Giustizia: in ricordo di Nils Christie di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 30 maggio 2015 Nils Christie. Il ricordo del giurista norvegese (1928-2015), padre dell'abolizionismo penale. "Il vero problema non è la droga, ma il modo scellerato in cui si pensa di combatterla. Ci sono molte cose pessime al mondo, cose che io personalmente disapprovo, ma la questione è se esse costituiscano dei reati oppure no: è un problema di definizione. Noi dobbiamo decidere cosa è criminale e cosa non lo è. Cosa assomiglia al criminale: il cattivo, l'incomprensibile, l'involontario? Niente di tutto questo lo è necessariamente, c'è una grande libertà nelle definizioni. La maggior parte dei comportamenti che consideriamo criminali hanno a che vedere con dei conflitti, ma i conflitti possono anche essere mediati. Possiamo leggerli come le contraddizioni insite nella natura umana. Dobbiamo lavorare su vie alternative al sistema delle pene, dobbiamo occuparci di riconciliazione e di compensazione delle vittime. Nella vita civile accade che sorga un conflitto, segno di un disagio, e che si entri in contrasto con la polizia, con le istituzioni. A quel punto non dobbiamo essere interessati alla soluzione più facile, ossia alla vittoria dello stato che sconfigge il criminale. Rispondere a un disagio con la punizione significa legittimare un sistema di paure a partire dalla paura di chi punisce". Così Nils Christie in un dialogo pubblicato sulle pagine di questo giornale quindici anni fa. Nils Christie, padre dell'abolizionismo penale insieme a Louk Hulsman e Thomas Mathiesen, è morto il 27 maggio scorso. Aveva ottantasette anni, molti dei quali impegnati a sostenere che il reato non esiste. È un artificio di chi governa. Esce in Italia nel 1996 per Elèuthera "Il business del penitenziario. La via occidentale al gulag". È un racconto degli affari planetari prodotti dal sistema del controllo penale e dell'internamento di massa. Lo sguardo in primo luogo è agli Usa, capaci di esportare su scala globale il grande imbroglio della sicurezza. Fioriscono negli anni della Reagomics le prigioni private. Le multinazionali della sicurezza sono una lobby potente che condiziona le politiche criminali. La war on drugs vive dello stesso imbroglio politico-culturale delle prigioni. Il reato non esiste, dunque. Christie raccontava come le carceri, negli Usa come in Russia, sono il luogo della reclusione delle minoranze. "Quanti detenuti avete in Italia? 54.000? Quante guardie? 44.000? E allora non abbiate paura dei troppi poliziotti… ognuno potrebbe portarsi a casa un detenuto, e avreste risolto il problema delle carceri!". Quest'altro breve estratto dell'intervista pubblicata dal Manifesto nel 2000 funziona perfettamente in quanto oggi abbiamo più o meno lo stesso numero di detenuti di allora. La sua non era una provocazione ma una proposta. In Italia studiosi a noi vicini e cari come Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini e Vincenzo Ruggiero hanno aperto e portato avanti nel tempo la discussione intorno alla prospettiva abolizionista. Un dibattito di recente rivitalizzato da due bei libri ovvero Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta (Chiarelettere) già recensito sulle pagine di questo giornale e No prison. Ovvero il fallimento del carcere di Livio Ferrari con prefazione di Massimo Pavarini (Rubbettino). A fronte di tutto questo però negli ultimi anni c'è un fiorire confuso di proposte legislative intorno alla mediazione in sede penale. Con molta approssimazione si parla di giustizia riconciliativa e di rapporto vittima-detenuto. In alcuni tribunali di sorveglianza si chiede ai detenuti infatti di avvicinarsi alle vittime e da questo si fa dipendere il loro percorso penitenziario e dunque l'abbreviazione della pena. Nils Christie aborrirebbe di fronte a questi esiti. La mediazione per lui era l'alternativa al sistema delle pene e non una parte della pena. Anche se lo spazio politico e giuridico per la proposta abolizionista non è facile da vedersi, la scuola nordica di Christie, Hulsman e Mathiesen ci ha lasciato in eredità un campo vasto di ragionamento. La loro era una proposta che potremmo definire umanocentrica in quanto contrapposta a un sistema penale e penitenziario che ha mostrato nel tempo tutta la sua mostruosità. Non è tanto importante indagarne la pragmaticità o la sostenibilità quanto capire la direzione che ci suggerisce di percorrere. Giustizia: non c'è pace per Orlando di Marco Damilano L'Espresso, 30 maggio 2015 Ascolta, dialoga, media. Il metodo del ministro della Giustizia è l'opposto di quello renziano. Ma ora il caso De Luca riapre lo scontro politici-magistrati. Il Ministro della Giustizia salta da un comizio nelle Marche a una conferenza stampa sullo smaltimento del contenzioso giudiziario, meno venti per cento dicono le cifre, a un volo destinazione Russia per il forum giuridico di San Pietroburgo per poi ritornare nella sua Liguria, a chiudere la campagna elettorale. I provvedimenti con la sua firma marciano spediti in Parlamento, più della metà tra quelli governativi approvati dalle Camere riguardano la giustizia: la settimana scorsa la legge anti-corruzione, due settimane fa il decreto sugli eco-reati, prima c'era stata la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. E poi la riforma del processo penale e del processo civile, le misure per sveltire i procedimenti e per abbattere l'arretrato giudiziario. E dire che nei primi mesi di governo Matteo Renzi lo aveva messo nella lista nera dei ministri insoddisfacenti. Uno che non andava troppo in tv e non litigava con nessuno. Era arrivato a definirlo "doroteo", nel pieno di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, beccandosi una replica stizzita. Un litigio in pubblico, l'unico dell'era Renzi, non si è più ripetuto. Spezzino, 46 anni, politico di professione cresciuto nella Ditta Pci-Pds-Ds-Pd, ministro dell'Ambiente nel governo Letta, finito al ministero di via Arenula per una serie di circostanze fortuite (la bocciatura del magistrato Nicola Gratteri, depennato da Giorgio Napolitano al Quirinale) e di alchimie correntizie (con Matteo Orfini, è un giovane turco che ha sostenuto nel 2013 Gianni Cuperlo ma si è riposizionato su Renzi), oggi Andrea Orlando è nel governo una riserva di affidabilità. Uno che produce molto, come piace al premier, senza troppo comunicarlo. "Meglio comunicare in fondo, quando sei quasi arrivato al traguardo", spiega il ministro. È il metodo Orlando, alternativo a quello di Renzi: il dialogo, l'ascolto, la ricerca del consenso. Il conflitto, lo scontro, si è spostato su altri settori: la scuola, il lavoro, le riforme costituzionali. In via Arenula regna una pax irreale, dopo la guerra dei vent'anni tra politica e giustizia, con due o tre governi caduti dopo un'inchiesta della magistratura. La pacificazione che Berlusconi sognava a colpi di clava e di leggi ad personam, era una normalizzazione, imbavagliare le procure e garantire l'impunità ai politici, Orlando la sta realizzando senza troppo darlo a vedere, in modo felpato. Alla dorotea, per l'appunto, o alla democristiana. Fino almeno alla sentenza della Cassazione del 26 maggio che ha riaperto il caso di Vincenzo De Luca, il candidato del Pd alla presidenza della regione Campania condannato in primo grado per abuso d'ufficio e dunque ineleggibile per effetto della legge Severino. La Cassazione ha stabilito che sarà il giudice ordinario ad applicare la legge sui politici condannati, e non il tribunale amministrativo. In caso di vittoria, De Luca sarà sospeso da presidente della Campania (e in caso di sconfitta da consigliere regionale), per di più con provvedimento firmato dal presidente del Consiglio, cioè lo stesso Renzi che ha fatto un comizio per chiedere di votare per lui. Un atto che potrebbe riaprire la guerra tra le toghe e il governo. E strappare la tela della mediazione pazientemente imbastita da Orlando in questi mesi. Eppure, spiega il ministro, nell'ultimo anno "è finito un senso di assedio. Si è capito che nessuno di noi vuole tagliare le unghie alla magistratura. Stiamo facendo uno sforzo imponente sul piano organizzativo. E le leggi anti-corruzione e contro gli eco-reati sono manifestazioni di grande fiducia verso la magistratura cui assegniamo ulteriori possibilità di intervento, soprattutto in campo economico". Ecco il metodo Orlando. Il premier rompe, il ministro ricuce. Quando mesi fa Renzi aprì le ostilità con le toghe con la polemica sulle troppe ferie, Orlando ha consigliato prudenza, spingersi su quella strada, ha spiegato, "ha messo l'Associazione nazionale magistrati nella condizione di disconoscere l'intero pacchetto giustizia che invece li aveva soddisfatti in più parti". E poi, recita la versione di Orlando, "al di là delle polemiche, c'è una crisi di ruolo che vivono tutti gli operatori del mondo della giustizia. In questi anni non è stata delegittimata la politica ma tutte le istituzioni. Oggi la guerra tra politici e magistrati è un conflitto in un bicchiere, la vera partita è tra politica e economia, tra giurisdizioni nazionali che appaiono sempre più impotenti e istituzioni sovranazionali che sembrano sempre più forti. Rispetto a questa situazione il compito della magistratura non è difendersi dai politici nazionali, ma battersi per recuperare un ruolo che è andato perduto". Per ora il ministero della Giustizia è stato tenuto al riparo dalle convulsioni politiche, ad esempio il derby nel Pd tra maggioranza renziana e minoranza. E anche con Forza Italia e con Movimento 5 Stelle c'è un'interlocuzione che non si interrompe nella commissione Giustizia della Camera. Sotto la presidenza di Donatella Ferranti, Pd, magistrata, è la macchina che sforna le riforme da approvare in aula. In via Arenula lavora la squadra del ministro: il capo di gabinetto Giovanni Melillo, il capo dell'organizzazione Mario Barbuto, incaricato di eliminare il contenzioso che grava sulla giustizia civile "dal secolo scorso o da inizio millennio", dice l'ex presidente del tribunale di Torino, più di 200mila procedimenti. Nei mesi scorsi Orlando ha resistito al pressing di chi gli chiedeva di candidarsi alla presidenza della regione Liguria o Campania. Ha detto di no anche a Renzi, è rimasto al suo posto in via Arenula, anche se è un ministro che rivendica la sua radice politica: ha commemorato Palmiro Togliatti, ha trascorso il primo maggio a Portella della Ginestra dove nel 1947 durante una manifestazione sindacale ci fu la prima strage di maia della storia repubblicana. E sulle iniziative per svuotare le carceri ha raccolto consensi da Marco Pannella al "Manifesto". Finora ha funzionato. Ma la tregua sulla giustizia sta terminando. C'è stata la bocciatura della legge anti-corruzione da parte del Csm, poi mitigata. È in arrivo il disegno di legge sulle intercettazioni. E c'è il pasticcio in Campania sulla legge Severino e sul candidato del Pd De Luca. Un intervento della magistratura a pochi giorni dal voto, una bomba politica sulle elezioni e sul governo Renzi. Segno che la pace è finita. Giustizia: per i disabili in carcere la condanna è doppia di Damiano Aliprandi Il Garantista, 30 maggio 2015 Tra barriere architettoniche e assenza di operatori e di strutture di assistenza per le attività di tutti i giorni. Quando si parla di prigione di solito non la si associa mai alla disabilità. Confermano ciò i dati nazionali sulla popolazione carceraria che non menzionano mai la presenza di queste persone negli istituti, portando l'opinione pubblica a credere che non ci siano disabili nelle carceri. Invece, non è così. Malattia e disabilità non sono incompatibili con la detenzione: sono tanti i portatori di handicap dietro le sbarre. Come vivono i detenuti disabili nelle nostre patrie galere sotto accusa per trattamento inumano e degradante? La risposta è ovvia: malissimo. Quella dei reclusi portatori di handicap è una tragedia nella tragedia, e lo denunciano le associazioni che tutti i giorni con loro si trovano a operare; barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, mancanza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri. Lo scorso anno, ad esempio, il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, rese noto un episodio incredibile. Un detenuto tentò il suicidio in una cella del G11, il piano terra di Rebibbia. A salvarlo fu la prontezza del suo compagno di cella, che si buttò per terra, si collocò sotto i suoi piedi e ne sostenne il peso, evitando che il cappio improvvisato consenta l'esito finale del gesto. Il fatto è che Salvatore era una persona con disabilità, che viveva in sedia a rotelle. Non ha esitato a gettarsi dalla carrozzina, un gesto non naturale e anche pericoloso, in uno slancio di umanità che di per sé ci interroga sulla realtà del carcere, sulla drammatica situazione nella quale queste persone si trovano a vivere. "Le celle ed i servizi utilizzati non sono adeguati", disse il garante Angiolo Marroni, "per ospitare disabili. Mancano i supporti e capita spesso che i detenuti siano costretti a stare tutto il giorno in cella. Nel Gli ci sono persone affette da patologie gravi" che avrebbero bisogno di ben altra attenzione". Lo Repubblica, nella cronaca di Roma, riporta gli studi della cooperativa Pid, Pronto intervento disagio, che gestisce il reparto Terra del reparto G11 di Rebibbia nuovo complesso, definita "a ridotte barriere architettoniche", dove ci sono circa 40 disabili ospitati. Si tratta, nella maggior porte, di italiani con un'età compresa tra i 40 e i 60 anni assistiti dai piantoni, ossia altri detenuti che, invece, sono quasi tutti stranieri. Oltre l'80 per cento dei disabili non ha seguito corsi di formazione professionale, il 95 per cento non lavora e il 97,5 per cento non usufruisce di alcuna misura alternativa alla detenzione. E questo accade perché non hanno familiari in grado di ospitarli e non ci sono strutture sul territorio adeguate alle loro esigenze sanitarie e ai tempi della pena. Non solo, dice il Pid: "Ci sono a Rebibbia altri dieci detenuti che sono perfettamente in regola" per lasciare la struttura, ma gli viene negata questa possibilità per intoppi burocratici. La divisione disabilità dell'Inali riporta dei numeri preoccupanti aggiornati all'anno 2013: in Italia nei carceri ci sono solo "131 posti per i disabili, 130 per i minorati fisici, 217 per malati di Hiv e 46 per affetti da Tbc". La situazione per i disabili fisici in cella è terribile, e i numeri dimostrano che circostanze del genere stanno aumentando per numero e per peso in tutto il Paese. Si calcola quindi che solo una parte dei detenuti con disabilità o malattie importanti risiedano nelle sezioni apposite delle carceri: nell'episodio del detenuto in carrozzina che ha salvato il compagno di cella, riportato dal garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, è evidente che il disabile risieda in una cella standard, e non in una sezione apposita. Le celle, per i disabili, sono una trappola infernale, dato che le carceri, por la loro stessa natura, traboccano di barriere architettoniche, e spesso i disabili sopravvivono in qualche modo grazie alla solidarietà dei compagni di cella. Sul punto è intervenuta la parlamentare del Partito democratico. Ileana Argentin, che per propria storia personale è storicamente molto attenta ai problemi e ai temi della disabilità: "Non possiamo dimenticare gli ultimi fra gli ultimi, e neanche che il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero: ma se non vengano garantiti gli atti più elementari della vita quotidiana a questo punto che senso ha tenerli lì?", dice Argentin. Giustizia: Antigone; contrari a decisione del Dap di creare sezioni per detenuti "violenti" Ansa, 30 maggio 2015 Il Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria con una circolare ha istituito sezioni speciali per detenuti che hanno compiuti atti di aggressione nei confronti del personale. Lo rileva l'associazione Antigone, l'associazione che si batte per i diritti nelle carceri, che sottolinea: "è una decisione che non condividiamo". "La decisione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria di istituire sezioni destinate a detenuti che abbiano compiuto atti di aggressione nei confronti del personale - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è dal nostro punto di vista rischiosa. Il pericolo è quello di stigmatizzare detenuti violenti e, anche al di là dell'intenzione di non dar vita a sezioni punitive - come riportato nella circolare - è questo il rischio concreto a cui si va incontro". "Mettere insieme più persone etichettate come violente fra loro - aggiunge Gonnella - non può che produrre il rischio evidente di una ulteriore escalation di violenza". "Per questo riteniamo che i casi difficili vadano trattati al di fuori di circuiti speciali. Tanto più che - prosegue - le recenti innovazioni in tema di gestione di più ore di socialità negli spazi aperti, nonché di sorveglianza dinamica, hanno evidentemente migliorato il clima e la qualità della vita in molti istituti penitenziari". Giustizia: caso "impresentabili"; il Pd contro Rosy Bindi "vuole regolare conti politici" di Alessandro Sala Corriere della Sera, 30 maggio 2015 Renzi: "Mai visto dibattito così autoreferenziale e lontano dalla realtà". Dopo i 4 pugliesi, 12 nominativi di candidati campani "sconsigliati" dalla Commissione. Alla fine sono stati "solo" 16. Gli "impresentabili", vale a dire i candidati che hanno pendenze penali per reati oggetto delle attenzioni della commissione parlamentare Antimafia, ora hanno tutti un nome e sono meno di quelli di cui si vociferava nei giorni scorsi. L'elenco è stato distribuito al termine dell'ufficio di presidenza e della seduta plenaria della stessa commissione. Un atto dovuto, secondo la presidente Rosy Bindi e un fronte trasversale che accomuna parte della sinistra Pd, Sel, M5S e Lega; una prevaricazione con finalità politiche secondo i renziani e gli altri partiti direttamente chiamati in causa La polemica non ci ha messo molto a divampare in Rete, con i fedelissimi del premier che hanno accusato la Bindi (che all'interno del Pd appartiene all'area di minoranza bersaniana) di avere utilizzato il ruolo istituzionale per una "vendetta privata" nei confronti del nuovo gruppo dirigente. E in serata è stato lo stesso Matteo Renzi a ribadire il concetto: "Mi fa molto male - ha detto nel corso di un comizio ad Ancona - che si utilizzi la vicenda dell'Antimafia per regolare dei conti all'interno del Partito democratico: l'Antimafia è un valore per tutti, non può essere usata in modo strumentale". I sedici "impresentabili" Il caso impresentabili che ha tenuto banco per settimane è dunque giunto all'epilogo. O forse no, perché già si possono immaginare lunghi e pesanti strascichi, anche giudiziari. Comunque sia, i candidati "attenzionati" dalla bicamerale hanno ora un nome e un cognome. Ai quattro pugliesi i cui nominativi erano trapelati già nei giorni scorsi, si sono aggiunti oggi quelli di altre 12 persone in corsa per il rinnovo del consiglio regionale della Campania. Su tutti spicca il nome del candidato del Pd per la presidenza, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, che ha già annunciato di voler querelare Bindi per diffamazione. Gli altri nomi in elenco sono quelli di Antonio Ambrosio (Forza Italia), Luciano Passariello (Fratelli d'Italia), Sergio Nappi (Caldoro presidente), Fernando Errico (Ncd-Campania popolare), Alessandrina Lonardo (Forza Italia), Francesco Plaitano (Popolari per l'Italia), Antonio Scalzone (Popolari per l'Italia), Raffaele Viscardi (Popolari per l'Italia), Domenico Elefante (Centro democratico-Scelta civica), Carmela Grimaldi (Campania in rete) e Alberico Gambino (Meloni-Fratelli d'Italia-An). I quattro candidati della Puglia inseriti nella lista sono, come noto, Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano), Enzo Palmisamo (Movimento per Schittulli), Giovanni Copertino (Forza Italia) e Massimiliano Oggiano (Lista Oltre con Fitto). Dei 12 campani, Antonio Scalzone già nelle scorse settimane aveva annunciato il ritiro della candidatura. "Nessuna ingerenza" "L'accusa di ingerenza in campagna elettorale è in contraddizione con il fatto che comunichiamo la lista di nomi proprio all'ultimo giorno - ha precisato Rosy Bindi nel corso della conferenza stampa seguita alla distribuzione dell'elenco. Questo dimostra che non intendiamo entrare nella campagna elettorale, non ci interessa proprio". E ancora: "Noi sappiamo perfettamente che alcuni sono stati messi in lista perché portano voti anche se non sono a posto. Ho fiducia che poi i cittadini sceglieranno, noi li abbiamo informati". Renzi: "Problema irreale" Il dibattito sugli "impresentabili" non sembrava entusiasmare molto il premier Renzi che nei giorni scorsi in tv che ancora in mattinata tramite la sua Enews settimanale aveva minimizzato parlando di "dibattito autoreferenziale e lontano dalla realtà", dicendosi pronto a scommettere che nessuno dei candidati messi all'indice sarebbe stato comunque eletto: "Sono quasi tutti espressioni di piccole liste civiche che grazie al sistema elettorale delle singole regioni vengono assemblate per prendere un voto in più. Sia benedetto l'Italicum che finalmente eviterà questo spargimento di candidature". In realtà, come si è visto, nell'elenco ci sono anche nomi di peso come lo stesso Vincenzo De Luca e la moglie di Clemente Mastella, Sandra Lonardo che di chance di elezione ne hanno più di una. Grillo lancia #delucaritirati Beppe Grillo e il M5S, subito dopo la diffusione della lista, hanno lanciato su Twitter l'hashtag #delucaritirati e rivendicato l'assenza di loro rappresentanti nell'elenco: "Nessuna sorpresa per la nostra non presenza. Lo stesso non possiamo dire delle altre forze politiche". Diversi esponenti grillini hanno parlato di responsabilità diretta di Renzi nella candidatura di De Luca, invitandolo a trarre le conclusioni. Anche il leader della Lega, Matteo Salvini, ha espresso sui social, Facebook in questo caso, la soddisfazione per l'assenza di esponenti del Carroccio nell'elenco: "Non ci sono leghisti fra i candidati impresentabili. Ne ero sicuro, ne sono orgoglioso!". I rancori anti-Bindi nel Pd Dall'interno del Pd sono arrivati per tutto il pomeriggio affondi durissimi contro Rosy Bindi. Prima ancora che parlasse Renzi era stata praticamente l'intera segreteria del Nazareno a prendere posizione parlando di "Costituzione violata" (Ernesto Carbone), di "vendetta politica" (Francesca Puglisi"), di "imbarazzante e inutile lo show" (Andrea Marcucci ), di "lavoro fatto male e gestito peggio che entra a piedi uniti nella competizione elettorale" (David Ermini). Anche Matteo Orfini, presidente del partito, ha accusato Bindi di "piegare le istituzioni ai propri obiettivo di battaglia interna al Partito Democratico". Poi era toccato ai vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini diffondere una nota congiunta che attribuisce alla presidente dell'Antimafia "una personale lotta politica" che si trasforma "in gravi lesioni dei diritti individuali". "La presidente della commissione che per tanti anni ha richiamato tutti al valore della Costituzione - hanno sottolineato, poteva evitare di metterne a repentaglio uno dei principi fondamentali". Poi le parole di Renzi a chiusura del cerchio. "Giudicheranno gli italiani chi davvero usa le istituzioni per fini politici, ma certamente non sono io" è stata la replica arrivata in serata dalla stessa Bindi. A cui si affiancano le parole di Claudio Fava, Sel, vicepresidente della commissione: "Accuse ridicole quelle di chi parla di regolamento di conti, il Pd non scarichi sul nostro lavoro l'imbarazzo per la candidatura di De Luca e per i suoi carichi pendenti". Grasso: "Bindi? Non potevo fermarla" Sulla questione era intervenuto in mattinata anche il presidente del Senato, Pietro Grasso, a cui il senatore di Ap Luigi Compagna aveva chiesto un intervento per evitare la diffusione dei nomi. "La presidente di una commissione insieme all'ufficio di presidenza di quella commissione - ha spiegato Grasso - ha piena disponibilità dei propri atti e delle proprie azioni. Non rientra nei compiti di un presidente, di una delle due Camere, di poter interferire su una commissione Bicamerale". Per il ministro dell'Interno e leader di Ap, Angelino Alfano, "esiste la legge che stabilisce quando ti puoi candidare e quando no, quando se eletto devi decadere e quando no. Il resto - ha detto al Tg1 - appartiene alla responsabilità dei partiti". Giustizia: "impresentabili", un rimedio grottesco a scelte sbagliate di Roberto Saviano La Repubblica, 30 maggio 2015 Il metodo è errato, perché dà la patente di presentabile a tutti quelli non inseriti nella lista e che magari sono dei prestanome. La vicenda degli impresentabili ha assunto un profilo ingarbugliato, grottesco, dove si confondono e si compromettono confine mediatico e concretezza giudiziaria. Chi è impresentabile, e per quale motivo? Per cause giudiziarie? Per cause morali? Politiche? con quali parametri e criteri viene definita l'impresentabilità? La verità è che - come spesso accade in Italia - si è arrivati ad applicare una pericolosa scorciatoia pseudo-giudiziaria invece della normale e ordinaria selezione politica. La Commissione antimafia è arrivata a mettere ordine laddove non è riuscita a farlo la politica, ma il risultato dell'elenco reso noto è pericoloso e ambiguo. Bisogna che l'intervento della Commissione abbia un codice, e chiarisca quali sono i parametri di presentabilità. Senza dubbio è interessante che la presidente Rosy Bindi stia cercando di trasformare la commissione da organismo assonnato e formale quale è sinora stato in parte attiva nell'analisi della realtà italiana. Ma la commissione resta un organismo parlamentare, non un organismo giudiziario. Fa parte delle sue funzioni "indagare sul rapporto tra mafia e politica", ma in molti casi le valutazioni sono state fatte non su sentenze passate in giudicato, ma sugli elementi prodotti dalla pubblica accusa. Se usassimo sempre questo criterio basterebbe una qualsiasi indagine, nemmeno un rinvio a giudizio, per rendere impresentabile un candidato. È importante poi che la commissione dialoghi con la Procura Nazionale Antimafia, ma questo deve essere la premessa alla selezione dei candidati e un capitolo del dibattito interno agli organismi politici. La lista di impresentabili, termine che io stesso ho utilizzato, rischia di diventare invece una sorta di lista di proscrizione. In primo luogo rischiosa, perché il metodo non è chiaro. Poi controproducente, poiché darebbe una patente di presentabilità a tutti quelli che non sono inseriti nella lista, e che magari sono solo dei prestanome. Quello dei prestanome è un meccanismo protagonista di questa tornata elettorale. Funziona così: si candida un nome assolutamente pulito e si convoglia su questo tutto il voto del candidato compromesso. Lo stesso meccanismo usato dalla mafie per salvare i beni dalle confische. Ma mentre per tracciare i soldi delle mafie si può ricostruire il flusso di danaro che le alimenta, come si fa a ricostruire il flusso del voto elettorale? Solo la politica può saperlo. Pd e Forza Italia colpevolmente non l'hanno fatto, demandando il giudizio sull'incandidabilità alla commissione, che ha un ruolo semantico di valutazione giudiziaria, quando in realtà è un organismo di politici che valutano altri politici. C'è in questo una pericolosa contraddizione. L'iniziativa della Commissione, presa sotto la pressione dell'opinione pubblica, rischia di rendere lo strumento antimafia non più un delicato spazio in cui tradurre i dati giudiziari in dibattito politico, ma al contrario un tentativo di camuffare una decisione politica in risultato giudiziario. La stessa immacolata parola antimafia dovrebbe essere spesa con estrema parsimonia ricordando soprattutto che è il termine più ricercato dalle mafie stesse, che fondano associazioni antimafia e antiracket come scudi entro quali fare la propria attività. Il M5S ha selezionato i suoi candidati in modo diverso. Questo quindi testimonia che laddove c'è volontà non è complesso tenere lontano figure ambigue dalle liste elettorali. L'attenzione data a De Luca e alla delusione del Pd in Campania ha poi del tutto oscurato il disastro di Forza Italia. È passato del tutto sotto silenzio l'arresto di Pasquale Scotti, uno dei più ricercati boss di camorra dell'intera storia criminale, trovato in Brasile dopo trent'anni di latitanza. Pasquale Scotti a verbale dice: "Circa un mese e mezzo fa ricevetti un biglietto tramite l'avvocato Cesaro (Luigi Cesaro presidente della provincia di Napoli sino al 2012 e dirigente del Pdl in Campania, ndr) il quale a sua volta l'aveva ricevuto dalla suocera di Raffaele Cutolo". Il rapporto tra Cesaro e Pasquale Scotti è stato ignorato dalla campagna elettorale, il che dimostra come i temi cruciali siano del tutto diventati secondari. Il guazzabuglio degli impresentabili deve far comprendere al premier Matteo Renzi che una vittoria claudicante con vecchi volti, con il solito modo di affrontare la politica, con il chiaro utilizzo di alleanze ambigue e pacchetti di voti che derivano da clientele è assai peggiore di una sconfitta subita perché si è provato a cambiare e rinnovare. Cambi rotta subito, ricostruendo il Pd nel Sud Italia. Nel Mezzogiorno ci sono le risorse e ci sono le persone nuove. Vanno rotte le vecchie clientele e i vecchi debiti di riconoscenza. L'impresentabilità deve tornare ad essere una categoria del dibattito politico o una categoria giudiziaria. Salutiamo con entusiasmo la volontà della Commissione antimafia di diventare un organismo attivo, ma procedendo come si è fatto si rischia di piegare la praxis antimafia ad una barbara decisione politica senza regole. Giustizia: sciogliete subito la Commissione antimafia… altrimenti la mafia stravince di Piero Sansonetti Il Garantista, 30 maggio 2015 Cosa c'entra l'abuso d'ufficio con la Commissione Antimafia? Povero Ferruccio Parri. Voi magari non sapete chi ora Ferruccio Parri, i più giovani sicuramente non lo conoscono. Un leader del partito d'azione, considerato il capo della Resistenza italiana, che - dopo essere stato presidente del consiglio nel 1945 - all'inizio degli anni sessanta propose l'istituzione di una commissione parlamentare antimafia. Allora fare antimafia non era un mestiere semplice, come è adesso. Non apriva carriere, non distribuiva prebende. Ti prendevi solo rischi. Allora i giornali dicevano che la mafia non esisteva. Nessuno ne conosceva le origini, le ragioni del radicamento, le connessioni popolari e politiche, lo strategie, i risvolti. Parri pensò che per affrontare la questione meridionale occorresse una conoscenza politica del fenomeno. La Dc si oppose ma la Commissione nacque ugualmente grazie alla pressione delle sinistre e dei repubblicani (partito al quale apparteneva Parri). Rosy Bindi aveva 12 anni, faceva la seconda media. Povero Parri. Se gli avessero detto che sarebbe venuto un giorno nel quale la commissione antimafia - del tutto disinteressata a indagare i motivi della forza della criminalità al Sud, e il nesso tra questi motivi e i motivi della povertà del Mezzogiorno - avrebbe usato i suoi poteri per scatenare vendette politiche e per sostenere la lotta all'interno del Pd, beh, ci sarebbe rimasto molto male. Ieri è successo questo, esattamente questo. Rosy Bindi, indignata per la protervia e l'arroganza con la quale Matteo Renzi, in modo tutt'altro che democratico, ha eliminato il dissenso politico nel suo partito, ha modificato le commissioni parlamentari, ha escluso dal Parlamento i maggiori leader del suo partito, ha abolito il Senato (e ora vorrebbe abolire anche il sindacato...), Rosy Bindi, dicevo, ha deciso che l'unico modo per combattere è quello di usare la commissione antimafia, che ha per le mani, come una clava, un randello. E ha picchiato duro, pubblicando una vera e propria lista di proscrizione, del tutto discrezionale, del tutto insensata, costruita solo per punire i suoi nemici. La lista di proscrizione, mettetela come vi pare, è uno strumento politico autoritario, che evoca solo, in Italia, il vecchio regime fascista. E Rosy Bindi, pubblicando le liste, ha compiuto una azione antidemocratica in tutto e per tutto speculare al metodo della rottamazione usato da Rnzi, e con in più l'aggravante dell'uso personale di una istituzione come la commissione antimafia. "Commissio ad perso-nani". È una cosa piuttosto grave. Forse senza precedenti. Ora molti deputati protestano perché dicono che è scattato un linciaggio contro La Bindi. Che strana idea di linciaggio. Un linciaggio c'è, ma è contro De Luca e gli altri proscritti. Personalmente non ho mai avuto neppure un minimo di simpatia per De Luca. E le mie posizioni politiche sono lontanissime dalla sue, che a me più che un leader politico sembra uno sceriffo. In Campania De Luca si presenta alle elezioni su posizioni di estrema destra e cerca - da destra - di sconfiggere Caldoro che invece è un centrista di radici socialiste. Se fossi in Campania, essendo io una persona di sinistra, forse sarei costretto, a malincuore, a votare Caldoro. E tuttavia l'attacco proditorio ricevuto da De Luca da parte dell'antimafia (che peraltro nemmeno si sogna di accusarlo di essere mafioso...) è un fatto inaudito e che non può non suscitare un po' di sdegno, in chi crede ancora nella democrazia e nelle sue regole. Recentemente a me è capitato di vedere da vicino la commissione antimafia. Sono stato ascoltato, in una audizione sulla libertà di stampa. Ne ho scritto su questo giornale, per raccontare un pomeriggio allucinante, durante il quale mi pareva di stare non in Italia ma in Cambogia. L'audizione si trasformò in interrogatorio, guidato da un vice della Bindi, Claudio Fava (deputato ex pds, ex pd, ex sinistra, ex sei, ex led) durante il quale mi fu contestato apertamente il modo nel quale facevo il giornale. Ne uscii sconvolto e con una convinzione che poi, col passare delle settimane, è diventata sempre più forte: la commissione antimafia va sciolta urgentemente. E sciogliere la commissione antimafia è il passo decisivo da compiere se si vuole ricostruire, in Italia, una seria lotta alla mafia. Oggi nessuno combatte la mafia. Le organizzazioni che si chiamano antimafia sono centri di retorica, di burocrazia e di illiberalità e basta. Non muovono un dito contro la mafia. Sono gradite alla mafia, che può prosperare senza temere nulla. E invece ci sarebbe bisogno di un impegno politico serio per capire le ragioni del successo delle mafie, la forza sociale del crimine al Sud, e immaginare politiche di sviluppo e di diritti (non di povertà e di manette) in grado di contrastare davvero il modello mafioso, e metterlo in crisi. Proprio per questo, perché una vera lotta alla mafia è necessaria, è urgente, viene su un po' di rabbia quando si vede questo scempio reazionario che stanno compiendo gli attuali commissari. Qualcuno abbia il coraggio di dirlo. Qualcuno li fermi. Il Far West era uno splendido scenario per girare i film di rivoltelle, ma era un posto pessimo per viverci. Giustizia: Giovanni Fiandaca "non confondiamo l'etica politica con il codice penale" intervista di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 30 maggio 2015 Impresentabili. Il professore Giovanni Fiandaca esprime dubbi sull'iniziativa della commissione antimafia: "In questo momento la morale pubblica è incerta e al parlamento viene comodo affidarsi ai parametri delle procure". "Comprendo le buone intenzioni della commissione antimafia, ma non condivido l'iniziativa. Come tutte le forme di supplenza finirà solo per aumentare la confusione". Autorità del diritto penale, ex componente del Csm, candidato non eletto nelle liste del Pd alle europee dello scorso anno, il professore Giovanni Fiandaca è soprattutto un garantista militante. Lei parla di supplenza, ma la presidente dell'antimafia Bindi ha spiegato che la "lista" rientra nei compiti della commissione. È stata la commissione antimafia ad auto attribuirsi una competenza che è propria delle forze politiche. La definisco una "supplenza" perché la commissione ha sopperito al mancato o insoddisfacente controllo sulle candidature da parte dei partiti politici. Perché allora non giudicare bene l'iniziativa? Perché si è trattato solo di una fotografia, un monitoraggio di informazioni arrivate in parlamento da parte delle prefetture. L'appiattimento è evidente e pressoché meccanico: il giudizio etico-politico sull'affidabilità e onestà di un candidato viene delegato al codice penale. La presunzione di innocenza fino a condanna definitiva prima di tutto? Certo, ma non solo. Nella lista ci sono effettivamente soggetti che al momento sono solo rinviati a giudizio. Non voglio fare l'ipergarantista peloso, ma vorrei invitare a una cautela persino maggiore: questo "automatismo dell'impresentabilità", per dire così, è rischioso per una democrazia liberale. Non le sembrano strumentali gli attacchi insistenti alla presidente Bindi? Quando si apre la porta ai sospetti, i sospetti avvelenano tutto. Obiettivamente i tempi dell'iniziativa dell'antimafia qualche dubbio lo sollevano. Si può contro-sospettare Bindi di voler consumare qualche vendetta nei confronti di Renzi. E così tutta l'operazione finisce nel discredito. Il discredito è generale, non le pare per colpa soprattutto di certe candidature? L'etica politica e il codice penale sono piani che andrebbero attentamente distinti. Viceversa ci si infila in un tunnel che porta dritti all'identificazione tra immoralità e illecito penale, esito tipico del legalismo etico. Una tendenza perversa che è caratteristica degli stati autoritari. Anche un condannato può essere candidato a testa alta? Ci sono reati che per i motivi per i quali sono stati commessi non necessariamente giustificano un giudizio di disapprovazione etico politica sulla persona dell'autore. Può darsi il caso di un amministratore pubblico che commette un abuso d'ufficio a fin di bene. Bisognerebbe capire perché l'ha fatto, in nome di quale interesse, per sopperire a quale problema. Non basta che una certa condotta sia inquadrabile nell'abuso d'ufficio per essere automaticamente un enorme misfatto dal punto di vista dell'etica politica. Abuso d'ufficio è appunto il reato per il quale De Luca incapperà nella legge Severino. Legge che andrebbe corretta, modificata. Ma mi rendo conto che le forze politiche non sono nella migliore condizione per trovare criteri univoci e condivisi. L'etica pubblica in questo momento è incerta e per le forze politiche affidarsi al parametro esterno della legge penale diventa comodo. Si cerca in qualche modo di standardizzare e rendere obiettivo il giudizio di disvalore, e in questo modo si finisce con il non tenere conto dello specifico politico. Un condannato per un gesto di disobbedienza civile può essere di per sé considerato indegno di impegnarsi politicamente, di candidarsi. Quando è vero il contrario. Giustizia: dalla "Cupola degli appalti" in poi, le indagini che turbano gli expo-ottimisti Il Manifesto, 30 maggio 2015 Expo 2015. Ritratto di un "grande evento" a partire dalle inchieste giudiziarie, i patteggiamenti, le multe. Dalla "Cupola degli appalti" in poi. Per il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, l'indagine per evasione fiscale che coinvolge la presidente di Expo Spa 2015 Diana Bracco è "un problema di immagine che deve essere valutato". Questa frase è stato l'unico dubbio apparso in una giornata dei dati di Federalberghi secondo la quale l'Expo sarà visitata da 1,9 milioni di persone (erano 20 solo pochi mesi fa). "Stime abbastanza realistiche" ha confermato l'ad Expo Giuseppe Sala che sostiene un aumento del 16% del Pil milanese nei primi 27 giorni di Expo. "Non c'è mai stata nel passato un'apertura di una Expo così entusiastica" ha ribadito Pisapia. Parole che suonano perlomeno forzate dopo la notizia dell'indagine su Bracco, vice-presidente per la Ricerca e Innovazione per Confindustria. A quasi un mese dall'esordio, sull'esposizione universale dedicata al culto contemporaneo del cibo si riallungano invece le ombre di un anno fa quando la procura di Milano spiccò mandati di arresto per Angelo Paris, direttore della pianificazione acquisti della Expo 2015, per gli ex parlamentari Gianstefano Frigerio (Dc) e Luigi Grillo (Forza Italia), per Primo Greganti, ex Pci e già coinvolto in Mani Pulite, per Sergio Catozzo (Udc Liguria) e l'imprenditore vicentino Enrico Maltauro. Ai domiciliari finì Antonio Rognoni, ex Dg di Infrastrutture Lombarde, già arrestato per un'altra inchiesta sugli appalti pubblici più importanti in Lombardia, anche relativi all'Expo. Nell'ottobre 2014 Antonio Acerbo era finito agli arresti domiciliari per corruzione e turbativa d'asta e si era dimesso da responsabile del Padiglione Italia di Expo. Un mese prima si era dimesso da commissario Expo per le vie d'acqua per corruzione e turbativa d'asta. Ad aprile 2015 sono state accettate sei richieste di patteggiamento presentate dagli indagati della cosiddetta "Cupola degli appalti" che avrebbe influito sulle gare di Expo, Sogin e nella sanità Lombarda. Grillo ha accettato una pena di due anni e otto mesi e una multa di 50 mila euro. Frigerio una pena di tre anni e quattro mesi, Greganti tre anni e una multa da 10 mila euro, Maltauro due anni e 10 mesi, Catozzo tre anni e due mesi e un risarcimento a Expo da 50 mila euro. Due anni e sei mesi a Paris e un risarcimento a Expo da 100 mila euro. L'ex sub-commissario Expo Acerbo ha patteggiato tre anni. Prima dell'inizio di Expo sembrava essere così tornata la normalità sulla quale veglia il commissario anti-corruzione di Raffaele Cantone. Ma così non è stato. C'è un altro capitolo, significativo, delle indagini che riguardano il governatore della Lombardia Roberto Maroni, accusato di induzione indebita per un contratto di collaborazione con Expo affidato a una sua ex collaboratrice. Polemiche ci sono state a seguito della nomina di Domenico Aiello, avvocato difensore di Maroni in questa inchiesta, nel Cda di Expo a 8 giorni dalla sua inaugurazione. In caso di un eventuale rinvio a giudizio di Maroni e del direttore generale di Expo Christian Malangone, Aiello si troverà nel doppio ruolo di membro del Cda e difensore della persona contro la quale Expo potrebbe decidere di rivalersi. A sua volta, come atto dovuto, l'azienda è indagata in base alla legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa per reati commessi dai propri dirigenti nell'interesse aziendale. Quella di Diana Bracco non è l'unico problema di immagine che turba gli umori expottimisti. Giustizia: ucciso a Latina l'avvocato e blogger anti-mafia Mario Piccolino di Marco Omizzolo e Roberto Lessio Il Manifesto, 30 maggio 2015 Con il sito freevillage.it la sua opera di denuncia. Era già stato aggredito. È stato ucciso a sangue freddo a Formia, in provincia di Latina, l'avvocato e blogger Mario Piccolino, 71 anni, famoso per le sue denunce pubbliche contro la mafia e i politici corrotti del Sud Pontino. Piccolino è stato colpito nel suo studio, in via della Conca, poco dopo le 17 di ieri da un colpo di pistola in testa sparato da un uomo che si è subito dato alla fuga. Un testimone avrebbe visto un ragazzo, con indosso un paio di bermuda, allontanarsi velocemente a piedi con una pistola in pugno. Dal suo sito, freevillage.it, in modo sempre documentato, l'avvocato Mario Piccolino non faceva sconti a nessuno e per questa sua opera di denuncia costante era stato già aggredito nel 2009, ancora nel suo ufficio, a colpi di cric sul volto da un uomo poi identificato come Angelo Bardellino. Si trattava del nipote del noto boss Antonio, fondatore e capo storico del clan dei casalesi negli anni Settanta e Ottanta. Lo stesso Angelo Bardellino noto alle cronache nazionale anche per la sua comparsa su Rai Due durante il programma musicale The Voice of Italy. L'avvocato Piccolino fu oggetto di numerosi avvertimenti espliciti di chiaro stampo mafioso. Sempre per le sue battaglie in un territorio dove il radicamento delle mafie è noto da anni, ricevette davanti la sua abitazione alcune teste mozzate e viscere di pesce. Ora si cercherà il killer ma l'auspicio è che si possano conoscere presto anche i nomi dei mandanti e le vere ragioni di questo barbaro omicidio in stile mafioso. Il Sud Pontino si conferma un territorio da liberare dalla morsa delle mafie e della violenza organizzata, e in particolare dal clan dei casalesi, che ha fatto di quel territorio non solo il proprio luogo di residenza ma avamposto sicuro per tessere una rete di interessi economici e politici internazionali. Lettere: zingari, giudei, buonisti e cattivisti di Moni Ovadia Il Manifesto, 30 maggio 2015 L'antico e sempre nuovo mestiere dello sciacallo. Chi è razzista? Chiunque attribuisca reati commessi da individui a una intera comunità. Il tema politico sociale incandescente degli ultimi giorni ha preso avvio da un tragico fatto di cronaca. A Roma, un'auto sulla quale viaggiavano, stando a quanto riferito dalla stampa, tre persone della comunità rom, non ha rispettato l'alt della polizia ed è fuggita a velocità folle travolgendo e uccidendo un donna filippina e ferendo, anche gravemente, altre otto persone che si trovavano sul suo cammino. Come era prevedibile si è scatenata la usuale canea razzista contro i rom in quanto tali guidata dal leader della Lega Nord, Matteo Salvini e da tutta la galassia nera dei nazifascisti. Il tutto condito dall'inevitabile folklore mediatico. Ieri mattina, il giornalista di Libero Piero Giacalone, nel corso della trasmissione di attualità politica de La7, con puntuale chiarezza, ha inquadrato la questione nei termini della legalità affermando un valore imprescindibile delle civiltà democratiche, ovvero che tutti i cittadini e gli esseri umani in generale, davanti alla legge, sono uguali. Giacalone ha proseguito il suo ragionamento con sapidità ironica prendendo a bersaglio due categorie di persone contrapposte: "buonisti" e "cattivisti" i quali, a suo parere, si limitano a recitare le loro parti in commedia. Ora, appartenendo io alla categoria dei primi, proverò a rintuzzare, almeno in parte, la pur legittima stigmatizzazione ironica di Giacalone. Se è pur vero che fra i buonisti si incontrano talora persone superficiali inclini a generici embrassons nous, coloro che vengono spesso definiti con sprezzo "buonisti" sono in linea di principio esseri umani che si pongono il problema dell'altro, delle minoranze e si ritengono responsabili del "volto altrui", per dirla con il filosofo Levinass, o mettono in pratica il dettato evangelico: "Ciò che fai allo straniero lo fai a me". Del resto, la questione dell'accoglienza dell'altro è la madre di tutte le questioni, quella la cui mancata soluzione è causa di ogni violenza e di tutte le infamie che devastano la convivenza delle comunità umane. Nel mio caso, appartengo ad una ulteriore fattispecie, sono un ex "altro" entrato nel salotto dei privilegiati. Io sono ebreo e so che significa essere gravato da pregiudizi, calunniato, perseguitato, deriso, massacrato e sterminato. Oggi, molti cattivisti vi diranno che l'ebreo non è come il rom. Oggi ve lo dicono, ma in passato i "perfidi giudei" erano trattati allo stesso modo, con una sola differenza che i rom non ricevevano l'accusa di essere deicidi, in quanto cristiani o mussulmani. Credete che l'antisemitismo abbia perso aggressività a causa dell'orrore provocato dalla Shoà? Non è così, anche rom e sinti hanno subito lo stesso destino. La vera ragione è che oggi esiste uno stato ebraico ( la definizione è di Teodor Herzel, suo Ideologo, das Juden Staat ) con un esercito, un governo e servizi segreti che sanno essere molto "cattivisti". Per rom e sinti non c'è nessuno Stato che parli e agisca, nessuno li difende da posizioni di forza e gli attacchi razzisti contro di loro sono solo azioni di vigliacchi. È razzista chiunque attribuisca reati di individui all'intera comunità. Ma io, che appartengo simultaneamente anche ad un altra categoria, i settantenni, ho buona memoria. E che c'entra con l'argomento in discussione? C'entra! Ricordo quando sui muri della prospera "Padania", della sua capitale "morale" c'erano le infami scritte razziste "via i meridionali dalle nostre città!", "non si affitta ai terroni!". Mi ricordo dell'eco di Marcinelle quando i nostri italiani più poveri, trattati come bestie in quanto italiani, venivano venduti come schiavi da miniera perché tutta l'Italia avesse carbone. Mi ricordo delle scritte "vietato agli italiani e ai cani" nel civile Nord Europa. Allora gli zingari eravamo noi. Salvini se lo ricorda? Ma cosa volete che si ricordi un populista demagogo alla ricerca di voti? A lui, a quelli come lui, i voti non servono per fare politica, ma per fare un mestiere, quello del nazionalista da piccola patria, come i Karadzic, gli Arkan, i Mladic e i loro omologhi croati, gli sterminatori della ex Jugoslavia. Un mestiere molto redditizio che si nutre di odio, approfitta della paura dei più fragili, garantisce posti nei parlamenti e gratificante visibilità mediatica. C'è un solo nome per chi approfitta di un fatto efferato - commesso questa volta da rom, ma decine e decine di altre volte da italiani, padani compresi - per seminare odio: sciacallo. Lettere: la battaglia elettorale si sposta sui rom di Errico Novi Il Garantista, 30 maggio 2015 Roma è rimasta lì, alla fermata del bus di via Battistini. Il quartiere è lo stesso di altre tragedie lontane e mai dimenticate, della morte dei fratelli Virgilio e Stefano Mattei, arsi vivi dall'incendio appiccato da militanti di Potere operaio, con le loro sagome ormai carbonizzate affacciate al davanzale di casa. E altri corpi straziati sono rimasti fissi negli occhi di chi ha visto tutto, mercoledì alle 8 di sera. Un'auto, una Lancia Lybra, guidata da un 17enne, che vede un posto di blocco della polizia a via Boccea, teme guai perché ovviamente è al volante senza poterci stare, non si ferma. Una volante lo insegue, su via Battistini ci sono cinque persone alla fermata, nei pressi dell'ultima stazione metro, all'estrema periferia ovest della Capitale. Tutte e cinque travolte, tre sono di nazionalità filippina. Una di loro, Corazon Perez Abordo, muore. Avrebbe compiuto 45 anni tra pochi giorni. Il giovane al volante è un rom, abita in una baracca al campo della Monachina. Con lui sua moglie 17enne e un altro ragazzo rom di poco maggiorenne, che sarebbe intestatario di quella e almeno altre 20 vetture. La Lybra continua a non fermarsi, travolge altre 3 persone: due donne in motorino e un'altra a piedi. Siamo a via Montespaccato, ancora più a ridosso del Raccordo anulare, e a questo punto i tre dell'auto pirata vengono bloccati dalla volante. Due di loro riescono a fuggire, non la terza, la sposa del ragazzo alla guida, madre di un bimbo di 10 mesi. Viene fermata con l'accusa di concorso in omicidio volontario. Si rincorrono per tutta la giornata di ieri voci sull'avvenuto fermo anche dell'altro minorenne, il ragazzo che era al volante. Non confermate fino alle 8 di ieri sera. Roma resta lì attonita a riguardarsi la scena, che è nel racconto di chi mercoledì sera ha visto. Un carrozziere che si è trovato davanti una donna con la testa fracassata e che dice: "È stata una cosa da film dell'orrore, da incubo: la macchina è arrivata a folle velocità, una delle cinque persone investite è stata trascinata sul cofano per centinaia di metri, un'altra è finita sul tetto. Gli altri tre per terra a urlare tra chiazze di sangue". E poi, questo come tanti altri testimoni, si lascia scappare quella frase, "non se ne può più", riferita ai rom. Come se l'appartenenza all'etnia nomade di quei tre ragazzi che erano nell'auto potesse cambiare qualcosa, come se avesse il potere di ridefinire i contorni della tragedia. E invece la tragedia resta. E forse la città di Roma, o almeno una sua parte, cerca di aggrapparsi alla tentazione razzista per spiegare quello che non ha senso. Che è sangue, morte, ma non principio di una qualche discriminazione. Adesso c'è una 17enne da cui la Mobile cerca di farsi accompagnare sulle tracce del suo altrettanto giovane marito omicida. Cerca lumi dalla famiglia. Al campo della Monachina. Dove c'è anche la madre del ragazzo, una donna tra queste baracche, che racconta lo strazio e la resa: "Sto provando a chiamare mio figlio ma non risponde. Ha 17 anni, forse ha paura della polizia", dice. Sua figlia, la sorella dell'omicida, si fa coraggio: "Gli diciamo di tornare da noi, poi deciderà il magistrato cosa fare". Sanno di quel sangue, sanno di una 44enne filippina che ci è morta, sotto quella macchina. Una donna che le amiche rintracciate per le vie di Primavalle descrivono come "una persona generosa, buona, sempre pronta a mettersi a disposizione degli altri". Lavorava come collaboratrice domestica, Corazon. era sposata, aveva due figlie, una di 14, l'altra di 13 anni, venute al mondo quando ancora era in servizio presso una famiglia dei Parioli e divideva casa con un'altra coppia filippina alla Camilluccia, altro quartiere della zona nord di Roma. A tutte queste persone i familiari dell'omicida chiedono "perdono", dicono di voler chiedere "scusa alla famiglia della vittima dell'incidente e a tutti i feriti: se potessimo incontrare quelle persone diremmo proprio questo, chiederemmo loro perdono". Non perdona la Roma che sui social già asseconda le ruspe immaginarie di Matteo Salvini, quello che vuole "radere al suolo tutti i campi rom". Eppure la polizia dice che le famiglie nomadi accampate alla Monachina, come a Casal Lombroso, "non hanno mai dato particolari problemi". E anche la gente di Montespaccato e Primavalle dice che al massimo "si sentiva di qualche furtarello, mai vista, mai sentito parlare di una cosa del genere". Il sindaco Ignazio Marino prova a arginare gli impeti più irrazionali, invoca "la massima inflessibilità per questo omicidio volontario". Poi assicura che il Campidoglio "si costituirà parte civile contro gli imputati, quando saranno assicurati alla giustizia". E fa sapere, attraverso il vicesindaco Luigi Nieri, che sarà il Comune ad assumersi le spese del funerale: "La famiglia ci ha detto che vuole rimpatriare la salma nelle Filippine e hanno accolto la nostra offerta di sostenere sia i costi del funerale, che si terrà a Roma, sia del rimpatrio nelle Filippine". Ma per Marino la cosa più difficile è cercare di rispondere a una strumentalizzazione a sua volta da lui definita "un vero e proprio crimine: non si può gettare benzina sul fuoco". No, Roma non dovrebbe, e adesso invece il pericolo di una reazione scomposta, di una furia indiscriminata contro l'etnia rom è dietro l'angolo. Le persone ferite sono otto, nessuna è in pericolo di vita. Si tratta di due filippini, un uomo di 38 anni e una donna di 47 anni trasportata in codice rosso al San Camillo; tre italiane, ossia una 32enne ricoverata in codice rosso per un trauma cranico e altre due giovani di 29 e 19 anni (quest'ultima con entrambe le gambe fratturate); due francesi di 24 anni, di cui una in codice rosso, e un moldavo di 22 anni. Oltre che a loro, oltre che alla ricerca dei due fuggiaschi, c'è ora badare ai campi rom, presidiati dalle forze dell'ordine già da mercoledì notte, per fermare eventuali incursioni di qualche sconsiderato che voglia fare giustizia per gli altri, senza sapere dove cercarla davvero. Lettere: hanno ucciso Paula Cooper, io non credo al suo suicidio di Laura Arconti (Membro Direzione Radicali Italiani) Il Garantista, 30 maggio 2015 Dopo trent'anni, Paula Cooper è tornata sui giornali di tutto il mondo. Ecco, di nuovo, quella fotografia segnaletica di una persona di colore giovanissima, con davanti il cartello che dice "Lake County Police Department, Crown Point, Indiana". C'è di mezzo un morto anche questa volta. Ma se trent'anni fa la vittima era l'insegnante di religione Ruth Pelke, anni 78, abbattuta a coltellate da Paula Cooper in un maldestro tentativo di rapina, questa volta è una Paula Cooper di mezza età che viene trovata di primo mattino riversa, appena fuori della porta di casa a Indianapolis, con un colpo di pistola alla tempia. E la pistola è lì, accanto al corpo, con le impronte digitali di Paula Cooper. Non occorrono indagini, si fa l'autopsia solo perché nei casi di morte violenta si deve fare, ma non ci sono dubbi: Paula si è uccisa. Ogni giornalista si affretta a raccontare il fatto del 1985 e tutto quello che a quel fatto è seguito: la condanna alla sedia elettrica, la mobilitazione mondiale particolarmente intensa in Italia, con i Radicali in primo piano e Papa Wojtyla e la Comunità di Sant'Egidio; e poi la commutazione della pena, ottenuta portando milioni di firme alla Corte Suprema dell'Indiana ed alle Nazioni Unite. E ancora la vicenda del nipote della vittima, Bill Pelke, che dapprima odia e maledice Paula, ma in seguito si converte alla pietà, va a visitarla in carcere e fonda una associazione che promuove il perdono. E poi la liberazione, grazie al meccanismo che negli States prevede un giorno di pena in meno, per ogni giorno di lavoro e di buon comportamento in carcere. Esaurito questo dovere di cronaca, ciascun giornalista può dedicarsi all'indagine sociologica e psicanalitica del motivo del suicidio. C'è chi si rifà alla Bibbia, al Levitico dell'occhio per occhio e dente per dente, e scrive: "Forse ha pensato che non c'era altro modo per restituire alla Società quello che aveva tolto". C'è chi è certo che, dopo tanti anni di vita in carcere, la vita da persona libera le faccia paura: a riprova di questo, racconta che la Cooper stessa avrebbe confidato a Bill Pelke di non saper scrivere un assegno e di non aver mai pagato una bolletta. Gramellini, nel suo "Buongiorno", si esibisce in un esercizio di stile (il suo stile): inizia con "la ragazza che avrebbe dovuto morire non è riuscita a vivere", e conclude con "la ragazza cui milioni di persone avevano voluto salvare la vita ha finito col togliersela da sola". A volte la ricerca dell'originalità a tutti i costi conduce al ridicolo. Sempre nel filone dell'incapacità di vivere, una variante evoca l'ipotesi di una replica della violenza iniziale, come se dopo trent'anni Paula potesse essere ancora la "disadattata sociale senza speranza di redenzione" che era stata descritta dalla Pubblica Accusa nel processo del 1985: "Paula Cooper ha concluso con la violenza una vita che aveva vissuto quasi tutta in prigione". Solo Elena Molinari su Avvenire lascia trapelare un alito di incertezza, e scrive: "falciata da un proiettile che la polizia di Indianapolis sospetta lei stessa abbia sparato". Come sempre emerge su tutti l'articolo di Furio Colombo nel Fatto Quotidiano. Egli è stato attento testimone degli avvenimenti italiani collegati con Paula Cooper, e non si attarda sulla vicenda ben nota e rammentata di nuovo ovunque: preferisce ricordare che già allora i Radicali avevano identificato "un obiettivo che è sempre stato il cuore delle lotte radicali, l'assurdità della pena di morte in un Paese civile impegnato a guidare un mondo civile", e raccomanda: "Non dite che le vicende della sua vita portano per forza a un finale tragico. Dite che la sua salvezza dal patibolo ha cominciato ad aprire la lunga strada americana verso l'uscita di quel Paese dalla morte di Stato". Dunque Furio Colombo dà a quella morte un significato diverso, ma anch'egli accetta in silenzio il verdetto della Polizia: suicidio. Io no. Non credo che ci si possa uccidere perché "una vita si paga con una vita": l'intreccio di conversioni (la sua verso il cattolicesimo e quella di Bill Pelke verso il perdono umanitario) indica una ricerca di vita nuova, e non può portare alla ripetizione di un gesto distruttivo. Non mi convince l'ipotesi della paura di confrontarsi con le necessità quotidiane. A Rockville, un carcere di massima sicurezza, Paula cucina per i detenuti, percepisce una paga e la mette da parte "per dopo". Nel 2007 rilascia una intervista a Giampaolo Pioli per il Quotidiano Nazionale, e dice: "Mi alzo alle 4.45 del mattino, per le 6 ho già fatto colazione e sono al lavoro fino alle 10.30 nel laboratorio che produce uniformi per tutte le carceri americane. Mi pagano un dollaro e 75 al giorno, che sto mettendo da parte per quando sarò fuori. Dalle 12.30 alle 15.30 frequento un corso di computer e contabilità, e alle 4, dopo l'appello, si cena". E questa donna, una volta liberata, si uccide perché è in imbarazzo quando deve scrivere un assegno o pagare la bolletta della luce? Era stata nel braccio della morte, prima che le commutassero la pena. Nel braccio della morte aspettava di divenire maggiorenne per essere uccisa. Chi se la sente di immaginare che cosa potesse pensare, temere, sentire dentro di sé durante i giorni della segregazione, ma soprattutto durante le notti, quando il freddo e il buio le si chiudevano addosso come un alito di morte? Poi la sedia elettrica sparì dai suoi incubi e fu sostituita dalla lunga sequenza di 60 anni da vivere reclusa; e poi le spiegarono che ogni giorno in cui preparava i pasti per tutto il carcere l'avvicinava di un giorno alla fine della sua pena. Ventisette anni di dura disciplina, di fatica, di chissà quali pensieri... perché l'adolescente irresponsabile di un tempo più tardi, studiando, aveva cominciato a capire, forse anche a guardarsi dentro, a cercar di comprendersi. La conversione al cattolicesimo era probabilmente nata da questi pensieri e queste riflessioni. Ad essere odiata, maledetta, minacciata di morte, Paula Cooper aveva fatto l'abitudine fin da quel giorno lontano in cui l'accusatore l'aveva definita "senza speranza di redenzione". A Indianapolis - ormai libera - era protetta dalla Chiesa locale con la quale manteneva stretti contatti, contro il desiderio di vendetta di molti che le rivolgevano insulti e minacce di morte. Qui da noi l'avv. Mario Marazziti, che al tempo della mobilitazione contro la pena capitale coordinava il lavoro della Comunità di S. Egidio, quando gli riferirono di queste minacce commentò: "Probabilmente la vita fuori del carcere si è misteriosamente rivelata troppo difficile per lei". Dunque, anche lui ipotizza che la morte di Paula sia un suicidio dovuto al panico, al tedium vitae, alla disperazione di fronte alla dura realtà di un modo di vivere diverso, a cui non era abituata. Non ci sto, non ci credo. Paula era fuori dal carcere da due anni: e dopo due anni, all'improvviso, si è accorta di non riuscire a vivere fuori dal carcere? Proprio in questi giorni in Nebraska il Parlamento statale ha abolito la pena di morte: dopo il Nord Dakota nel 1979, il Nebraska è il primo Stato controllato dai Repubblicani che si schiera con gli abolizionisti. Gli altri, i fautori della linea dura, cultori della eliminazione dell'avversario, sono furiosi e devono farla pagare a qualcuno. E chi, meglio dell'icona vivente contro la pena di morte, può essere l'obiettivo di un gesto di vendetta e di sfogo rabbioso? Una pistola, un colpo alla tempia, poi la pistola viene messa nella mano di Paula premendole bene le dita per lasciare impronte nitide; e via rapidamente, dileguandosi nella bruma del mattino. Ma davvero nessuno ci ha pensato, prima di me? Oppure si è deciso che è meglio così, la fine violenta di una storia violenta vecchia di trent'anni, con un solo colpevole, Paula Cooper ? E, in mezzo, ventisette anni: il vuoto? Milano: "In corso d'Opera", la sfida carceri passa dall'informazione di Barbara Alessandrini L'Opinione, 30 maggio 2015 Non è necessario agganciarsi ai tempi stretti della cronaca per parlare della condizione delle carceri italiane. Si tratta uno di quegli argomenti che richiama l'ineludibile necessità, oltre che di interventi strutturali sul piano legislativo e giuridico, di un profondo cambiamento culturale e di approccio al tema della pena e della sua esecuzione. Al momento le aspettative si focalizzano tutte sull'iter parlamentare della delega dell'ordinamento penitenziario, inserita nel disegno di legge sul processo penale deve rappresentare, e sull'auspicio che il processo di riflessione avviato con gli Stati generali delle carceri non si riduca, dopo l'introduzione del fallimentare 35Ter, il cosiddetto rimedio risarcitorio interno, ad un altro, provvisorio escamotage per ammansire la Cedu e scongiurare la sanzione che pende ancora sul nostro paese per violazione dell'articolo 3 della stessa Convenzione in materia di rispetto dei diritti umani nei penitenziari. Il nostro paese ha estrema urgenza di plasmare una nuova visione del sistema carcerario attento al recupero e alla riabilitazione dei condannati, così come, tra l'altro, è costituzionalmente stabilito. Ed è in virtù dell'urgenza di educare il consenso sociale all'importanza del ruolo del lavoro nei penitenziari che va considerata una piccola breccia la recente nascita del periodico In corso d'Opera, nato nel carcere di massima sicurezza Opera di Bollate e a cui lavorano i detenuti. Quello di Opera è un carcere modello, certo, una di quelle realtà atipiche nel panorama italiano della detenzione e perciò molto esposto ai rischi dell'esercizio retorico buonista e peloso delle sciarade da parte delle istituzioni. Una nuova rivista che vive all'interno delle mura penitenziarie, tuttavia, è sempre un'ottima notizia, un valido strumento per tener viva la progettualità dei detenuti, un'opportunità rieducativa e di accrescimento nell'ambito del nostro disastroso sistema penale che decenni di disattenzione legata allo scarso ritorno elettorale ha lasciato incardinato sulla costrizione e su una privazione della libertà degradante. Edita da Cisproject nell'ambito del progetto Leggere Libera-Mente, In corso d'Opera si va ad aggiungere alle altre riviste già presenti in alcuni istituti di pena italiani ed è stata presentata in occasione del convegno organizzato recentemente dall'Ordine dei Giornalisti della Lombardia al circolo della stampa di Milano "La carta di Milano, informazione oltre le sbarre". Guidata dal giornalista Renzo Magosso che ne è direttore responsabile, dal direttore editoriale, la psicologa Barbara Rossi e dal coordinatore, Paolo Romagnoli, la rivista del carcere di Bollate testimonia quanto si possa, si debba fare, per sradicare pregiudizi che inchiodano i penitenziari ad una funzione di mero accanimento e di vendetta e per offrire a chi sta pagando il proprio debito con la giustizia e la società, la possibilità di ripensarsi e riprogettarsi. In occasioni come questa si materializza in un attimo il rischio di scivolare nella mistica o nella retorica del buonismo d'accatto e a scongiurarlo serve solo la riflessione sul senso profondo di alcune iniziative. Consentire ai detenuti, a quelli di Opera, nel corso del convegno è stato loro consegnato ai un attestato che ne riconosce la qualifica di redattori, di creare più che una finestra, una porta scorrevole tra la realtà carceraria e il mondo esterno non può che costituire una prova sul campo di esercizio dei diritti. Un piccolo tassello che fa compiere al sistema carcere un piccolo passo avanti. Se ne deve parlare. La politica, incapace di domare le istanze punitive di una magistratura che ha dilatato le sue prerogative anche all'interno del potere legislativo, sempre più spesso cavalca il sentimento diffuso nei confronti della dimensione carceraria e dell'esercizio della pena. È di queste pulsioni che si nutre il perverso e osmotico sodalizio tra informazione, magistratura ed esigenze di bilancio dei media che, spinti dall'obbligo di mercato a vendere alle aziende inserzioniste un pubblico sempre più vasto, si spingono oltre ogni limite, nel totale disprezzo di una progressiva perdita di credibilità, pur di fidelizzare una società che il clima di incertezze e di crisi rende sempre più ingorda di una giustizia etica e sempre meno attenta, nel suo esercizio, alla dimensione umana. Due esempi di ciò che francamente non vorremmo mai ascoltare sono indicativi: le recenti esternazioni della Pm del tribunale di Lodi aggredita da una donna con un coltello, che ha risposto alla domanda di un giornalista sostenendo di occuparsi di fascicoli, non di persone. O la dimostrazione di aberrante ironia di cui, in occasione di un altro recente convegno di formazione organizzato dall'Ordine dei Giornalisti sempre nel capoluogo lombardo, ha dato prova il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati in riferimento ai rischi del processo mediatico dichiarando: "Per difendersi dal cosiddetto doppio processo cerchiamo di farli condannare tutti in tempi brevi". In questo contesto in cui le resistenze sono infinite e investono anche il mondo del giornalismo il progetto portato avanti dai detenuti di Opera rappresenta dunque una tessera di un necessario cambio di paradigma che non investa solo le istituzioni ma anche lo spirito del tempo e che faccia del lavoro nel sistema carceri, oltre che delle misure alternative, lo strumento principale e l'opportunità per conciliare rispetto delle regole e legame con la collettività. Un altro periodico nato in un carcere rappresenta anche un saldo elemento di continuità con lo spirito che nel 2013 ha informato la stesura della Carta di Milano, il documento che ha preso vita con una prima bozza per impulso di tre giornali delle carceri di Bollate, di Verona e di Piacenza per rispondere all'esigenza comunicare con l'esterno e di regolare deontologicamente il trattamento delle informazioni sui detenuti. In particolare nei delicati passaggi del reinserimento in società e di accesso alle misure alternative, facilmente liquidate con come ritorno alla libertà, o sul piano della tutela dei detenuti in termini di diritto all'oblio che dovrebbe impedire di inchiodare un ex detenuto al reato commesso e soprattutto alle modalità con cui è stato trattato dai media. Che anche il cammino della carta di Milano sia stato in salita non stupisce, incagliatosi più volte nelle resistenze opposte dell'Ordine nazionale a porre i necessari paletti alla trattazione di vicende di cronaca giudiziaria su cui vive la cultura punitiva delle inchieste e dei processi paralleli in tv a sfondo colpevolista. L'informazione ha una straordinaria responsabilità nell'orientare l'opinione pubblica che a sua volta condiziona le linee della politica. Ma fornire una descrizione fuorviante della realtà in materia di pretesa punitiva e di esecuzione della pena, assecondare il sentire di una collettività che ha tutte le ragioni di esasperazione ma le cui insicurezze alimentano un sentimento responsabile di ostacolare la riforma del sistema carcerario, contribuisce all'imbarbarimento della democrazia, perché annichilisce la cultura dei diritti. È francamente troppo alto il prezzo pagato all'irresponsabilità dei media che latitano quando invece dovrebbero informare in modo continuativo che la Costituzione nell'articolo 27 non si limita a stabilire i confini dell'esercizio punitivo ma stabilisce le positive finalità di rieducazione e riabilitazione che il sistema penale deve avere nei confronti dei detenuti, nonostante le difficoltà e le incognite che le specifiche individualità possono creare nel recepimento del processo riabilitativo. A tacitare le istanze estremiste e demagogiche in materia di esecuzione penale, d'altronde, sono i dati: Siamo il paese con maggior tasso di recidiva ma la percentuale di chi torna a delinquere tra i detenuti che hanno scontato la pena in carcere in condizioni indegne e disumane è del 68% e solo del 19% di coloro che sono stati ammessi a pene alternative o hanno beneficiato di attività all'interno degli istituti di pena. Perché i mezzi di informazione su questi dati sorvolano? Perché non si parla in termini di sfida virtuosa, delle cifre, risalenti al 30 aprile, sui 12.539 in affidamento in prova, dei 789 in semilibertà e dei 9.635 individui ai domiciliari come se queste alternative detentive fossero la vergogna del paese? Possibile che non si prenda coscienza del fatto che la cattiva stampa non favorisce il processo di reinserimento e che questo finisce per esser mortificato, fallimentare? È evidente che il nostro paese è di fronte alla necessità di una rivoluzione culturale che richiede tempi lunghi. Perché investe i cosiddetti diritti difficili, difficili da far metabolizzare ad una collettività sotto sbornia punitiva che si rifiuta di comprendere che, se si è costretti a vivere il carcere in condizioni ai limiti della tortura, non si possa materialmente ripensare il proprio passato né il proprio futuro con evidenti ricadute positive sulla collettività anche in termini di sicurezza. La sfida sul sistema di esecuzione della pena significa soprattutto fronteggiare le resistenze legate ad un diffuso sentimento responsabile di aver impedito finora, ammesso che vi sia mai stata anche soltanto una timida volontà politica e legislativa di farlo, una seria riforma. La prospettiva di una perdita di consenso per la politica e di pubblico per gli organi di informazione e ha avuto un ruolo spaventoso nello spingere gli uni e gli altri a recepire ed assecondare questo clima disinteressato ad interventi correttivi degli aspetti inumani della detenzione. È indicativa la scarsa attenzione mediatica prestata a quel tasso di sovraffollamento del 125% nei penitenziari, appena timidamente avviato a rientrare nella norma del 109%. Percentuali che avrebbero dovuto suscitare scandalo e allarme proprio da parte dell'informazione che troppo spesso, al contrario, sceglie il sensazionalismo dei processi paralleli buttandosi su una comunicazione distorta che imbocca le scorciatoie semantiche di formule liquidatorie sulle misure alternative come Svuota Carceri. Il tragitto sarà tutto di bolina, va però fatto. Rendendo trasparenti gli istituti di pena, dove i detenuti vengono inghiottiti in quel cono d'ombra in cui finiscono risucchiate anche paure e allarmi della società, ed in cui la demarcazione tra lo spazio puro della collettività e quello impuro, incivile e irrecuperabile giustifica la sospensione della dignità umana. Come tener ferma la barra del timone nel rapporto tra media e luogo di pena? Non scantonando ulteriormente una seria e responsabile riflessione sulla deriva mediatica che ha abdicato al ruolo dell'informazione per gettarsi sulla comunicazione, vorace di colpevoli e castighi pregustati. È su questo discrimine che si gioca la sfida sui diritti individuali e la partita di una democrazia. A breve si saprà quali direttrici ed interventi legislativi, al di là degli sgravi fiscali previsti nel 2014 per le imprese che assumono detenuti, saranno indirizzati ad un complessivo incremento delle attività lavorative all'interno degli Istituti di pena. E se la politica darà prova decisiva di un colpo di reni che argini il gorgo colpevolista e punitivo attivato da settori importanti della magistratura e condiviso dall'opinione pubblica e di cui l'attuale sistema carcerario è un vergognoso emblema. "In corso d'Opera" come le altre riviste carcerarie, svolge un ruolo in fondamentale nel nuovo corso dei diritti che, in una democrazia degna di chiamarsi tale, devono essere assicurati in tutti gli istituti di pena colmando l'ignobile divario tra il limitato numero di carceri di serie a e il resto degli istituti penitenziari che restano luoghi di tortura, di inumana sofferenza e conseguentemente palestre di ulteriore, futura delinquenza. Sardegna: Pinna (Sc); in carceri problema per eventuali infiltrazioni criminali estranee Ansa, 30 maggio 2015 Non proprio un'emergenza ma nelle carceri sarde esistono molte criticità e potenziali rischi futuri dovuti all'importazione di modelli criminosi estranei alla cultura sarda. È la fotografia degli istituti di pena di Uta (Cagliari), Massama (Oristano) e quello minorile di Quartucciu (Cagliari) scattata dalla deputata di Scelta Civica, Paola Pinna, che ha effettuato una visita ispettiva nelle tre realtà isolane, assieme a Maurizio Cuccu, responsabile dei giovani di Scelta civica in Sardegna. "Esiste un problema di eventuali infiltrazioni criminali in Sardegna che possono condizionare l'ambiente esterno - ha spiegato - in primis deve essere garantito il diritto alle visite dei familiari e poi è sbagliato concepire la Sardegna come carcere naturale". Altre criticità riguardano il fatto che "le nuove strutture sono dispersive e ciò rende difficile accompagnare i detenuti alle varie attività di recupero. Ci sono celle da tre mentre mancano quelle singole per chi deve scontare l'isolamento notturno - ha aggiunto - inoltre la Polizia penitenziaria avrebbe bisogno di avere più personale per un maggiore presidio delle sezioni". "La struttura di Quartucciu non è adatta per persone che si stanno ancora formando - ha infine osservato - mentre a Uta non è stato realizzata ancora l'ala per ospitare i detenuti in regime di 41 bis perché l'impresa è fallita e non si sa quando potranno riprendere i lavori". Lazio: "Garanzia Giovani", sottoscritta intesa tra Centro Giustizia Minorile e Regione di Donatella Caponetti (Dirigente Cgm Lazio) Ristretti Orizzonti, 30 maggio 2015 Sottoscritto il Protocollo d'Intesa Centro Giustizia Minorile Lazio - Assessorato al Lavoro Regione Lazio per aderire al programma "Garanzia Giovani". L'accordo è finalizzato al consolidamento e all'implementazione delle collaborazioni con gli attori della rete dei servizi per l'orientamento, la formazione e l'inserimento lavorativo dei soggetti che hanno commesso un reato durante la minore età e che sono in carico dai 14 anni fino al compimento del 25esimo anno ai servizi minorili dipendenti dal Centro Giustizia Minorile Lazio. In tal senso il programma europeo "Garanzia Giovani" offre molteplici opportunità per inserire i ragazzi "Neet" nel mondo della formazione e/o del lavoro. Nel caso dei ragazzi ai quali è dedicato questo Protocollo, si raggiunge l'ulteriore finalità del loro reinserimento sociale. Nel protocollo d'intesa firmato presso l'assessorato al Lavoro tra Regione Lazio, Città metropolitana Roma Capitale, le Province del Lazio e il Centro Giustizia Minorile, sono individuate tutte le azioni necessarie per aderire fattivamente alle misure previste dal programma "Garanzia Giovani". Il protocollo nasce dalla necessità di ricorrere a strumenti efficaci per orientare e accompagnare verso la formazione e/o il lavoro i giovani sottoposti a procedimento penale e perseguire l'obiettivo della loro inclusione sociale. L'intento del Protocollo è, dunque, di promuovere e consolidare la collaborazione tra le Parti per realizzare: l'informazione delle opportunità offerte dalla Garanzia Giovani e indirizzare i beneficiari verso i servizi competenti per ottenere il supporto necessario e aderire alle misure previste dal Piano di Attuazione Regionale Garanzia Giovani, nonché usufruire dell'orientamento e dell'accompagnamento all'inserimento lavorativo dei giovani. Le Parti firmatarie, inoltre, promuovono azioni mirate a semplificare e a collegare i vari soggetti coinvolti, al fine di assicurare la migliore riuscita dell'iniziativa e monitorare l'andamento reale delle attività previste dal Protocollo. Taranto: in cella manca l'acqua e scatta la protesta dei detenuti, pentole contro le sbarre Quotidiano di Puglia, 30 maggio 2015 In carcere manca l'acqua e scatta la protesta dei detenuti. Mentre si deva fare anche i conti con l'ennesima aggressione subita da una educatrice. A seguito della improvvisa sospensione dell'erogazione dell'acqua nella struttura, dovuta probabilmente a un guasto, mercoledì sera numerosi detenuti hanno protestato battendo le pentole contro le inferriate e chiudendo gli spioncini delle celle. Lo ha reso noto il Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) precisando che il ripristino dell'acqua è avvenuto solo ieri mattina alle 8. "La mancanza di acqua - si legge nella nota - ha messo in seria difficoltà i detenuti. E ancora una volta è stato evitato che la situazione, degenerasse grazie alla professionalità dei poliziotti penitenziari, i quali, benché da soli a vigilare su oltre 150 detenuti, sono riusciti a calmarli e a evitare il peggio". Si è consumata due settimane fa, invece, l'aggressione subita da una educatrice penitenziaria ad opera di un detenuto con problemi psichiatrici "Il 13 maggio - si legge in una nota della Fp Cgil - una funzionarla è stata vittima di un'aggressione da parte di un detenuto che proveniva dal centro di osservazione psichiatrica di Reggio Calabria. Mercoledì scorso i funzionari del penitenziario hanno scritto al Ministero della Giustizia, denunciando l'assenza nel carcere di figure specialistiche per la salute mentale". San Gimignano (Si) Cisl-Fns; in carcere situazione gravissima, serve intervento urgente gonews.it, 30 maggio 2015 Nella Casa Reclusione di San Gimignano gravi problemi organizzativi e mancato rispetto impegni Amministrazione. Siamo a denunciare la gravissima situazione in cui si sta venendo nuovamente a trovare la Casa di Reclusione di San Gimignano, che nel frattempo l'Amministrazione Penitenziaria ha destinato esclusivamente ad ospitare detenuti in regime di Alta Sicurezza. Non solo non abbiamo registrati gli stanziamenti economici promessi per adeguare la Struttura alla nuova destinazione speciale d'uso, ma anche i primi tenui segnali d'incremento della Forza Operativa di Personale sono ormai svaniti nel pur breve tempo trascorso. San Gimignano ha una dotazione organica prevista di Personale pari a 248 Unità, che però vedono effettivamente amministrate solo 205 Unità. Ma parliamo di "numeri" sulla carta, perché effettivamente Operativi a San Gimignano sono solo 159 Unità. Del Personale assente a vario titolo, circa 10 Persone lo sono per provvedimenti disposti dal Suo Ufficio mentre il resto lo sono per disposizioni del Dap (e di questi circa 10 per il Gom). Da qualche tempo il Comandante è stato trasferito ad altra Sede del Sud ma non è mai stato rimpiazzato da altro Funzionario che venisse formalmente incaricato per il ruolo di Comandante del Reparto. Se a questo abbiniamo che è in scadenza - dopo un triennio - l'incarico provvisorio all'attuale Direttore dell'Istituto (che ufficiosamente ci risulta non aver intenzione di chiedere proroghe all'incarico stesso) abbiamo ragione di temere che San Gimignano possa ritrovarsi non solo gravemente carente di Personale di Polizia Penitenziaria nei vari Ruoli, ma anche del vertice con possibile assenza di Direttore e Comandante. Chiediamo alla S.V. di voler intervenire con la determinazione necessaria verso il Dipartimento che non può lasciare in queste condizioni quello che è sostanzialmente l'unico carcere di massima sicurezza in toscana. È chiaro che in assenza di idonee risposte, sostanziali egregio dott. Cantone e non solo formali, la Fns Cisl si riserva di proclamare lo Stato di Agitazione del Personale ed ulteriori eventuali azioni di protesta". Milano: le storie dei detenuti che lavorano in Expo "ci sentiamo persone e non numeri" Corriere della Sera, 30 maggio 2015 I giorni fuggono come ore, le ore diventano minuti e i minuti secondi quando la mattina escono dal carcere e tra i padiglioni di Expo assaporano il gusto della libertà cosmopolita; in cella, la sera, le lancette sembrano ferme. Il tempo corre a due velocità per Antonio, Francesco e Salvatore. Sono tre degli 83 i detenuti che partecipano al progetto nato da un accordo tra Tribunale di sorveglianza di Milano e Provveditorato lombardo dell'amministrazione penitenziaria e finanziato dal Ministero della giustizia con 600 mila euro della cassa delle ammende, quelle versate dai condannati. Dopo un percorso riabilitativo nelle carceri di Opera, Bollate, Busto Arsizio e Monza, hanno ottenuto di scontare la pena lavorando all'esterno durante il giorno. Li vedi in turni di sei ore, dalle otto alle 17, tra le migliaia di visitatori in coda agli ingressi mentre danno informazioni, indicano percorsi e distribuiscono mappe. Prendono 500 euro al mese, la stessa "mercede penitenziaria" degli altri detenuti che lavorano. "Per me sono milioni perché così non mi sento un detenuto. Qui ho un rapporto con il mondo intero", dice Antonio Vitiello, un napoletano di 52 anni che per molti reati di droga si è già fatto una decina di anni e ne deve fare altri quattro a Bollate. Quando stava a Poggioreale (Napoli), trascorreva 23 ore in cella e una all'aria, ora sta all'uscita della metropolitana. Potrebbe scappare saltando sul primo treno, nessuno lo controlla perché non è previsto: "E chi me lo fa fare? Se faccio un'evasione, quando può durare? Un mese, due, tre? Poi torno in prigione". Le statistiche dicono che il 70 per cento dei detenuti che hanno espiato l'intera pena in carcere riprende a delinquere, percentuale che crolla al 18 tra coloro che hanno lavorato. Vuol dire minori costi per la società, ma in Italia lavora solo poco più del 10 per cento dei quasi 54 mila detenuti. A Francesco Catanzaro di anni ne hanno dati 17 per rapine in banca. Ha imparato le lingue scappando all'estero. "Alla mattina un altro po' dico buongiorno anche ai muri. Il primo giorno mi sono messo a piangere", racconta entusiasta mentre lungo lo stradone di Expo la folla dei visitatori del mattino avanza come un'armata vociante e spensierata. I detenuti che lavorano qui hanno fatto un corso su relazioni con il pubblico, pronto soccorso, logistica e temi dell'esposizione. "Per esempio, ci hanno insegnato a non fare cose che potrebbero disturbare persone dalla cultura diversa dalla nostra". Una cosa che lo ha davvero reso felice: "Da anni mia figlia mi pagava il caffè, ora sono io che glielo offro". Perché i soldi ""lavorati" sono tutta un'altra cosa", afferma Salvatore Messina, 28 anni, 4 anni e otto mesi per spaccio di cocaina. Con la droga faceva 300/400 euro al giorno: "Soldi facili ai quali non dai valore e alla fine non arrivi a niente. Prima o poi ti arrestano". Come va? "Ti viene voglia di vivere. Vedi la libertà, ma non ce l'hai, perché quando smetti di lavorare torni in galera". Libertà, argomento principe tra i detenuti. "In carcere non sei nessuno, sei un numero. Fuori sei una persona" sussurra mentre smista il traffico all'ingresso per vip e forze dell'ordine. Il rapporto con la Polizia penitenziaria, che in Expo ha un ufficio, segue un percorso quasi contro natura. "Tutto questo - sostiene Francesco - serve a noi e a loro, che partecipano alla nostra esperienza e aiutano quelli che sono stati troppo dentro e non sono più abituati alla libertà. È bello salutarsi la mattina, confrontarsi e discutere". Sognano tutti un lavoro dopo il carcere. Francesco: "Io sto pagando. Vedremo quando esco cosa farà la società". (Corriere Milano) Lecce: pestaggi e intimidazioni in cella; smantellata la "cupola", undici detenuti indagati di Francesco Oliva Corriere Salentino, 30 maggio 2015 Una "cupola" nel carcere di Lecce. Con pestaggi e spedizioni punitive imponeva la propria egemonia all'interno di una sezione di Borgo "San Nicola". Un'alleanza sigillata da un gruppo di undici detenuti - composto da leccesi, brindisini ed un barese - per punire chiunque osava opporsi. Ricorrendo sistematicamente a intimidazioni e rappresaglie. Spesso anche molto violente. Uno spaccato di vita carceraria condensato nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato giorni fa a Gianluca Fuso, 40enne e Marco De Tommasi, di 38, entrambi leccesi; Antonio Mogavero, 31 anni, di Campi Salentina; Massimiliano Cordella, 35enne di Nardò; Giuseppe Galiano, 41enne di Mesagne; Luigi Colangelo, 31, di Trani; Pietro Guarnieri, 41enne, di Ostuni; Giovanni Gasbarro, 39enne e Cosimo Rodia, 32, entrambi residenti a Francavilla Fontana; Mario Sciolti, 23enne e Annibale Scolti, di 33, questi ultimi di Fasano. L'accusa, per tutti, è di violenza privata aggravata. Alcuni, invece, rispondono anche di lesioni personali aggravate. L'inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Roberta Licci, è stata messa in moto dalle denunce di alcuni detenuti. Ormai esasperati per le continue aggressioni subite hanno deciso rompere il silenzio e abbattere il muro dell'omertà. Intimidazioni andate avanti per circa tre mesi. Da marzo a maggio di un anno fa. Diversi gli episodi accertati. Per i motivi più disparati. Contro alcuni detenuti affinché chiedessero il trasferimento in altri reparti o per costringere altri reclusi ad accogliere determinati compagni nella propria cella. C'è poi il caso di un detenuto malmenato perché ritenuto colpevole di essersi macchiato di reati giudicati infamanti. Lo stesso trattamento sarebbe stato riservato ad un altro detenuto. Non sarebbe stato gradito il ritrovamento di alcuni grammi di marijuana nella sua cella. Venne così punito. Con calci e pugni. C'è poi l'intimidazione ad un giovane di inscenare una protesta per la qualità del vitto somministrato dall'Amministrazione Penitenziaria. Se si fosse opposto sarebbe stato picchiato. A quasi un anno di distanza alcuni dei presunti responsabili dei pestaggi sono stati trasferiti. Non si trovano più a Borgo "San Nicola". Un provvedimento resosi necessario in virtù del clima di soggezione e di terrore che si era ormai diffuso tra gli stessi detenuti. Gli indagati sono assistiti d'ufficio dagli avvocati Giovanni Erroi, Vincenzo Pennetta, Evelina Pascariello, Salvatore Piccolo, Silvio Giaridiniero, Enrico Cimmino, Michela Mazzotta, Lavinia Gala, Silvio Verri e Giacinto De Spirito. Torino: Osapp; topo rosicchia tubo carburante e blocca traduzione detenuto in tribunale Adnkronos, 30 maggio 2015 Il trasporto di un detenuto in tribunale bloccati da un topo che avrebbe rosicchiato il tubo di alimentazione del carburante della vettura utilizzata per la traduzione. A denunciare l'episodio è l'Osapp, organizzazione autonoma di polizia penitenziaria. Il sindacato spiega che il fatto sarebbe avvenuto lo scorso 27 maggio: da quanto riferito il detenuto, un minore extracomunitario, doveva essere tradotto dal carcere minorile di Torino al Tribunale dei minori di Genova per un'udienza. Ma durante il tragitto il furgone che lo trasportava si è improvvisamente fermato sprigionando del fumo dal motore: aprendo il cofano gli agenti si sarebbero trovati davanti il roditore che aveva rosicchiato il tubo. È quindi intervenuto altro personale e con un altro mezzo per terminare la traduzione del detenuto. "Sarebbe il caso - ha coomentato il segretario generale Osapp, Leo Beneduci , ricordando che recentemente i topi hanno rosicchiato i cavi di internet dell'istituto minorile torinese - che qualcuno iniziasse a domandarsi perché i surmolotti si stiano accanendo con tale veemenza e crudeltà nei confronti della giustizia minorile di Torino. Come sindacato Osapp, a fronte dell'ennesima dimostrazione di inefficienza da parte dell'autorità della giustizia minorile di Piemonte e Valle d'Aosta non ci resta che invitare gli inviperiti animaletti a recedere da consimili e dannosi comportamenti pena l'immediato avvio, a spese del sindacato, delle previste procedure di derattizzazione" ha concluso. San Gimignano: con "Cucinarte" detenuti del carcere di Ranza ai fornelli con gli studenti Adnkronos, 30 maggio 2015 Detenuti a scuola di cucina dai futuri chef per un progetto di solidarietà e integrazione lungo un anno e che ha portato alla realizzazione di un ricettario. È "Cucinarte", il progetto realizzato dall'Arci Solidarietà I° Circolo di San Gimignano in collaborazione con l'istituto enogastronomico dell'Istituto tecnico Agrario Ricasoli di Siena e San Gimignano e la casa circondariale di Ranza con il patrocinio del Comune di San Gimignano, e che vedrà domenica 31 maggio, nella sede dell'associazione Arci Solidarietà I° Circolo, un pranzo cucinato da studenti e Detenuti insieme ai fornelli oltre alla presentazione del ricettario. Il progetto è durato un intero anno scolastico con laboratori di cucina a scuola e in carcere. È stata inizialmente organizzata una gara di cucina dove 18 studenti della classe terza dell'Istituto enogastronomico di San Gimignano hanno sperimentato le conoscenze acquisite nel percorso formativo creando piatti e portate assaggiati e giudicati da una giuria di Detenuti e dagli operatori penitenziari del carcere di Ranza. È stata poi la volta di 20 Detenuti del Circuito di Alta Sicurezza che hanno vestito i panni di studenti per approdare ai fornelli ed essere poi giudicati da una giuria di alunni e docenti. I piatti migliori sono stati quindi premiati e i vincitori selezionati per realizzare il pranzo finale con giovani studenti e Detenuti fianco a fianco in cucina per le famiglie degli studenti e per la popolazione. "Cucinarte si inserisce a pieno titolo nel programma di azioni che questa amministrazione comunale - ha commentato Ilaria Garosi, assessore alle Politiche sociali del Comune di San Gimignano - ha promosso negli ultimi anni, nei limiti delle proprie competenze, per reintrodurre la struttura carceraria e i detenuti nella rete sociale e associativa del territorio. Nella consapevolezza che molto deve essere ancora fatto da parte di tutte le istituzioni interessate, siamo lieti di aver appoggiato iniziative come queste che contribuiscono alla costruzione di un ponte tra il dentro e il fuori". "Un ponte - ha aggiunto - utile per la consapevolezza nei nostri cittadini della presenza di questa realtà difficile ma importante, utile a far sentire meno soli i lavoratori che a vario titolo operano all'interno delle mura carcerarie e, in particolare, è un'occasione per offrire una rete sociale che possa essere opportunità di rinforzo alla finalità costituzionale del carcere. Di estremo valore - ha concluso Garosi - è che questo ponte sia stato creato all'interno di un progetto che ha come cuore il volontariato motore di inclusione sociale". Il progetto si è posto l'obiettivo di catturare l'attenzione sul tema dell'inclusione sociale, della solidarietà e del volontariato, portando fuori dal carcere la voce e l'esperienza dei detenuti e, allo stesso tempo, si è offerto a un gruppo di studenti l'opportunità di fare un'esperienza che ha permesso loro di entrare in contatto con una realtà del tutto sconosciuta, con la finalità di educare alla legalità e incentivare lo spirito di solidarietà. Roma: i figli dei detenuti di Bari e Trani oggi in visita da Papa Francesco Corriere del Mezzogiorno, 30 maggio 2015 Questa mattina, 30 maggio, approda da Papa Francesco il nuovo "Treno dei Bambini", organizzato ogni anno dal "Cortile dei Gentili" e rivolto a bambini coinvolti in situazioni disagiate. Quest'anno, il treno messo a disposizione per la terza volta dalle Ferrovie dello Stato, arriverà nella stazione dello Stato Vaticano, con a bordo i figli e le figlie di detenuti e detenute di Bari e Trani. L'iniziativa, giunta alla terza edizione, segue quella di Napoli (ragazzi a rischio dispersione scolastica) e Milano (ragazzi di case famiglia), ed è organizzata dal Pontificio Consiglio della Cultura e vede il momento clou con l'incontro con il Pontefice. Quest'anno il Cortile dei Bambini ha scelto come tema quello del "Volo", perché vuole offrire ai più piccoli che vivono con le loro madri una quotidianità fatta di carcere e allontanamento dagli altri fratelli, e a quelli che vivono la separazione dalla loro mamma detenuta, una giornata per "volare via" ed evadere con la fantasia dalla realtà con cui sono costretti a fare i conti. Il treno - partirà da Bari nella prima mattinata - a raggiungerà la stazione del Vaticano intorno alle 10.40 e i piccoli con i loro accompagnatori raggiungeranno la sala Nervi dove a mezzogiorno in punto accoglieranno Papa Francesco con tanti aquiloni colorati, sempre per rimanere coerenti al tema del "Volo", che, come scrive il Card. Gianfranco Ravasi, è il "simbolo dei possibili passaggi tra l'interno del carcere, dove vivono le mamme e l'esterno dove stanno i figli". Benevento: "Come comincia una poesia", teatro-carcere con la Solot Compagnia Stabile ilvaglio.it, 30 maggio 2015 Lo spettacolo teatrale "Come comincia una poesia" si terrà nella Casa Circondariale di Benevento mercoledì 17 giugno alle ore 15. È lo spettacolo finale del laboratorio teatrale, tenuto all'interno della stessa struttura penitenziaria, dagli operatori under 35 dell'Associazione Culturale Motus e della Solot Compagnia Stabile di Benevento per il progetto Limiti, finanziato nell'ambito del piano di Azione Coesione "giovani no profit" dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del servizio Civile Nazionale. Scrivono gli organizzatori: "Come comincia una poesia in un carcere? Può nascere una poesia in un carcere? O in un carcere una poesia può solo morire? Istruzioni per l'uso del migliore dei mondi possibili: 1) immaginare uno spettacolo con scene, personaggi, storie ispirate al teatro di Viviani e alle sue suggestioni più forti, alle emozioni più veraci, al linguaggio più musicale che si possa immaginare 2) contaminare il profano con il sacro di una processione di penitenti ispirati, spiritati, tarantolati … così finti da sembrare veri 3) immaginare che tutto questo, la rappresentazione degli ultimi, dei reietti, degli emarginati, non sia una cosa seria o non troppo seria o tragica al punto da risultare visionaria come un film di Fellini o una musica di Nino Rota …. et voilà: chi è di scena? I giovani detenuti del progetto "Limiti", attori per la prima volta, impegnati a raccontare un percorso incentrato sul limite, sul margine, sul confine, nel tentativo di definire, o ri-definire, attraverso il teatro e il cinema, la propria identità, il proprio spazio, la propria libertà. La messinscena, ad ingresso gratuito, sarà rivolta a un pubblico di detenuti ed esterni. Si prega a tal proposito di far pervenire entro il 4 giugno all'indirizzo info@solot.it, i dati dei partecipanti (nome, cognome, luogo e data di nascita), per consentire l'entrata all'interno della struttura. Inoltre, il 3 giugno, l'operatrice culturale della Motus, Marialaura Simeone, parteciperà al VI Convegno interdisciplinare organizzato dall'Università di Roma Tor Vergata, macro area di Lettere e Filosofia, sul tema "Conflitti", raccontando l'esperienza del progetto Limiti con la relazione: Limiti, confini, conflitti. L'esperienza teatrale al Carcere di Benevento. Partendo dalle tre fasi della performance teatrale di cui parla Victor Turner in Antropologia della performance: rottura, crisi e riparazione, analizzerà la fase di crisi del laboratorio teatrale, in cui sono esplosi i conflitti individuali e collettivi dei detenuti". Immigrazione: l'Europa vuole trasformare i Cie in centri di detenzione di Damiano Aliprandi Il Garantista, 30 maggio 2015 I migranti, senza differenziarli tra clandestini e richiedenti asilo, potrebbero essere "accolti nei famigerati Cie, i centri di identificazione ed espulsione. Si tratterebbe di un accordo, ancora in discussione, a livello europeo. Se si arrivasse a un piano per dividere i richiedenti asilo tra i Paesi dell'Unione, infatti, il nostro governo potrebbe essere obbligato a chiudere in strutture sorvegliate (in questo caso si realizzerebbero i Cie) chiunque sbarchi sulle nostre coste, che si tratti di clandestini o richiedenti asilo. Una completa militarizzazione della questione immigrati almeno fino al primo via libera delle istituzioni. Se il piano andasse in porto infatti, vincendo le resistenze della Francia e dei Paesi dell'Est, l'Italia si troverebbe costretta a far rispettare "anche con la coercizione" alcuni obblighi. Fra questi, il primo è la "foto-segnalazione" e la registrazione con le impronte di tutti gli sbarcati. Una missione per la quale l'Unione prevede l'uso delle forze congiunte di Frontex, Europol e polizie nazionali, che hanno già ricevuti fondi per questo compito. Nessuno potrà più sottrarsi alla schedatura, mentre per tutto il 2014 il numero di persone identificate nel nostro Paese è stato limitato, permettendo a siriani, eritrei e palestinesi di raggiungere i loro parenti in destinazioni come Germania, Olanda o Svezia. La rigidità nell'applicazione della segnalazione avrà una conseguenza diretta in termini d'accoglienza: i profughi infatti, una volta registrati, dovranno essere "trattenuti", e non più semplicemente "ospitati" all'interno delle prime strutture d'accoglienza. Andrà cioè impedito loro di uscire dai centri in cui sono stati spediti fino alla valutazione del loro caso. Il cui verdetto determinerà il loro futuro: la "ricollocazione" in un altro Paese europeo, seguendo il principio delle quote, oppure l'attesa di una risposta dalle commissioni territoriali in Italia. E con forte preoccupazione le associazioni, gli avvocati e le realtà territoriali che compongono la campagna "LasciateCIEntrare" registrano le "soluzioni" che vengono decise e adottate dal governo con l'Europa, L'utilizzo dei Cie, luoghi preposti non all'accoglienza bensì alla detenzione amministrativa utilizzati anche per il "transito" dei richiedenti asilo che abbiano fatto ricorso contro il diniego della richiesta di protezione o asilo. La creazione dì cosiddetti HUB finalizzati all'identificazione e all'espletamento delle pratiche in attesa dell'audizione in Commissione e - si legge nella campagna di "LasciateCIEntrare"- un meccanismo che creerà ulteriori "ghetti", aggiungendo costi esorbitanti di gestione ai già tanti che vengono erogati, in assenza di un reale sistema di trasparenza, controlla e monitoraggio, anche ai numerosi consorzi già "nominati" nelle diverse inchieste come quella di mafia capitale. Le stesse ripartizioni che dal Ministero dell'Interno vengono definite, di volta in volta per assegnare a ogni singola regione una "quota" di profughi, rafforzano soltanto una logica di intervento emergenziale inadeguata ad affrontare la situazione. LasciateCIEntrare chiede, quindi, con forza che le procedure per garantire ai profughi - in particolare a chi è in condizione di maggiore vulnerabilità - vengano concordate con enti locali e associazioni, che vengano esclusi da quello che si è già trasformato in un colossale business, coloro che sono coinvolti in inchieste giudiziarie, e che venga assicurato uno standard di accoglienza pari a quello che avviene in gran parte dei paesi europei. Questo evitando la concentrazione in megastrutture e garantendo anche a chi lavora nell'accoglienza la possibilità di operare nelle migliori condizioni, L'associazione "LasciateCIEntrare", chiosa: "Tutto questo è impossibile nei Cie, luoghi di contenzione umana dì cui ribadiamo la necessità di una urgente e definitiva chiusura". Stati Uniti: reportage fotografico sui minorenni nelle carceri di Vittoria Vardanega thepostinternazionale.it, 30 maggio 2015 Un fotografo ha visitato centinaia di carceri minorili negli Stati Uniti e ha fotografato migliaia di giovani detenuti, raccontando le loro storie. Richard Ross è un fotografo e professore statunitense. Nel 2007 ha cominciato a lavorare al progetto Juvenile in Justice, visitando centinaia di carceri minorili negli Stati Uniti e fotografando migliaia di minorenni in prigione. I volti dei ragazzi non appaiono mai negli scatti pubblicati. Ross è sempre rispettoso nei loro confronti, non ha mai provato a imporsi in modo autoritario. Quando entra nelle loro celle, si toglie le scarpe e si siede per terra, facendo foto e chiacchierando con i giovani detenuti. Per la maggior parte del tempo, però, si limita ad ascoltare le loro storie. "Faccio in modo che siano loro ad avere autorità su di me, non il contrario" ha detto Ross. Questi incontri hanno un forte impatto emotivo sul fotografo. "È impossibile lasciarli. La scorsa settimana stavo parlando con una ragazza che ha provato a uccidersi più volte. È stata stuprata e picchiata, è rimasta senza una casa. Stava piangendo disperatamente, con singhiozzi che le sconquassavano il corpo. Visto che è una ragazza minorenne, e ha bisogno di supporto psichiatrico, non mi era permesso toccarla. Tutto quello che volevo fare era abbracciarla e dirle che andrà tutto bene, ma non potevo. E tra l'altro non è vero: non andrà tutto bene". Tramite le sue fotografie, Ross racconta le storie dei giovani detenuti, e cerca di promuovere un cambiamento nel sistema di giustizia per i minorenni. In ventidue stati federali degli Stati Uniti, i bambini dai 7 anni in su possono essere condannati e imprigionati. Stati Uniti: ergastolo al fondatore sito Silk Road, mercato nero di droghe e armi in rete Corriere della Sera, 30 maggio 2015 Il 30enne Ross Ulbricht era stato arrestato dall'Fbi nel 2013 e condannato nel febbraio scorso per traffico di droga, pirateria informatica e riciclaggio di denaro. Il fondatore di "Silk Road", il sito considerato "il mercato nero del web" che vantava un fatturato mondiale da 200 milioni di dollari, è stato condannato all'ergastolo negli Stati Uniti. Arrestato dall'Fbi nel 2013 e condannato nel febbraio scorso per traffico di droga, pirateria informatica e riciclaggio di denaro sporco, Ross Ulbricht, 30 anni, passerà il resto della vita in galera. Su Silk Road venivano venduti illegalmente farmaci, narcotici, armi, documenti falsi. Per i documenti si usavano i bitcoin. I difensori di Ulbricht avevano affermato che pochi mesi dopo aver creato il sito il loro assistito aveva lasciato il controllo della piattaforma, mentre secondo l'accusa non vi è alcuna prova di questo. I giudici sarebbero riusciti a ricostruire tutte le attività illecite di Ulbricht: a loro parere proprio lui si nascondeva dietro al nome di "Dread Pirate Roberts", colui che attraverso i bitcoin gestiva un ingente traffico di denaro frutto della vendita di droga.