non è l'unico fine della pena. Per affrontare la questione bisogna approcciarsi al problema realisticamente studiando quali sono i fenomeni sociali. Non bisogna inventar nulla, basterebbe scrutare al meglio la giurisdizione, ad esempio, del Portogallo che ha abolito il carcere a vita fin dalla Costituzione del 1976, non registrando nessun significativo aumento della criminalità e dei delitti nel paese. Ciò che non si vuole comprendere, o meglio tentano di far comprendere solo i radicali di Marco Pannella e Rita Bernardini, è che l'Italia attualmente resta all'ultimo posto nella graduatoria delle nazioni le cui pene siano ispirate ad umanità e civiltà giuridica. Degna di non passar in sordina, come ha sottolineato Luigi Manconi, è la vicenda del condannato ergastolano belga che ha chiesto di poter accedere al protocollo per l'eutanasia, ricevendo inizialmente una risposta positiva da parte del ministero della giustizia. L'uomo, Frank Van den Bleeken, avrebbe voluto esser curato in una clinica specializzata per la sua patologia, si auto-definisce uno "stupratore seriale" ma, nonostante le continue e ripetute sollecitazioni, non gli è stata concessa nessuna delle richieste avanzate. Lo stato, empiricamente, avrebbe preferito la sua morte, con l'ipocrisia di un atto giustificato come rispondente alla sua volontà. Così l'ergastolo, il fine pena mai, ridiventa, oggettivamente in senso materiale, pena di morte. Percorrere la storia del fine pena mai dal punto di vista dei diritti umani significa essere consapevoli che l'ergastolo è come la pena di morte e coloro contrari alla pena di morte non possono che schierarsi per l'abolizione dell'ergastolo. Nessuno Tocchi Caino ogni anno pubblica un rapporto sullo stato attuale della pena di morte nel mondo. Sarebbe interessante e necessario se dal prossimo anno, accanto al rapporto annuale sulla pena di morte, si analizzerebbe anche il fenomeno dell'ergastolo, pubblicando un rapporto ad hoc sullo stato attuale dell'ergastolo nel mondo. Si potrebbero ricavare analisi riguardanti i fenomeni legislativi adoperati dai vari governi, in stato di avanzato processo di democrazia reale, sulla pena di morte e l'ergastolo e il loro utilizzo in particolare contesti politici. Dalle elaborazioni prodotte si riuscirebbe anche ad estrarre un dato certo e preciso sull'inutilità del fine pena mai come prevenzione, o come esempio, per scoraggiare dal compiere crimini particolarmente cruenti. Non si tratterebbe altro che diffondere, quel diritto umano alla conoscenza sul fenomeno, innescando finalmente un serio dibattito pubblico e documentato. Ma Nessuno Tocchi Caino vive di iscrizioni e per far ciò vi è bisogno di un loro incremento. Facciamo in modo che ciò si realizzi. Giustizia: mogli e figli dei detenuti incontrano Papa Francesco: "non smettete di sognare" Agi, 31 maggio 2015 "Anche nel sonno si può pregare e sognando la parola di vita, volare...". Lo ha detto Papa Francesco ai piccoli viaggiatori del "Treno dei bambini" approdato per la terza volta alla Stazione Vaticana. Il Papa ha risposto ad un ragazzo con rilevanti problematiche familiari (come molti dei bambini accompagnati anche oggi dal cardinale Gianfranco Ravasi) che gli ha confessato che non riesce a sognare. "Infelice, perché sognare apre le porte della felicità", gli ha replicato Francesco osservando che "si può avere il cuore di ghiaccio". "È meglio - ha chiesto Bergoglio ai ragazzi - un cuore fermo o un cuore che vola? Volare sognando o non sognare per niente?". "Non smettete mai di sognare!", quanto ha raccomandato allora Papa Francesco ai fanciulli presenti nell'atrio dell'Aula Nervi, tra i quali anche i figli di detenuti e detenute di Bari e Trani. Ai piccoli, il Papa ha chiesto: "quando è che un cuore è di ghiaccio o di pietra?". Alcuni hanno risposto: "quando si viene delusi", altri "quando non sogniamo o non preghiamo". Poi una bambina ha detto: "quando non ascoltiamo la Parola di Dio e di Gesù". A questo punto il Papa l'ha chiamata e ha detto: "tu hai detto una cosa bella, sei stata brava, ripetiamola: non smettete mai di sognare e di ascoltare la Parola di Gesù, perché Gesù allarga il cuore e ama tutti". I bambini hanno donato al Papa alcuni braccialetti fatti in carcere dalle madri dei detenuti, aquiloni, disegni. E Francesco ha voluto salutarli uno per uno, con i loro accompagnatori e familiari e ha ricevuto l'abbraccio di tanti di loro così come moltissime richieste di farsi un selfie con lui. Al loro arrivo in Vaticano, i bambini hanno liberato nel piazzale tanti aquiloni in volo: un gesto che simboleggia il tema scelto quest'anno dal Cortile dei Bambini, quello del "volo" perché - è stato spiegato - vuole offrire ai più piccoli che vivono con le loro madri una quotidianità fatta di carcere e allontanamento dagli altri fratelli, e a quelli che vivono la separazione della loro mamma detenuta, una giornata per volare via ed evadere con la fantasia dalla realtà con cui sono costretti a fare i conti. Il "Treno dei Bambini" è promosso da ferrovie dello Stato in collaborazione con "Il Cortile dei Bambini", l'iniziativa dedicata dalla Santa Sede ai più piccoli nell'ambito del Cortile dei Gentili. Il tema del ‘volò è stato scelto dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del diocastero vaticano, per offrire ai più piccoli che vivono con le loro madri una quotidianità fatta di carcere e l'allontanamento dagli altri fratelli, una giornata per "Volare via", ed evadere con la fantasia dalla realtà con cui sono costretti a fare i conti. L'iniziativa, giunta alla terza edizione, segue quella di Napoli (ragazzi a rischio dispersione scolastica) e Milano (ragazzi di case famiglia), ed è organizzata dal Pontificio Consiglio della Cultura e vede il momento clou con l'incontro con il Pontefice. "Questo è un treno che non vogliamo assolutamente mollare, anzi vogliamo promuovere questa iniziativa sempre più, perché rappresenta un momento ancora più intenso di partecipazione al sociale, specialmente per chi è in situazioni di disagio e su questo noi siamo impegnatissimi con varie iniziative come i comodati d'uso per i servizi sociali in tutte le stazioni d'Italia", ha commentato da parte sua l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Michele Mario Elia, che era tra quanti hanno accolto questa mattina in Vaticano i 200 bambini arrivati con il Treno dei Bambini. Il gruppo Fs ha messo a disposizione una speciale Freccia Argento che ha trasportato i 200 giovani figli di detenuti e detenute dalle città di Bari e Trani. "È stata una cosa bellissima - ha concluso Elia - i veri ospiti sono loro, noi siamo i ferrovieri, erano tutti allegri, nessuno ha dormito per un secondo, è stata una situazione dolcissima". Le mogli dei detenuti: dobbiamo farcela da sole Michelle Gambacorta, romana di origini brasiliane, vive in una casa famiglia sulla Tiburtina insieme alle sue due gemelle, Yasmin e Aya. Suo marito, Nizar, tunisino, è finito in carcere due volte in tre anni. La prima, per concorso in rapina, quando Michelle era incinta di otto mesi, la seconda quando le bambine avevano due anni. Alla fine lei lo ha lasciato, "perché così non era possibile andare avanti". Oggi la donna lavora in un call center, anche se vorrebbe fare la parrucchiera. Almeno ha dei turni di lavoro stabili, che le consentono di dedicarsi alle bambine. "Me la cavo bene - dice - a un certo punto capisci che devi farcela da sola". Erano in centinaia oggi come Michelle. Il "Treno dei bambini" - iniziativa promossa dal Cortile dei Gentili e dalle Ferrovie dello Stato - le ha condotte insieme ai loro figli da Papa Francesco. Sul treno messo a disposizione per l'occasione, arrivato questa mattina alla stazione del Vaticano, c'era anche Rosa Barbetto, di Bari. Suo marito, detenuto da sei mesi, ha davanti a sé ancora tre anni di prigione. Savino, il figlio di 10 anni, non l'ha presa bene. "Io lavoro in campagna - racconta Rosa - e il bambino è sempre stato più con il padre che con me. Cerco di tenerlo impegnato, lo mando a calcetto". Savino ammette di sentire la mancanza del padre, ma è contento di aver visto il Papa. E se potesse avere un colloquio da solo con il Pontefice, saprebbe con esattezza cosa chiedergli: "Di fare uscire mio padre. Ma anche di portare la pace nel mondo, e di dare una casa ai bambini che non ce l'hanno". Giusy, avvocato di Roma, non ha alle spalle un passato difficile, né viene da un contesto disagiato. La vicenda giudiziaria che ha coinvolto Massimiliano, suo marito, è stata un fulmine a ciel sereno. Per rispondere a una minaccia, Massimiliano si è beccato una condanna a 20 anni di reclusione. Le conseguenze del suo gesto, spiega Giusy, "sono state troppo gravi perché valesse la legittima difesa". Il loro bambino, Alessandro, aveva 2 anni quando il papà è entrato in carcere, ora ne ha quasi 11. "Su consiglio della psicologa, che ancora lo segue - racconta la donna - ho atteso per anni di raccontargli la verità. All'inizio gli dicevo che il padre era in punizione". Ora Alessandro sa tutto, e vive la giornata in Vaticano con consapevolezza. "A mano a mano - spiega Giusy - plasmiamo per lui la verità". Il tema di quest'anno, Il Volo, è stato scelto dall'organizzazione per rappresentare il diritto che i bambini hanno di volare, di evadere da una realtà che li tiene costantemente a distanza dai genitori. Gli aquiloni, lanciati in aria all'arrivo del Santo Padre, rappresentano sì la libertà di volare, ma per raggiungere le mamme e i papà che vivono lontano. Di libertà ha parlato anche il Papa, questa mattina: "Non smettete mai di sognare", ha detto ai piccoli riuniti intorno a lui nella Sala Nervi. Per farlo, ha aggiunto, "non bisogna smettere di ascoltare la Parola di Dio". Il cardinale Gianfranco Ravasi, presente oggi, condivide il messaggio del Pontefice: "Le parole del Papa sono importanti: ci fanno capire che anche la religione ha come meta la libertà". Giustizia: se i diritti in Italia si applicano solo in base alle "risorse finanziarie disponibili" di Federico Pica Il Garantista, 31 maggio 2015 Molte delle attuali difficoltà della finanza pubblica derivano da un errore concettuale grave, che ci è stato "venduto" in modo implacabile da "tecnici" in realtà non attrezzati. Questo errore è quello dei cosiddetti diritti finanziariamente condizionati. Un errore analogo è stato commesso anche per quanto concerne il "caso attuale" del taglio, attraverso la mancata indicizzazione, delle pensioni. E utile un esempio del tutto banale. Consideriamo una famiglia il cui bilancio "collettivo" consenta di soddisfare un "diritto fondamentale", nel senso dell'articolo 117, comma 2, lett. m), della Costituzione (livello essenziale delle prestazioni, che deve essere assicurato a tutti i possibili beneficiari): il "diritto" consiste, per esempio, nella merenda, con pane e marmellata, per la più piccola delle figlie, Camilla. Camilla lamenta, giungendo fino alla Corte costituzionale, il fatto che la "prestazione" di cui si tratta non le è stata fornita. La Corte decide riconoscendo l'esistenza del "diritto", ma prendendo atto della dichiarazione del "governo" (del capo-famiglia, Filippo): non vi è, nel bilancio della famiglia, margine per il soddisfacimento di esso. Poiché la funzione fondamentale della Corte è quella di assicurare il rispetto delle norme costituzionali, ed in particolare di quelle concernenti i diritti fondamentali dei cittadini, la Corte, piuttosto che rifugiarsi nella argomentazione - non persuasiva perché in ultima analisi tale da negare qualsivoglia "diritto" - concernente i vincoli di bilancio dovrebbe a mio avviso stabilire con chiarezza i punti che seguono: I. il governo, con legge, ha competenza esclusiva a stabilire quali siano i "livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale"; tuttavia, una volta che questi livelli siano stati determinati, tutti, compresa Camilla, hanno titolo ad accedere ad essi; la mancata fruizione va dunque sanzionata; II. il governo, parimenti, ha competenza esclusiva a stabilire quali siano le risorse da porre a fronte del fabbisogno standard prodotto dalle prestazioni anzidette, valutando nel merito le diverse soluzioni possibili; III. il governo ha comunque l'obbligo di assicurare il pareggio di bilancio, così come esso è oggi definito dall'articolo 81 della Costituzione. Ritorniamo ora all'esempio che abbiamo proposto. Dovrebbe accadere quanto segue. Camilla ricorre contro Filippo, adducendo che un suo diritto costituzionale garantito non è soddisfatto; la Corte riconosce il diritto e nel contempo stabilisce a favore di Camilla un idoneo risarcimento. Filippo, per il passato (risarcimento) stabilisce quali siano le risorse all'uopo necessarie, assicurando comunque il soddisfacimento dei vincoli di bilancio. Per il futuro, Filippo medesimo ha l'ulteriore facoltà di ridefinire, erga omnes, i contenuti dei livelli essenziali, nonché i modi della loro fruizione e le relative compatibilità finanziarie. Accade, invece, che nel concreto Camilla non abbia alcuna garanzia. Ella non può, evidentemente, ricorrere contro la legge di approvazione del bilancio; i contenuti di essa risulteranno tuttavia tali da non garantire né i livelli essenziali né alcuna forma di risarcimento. A questo punto, per il passato e per il futuro, le si dirà che il diritto sussiste, ma è "finanziariamente condizionato". Ritorniamo ora, ritoccando lievemente lo scenario fin qui rappresentato, al caso delle pensioni. Il governo (Filippo) finanzia le prestazioni dovute a Camilla con una imposta a carico di Pasquale, lavoratore in pensione, imposta che consiste nel mancato pagamento delle somme dovute a Pasquale e destinate ad assicurargli un certo determinato livello di reddito reale, al modificarsi dei prezzi (indicizzazione della pensione). Adita da Pasquale la Corte costituzionale, questa decide che il tributo di cui si tratta è costituzionalmente illegittimo; la norma con cui la pensione è stata ridotta (e cioè con cui si è stabilito il tributo) viene cancellata, ex tunc, dall'ordinamento. Valgono ora i passaggi che fin qui abbiamo ipotizzato. Spetterebbe al governo, per il passato, decidere i modi di copertura del maggior fabbisogno che la sentenza produce, avendo ben chiaro che il danno è stato determinato non dall'insolenza di Pasquale, o da disavvertenza della Corte, ma da una ingiusta, grave e in realtà dolosa sottrazione di risorse che Pasquale ha subito. Per il futuro Filippo medesimo dovrebbe eliminare ogni nefasta conseguenza che sia stata prodotta dalla sottrazione anzidetta. Tutto ciò è ora semplicemente negato. Il diritto sussiste, ma è "finanziariamente condizionato". Perciò, per il passato e per il futuro, l'imposta, sia pure assai parzialmente e discutibilmente rimodulata, permane. Giustizia: le liste elettorali e l'autogol giudiziario dei politici di Michele Ainis Corriere della Sera, 31 maggio 2015 Una volta c'erano gli eletti; ma ormai sono di più i reietti. Perché i gironi infernali si moltiplicano, come i peccati via via elencati dalle leggi. Peccati dei sindaci o dei parlamentari, dei governatori o dei ministri. Ciascuno distinto dall'altro, come le categorie dei peccatori: ineleggibili, incompatibili, incandidabili, infine impresentabili. Ma di questo passo succederà che non si presenteranno al voto gli elettori. È l'autogol della politica, specialità di cui fu campione lo stopper Niccolai. Loro sperano di guadagnare credito sottoponendosi all'analisi del sangue; invece ottengono discredito. Un po' perché nelle vene della politica italiana circola ancora qualche litro di sangue infetto. Un po' perché la cattiva politica degli ultimi vent'anni ha allevato un vampiro, che di sangue non ne avrà mai abbastanza. E allora puoi anche decidere, per esempio, di togliere il vitalizio agli ex parlamentari condannati (delibera del 7 maggio); quel vampiro obietterà che avresti dovuto togliergli la vita, non il vitalizio. Non che la questione morale sia un affare secondario. È importante, eccome. Non per nulla la Costituzione (articoli 48 e 54) pretende la dignità e l'onorabilità di chi ricopra un ufficio pubblico elettivo. Ma i politici hanno trasformato la questione morale in una questione strumentale. Usandola cioè per mollare uno sgambetto all'avversario, per risolvere beghe di partito. Opponendo all'uso politico della giustizia l'uso giudiziario della politica. E in ultimo forgiando un guazzabuglio di norme contrastanti. Sicché parlamentari e ministri precipitano all'inferno dopo una sentenza definitiva di condanna. Gli amministratori locali dopo una condanna in primo grado. Ma all'Antimafia basta il rinvio a giudizio per dichiararti "impresentabile". Ecco, gli impresentabili. Nell'autunno scorso la commissione parlamentare Antimafia approvò un codice di autoregolamentazione. Allora tutti d'accordo, mentre adesso abbondano i pentiti. D'altronde pure questo è un film già visto: ne sa qualcosa Berlusconi, che votò la legge Severino salvo poi rimetterci il seggio in Parlamento. Quanto al codice dell'Antimafia, chi lo viola non rischia alcuna sanzione. Dunque non è un codice, è una chiacchiera. Però i partiti chiacchierati devono spiegare all'opinione pubblica perché hanno scelto il candidato impresentabile (articolo 3). Difficile farlo, quando la lista nera viene infiocchettata a due giorni dal voto. Ma è anche difficile sorprendersi se l'Antimafia la redige, dal momento che quest'obbligo deriva dal codice medesimo (articolo 4). Eppure dal Pd monta un coro di reazioni stupefatte. Noi, invece, non ci sorprendiamo più di nulla. Nemmeno che l'imputato principale (De Luca) minacci di denunziare il proprio giudice (Bindi). Comunque la si giri, per il suo partito quella candidatura è un autogol: l'ennesimo. C'è modo di mettere a partito la testa dei partiti? Sì che c'è, ed è pure un modo semplice. Basterebbe unificare i troppi rivoli di questo fiume normativo, dettando la stessa regola per chiunque chieda il nostro voto alle elezioni, dal Senato al Consiglio comunale. E servirebbe inoltre una legge sulle primarie, dove ciascuno fa come gli pare. Un'altra legge sui partiti, che la Costituzione reclama invano da 67 anni. Sulle lobby, quale esiste negli Usa da 69 anni. Servirebbe, in breve, una cornice di norme generali, concise, e possibilmente chiare. Dopo di che i politici facciano politica, lasciando la giustizia ai giudici. Anche perché, quando si pretende di fare due mestieri, per solito si procura un doppio danno. Giustizia: innocente o colpevole? "impresentabile, eccellenza" di Pietro Mancini Il Garantista, 31 maggio 2015 "Ha dà passa ‘a nuttata!": in Paradiso, assistendo al confuso scontro elettorale nella sua Campania, il grande don Eduardo de Filippo avrà ripetuto il celebre auspicio, esternato nella commedia "Napoli milionaria". Una città dove i problemi sono, forse, più numerosi dei "mille colori", cantati da un altro figlio, amato e rimpianto, di questa splendida, ma sfortunata, Napoli, Pino Daniele. Problemi e drammi, che sono rimasti sullo sfondo di una lunga rissa sulla "presentabilità" di alcuni candidati, in primis dello sfidante del centrosinistra, Vincenzo De Luca, al governatore uscente, il forzista Stefano Caldoro. Che ieri il suo ex compagno nel Psi di Craxi, Giulianone Ferrara, ha bocciato ("molto giovane e troppo modesto"), preferendogli lo "sceriffo di Salerno", ossequiato come ‘"nu ddio". Io non prenderei, come Ferrara, la residenza a Casal di Principe per votare De Luca, contro il "putridume, politicamente corretto, dei presentabili". Ma, al posto di Caldoro, avrei ammesso i limiti e gli errori, compiuti nei 5 anni di governo, e non avrei cavalcato i guai giudiziari del battagliero antagonista. E sconcertante che parlamentari di lungo corso, come Rosy Bindi, non abbiano compreso, o abbiano fatto finto di non capire, condizionati da beghe di partito, che questi elenchi di "impresentabili" alle regionali deleghino alle Procure e ai "professionisti dell'Antimafia", così li avrebbe definiti Leonardo Sciascia, in primis a don Roberto Saviano, un potere enorme. E indeboliscano, ulteriormente, la credibilità e la autorevolezza della classe politica, già molto scarsa. Uno dei più illustri predecessori della Bindi, Gerardo Chiaromonte, comunista e campano, non avrebbe mai sbattuto i "mostri" sulle prime pagine, a 24 ore dal voto. E, prima di don Gerardo, quando il tribunale di Torino chiese all'Antimafia le schede su Giovanni Gioia, potente notabile, fanfaniano, della Dc siciliana, a opporsi all'accoglimento della richiesta fu un deputato, Cesare Terranova, eletto, come indipendente di sinistra, nelle liste del Pci, poi ucciso dai mafiosi, quelli veri, on. Bindi, insieme al maresciallo Lenin Mancuso, appena tornò a fare il magistrato a Palermo. E i giudici torinesi si rivolsero alla Consulta, che diede loro torto. Da sempre, esistono, per la giustizia, gli innocenti e i colpevoli. Venerdì, è stata introdotta una nuova categoria. Il bollino di "impresentabile" non dovrebbe essere affidato a un organismo parlamentare. Come ha ammesso Raffaele Cantone, non è utile mischiare etica e diritto. Altro discorso, invece, è l'opportunità politica su questa o quella candidatura. Sono affiorate le profonde spaccature, nel Pd, tra Renzi e i rottamati e anche gli odi nella vecchia Dc, evidenti nel "niet" della Bindi a lady Mastella. Gian Carlo Caselli, grande accusatore di Andreotti, ha già accostato, in un appendice della sua "Vera storia d'Italia", Rosy Bindi a Falcone, a Borsellino oltre che, con modestia, a se stesso, quando inquisì "zio Giulio", per il bacio a Totò Riina, e don Marcello dell'Utri per aver presentato lo stalliere Mangano a Berlusconi. Noi, pur convinti che la legalità debba essere un punto centrale per la Campania, e per tutto il Mezzogiorno, temiamo che anche questa vicenda, confusa e gestita senza la necessaria trasparenza, finirà per incentivare il disinteresse per la politica, aumentando l'astensionismo. Con Ennio Flaiano, che avrebbe commentato : la situazione è grave, ma non è seria. Giustizia: redigere elenchi di disonesti non serve, così la politica si consegna alle Procure di Davide Giacalone Libero, 31 maggio 2015 Rosy Bindi riuscirebbe ad avere torto anche se avesse ragione, mentre Matteo Renzi pretende di avere ragione anche se ha torto. Lo spettacolo che hanno messo in scena, e di cui sono entrambe responsabili, è imbarazzante. Capace di rendere repellente la competizione elettorale, nel senso di allontanare le persone serie dalle urne. Sollecitazione di cui non si avvertiva il bisogno. Redigere liste, dividendo presunti onesti da presunti disonesti, è il modo migliore per distruggere la politica e consegnarne le chiavi non alla giustizia, ma alle procure. È un'aggravante il fatto che non sia una novità. Accusare la presidente della commissione antimafia di usarla per fini politici, del resto, significa dimenticare di avercela messa e di avere taciuto quando ha annunciato l'arrivo della lista. Datala per certa, dunque, si sperava che fossero diversi i nomi? E, in ogni caso, anche l'uso politico dell'antimafia non è una novità. Si sarebbe potuto convenire con Renzi, che ha considerato "irreale" la polemica, se non fosse che ha scelto la spiegazione più irragionevole e ipocrita: tanto gli impresentabili non saranno eletti. Quei signori sono stati messi in lista perché portano voti e aiutano a eleggere gli altri. E si prestano a fare i cammellieri per conto terzi al fine di contabilizzare le benemerenze e mettersi al vento delle remunerazioni. Renzi non poteva sbagliare di più: nel merito e nei tempi. Non dimentichiamo, però, che l'errore irrimediabile lo commisero i partiti, esultando nell'approvare il "codice di autoregolamentazione", che è un'altra offesa al buon senso e al diritto. Quel codice è il genitore della lista Bindi. Impone ai partiti che lo adottano di non candidare persone su cui pendono accuse relative a "reati spia", ovvero potenzialmente affini alle organizzazioni criminali. Peccato che il codice non modifica la legge (e ci mancherebbe), sicché gli "impresentabili" non solo sono presentabili, ma si sono presentati; il codice non prevede alcuna sanzione, quindi dici di applicarlo e poi fai come ti pare; e. per far finta (senza neanche riuscirci) di rispettarlo collochi i candidati contaminanti nelle liste fiancheggiatrici, dicendo che nelle tue non ce ne sono di discutibili. E questa è la cosa più lurida, perché quelle liste sono comunque accettate come alleate, portano voti decisivi. Il dibattito è irreale per altre ragioni. Dove il diritto non è solo un colpo a tennis quel che conta è il rispetto o meno della legge. Darei volentieri il mio voto a chi candidasse condannati, reclamandone con orgoglio tale condizione. I radicali, ad esempio, combattono da anni una battaglia che non condivido (quindi non la cito per simpatia), relativa alla legalizzazione delle droghe: se candidano dei condannati ne vanno fieri. In una mia immaginaria lista avrei messo anche chi era sotto processo per mafia, come Carmelo Canale, braccio destro di Paolo Borsellino (lui, forse, non avrebbe accettato, ma è questione diversa), e lo avrei fatto per denunciare il calvario cui era sottoposto. La legge mi consente di farlo. L'onore mi impone di farlo. Mentre quelli che candidano i variamente compromessi e poi dicono: non lo sapevo, meritano il discredito di cui sono circondati. Ed è irreale, il dibattito, anche perché solo in un Paese di sconsiderati può non esistere un'anagrafe nazionale delle pendenze penali. Che sono dati pubblici. Che non vanno confuse con le condanne. Ma che restano inaccessibili. Questa è una riforma che si fa in meno di un'ora, così finisce anche la barbarie per cui se mi stai sul gozzo vado a chiedere, mentre se mi sei amico evito. Se si vuole togliere il lavoro, e sarebbe ora, ai mattinali di procura, si deve anche sapere rendere pubblico quel che è pubblico. Che solo la commissione e la procura antimafia possano accedere a dati pubblici, per giunta sbagliando, è da squinternati. A questo punto, per metterci una pezza, ciascun candidato presidente indichi quali candidati alleati chiede agli elettori di non votare, impegnandosi a dimettersi subito se i voti da quelli raccolti risulteranno determinanti. Pezza coloratissima, ma coprente un buco vergognoso. Giustizia: parte la "stretta" sul falso in bilancio di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2015 Con la pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" n. 124 di ieri della legge 27 maggio 2015, n. 69, la cosiddetta legge anti corruzione, le nuove fattispecie di falso in bilancio entrano a far parte dell'ordinamento giuridico con entrata in vigore il 14 giugno prossimo. La legge, tanto discussa in questi ultimi mesi, tiene insieme due versanti considerati strategici dal Governo: da un lato il funzionamento delle società, sotto il versante dei bilanci, dall'altro il tentativo di ridurre gli illeciti della e nella Pa attraverso misure più severe per l'agente qualificato (il dipendente pubblico) e per l'estraneo (il privato/imprenditore beneficiario). Crescono così le sanzioni applicabili per il falso in bilancio nelle società quotate e in quelle non quotate. Saltano le soglie di rilevanza penale dei comportamenti. Mentre si cerca di legare la commissione dell'illecito ai concetti di indicazioni relative a fatti materiali concretamente idonei a indurre altri in errore. Spazio, poi, alla procedibilità d'ufficio. Se è chiaro il contesto, già si intravedono però i primi problemi applicativi, a partire da quello cronologico. Alla data di entrata in vigore della legge può verificarsi che alcune società non abbiano ancora concluso il processo di approvazione del bilancio. Occorre valutare, se e in che termini, le nuove condotte penali trovino applicazione in queste ipotesi. È del tutto irrilevante che il bilancio sia relativo all'esercizio 2014, in quanto il reato si consuma non con riferimento all'annualità oggetto di rendicontazione ma alla data in cui viene predisposto definitivamente e/o approvato. In base all'articolo 2364 del Codice civile entro 120 giorni dalla chiusura dell'esercizio deve essere approvato il bilancio da parte dell'assemblea ordinaria. Per le società con esercizio coincidente con l'anno solare il termine è il 30 aprile. In queste ipotesi i nuovi delitti non possono trovare applicazione se non, per effetto del favor rei, ove prevedano condotte più favorevoli rispetto a quelli in vigore fino al 14 giugno. Lo statuto della società può tuttavia prevedere un maggior termine rispetto ai 120 giorni, nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato o quando lo richiedono particolari esigenze relative a struttura e oggetto della società. È il caso, per esempio, di ristrutturazioni di articolazioni interne societarie con varie sedi e contabilità separate, di società strutturate con sedi in Italia e all'estero, autonome dal punto di vista amministrativo e gestionale e con la necessità di far pervenire i dati alla società che redige il bilancio, di cause di forza maggiore (furti, incendi, alluvioni), di particolari esigenze di tipo contabile legate alla struttura commerciale, della necessità di disporre di stati avanzamento lavori, dell'adozione per la prima volta degli Ias. Se le società quest'anno dovessero avvalersi della previsione dei 180 giorni, potrebbero astrattamente applicarsi le nuove norme. Poiché, però, il procedimento che porta al deposito del bilancio al Registro imprese è caratterizzato da più fasi (progetto e relazioni depositate presso la società, approvazione dell'assemblea e deposito presso l'Ufficio imprese), si tratta di capire quale di queste segni la consumazione del reato. Infatti a seconda che tale evento si verifichi prima o dopo il 14 giugno comporterà l'applicazione delle vecchie o delle nuove fattispecie. La condotta penalmente rilevante in base ai nuovi articoli 2621 e 2622 del Codice civile è l'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico. La nuova natura di reato di pericolo (e non più di danno) dovrebbe escludere la necessità che il bilancio venga depositato al Registro imprese, tantomeno che esso cagioni un danno a terzi o altri. La rilevanza penale, con ogni probabilità, resta subordinata al verificarsi di una delle due precedenti circostanze: il deposito del bilancio nella sede sociale o la sua approvazione da parte dell'assemblea. Dottrina e giurisprudenza di legittimità in passato non sono state sempre concordi. Secondo una prima interpretazione, infatti, la violazione si consuma allorché il bilancio sia depositato presso la sede sociale; secondo un'altra quando il documento viene illustrato ai soci (assemblea degli azionisti di approvazione del documento). Va da sé che aderendo alla prima interpretazione, ben difficilmente si rientrerebbe, per quest'anno, nell'applicazione delle nuove disposizioni penali (bilancio e relazioni devono essere depositate almeno 15 prima dell'assemblea, per cui al massimo entro il 15 giugno, giorno successivo all'entrata in vigore della legge). Aderendo invece alla seconda interpretazione vi potranno essere casi in cui anche i bilanci approvati quest'anno debbano essere valutati alla luce delle nuove fattispecie penali. Giustizia: corruzione con pene più alte, sospensione condizionale solo a chi risarcisce di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2015 Il giro di vite nel trattamento penale dei reati contro la pubblica amministrazione, m vigore dal prossimo 14 giugno, è su tre versanti: misure più severe contro il soggetto "esterno", pene più alte per il dipendente pubblico e, dal punto di vista processuale, premialità per chi si dissocia e collabora, mentre per l'imputato sconti di rito e di pena sono condizionati alla restituzione integrale del profitto illecito e anche a una (quasi) inedita "riparazione pecuniaria". La legge 69/2015, pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" di ieri, e quindi in vigore dalla metà del prossimo mese, a dispetto delle polemiche che ne hanno segnato il cammino, può rappresentare un importante passo in avanti nel processo di modernizzazione del rapporto tra Pa e mondo delle imprese e delle professioni. Proprio da qui parte la riforma, alzando il periodo di incapacità a contrarre con la Pa da 3 a 5 anni nel massimo - per chi ha contribuito a commettere o ha beneficiato di un rea to contro l'amministrazione. Anche per i professionisti la sanzione accessoria della sospensione sale dai 15 giorni fino ai due anni attuali, al minimo di tre mesi e fino a tre anni previsti dalla legge 69/15. La parte caratterizzante, comunque più conosciuta, della riforma è però nelle pene edittali per peculato, corruzione e induzione indebita. Il peculato sarà punito da4 a io anni e 6 mesi (aggiunta di 6 mesi rispetto al passato), la corruzione per l'esercizio della funzione sale a sei anni (oggi 5), quella per atti contrari ai doveri d'ufficio sarà compresa tra 6 e 12 anni (oggi 4-10). Pesanti anche le aggravanti specifiche: se il fatto illecito è commesso nell'ambito dei contratti con la Pa, la pena andrà da 6 a 12 anni ( oggi 4-10), se in atti giudiziari si rischieranno fino a 20 anni di carcere, partendo da un minimo di 6 (oggi 5). Patteggiamento e sospensione condizionale della pena prendono una strada speciale per i condannati dei delitti contro la Pa. La condizionale non sarà più "semi-automatica" come oggi, ma verrà lega ta alla restituzione del profitto accertato, fermo restando il diritto della Pa a farsi liquidare altri titoli di danno ulteriore. Anche il patteggiamento sarà considerato "ammissibile" - e comunque sempre subordinato alla valutazione di congruità del giudice - solo se vi è stata "restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato". Debuttano, infine, le attenuanti speciali per chi si dissocia e si adopera per evitare le estreme conseguenze del reato o per assicurare la prova del delitto: peri "pentiti" è previsto lo sconto di pena da un terzo a due terzi rispetto a quello che il giudice dovrebbe infliggere nel caso specifico. Infine, misura da tempo invocata dall'Anac, i pm che esercitano l'azione penale per reati contro la Pa devono informare l'Authority di Raffaele Cantone nel dettaglio dell'imputazione. Giustizia: costituzionali i limiti al patteggiamento per i reati tributari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2015 Superano l'esame di costituzionalità le condizioni al patteggiamento per i reati tributari. E anche il divieto di sospensione condizionale per alcuni delitti fiscali. La Consulta, con la sentenza n. 95, depositata ieri e scritta da Giuseppe Frigo, ha giudicato rispettivamente inammissibile e infondata le 2 questioni sollevate dal Gup di La Spezia. Per quest'ultimo infatti a venire compromesso sarebbe, per quanto riguarda il limite al patteggiamento determinato dal pagamento del debito con il Fisco (un po' come avverrà con l'entrata in vigore della legge anticorruzione che subordina l'accesso al patteggiamento alla restituzione dei proventi illeciti), l'articolo 3 della Costituzione: si verificherebbe cioè una disparità di trattamento tra soggetti imputati del medesimo reato a causa delle differenti condizioni economiche; e per la sospensione condizionale della pena verrebbe, tra l'altro, spezzato il rapporto di proporzionalità fra la risposta punitiva e il fatto commesso (ma su quest'ultimo punto la Corte non si è soffermata). La Corte costituzionale, sul fronte del patteggiamento, fa notare come, in passato, abbia già rilevato che qualunque norma che impone oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini risulta diversamente utilizzabile a seconda delle condizioni economiche dei soggetti interessati a conseguirli. Non per questo solo, tuttavia, essa è costituzionalmente illegittima. Ciò avviene esclusivamente in due ipotesi: da un lato, quando ne è compromesso l'esercizio di un diritto che la Costituzione garantisce a tutti paritariamente; dall'altro, quando gli oneri imposti non sono giustificati da ragioni legate a circostanze obiettive, tanto da determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio. Per la Consulta "è del tutto evidente come questa seconda ipotesi non ricorra nel caso in esame. Il generale interesse pubblico (oltre che della persona offesa) all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato, anche per il suo valore sintomatico del processo di ravvedimento del reo (...) si coniuga, infatti, nel frangente, allo specifico interesse alla integrale riscossione dei tributi evasi". Ma neppure ricorre la prima ipotesi. Infatti, se è vero che la facoltà di chiedere io riti alternativi costituisce una modalità di esercizio del diritto di difesa, la negazione di questa facoltà, nella lettura della Corte, per una determinata categoria di reati non ne determina una compressione decisiva. Infatti, ricorda la sentenza, la possibilità di chiedere l'applicazione della pena non può essere considerata condizione essenziale per un'efficace tutela della posizione giuridica dell'imputato. Tanto è vero che è esclusa per un buon numero di reati. La stessa attenuante comune del risarcimento del danno può, del resto, condizionare la fruibilità del patteggiamento, tutte le volte che il suo riconoscimento risulta indispensabile per far scendere la pena detentiva al di sotto del limite dei 5 (oppure dei 2 anni, per i reati esclusi dal patteggiamento allargato). Inoltre, con riferimento ai reati tributari, la Consulta condivide l'osservazione dell'Avvocatura dello Stato per la quale di regola esiste un diretto legame tra entità del danno e risorse economiche proprie o gestite dal colpevole, dal momento che il profitto coincide con l'imposta sottratta al Fisco. Giustizia: sentenza Corte di cassazione; sulla contumacia riforma con limiti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2015 A fare da spartiacque c'è la dichiarazione di contumacia. Se questa è già stata pronunciata, allora la riforma del procedimento "in assenza", in vigore dall'anno scorso con la legge n. 67, non si applica e non è necessario procedere alla verifica sulla possibile o meno continuazione del processo. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza n. 23271 della Terza sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha così giudicato inammissibile il ricorso presentato da un uomo condannato a sanzione pecuniaria che intendeva fare valere la violazione delle nuove disposizioni con la necessità, quindi, di procedere all'attività di controllo delle notifiche per accertare se il processo potesse continuare oppure dovesse essere sospeso. Un'attività che, sosteneva la difesa, si sarebbe dovuta svolgere a maggior ragione anche per poter permettere all'imputato di poter accedere alla disciplina della sospensione del processo con messa alla prova, soprattutto se si considera che l'articolo 15 bis della legge 67/14 prevede che la procedura sull'assenza dell'imputato si applica anche ai processi in corso se non è stata emessa sentenza di primo grado alla data del 17 maggio 2015. In sostanza, era la tesi difensiva, il giudice avrebbe proseguito il procedimento penale in assenza dell'imputato senza le garanzie che gli sarebbero spettate per legge. Si tratta, però, di argomentazioni da respingere, osserva la Cassazione. Perché quell'articolo 15 bis sottolineato dalla difesa va letto nella sua integralità. Al secondo comma, infatti, sta scritto che la disciplina precedente la riforma continua a dovere essere applicata ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge 67/14 quando l'imputato è stato dichiarato contumace e non è stato emesso il decreto di irreperibilità. Pertanto, visto che dagli atti emerge in tutta evidenza che l'imputato era stato dichiarato contumace il 17 marzo 2014, prima della data di entrata in vigore della riforma, il 17 maggio 2014, e che alla data del giudizio di primo grado era già operativa la norma transitoria, non esisteva alcun obbligo da parte dell'autorità giudiziaria di osservare la nuova disciplina processuale. Potevano, anzi dovevano, essere applicate le "vecchie" norme. Nulla da fare, quindi, per l'imputato che non potrà utilizzare la riforma che ha introdotto la "sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili", di fatto liberando il processo penale dall'istituto della contumacia. Non vi è più traccia, nel Codice di procedura penale, delle parole contumacia, contumace, contumaciale, salva qualche innocua dimenticanza nel coordinamento normativo. La triade presenza-contumacia-assenza ha lasciato il posto al binomio presenza-assenza, ma il processo in absentia è consentito soltanto a determinate condizioni, la cui insussistenza conduce alla sospensione del processo. Giustizia: investimenti a rischio senza certezza del diritto di Gabriele Fava Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2015 Da qualche mese il diritto del lavoro è interessato da una riforma che modifica sostanzialmente istituti ormai radicati della materia, quali ad esempio l'impossibilità per il datore di lavoro di cambiare le mansioni al lavoratore, se non con altre di livello equivalente, o la reintegra in caso di licenziamento illegittimo. Sebbene il campo in questione sia avvezzo alle novità legislative, quella operata dal Jobs Act lo sta scuotendo profondamente. Quello del lavoro infatti è sì un diritto dinamico, ma è anche ancorato ad alcuni principi cardine che per lungo tempo sono stati imprescindibili. In questo contesto di innovazione c'è molta attesa su come il potere giudiziario interpreterà le nuove norme che, pur avendo una formulazione abbastanza chiara, come sempre presentano margini di incertezza al momento di essere applicate. Ci si interroga in particolare su come i giudici accoglieranno la forte riduzione del loro potere discrezionale in ordine alla proporzionalità della sanzione irrogata al lavoratore inadempiente. Il giudizio di proporzionalità, alla luce della riforma, rileva solo ai fini dell'indennità risarcitoria spettante in caso di licenziamento ingiustificato, ma non per valutare i presupposti della reintegra. Con la nuova normativa, la reintegrazione sul posto di lavoro è prevista, nell'ambito del licenziamento disciplinare, solo in caso in cui il fatto materiale contestato non sussista. Dato che i primi contratti della nuova tipologia sono di pochi mesi fa, non esiste ancora una casistica giurisprudenziale tale da permettere agli addetti ai lavori di conoscere quale sia l'approccio dei giudici a queste tematiche; tuttavia è interessante notare come un sentenza della Corte di Appello di Brescia, del 30 aprile 2015, che va a dirimere una controversia regolata dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori come modificato dalla legge Fornero, esprima dei principi astrattamente applicabili anche al nuovo contratto a tutele crescenti. La sentenza in questione prende le mosse da un caso di licenziamento disciplinare irrogato ad un dipendente addetto alla formazione, a cui veniva contestato di aver tenuto un comportamento inadeguato e scortese nei confronti dei colleghi, tanto da costringere l'azienda a rimuoverlo dalla mansione. Inoltre al medesimo lavoratore veniva contestato di essersi rifiutato di rinunciare al superminimo, a lui erogato proprio in forza della mansione formativa assegnatagli, per la quale si era rivelato inadeguato. Il licenziamento veniva impugnato dinnanzi al Tribunale di Bergamo, che in primo grado ne sanciva l'illegittimità e disponeva la reintegra del lavoratore. La Corte di Appello di Brescia confermava la sentenza del giudice di prime cure con motivazioni che non possono non sollevare preoccupazione. Per i giudici di appello non solo l'insussistenza del fatto materiale contestato può giustificare la reintegra, ma questa può essere disposta anche quando lo stesso fatto, seppur materialmente sussistente, si risolva in un inadempimento di scarsa rilevanza. La Corte scende poi nel dettaglio affermando che il licenziamento sarebbe sanzionabile con la reintegra, laddove la violazione, anche se non codificata nel contatto collettivo tra le condotte che prevedono una sanzione conservativa, si traduca in un evidente abbaglio del datore di lavoro, o nel suo torto palese, o nella pretestuosità della contestazione ecc. Il principio ivi espresso è sorprendente e pericoloso, proprio perché l'insussistenza del fatto potrebbe ravvisarsi anche quando lo stesso, pur accaduto, si presenti per l'appunto di scarsa rilevanza. Un simile ragionamento metterebbe a rischio la recente riforma e permetterebbe al potere giudiziario di vanificare l'intervento del legislatore, che ha manifestato chiaramente la volontà politica di riformare l'art. 18, escludendo quasi del tutto la reintegra nella nuova tipologia contrattuale. Le conseguenze sarebbero evidenti e chiaramente negative, poiché si andrebbe a compromettere la certezza del diritto favorita dal Jobs Act. Un eccessivo potere discrezionale dei giudici genera incertezza su quali possano essere le conseguenze di un recesso giudicato illegittimo. Tale clima di incertezza sarebbe senza dubbio un freno all'occupazione e agli investimenti da parte delle aziende in Italia. Chi investe oggi, visto anche l'andamento altalenante del mercato, ha bisogno di certezze dal punto di vista legislativo e di un'azione dei giudici quanto più fedele possibile al testo della legge; in un contesto di scarsa chiarezza, infatti, nessun imprenditore è invogliato ad investire. In definitiva i giudici dovrebbero riflettere attentamente prima di esercitare la loro funzione in modo da disattendere la volontà politica espressa dal parlamento. Giustizia: la denuncia della Cgil "all'Expo la polizia spia i lavoratori" di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 31 maggio 2015 Grandi eventi. Antonio Lareno, delegato Cgil all'Expo: "L'esposizione è come la Fiat negli anni 70". Licenziate più di 300 persone per le loro opinioni. Cinquanta mila quelle "filtrate": lavoratori, volontari e giornalisti. "La libertà delle persone è considerata più pericolosa dell'attività mafiosa. Per questo la sorveglianza viene tenuta segreta". L'Ad Expo 2015 Giuseppe Sala: "Dobbiamo confrontarci con questura e sindacati. Prima di valutare un passo indietro, dobbiamo capire le motivazioni" "All'Expo Milano viene praticato uno spionaggio politico ai danni dei lavoratori come alla Fiat negli anni Settanta". Per Antonio Lareno, delegato Cgil per l'Expo, non ci sono dubbi: "Cinquantamila cittadini che hanno presentato una candidatura per lavorare all'Expo sono stati filtrati dalle forze di polizia a loro insaputa nell'ultimo anno". Alcune centinaia di lavoratori, assunti fino ad aprile, sono stati licenziati prima dell'inizio del "grande evento" per motivi, non ancora chiariti, di sicurezza. Il loro numero non è ancora precisato. Sembra comunque superiore alle trecento persone. Lo attestano le testimonianze raccolte anche dalla Cgil. I licenziamenti sono avvenuti per tre ragioni: "Per causa di forza maggiore non dipendenti dalla volontà" di Expo; "per provvedimenti delle autorità competenti" o delle "autorità competenti di pubblica sicurezza". Tra le persone colpite da questo bando ci sono coloro che hanno partecipato a manifestazioni contro la riforma Gelmini nel 2008, hanno occupato una casa o lavorato con rifugiati politici. A Expo è stato creato uno stato di eccezione dove qualcuno - la Questura di Milano, il ministero dell'Interno? - decide in maniera insindacabile chi può lavorare e chi no. I criteri di questa operazione di polizia non sono noti, tanto meno ai diretti interessati. Ad oggi non si conosce né l'archivio dal quale sono state attinte le informazioni, né chi ha legittimato la loro diffusione a soggetti terzi come le aziende o l'Expo. "Il problema riguarda la nostra democrazia - conferma Lareno. Questo è un caso limitato, ma esiste uno spionaggio illecito e una violazione della privacy dei cittadini. Queste pratiche potranno essere usate domani per altri eventi, e in ogni luogo di lavoro. Basta dichiararli "zone a interesse strategico" dove l'accesso viene regolato in base all'autorizzazione di un organo di polizia o amministrativo. Stiamo assistendo a una cosa mostruosa". Venerdì scorso a Milano i rappresentanti sindacali hanno incontrato alcuni dirigenti di prima fila dell'esposizione nell'ambito delle attività dell'osservatorio Expo, una struttura bilaterale di conciliazione interna. "Hanno fatto la parte di chi se c'era, dormiva - racconta Lareno. È stato confermato che le persone che lavorano con un contratto a termine, i volontari Expo e i giornalisti sono stati "filtrati". È una palese violazione dell'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori che vieta indagini sulle opinioni dei lavoratori e dell'articolo 15 che vieta le discriminazioni sul posto di lavoro". Cgil, Cisl e Uil invieranno diffide alle aziende e a Expo dove chiederanno la reintegra dei lavoratori. Poi ci sarà il risvolto penale e un esposto al garante della privacy. Lo scandalo, sollevato da Radio popolare e da Roberto Maggioni su Il Manifesto del 27 maggio scorso, è politico. Ieri lo ha dovuto riconoscere l'Ad Expo Giuseppe Sala: "È necessario confrontarsi con la questura e i sindacati - ha detto - è un tema da capire e su cui a noi arrivano alcune informazioni che cerchiamo di gestire con buonsenso. Dobbiamo impegnarci la settimana prossima per capire meglio". Prima di valutare un passo indietro, "dobbiamo capire le motivazioni". L'incontro è stato fissato in questura a Milano giovedì 4 giugno. "Quella di Sala è una prima ammissione di consapevolezza - risponde Lareno - Raccogliamo con favore il fatto che cominci a porsi il problema di rivedere le procedure in atto anche perché c'è gente che è stata cacciata dall'Expo, pur avendo la necessità e il diritto di lavorare". L'esistenza di uno stato di eccezione all'Expo era stata confermata dal viceministro degli Interni Filippo Bubbico (Pd) in una dichiarazione a Radio Popolare: "Expo è un sito sensibile, di rilevanza strategica - ha detto - ci sono delle attività di prevenzione i cui criteri non possono essere resi noti perché perderebbero di efficacia". Il governo, invece, dovrà renderli noti. Queste pratiche violano i principi costituzionali e dello statuto dei lavoratori e creano una situazione paradossale rispetto alla procedura antimafia coordinata dal Gicex, il gruppo interforze coordinamento Expo. "Un'azienda che concorre per un appalto Expo conosce le procedure a cui viene sottoposta - sostiene Lareno - Questo non avviene nel caso dei lavoratori sottoposti a un giudizio di cui ignorano i criteri. A Expo la libertà delle persone è considerata più pericolosa dell'attività mafiosa. Per questo viene tenuta segreta". "L'effetto pratico di questa procedura di polizia di massima segretezza è inferiore a quello del Daspo - conclude - Se te lo danno non puoi entrare negli stadi. All'Expo no, puoi comprare un biglietto, o un pass stagionale, e entrare. Siamo oltre la tragedia e il ridicolo". Giustizia: sentenza sul caso dell'uranio impoverito "lo Stato sapeva e deve risarcire" di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 31 maggio 2015 Sulle questioni militari in Italia vige la regola del silenzio. I cittadini con le stellette appartengono a un microcosmo chiuso e impenetrabile, impossibile per i più da decifrare e comprendere. Il potere politico ha poco spazio, le decisioni sulle questione importanti sono prese dalle gerarchie militari. Può cambiare il ministro, ma poi chi decide veramente sono gli alti ufficiali di Palazzo Baracchini. Il caso degli F35, per esempio, è emblematico. Dal 1998, anno in cui venne firmato l'accordo con gli Stati Uniti per il loro acquisto, a oggi si sono succeduti innumerevoli governi di ogni colore politico. Mai nessuno che si sia sognato di mettere in discussione questo programma d'armamento costoso e dalla dubbia affidabilità che ha l'avallo dei Generali. I silenzi, e in questo caso le omissioni, ritornano nella triste storia dei decessi legati all'uso dell'uranio impoverito in Kosovo. Com'è noto, gli Stati Uniti fecero massiccio uso durante la guerra contro Milosevic di munizioni anticarro all'uranio impoverito, utilizzate per il loro alto potere penetrante. I rischi delle esposizioni da uranio impoverito, alle Autorità italiane, furono noti da subito: nel 1999, quando al termine del conflitto prese il via la missione di pace internazionale Kfor, l'U.S. Army divulgò un'informativa rivolta ai vertici militari di tutti i Paesi partecipanti sulla pericolosità delle nano-particelle di uranio impoverito, responsabili di provocare carcinomi letali. Il documento illustrava come difendersi dai rischi dovuti al contatto con l'uranio, allegando anche una cartina dove erano segnalate le zone bombardate con questo tipo di munizioni. Purtroppo lo Stato Maggiore della Difesa ha per anni sottovaluto questi rischi, minimizzando sempre i pericoli. Per ironia della sorte il settore di competenza italiana, la provincia di Pec, era quello dove maggiore era stato l'uso di questi proiettili. A oggi sono circa 4000 i soldati italiani reduci dalla missione all'estero che hanno avuto un tumore. Molti di loro nel frattempo sono deceduti. La battaglia legale per vedersi riconosciuto un risarcimento dal ministero della Difesa è stata durissima. Davide contro Golia. I 600 militari ammalati che hanno intentato una causa si sono trovati di fronte ad un muro di gomma. Il ministero, tetragono sulle sue posizioni, ha sempre negato ogni nesso di casualità fra l'esposizione all'uranio impoverito e l'insorgere della patologia tumorale. I fronti aperti sono stati diversi, giungendo negli anni anche ad alcune sentenze di condanna nei confronti dell'Amministrazione in sede civile, amministrativa e contabile. La svolta definitiva e clamorosa è giunta, però, la scorsa settimana, allorché è passata in giudicato la sentenza della prima sezione della Corte di Appello di Roma, presidente Mariangela Cerere e relatore Lucia Fanti, che confermava la sentenza n. 24951 del 2009 del giudice del Tribunale di Roma Corrado Cartoni che aveva condannato il ministero della Difesa al risarcimento del danno. Clamorosa non solo per l'entità del risarcimento record (1 milione 300mila euro oltre al danno da ritardato pagamento) accordato ai familiari di un militare italiano ammalatosi e deceduto per un tumore contratto dopo aver partecipato alla missione Kfor. Ma anche per le motivazioni con le quali il ministero della Difesa è stato condannato a pagare. Innanzitutto, perché la decisione della prima sezione civile della Corte d'Appello di Roma conferma, come già accertato dal Tribunale, "in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l'esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale". Ma, sanziona, come già fatto dal giudice di primo grado, anche la condotta dei vertici delle Forze Armate per aver omesso di informare i soldati "circa lo specifico fattore di rischio connesso dell'esposizione all'uranio impoverito". Dice l'avvocato romano Angelo Fiore Tartaglia che rappresentava in giudizio i familiari del militare morto e che da anni porta avanti, unico in Italia, questo genere di cause: "Fino alla decisione della Corte d'Appello, anche sulla base delle conclusioni delle varie commissioni parlamentari che si sono occupate dei casi di tumore da esposizione all'uranio impoverito che hanno coinvolto diversi militari italiani, il nesso di causalità era confinato nel campo della probabilità. Questa sentenza, invece, stabilisce il principio dell'inequivoca certezza, cioè che la causa della malattia contratta dal militare poi deceduto è proprio l'esposizione a questa sostanza". Oltre alla valanga di risarcimenti che lo Stato dovrà pagare, si aprono adesso scenari giudiziari imprevedibili. "La sentenza ha accertato non solo che i vertici militari erano a conoscenza dei rischi derivanti dall'esposizione all'uranio impoverito, ma anche che non hanno fatto nulla per prevenirli. Una decisione", prosegue il legale, "che potrebbe dar luogo a responsabilità penale per reati gravi perseguibili anche d'ufficio". Nelle prossime settimane sapremo se la condotta dei vertici militari diventerà materia d'interesse anche per la Procura della Repubblica: lo si deve alle vittime incolpevoli e ai loro familiari. Giustizia: scarcerato Giulio Lampada dopo nove perizie mediche e due tentativi di suicidio di Vincenzo Vitale Il Garantista, 31 maggio 2015 Ieri, a Milano, è accaduto qualcosa di nuovo e che lascia sperare. Dopo circa quattro anni di custodia cautelare, il Tribunale del Riesame ha ritenuto di dover accogliere l'istanza di detenzione domiciliare avanzata dai difensori a favore di Giulio Lampada, per ragioni di salute. E allora?, molti diranno; cosa c'è di nuovo? Di nuovo ci sono alcuni aspetti che occorre considerare. Innanzitutto, Lampada è accusato di essere uno dei capi della ‘ndrangheta calabrese da alcuni anni protesa alla conquista della Lombardia e perciò di far parte di un'organizzazione ormai divenuta, nella parte settentrionale dell'Italia, più pericolosa e forte della stressa mafia. Che tale richiesta sia stata accolta va segnalato già per questo motivo soltanto, dal momento che la Procura milanese nei suoi esponenti più noti si spende proprio in tale direzione in una forte azione di contrasto. In secondo luogo, c'è da aggiungere che la vicenda di Lampada va segnalata in quanto paradigmatica di un certo modo di amministrare la giustizia. Erano molti mesi, infatti, che la situazione personale di Lampada era divenuta molto precaria: astenia marcata, calo ponderale di oltre trenta chili, rifiuto di una normale alimentazione e di ogni terapia, fobie molto accentuate per i luoghi chiusi o ospedalizzati ossessivamente denunciati come ostili, duplice tentativo di suicidio, per fortuna sventato. Insomma, quanto bastava per indurre il Tribunale, richiesto di mutare la detenzione in carcere in detenzione domiciliare, a concederla per oggettive ragioni di salute: eppure qui comincia il bello o il brutto, a seconda dei punti di vista. Infatti, dopo diverse consulenze disposte d'ufficio dal medesimo Tribunale e dopo che, nel corso degli ultimi sei mesi, ogni consulente aveva concluso nel senso della incompatibilità del Lampada con il regime carcerario, proprio per il suo stato di salute molto preoccupante e ad alto rischio, il Tribunale, poche settimane or sono, aveva disposto una nuova ed ulteriore consulenza, della quale non si sentiva certo il bisogno. La finalità da raggiungere sembrava essere quella di accertare se Lampada fosse o meno affetto da una malattia fisica, l'unica che secondo la Cassazione potrebbe condurre alla scarcerazione per motivi di salute. Ora, questa impostazione sembra ipotizzare che possano esistere nella pratica della clinica psichiatrica - perché qui di patologia psichiatrica si tratta - malattie che non si risolvano in un certo coinvolgimento biologico del fisico, del corpo, in misura maggiore o minore. Così, invece, non è. Infatti, ogni seria patologia di carattere psichico, prima o poi, coinvolge anche dimensioni strettamente biologiche (per esempio i neurotrasmettitori ), dando perciò vita ad una malattia in senso proprio, anche a livello corporeo, fisico. Insomma, se c'è una sofferenza della psiche, questa è sempre correlata ad una sofferenza che è insieme anche somatica, del corpo: ritenere altrimenti vorrebbe dire, rendere, fra l'altro, la malattia psichica inattingibile, in quanto priva di segni clinici oggettivamente rilevabili e valutabili, il che sarebbe davvero assurdo. Son concetti sufficientemente chiari ed univoci ed ormai acquisiti da diversi anni al patrimonio conoscitivo del sapere psichiatrico forense e tuttavia son concetti che hanno faticato molto ad emergere, facendosi strada, in questa vicenda. Basti pensare che sono state ritenute necessarie ben tre consulenze d'ufficio, oltre quelle disposte dalla Procura e quelle svolte dai consulenti della difesa: in totale, nove consulenze per comprendere ciò che poteva essere compreso subito, dal primo momento: che cioè la malattia psichica di Lampada ne alterava a tal segno la dimensione biologica da non consentirne ancora la permanenza in carcere, esigendo invece la misura della detenzione domiciliare. E bisogna dar merito specialmente ad Alessandro Meluzzi, uno dei consulenti della difesa, il quale, senza minimamente indietreggiare rispetto a situazioni che si presentavano processualmente complesse, ha contribuito in modo determinante a chiarire l'effettiva portata dello stato patologico di Lampada, descrivendo un itinerario diagnostico talmente convincente da indurre a seguirlo lo stesso consulente del Tribunale. E perciò, dopo oltre sette mesi che questa vicenda si è trascinata stancamente, ieri la svolta: Lampada torna finalmente a casa. Ma ancora resta molto da fare, molto da chiarire, per dimostrare che non c'è alcuna prova che egli sia il capo di una cosca calabrese: non basta affermare che lo è. Quello che manca, anche dopo due condanne, è la prova che lo sia davvero oltre ogni ragionevole dubbio: lo si vedrà in Cassazione. Marche: Garante detenuti; servono nuove garanzie, primo intervento è l'assistenza legale Ansa, 31 maggio 2015 "Profonda costernazione e una situazione generale che impone una seria e ponderata riflessione". Così il Garante dei detenuti delle Marche Italo Tanoni alla notizia dell'ennesimo suicidio in carcere. Vittima un detenuto siciliano di 44 anni, finito a Montacuto lo scorso gennaio per simulazione di reato, aggravato dalla recidiva. "Sarebbe uscito a settembre e proprio ieri mattina - dice Tanoni - avrei dovuto incontrarlo per la seconda volta con i miei assistenti, considerato anche che si trovava in una situazione di profondo disagio psicologico e per questo era stato deciso di allontanarlo dagli altri detenuti". "Nelle scorse settimane - seguita l'Ombudsman - ci aveva chiesto l'assistenza legale, ma come ufficio non possiamo garantirla". Per Tanoni, invece, "uno dei primi interventi da prevedere è quello di un servizio garantito, cosa diversa dall'avvocato d'ufficio, a favore di quanti non hanno possibilità economiche per affrontare la situazione venutasi a determinare e soprattutto quando si trovano per la prima volta a fare i conti con la giustizia". Tanoni torna anche sulla questione dell'assistenza psicologia ai detenuti, che "deve trovare una più incisiva concretizzazione all'interno degli istituti di pena". Infine, il sovraffollamento: "A tutt'oggi nel carcere di Montacuto ci sono sezioni non operative per la mancanza della dichiarazione d'agibilità. È indispensabile accelerare i tempi". Napoli: dal pane al caffè, prezzi di lusso alla Casa circondariale di Poggioreale di Giancarlo Maria Palombi Cronache di Napoli, 31 maggio 2015 Il tariffario dello spaccio interno alla Casa circondariale di Poggioreale. Costo di un dentifricio? Quasi 4 euro. L'appello dei detenuti del padiglione San Paolo: chiediamo un'ispezione ministeriale Una confezione di caffè sfiora i quattro euro. Un pezzo di burro arriva a 2.75 euro. Il pane? Due curo e dicci centesimi. Per non parlare dei prodotti per l'igiene personale. Un tubetto di dentifricio supera i tre euro e cinquanta centesimi, uno spazzolino di curo ne costa tre. Non è il prezzario di un nuovo supermercato inaugurato in qualche quartiere della "Napoli bene". Le cifre riportate sono quelle del tariffario della Direzione casa circondariale Napoli-Poggioreale. Ufficio Conti Correnti. Per chi non lo sapesse, infatti, i detenuti possono usufruire di una sorta di spaccio interno. Un minimarket allestito con i prodotti essenziali alla vita quotidiana. L'obiezione è rapida e semplice. C'è chi ribatte sottolineando che "al vitto e all'alloggio dei reclusi ci pensa lo Stato, con costi tra l'altro molto alti". La questione non è cosi semplice. La mensa, il "rancio", come lo chiamano ancora gli "ospiti dello Stato" a dire dei detenuti non è dei migliori. E comunque non può sopperire alle richieste quotidiana di tutta la platea. Stesso discorso vale per la pulizia interna alle celle (dieci metri quadrati su cui insistono anche 9 detenuti). Ecco, allora, che l'acquisto da parte del carcerato di prodotti diviene fondamentale. "Chiediamo un'ispezione ministeriale perché si faccia luce su quelli che per noi sono prezzi da estorsione", scrivono in una missiva i detenuti del padiglione ‘San Paolo". Vita difficile, la loro. Già, perché il settore della casa circondariale è quello dedicalo ai soggetti affetti da patologie. "Vogliamo far sapere che viviamo in condizioni disumane - scrivono - poiché nel centro clinico del padiglione San Paolo (gestito dall'Asl Napoli 1) vi è una scarsa situazione igienico-sanitaria. In questa struttura sono detenute persone trapiantate di fegato e altre che sono affette da patologie infettive, come l'Epatite C. Il passeggio, ovvero il corridoio adibito alla nostra ora d'aria, è adiacente alla zona dove vengono ammassati i rifiuti". Chiedono un intervento delle autorità e fanno appello al ministro della Giustizia. Lo fanno scrivendo su un foglio di carta costato 50 centesimi e con una penna blu pagata 1.50 curo: "prezzi da persone libere, non certo da detenuti", aggiungono. Sono i familiari, infatti, a poter consegnare una quota minima di denaro ai reclusi. Lo chiamano "borsino" e nella maggior parte dei casi viene esaurito prima ancora che vi sia la visita successiva dei parenti. E a chi cerca di trasmettere un messaggio di normalità ai propri figli, non resta che rassegnarsi. Nello spaccio è possibile acquistare anche dei giocattoli, un modo come un altro per consegnare un regalo ai piccoli in visita al papà. Il costo? Quindici curo e ottanta centesimi. "Perché il sorriso di mio figlio fa sopportare anche il digiuno". Livorno: la madre muore, negata la visita al figlio detenuto di Federico Lazzotti Il Tirreno, 31 maggio 2015 Livorno, la denuncia di Andrea Calloni in cella in attesa del processo: ho fatto richiesta e due solleciti ma sono stato ignorato. L'ok solo per il funerale. Marusca Tarquini aveva 67 anni ed è morta giovedì pomeriggio intorno alle 18 all'ospedale di Livorno dopo una lunga malattia. Suo figlio si chiama Andrea Calloni, ha 42 anni, è detenuto dal 18 settembre scorso, e non ha potuto salutarla per l'ultima volta, almeno da viva. Colpa di quella "richiesta ignorata" dal Tribunale di Livorno che non gli ha concesso il permesso necessario per uscire da una cella del carcere delle Sughere - dov'è in attesa dell'inizio del processo - per recarsi in ospedale. Lo sfogo per questa delusione che considera "una vera ingiustizia", Calloni l'ha consegnato al suo difensore, l'avvocato Barbara Luceri che sta preparando la prima udienza del dibattimento che inizia giovedì e dove il suo cliente è accusato anche di associazione per delinquere. "Sono deluso dal sistema giudiziario - fa sapere il quarantaduenne - io sono in carcere per reati contro il patrimonio. E soprattutto sono in attesa di giudizio. Quindi fino a quel giorno per la legge italiana c'è la presunzione di innocenza. Ecco perché non capisco il motivo di questo torto. Si tratta di un'ingiustizia che poteva essere evitata solo usando il buon senso e un po' di umanità". La corsa contro il tempo e la burocrazia per riuscire a fare visita alla madre è iniziata lo scorso 19 maggio quando la donna è stata ricoverata in ospedale per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. "I medici - spiega l'avvocato - hanno detto molto chiaramente che non c'erano molte speranze. Le condizioni della donna erano gravissime, ma in alcune circostanze riusciva ancora ad essere presente a sé stessa". Così, appresa la cattiva notizia, Andrea Calloni dal carcere ha preso foglio e penna e lo stesso giorno del ricovero della madre ha fatto richiesta all'autorità competente per avere un permesso che gli consentisse di andare a trovare la madre. "Visto che non ho ricevuta alcuna risposta - prosegue il racconto di Calloni dal carcere - ho fatto altri due solleciti il 21 e il 23 maggio. Ma nonostante queste richieste non c'è stata alcuna decisione: la richiesta è stata ignorata". Cinque giorni più tardi è arrivata in carcere la notizia del decesso della donna. Solo ieri Andrea Calloni è potuto uscire dal carcere per andare al funerale della madre. E darle l'ultimo saluto. Diverso e più amaro di quello che avrebbero voluto entrambi. Lecce: Cosp; due tentativi di suicidio sventati dagli agenti di Polizia penitenziaria quotidianodipuglia.it, 31 maggio 2015 Nelle ultime 24 ore due detenuti, entrambi italiani, hanno tentato il suicidio nel carcere di Lecce e sono stati salvati dagli agenti di polizia penitenziaria. Lo riferisce in una nota il segretario generale nazionale del Cosp (Coordinamento sindacale penitenziario), Domenico Mastrulli. Ieri un detenuto è stato bloccato durante una ispezione mentre era già appeso alla grata della cella nel tentativo di impiccarsi. Nella tarda mattinata odierna un altro recluso è stato salvato mentre tentava di togliersi la vita alla stessa maniera nell'infermeria del carcere. Il Cosp sottolinea che la Puglia mantiene una situazione di sovraffollamento carcerario, con oltre 3.300 detenuti mentre i posti letto disponibili sono 2.400. Inoltre, aggiunge Mastrulli, il personale penitenziario è costretto a turni di servizio stressanti, mentre l'organico degli educatori e dell'area pedagogica sarebbe ridotto a Lecce quasi del 50%, con otto operatori al lavoro, su 15 unità previste, per una popolazione di mille reclusi da sottoporre a trattamento educativo e altri programmi. Velletri: Sappe; detenuto sorpreso al telefono in cella, terzo ritrovamento in un mese castellinews.it, 31 maggio 2015 Nel carcere di Velletri un detenuto è stato sorpreso in cella da gli uomini della Polizia Penitenziaria mentre stava telefonando con un cellulare. Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. "È il terzo episodio a distanza di un mese dal rinvenimento di altri due telefoni cellulari in altrettante celle del carcere. Credo che l'Amministrazione non possa continuare a rimanere insensibile a tutto ciò, e dia in uso ai Reparti di Polizia Penitenziari adeguati strumenti di schermatura che impediscano l'ingresso e l'uso dei telefonini in carcere". Lo dichiara il segretario generale del Sappe Donato Capece. Maurizio Somma, segretario nazionale Sappe per il Lazio, sottolinea che "lo scorso 30 aprile i detenuti presenti a Velletri erano 519, ben oltre la capienza regolamentare di circa 400 posti letto. Lo stesso giorno, lo scorso anno 2014, erano 607 i ristretti in carcere, per cui l'impatto delle varie leggi "svuota carceri" a Velletri ha inciso poco". "Il terzo telefono cellulare trovato in carcere a Velletri in poco tempo ed altri casi in altri penitenziari italiani dovrebbero seriamente far riflettere la nostra Amministrazione sulla vulnerabilità del nostro sistema penitenziario - ha concluso Capece. Parlo di schermare gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Pisa: progetto di MdS Editore, al carcere Don Bosco presentato il volume "Favolare" gonews.it, 31 maggio 2015 Si è svolta venerdì 29 maggio la presentazione in anteprima del volume "Favolare", nel carcere Don Bosco di Pisa. Il libro frutto di un progetto di MdS Editore, nato da un'idea dalla giornalista Antonia Casini è stato scritto dai detenuti insieme a giornalisti e scrittori di Pisa e non solo fra cui il giornalista Alberto Severi della Rai, Il professor Maurizio Iacono ed il filosofo Ermanno Bencivenga. Patrocinato dal Comune di Pisa, dal Consiglio dell'ordine degli avvocati di Pisa e dalla Camera Penale di Pisa. Faceva un effetto straniante vedere mescolati detenuti, guardie, che come sempre attendevano seriamente al loro lavoro, a scrittori, autori e amici della casa editrice MdS. Tanta partecipazione da richiedere l'uso della palestra. È stata una pacifica invasione del carcere in un'osmosi reale con capannelli di detenuti e visitatori che per qualche ora hanno trasformato la routine giornaliera della vita carceraria. Fabio Prestopino, il direttore del Carcere ha affermato che questo progetto nato quasi al buio, ha visto una seria partecipazione di otto detenuti che non hanno mai perso una lezione e i cui elaborati poco si distinguono da quelli degli altri scrittori, che nel volume compaiono rigorosamente in ordine alfabetico. Sulla situazione del carcere Prestopino, ritiene che a Pisa non vi sia un serio problema di sovraffollamento, ma semmai di struttura edilizia. Per l'assessora Marilù Chiofalo, queste iniziative migliorano le condizioni di chi è dentro ed aumentano la consapevolezza di chi è fuori. Ma la parte più emozionante è stata la parola data ai detenuti, che hanno spiegato temi e motivazioni di quanto hanno scritto e tutti hanno rimarcato la consapevolezza del valore del progetto, e la loro sincera gratitudine. È stato un riconoscersi reciproco, hanno detto: incontro dopo incontro veniva meno la diffidenza. Giovanni Vannozzi che ha tenuto i corsi ed ha curato il volume dice senza esitazione: " qua dentro ho trovato una sincerità ed un'umanità che fuori si perde nel gioco vano degli incontri di circostanza e di convenienza". L'avvocato Fabrizio Bartelloni che ha partecipato con un racconto al volume ha trovato un eccellente livello letterario degli elaborati ed ha raccomandato che questo libro venga portato in tour per le carceri toscane. Toccante anche l'intervento di Francesca Petrucci, scrittrice, che alla richiesta di tenere i corsi in carcere aveva detto no, non sentendosi pronta. Ma l'atmosfera coinvolgente di questo incontro l'ha spinta addirittura a chiedere scusa per il suo diniego e darsi disponibile per futuri progetti in cui si parli di scrittura. Il 4 Giugno MdS Editore insieme al direttore Prestopino, Serena Caputo in rappresentanza delle Camere Penali di Pisa e all'avvocato Carlo Porcaro D'Ambrosio, in rappresentanza dell'ordine degli avvocati di Pisa saranno di nuovo riuniti per presentare il progetto alla cittadinanza. La presentazione si terrà nella sala espositiva di Sms Biblio in zona Piagge, a Pisa. Viterbo: teatro-carcere, doppio appuntamento con "Distanze" e "Un atto senza nome" ontuscia.it, 31 maggio 2015 A partire dalla drammaturgia creata con i detenuti della casa circondariale di Viterbo nell'anno 2013 per lo spettacolo "Sulla ruota dei pensieri - ragionando su Macbeth", il gruppo del laboratorio Fuori-Dentro guidato da Mariella Sto e Cristina Failla, ha elaborato le tematiche originali, ascoltato cosa si muove nel corpo, nell'emozione e nello spirito di fronte ad esse. I detenuti hanno qualcosa di profondo da dirci. Chi ha commesso reati e vive recluso può spiegarci qualcosa della vita e della società di cui mai potremmo venire a conoscenza. È un rischio che vogliamo correre? Come Teatro degli Incerti e Arci Solidarietà Viterbo abbiamo spinto perché il ponte tra carcere e società, che è la cultura, fosse percorso in entrambi i sensi e che per una volta la tematica arrivasse dal carcere alla società. Dunque abbiamo proposto ad attori professionisti e non (il laboratorio Fuori-Dentro, appunto) di lavorare a "Sulla ruota dei pensieri- ragionando su Macbeth", spettacolo che si presta particolarmente a questa operazione e che ha commosso tutto il pubblico interno ed esterno il 6 febbraio 2013. Ne è nata "Distanze", performance in programmazione per il 31 maggio alle ore 11.00 presso Il Giardino di Filippo a Viterbo. È stata nostra intenzione presentare anche questo secondo spettacolo presso la casa circondariale alle persone che l'hanno realizzato per prime per creare una doppia partitura in modo che adesso i due spettacoli possano vivere contemporaneamente, integrandosi sulla scena. Questa la genesi di "Un atto senza nome", doppio spettacolo in calendario per il 9 giugno alle ore 14.30 presso la Sala Teatro della Casa Circondariale di Viterbo. Il pubblico cittadino è invitato. Per partecipare è necessario comunicare i propri dati ad Arci Solidarietà Viterbo (bauli@arci.it) entro l'1 giugno. Droghe: intervista al sottosegretario Della Vedova "basta, il proibizionismo ha fallito" di Alessia Soni La Nazione, 31 maggio 2015 "Vent'anni fa mi feci arrestare, processare e condannare durante una manifestazione politica per denunciare a quale livello dì follia fosse giunta una legislazione che mandava in galera chiunque sì passasse uno spinello", ricorda Benedetto Della Vedova. Un passato di lotte con i Radicali, oggi senato-te iscritto ai gruppo misto e sottosegretario agii Esteri. La vocazione liberista e liberale è intatta. Sottosegretario, dopo 20 orini di tentativi di legalizzazione della cannabis caduti nel vuoto, cosa le fa pensare che queste sia la volta buona? "Dopo decenni di proibizionismo che si sono rivelati un fallimento totale, oggi sia nell'opinione pubblica sia in Parlamento ci sono le condizioni per un consenso trasversale. Il fatto che oltre cento parlamentari abbiano già aderito all'intergruppo che sta elaborando il disegno di legge è un forte segnale politico". Il consumo di cannabis, rileva la Direzione nazionale Antimafia, è in aumento. "Certo. Il mercato nei fatti è già libero, nel senso che hashish e marijuana sono acquistabili da chiunque e ovunque, ma tutti i proventi vanno alla criminalità organizzata. Con un enorme spreco di risorse per l'apparato di repressione e tribunali ingolfati. È la finzione della proibizione". Insomma, una situazione agli antipodi delle razionalità. La cannabis però fa male. "Legalizzare la cannabis non significa dire che il consunto non sia nocivo. Lo è, come lo è quello di tabacco e alcol. Ma, poiché il consumo anziché diminuire aumenta, perché non intraprendere la strada della dissuasione e della tassazione? La repressione non ha cancellato il consumo e ora anche l'Antimafia chiede di depenalizzarlo". Dal punto di vista del ritorno economico, nessun dubbio. Ma chi si oppone alla legalizzazione denuncia il rischio di un incentivo all'uso delle droghe leggere. "I dati che arrivano dagli Stati Uniti dimostrano che non c'è stato un aumento dei consumi né degli incidenti stradali dovuti al consumo di cannabis. Inoltre, legalizzare consente di controllare tutta la filiera produttiva e, dunque, la qualità. La depenalizzazione si accompagnerebbe poi a campagne dì sensibilizzazione sui rischi per la salute, e saranno definiti limiti di età per il possesso e il consumo". In tempi di risorse scarse, le casse dello Stato trarrebbero non pochi benefici tassando le cannabis. Potrebbe essere una misura anticrisi? "Ci sarebbero introiti diretti in termini di tassazione: licenze, distribuzione, vendita. Difficile fare stime, ma si parla di miliardi. Una filiera che genererebbe anche migliaia di posti di lavoro legali". Il governo è pronto a sostenere questa legge? "Non credo che il governo debba essere coinvolto, è un'iniziativa che nasce dal Parlamento". Svizzera: due nuove prigioni per i richiedenti asilo che devono lasciare il paese rsi.ch, 31 maggio 2015 Confederazione e cantoni vogliono creare tra i 500 e i 700 nuovi posti in due nuove strutture carcerarie riservate soprattutto a richiedenti l'asilo che non hanno ottenuto il permesso di rimanere in Svizzera. Ciò anche alla luce della riforma nell'ambito della politica d'asilo con l'accelerazione dell'esame delle procedure. Il progetto, riferisce la trasmissione della SRF "10vor10", in cantiere da un paio d'anni, ha registrato una decisa accelerazione negli scorsi giorni allorquando i direttori di Giustizia di nove cantoni (Berna, Argovia, Soletta, Lucerna, Obvaldo, Nidvaldo, Zugo, Uri e Svitto) hanno deciso di sostenere la realizzazione delle due nuove strutture. Uno dei nuovi carceri dovrebbe quindi sorgere a Stans in canton Nidvaldo. La seconda struttura è prospettata a cavallo tra i cantoni Argovia e Soletta nella zona di Härkingen/Oftringen. Il costo delle due nuove carceri è stimato in circa 125 milioni di franchi, il 75% a carico della Confedrazione, i restanti circa 30 milioni sarebbero finanziati dai novi cantoni che sostengono il progetto che dovrebbe essere realtà entro 5 anni. Siria: lo Stato islamico fa esplodere la prigione di Palmira Nova, 31 maggio 2015 I miliziani dello Stato islamico hanno distrutto ieri la prigione di Palmira, una delle più importanti della Siria, facendola esplodere con una forte carica di esplosivo. Il centro di detenzione, usato dal regime per imprigionare gli oppositori più importanti, si trovava in una zona desertica del paese. Al momento non vi sono notizie certe sul destino dei detenuti. Secondo alcune fonti vicine al regime sarebbero fuggiti dopo l'arrivo dello Stato islamico, mentre secondo altre sarebbero stati trasportati dagli uomini fedeli ad Assad in un altro centro di detenzione. L'Osservatorio siriano per i diritti umani ha assicurato che il carcere era vuoto al momento dell'esplosione. Lo Stato islamico ha conquistato la zona di Palmira dieci giorni fa dopo una ritirata delle truppe di Assad. Nepal: il sisma distrugge gli istituti penitenziari, allarme per la sicurezza dei detenuti di Fabio Polese eastonline.eu, 31 maggio 2015 Il terribile terremoto di magnitudo 7,8 che ha colpito il Nepal il 25 aprile scorso, ha causato più di 8 mila morti, quasi 20 mila feriti e incalcolabili distruzioni. Solo a Kathmandu il 90 per cento degli edifici ha riportato danni strutturali, e di questi l'80 per cento è considerato ad "alto rischio". Secondo i dati diffusi dal governo, la terribile scossa ha distrutto o gravemente danneggiato anche il 55 per cento degli istituti penitenziari del Paese che, in 72 distretti, "ospitano" circa 17 mila persone. "Sono almeno venti i prigionieri morti durante il sisma e più di cento sono rimasti feriti. Ma non disponiamo dei dati ufficiali e temiamo che il numero sia molto più alto". A denunciarlo è stato Sudip Pathak, attivista e membro della Commissione nazionale per i diritti umani del Nepal. Secondo la testimonianza rilasciata ad Asia News da Bed Bahadur Karki, una guardia carceraria della prigione, sedici persone - tutte di nazionalità nepalese - sarebbero morte nel carcere centrale di Kathmandu. "Circa 200 persone erano presenti durante la scossa di terremoto. Tutti sono terrorizzati, ma non abbiamo soluzioni alternative e non possiamo spostarli in un'altra area. I sedici detenuti sono morti a causa del collasso dei vecchi edifici, quando le pareti si sono accartocciate su di loro". Le famiglie dei detenuti e varie Organizzazioni non governative locali, chiedono a gran voce che sia garantita la sicurezza dei sopravvissuti e, se necessario, il trasferimento in altri luoghi. "Bisogna garantire la sicurezza di coloro che si trovano sotto il controllo del Governo", ha puntualizzato Sudip Pathak. "Continuare a detenere i prigionieri in strutture vecchie, fatiscenti e danneggiate è un crimine di Stato. Il governo non è in grado di fornirci i dati esatti sulla capienza totale delle prigioni, il numero dei detenuti - distinto tra cittadini nepalesi e stranieri - e dei feriti. Questo non è un governo democratico. Siamo riusciti a raccogliere le informazioni solo grazie a varie organizzazioni non-governative". "Noi trattiamo in modo serio la questione, ma le conseguenze di simili disastri naturali sono al di là del nostro controllo. Stiamo fornendo le cure necessarie ai sopravvissuti e progettando dei posti più sicuri", ha precisato Surya Siwal, segretario del ministro degli Affari interni, rispondendo alle accuse rivolte al governo. Ma lo spostamento dei detenuti, ad ora, sembra impossibile. Non ci sono strutture adeguate e il governo di Kathmandu ha bloccato per motivi di sicurezza la costruzione di nuovi edifici con più di due piani fino a quando non verrà formulato un nuovo regolamento per l'edilizia. Tutto questo, secondo quanto è stato riferito dal segretario del ministero dello Sviluppo locale, non avverrà prima della metà di luglio. Così, i detenuti e i loro familiari, continueranno a vivere nella paura. Con la speranza che non ci siano nuove scosse. Egitto: scarcerato detenuto con cittadinanza Usa in sciopero fame da 14 mesi Aki, 31 maggio 2015 Condannato a ergastolo, figlio dirigente Fratelli Musulmani, ha anche cittadinanza Usa. Le autorità del Cairo hanno scarcerato Mohammad Soltan, cittadino egiziano e statunitense che era stato condannato all'ergastolo con l'accusa di aver finanziato un sit-in antigovernativo e di aver diffuso notizie false e che era da 14 mesi in sciopero della fame. Soltan, figlio di un dirigente dei Fratelli Musulmani, movimento oggi fuorilegge, era stato arrestato ad agosto 2013 quando le forze di sicurezza fecero irruzione nella sua abitazione in cerca del padre. Secondo i suoi familiari, Mohammad Soltan fu arrestato solo perché i militari non trovarono il padre Salah, che finì in manette alcuni giorni dopo. Il 27enne Mohammad si è laureato all'Università dell'Ohio e ha fatto campagna per l'elezione di Barack Obama. Il suo sciopero della fame è andato avanti per 14 mesi, tanto che si parla di lui come del detenuto egiziano che per più tempo ha ridotto al minimo l'assunzione di cibo. Come scrivono i media arabi, subito dopo la liberazione il giovane si sarebbe imbarcato su un volo per Francoforte.