Giustizia: intervista a Luigi Manconi "il carcere? va abolito, crea solo nuovi delitti" da Vittorio Zincone Corriere della Sera, 29 maggio 2015 "Chi sconta la pena in prigione reitera i crimini nel 70% dei casi, con i riti alternativi è il 20%. Serve un approccio diverso alla sicurezza collettiva", spiega il senatore. "Lasciare il Pd? E dove vado?". Ha fatto della lotta per i diritti civili ima missione e del garantismo una bandiera esistenziale. Luigi Manconi, sassarese, 67 anni, è sociologo, storico della musica e senatore del Pd. Lo incontro nella sua abitazione romana. Qualche tempo fa ha rivelato la sua quasi totale cecità. Vede solo ombre. Ma in casa si muove con disinvoltura. Mentre accarezza l'angolo di un quadro bianco dell'artista Gianni Dessi, una collaboratrice gli legge sms e posta elettronica. Manconi è radicalmente di sinistra e libertario. Dopo il trionfo del conservatore David Cameron alle ultime elezioni inglesi ha twittato: "Ve l'avevo detto che il matrimonio gay fa vincere le elezioni". Aggiunge: "Mi sarebbe piaciuto vedere la minoranza Pd impegnarsi a favore dell'accoglienza per i migranti con la stessa energia utilizzata contro l'Italicum". Domando: "Sulla riforma del Senato, la maggioranza di Matteo Renzi rischia di andare sotto?". Risponde con tono navigato: "Ci sarà tensione, ma niente più di una normale conflittualità". Lui ha appena dato alle stampe per ChiareLettere un libro, "Abolire il carcere", scritto con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Esclamo: "Bella provocazione!". Replica: "Nessuna provocazione. Il titolo va letto insieme al sottotitolo: "Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini". Prima ci sono state "Una ragionevole proposta di sperimentazione sulla legalizzazione della droga" (nel 1991) e "Una ragionevole proposta per salvare l'Italia, gli italiani e gli immigrati" (nel 2013)". Temo che agli italiani le sue proposte sulle droghe, sull'immigrazione e sulle carceri non risultino così ragionevoli. Il suo Pd, poi, va verso altri lidi. "Io parto da un dato statistico inconfutabile: coloro che scontano interamente la pena in carcere tendono a reiterare il reato nel 68-70% dei casi. La recidiva tra coloro che sono sottoposti a pene alternative, invece, è intorno al 20%". Conclusione? "Il carcere dovrebbe garantire la sicurezza dei cittadini. Non lo fa e, al contrario, riproduce all'infinito criminali e crimini. Dunque, il carcere fa male alla società e attenta alla sicurezza collettiva". Chi subisce un torto vuole vedere in galera chi ha causato il torto. È umano. "La ritorsione e la rappresaglia corrispondono a sentimenti umanissimi, ma non risultano ne utili, ne efficaci. E se dovessimo ascoltare solo la pulsione di vendetta, dovremmo ricorrere all'uso massiccio dell'ergastolo o della pena di morte. Ma queste soluzioni estreme non risarciscono in alcun modo la società e non danno un senso al dolore dei familiari delle vittime: si limitano a offrire simbolicamente la testa del colpevole". Agli italiani le carceri e i carcerati interessano poco. "Il carcere è il luogo del male, dove finisce chi ha ceduto a tentazioni che in realtà ciascuno avverte oscuramente: rubare, aggredire, corrompere. Di conseguenza, si vogliono sottrarre allo sguardo della collettività le sbarre che imprigionano quel male a cui tutti potremmo cedere. Si rimuove la prigione dal tessuto urbano per rimuovere dalla nostra sensibilità e dai nostri incubi ciò che contiene". La sua parte politica è abbastanza disattenta su questi argomenti. "In realtà, la sinistra non è mai stata garantista, perché ha sempre privilegiato, comprensibilmente, i diritti sociali rispetto alle garanzie individuali, e le tutele collettive rispetto a quelle della persona. Solo negli anni Settanta si sono affermati movimenti che valorizzavano l'autonomia individuale". Il Pd di Renzi farà qualche passo avanti sui diritti? Lei è stato il primo a presentare un disegno di legge sul testamento biologico, nel 1996 e, un disegno di legge sulle unioni civili nel 1995… "Sui diritti l'Italia ha buttato venti anni, anche a causa di una distanza molto ampia tra sensibilità e maturità dell'opinione pubblica e arretratezza della classe politica. Sul testamento biologico, per non rischiare di veder approvare obbrobri, c'è da sperare che questo parlamento non legiferi". Sembra condividere molto poco di quel che produce il suo partito. Perché resta nel Pd? "Per una questione di lealtà. Dopo un quindicennio vissuto da Sora Camilla"… ..la signorina che romanescamente tutti vonno ma nessuno se la piglia... "...nel 2013 Pierluigi Bersani ed Enrico Letta hanno deciso inopinatamente di candidarmi". Nel frattempo il Pd è cambiato. I dirigenti con cui si sente in debito sono stati fatti accomodare in panchina. "E infatti c'è un altro motivo per cui resto nel Pd: non saprei dove altro andare. La mia vita politica si è quasi sempre svolta nel minoritarismo: un anno nella Fgci, poi Psiup, Lotta Continua e Verdi. Nel 2005 Piero Fassino mi propose di entrare nei Ds come responsabile dei diritti civili, ma già da qualche tempo avevo maturato l'idea che una posizione radicale può operare proficuamente all'interno di un partito largo. Certo, le mie idee non sono egemoni nel Pd. O meglio: non contano quasi nulla. Ma posso esprimerle liberamente e qualche volta perfino ottenere risultati: sono riuscito a ridurre il tempo di trattenimento nei Cie da 18 a 3 mesi. Fossi stato in un altro partito, ce l'avrei fatta?". A cena col nemico? "Dico Silvio Berlusconi. Invecchiato, ridimensionato, ai margini. Gli sconfitti mi interessano sempre più dei vincitori". Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? "Trasferirmi da Sassari a Milano. Avevo due ambizioni: fare il sociologo e recitare. Di giorno militavo nel movimento studentesco, la sera frequentavo i teatri". L'errore più grande che ha fatto? "Firmare nel 1972 un articolo collettivo su Quaderni Piacentini: una scellerata apologia della violenza rivoluzionaria". In quel periodo lei militava nel gruppo extraparlamentare Lotta Continua. "Di quella militanza, conclusa nel 1975, ancora mi si chiede conto". Chi gliene chiede conto? "Il Fatto quotidiano, per esempio, se deve scrivere di me, aggiunge: "Ex capo del servizio d'ordine di Lotta Continua". Loro sono dei reduci, morbosamente avvinti al passato. Io, quel passato credo di averlo elaborato. E ci riconosco sia miseria sia nobiltà". La nobiltà. "Venivo da una famiglia della piccola borghesia sassarese e con Lotta Continua ho conosciuto un pezzo importante di mondo: ho parlato e vissuto per molte ore al giorno con gli operai, e ho imparato a leggere le loro buste paga". La miseria. "L'incapacità di distinguere tra mezzi e fini: la tardiva espulsione della violenza dal nostro corpo militante e dal nostro pensiero. E poi avevamo un'idea di giustizia, per cosi dire, maoista, tutta repressiva e anti-garantista". Lei aveva fama di essere un abilissimo organizzatore di cortei. Ha visto che cosa hanno combinato i cosiddetti Black Bloc a Milano lo scorso Primo maggio? "Ai miei tempi non sarebbe accaduto. Novantanove volte su cento le manifestazioni erano l'esito di un negoziato. Quando falliva il negoziato era tutto il corteo o i responsabili della polizia a volere lo scontro, e non delle schegge impazzite dell'una o dell'altra parte". Lei che cosa guarda in tv? "Negli anni Ottanta e Novanta ho visto quasi tutto: da Samarcanda a Mai dire Banzai. Oggi quasi nulla: l'attuale programmazione mi sembra la monotona ripetizione di ciò che è andato in onda per decenni". Il libro preferito? "I versi di Paul Celan. Ho letto moltissima poesia nella mia vita. Non poterlo fare oggi è uno degli effetti più dolorosi della mia quasi cecità". La canzone? "In cerca di te, cantata da Nella Colombo, poi da Natalino Otto e, infine, da Simona Molinari". Lei sa qual è l'articolo 3 della Costituzione? "È quello sull'uguaglianza dei cittadini. Davvero pensava che non lo conoscessi?". Non si sa mai. In Italia oggi l'articolo 3 della Costituzione viene applicato? "No. Negli ultimi decenni, molte funzioni del welfare sono state cancellate, o ridotte, o sostituite da altri sistemi, m particolare da quelli del controllo e della repressione. Innanzitutto il carcere, oggi vera e propria agenzia di stratificazione sociale". Si spieghi meglio. "Il carcere è il luogo dove vengono rinchiusi tossicomani, alcolisti, infermi di mente, senza fissa dimora, stranieri, poveri e quanti precipitano nella scala sociale. Per loro i meccanismi di protezione sono stati sostituiti da quelli di esclusione e contenimento. Anche per questo, abolire il carcere sarebbe un atto di civiltà". Una vita di impegno culturale e politico Luigi Manconi è nato a Sassari nel 1948. Docente universitario, giornalista, sociologo, critico musicale, tra il 1969 e il 1975 ha militato in Lotta Continua. Negli anni Ottanta ha fondato e diretto, con Massimo Cacciari e Rossana Rossanda, la rivista Antigone. Senatore dei Verdi (1994-2001) e loro portavoce, è passato ai Ds nel 2005 ed è stato sottosegretario nel secondo governo Prodi. Il 24 febbraio 2013 è stato eletto senatore del Pd. Giustizia: il carcere non aiuta a cambiare vita… a proposito del libro di Manconi & C di Umberto Folena Avvenire, 29 maggio 2015 Una provocazione? No, una proposta ragionevole. Un'utopia? Neppure, il tentativo di rispondere a un fallimento sperimentando delle alternative. Il titolo secco, privo di sfumature, può creare l'equivoco. Ma "Abolire il carcere" (Chiarelettere, 120 pagine, 12 euro), scritto a quattro mani da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, con la postfazione affidata a Gustavo Zagrebelsky, non propone un'eliminazione tout court delle patrie galere. E soprattutto parla di pena, prima che di carcere. Oggi noi associamo automaticamente la pena per un delitto commesso al carcere. Ma non è stato sempre così. Lo stesso carcere, ad esempio tra i romani, i padri riconosciuti del diritto, era un provvedimento temporaneo in attesa del processo. Gli autori partono dunque da una constatazione: il carcere ha ampiamente fallito i suoi scopi. Quasi mai riabilita, quasi sempre (in più del 68 per cento dei casi, secondo un'inchiesta condotta tra il 1998 e il 2005 su oltre 11 mila casi) chi ha scontato una condanna torna a delinquere. Chi conosce l'alternativa della formazione e dell'avviamento al lavoro, invece no. Il carcere costa tantissimo e restituisce alla società individui recuperati solo in rari casi. Paradossalmente, sarebbe più ragionevole la pena di morte... possiamo dunque, si domandano gli autori, fare a meno del carcere, nell'interesse della collettività? È possibile, insistono, sperimentare nuove forme di composizione dei conflitti e di risarcimento dei danni da essi provocati? Certo, essendo però coscienti che il tragitto sarà lungo e tortuoso. Le alternative ci sono, già sperimentate in alcuni Paesi. Manconi e compagni, in particolare, propongono un sistema sanzionatorio articolato in sanzioni a carattere interdittivo, pene pecuniarie, sanzioni civili, sanzioni a carattere prescrittivo, e sanzioni detentive solo per i casi più gravi. E così, a pagina 91, viene data una risposta alla domanda che al lettore ronza per il capo fin dalla lettura del titolo: e i criminali legati a cosche di tipo mafioso? I killer? Gli stupratori seriali? Tutti coloro che è ragionevole ritenere possano reiterare il reato? In generale tutti coloro che sono pericolosi per la società? Tutti fuori? No, ma occorre "limitare la reclusione al carcere ai soli casi nei quali le esigenze di difesa sociale non siano altrimenti tutelabili". Cinque righe su 120 pagine, per replicare all'obiezione fatale di quasi tutti i lettori, sono forse poche. Qualcuno poi, pur condividendo in gran parte l'analisi ("il carcere è un'istituzione insostenibile sotto il profilo giuridico e politico, sociale e finanziario"), potrebbe concludere che non va abolito ma riformato profondamente. Comunque, questa è più d'una provocazione intelligente. E varrà la pena che dal lavoro di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta si apra una discussione franca, priva di derive ideologiche, senza, finalità elettorali, assolutamente razionale. Perché tutti abbiamo a cuore lo stesso obiettivo: non arrenderci di fronte alla presunta irrecuperabilità di chi delinque, ma pensarlo come un uomo, un fratello, che a tutti i costi va restituito a se stesso e alla società. Giustizia: è morto di cancro al 41bis, non ha potuto nemmeno dire addio alla famiglia di Maria Brucale Il Garantista, 29 maggio 2015 Il Tribunale di Napoli aveva dato l'ok a un colloquio con i cari: l'autorizzazione del Dap non è arrivata in tempo. Feliciano Maliardo, detenuto in regime di 41 bis, è morto a L'Aquila la notte del 26 maggio, nella cella detentiva dell'ospedale San Salvatore. Era gravemente malato, tanto che i suoi legali avevano da tempo chiesto la scarcerazione per incompatibilità con il carcere delle sue condizioni di salute. Ma è morto da solo. Come un cane. Senza neanche potere dire addio ai suoi familiari. Il Tribunale di Napoli, aveva dato il nulla osta per consentire a Maliardo di salutarli un'ultima volta. Ma l'autorizzazione del Dap non è arrivata. E Feliciano è morto. Feliciano Maliardo, detenuto in regime di 41 bis, è morto a L'Aquila la notte del 26 maggio, nella cella detentiva dell'ospedale San Salvatore. Era gravemente malato, tanto che i suoi legali avevano da tempo chiesto la scarcerazione per incompatibilità con il carcere delle sue condizioni di salute. A sostegno della richiesta, la relazione sanitaria redatta dall'ospedale dell'Aquila, dove era ristretto proprio in ragione delle sue conclamate patologie: diabete, insufficienza renale, problemi cardiaci, un cancro polmonare scoperto quando aveva già raggiunto i 7 cm di massa con successive metastasi al fegato. Prevedibile un "exitus improvviso", si legge nell'istanza dei difensori che chiedevano anche al Tribunale di Napoli, avanti al quale si era concluso in primo grado il processo per cui Maliardo era detenuto, di autorizzare il proprio assistito ad incontrare i propri cari, senza vetro divisore. Nulla osta, aveva risposto il Tribunale di Napoli, ad un colloquio straordinario del Maliardo con i suoi stretti congiunti - la moglie e i figli - e aveva disposto la trasmissione urgentissima al Direttore del carcere competente all'autorizzazione. Non c'è stato il tempo. Il carcere ha interpellato il Dap ma il parere, pur sollecitato, non è arrivato. Feliciano Maliardo è morto da solo mentre i parenti, fuori dalla sezione blindata dell'ospedale, speravano nella possibilità di vederlo, un'ultima volta, di fargli una carezza, di lasciarlo spegnere con un sorriso e un abbraccio. Quello dell'avv. Barbara Amicarella, il legale che lo seguiva nel reclamo avverso il regime carcerario differenziato, l'ultimo sguardo che ha incontrato, il suo, il solo conforto che ha ricevuto. L'avevano visto venti giorni prima i familiari, per un'ora, dietro al vetro divisore. Poco più di due mesi fa, era stato condannato in primo grado a 24 anni di reclusione nell'ambito del processo "caffè macchiato" per associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione aggravata. Era in carcere dal 10 maggio 2011, giorno in cui fu arrestato dagli uomini della Guardia di Finanza in un appartamento dove si era rifugiato al terzo piano di una palazzina disabitata in via Sant'Agostino a Giugliano. È morto un boss della camorra, scrivono i giornali. Ma è morto un uomo, in attesa di giudizio. È morto un uomo! E non gli è stato permesso di salutare nessuno, di parlare con una persona vicina, amica, cara. Di lasciare ai suoi familiari un segno, una parola, un pensiero. Accadono cose come questa. Mentre si parla di carcere e di diritti umani, di rispetto della vita, della dignità, mentre si guarda con sentimenti nascenti - voglia Dio o chi per lui! - di orrore alla tortura nelle carceri e altrove, accadono cose come questa. Appena un mese fa, a Cuneo, si era impiccato nella sua cella di massima sicurezza, Palmerino Gargiulo, un detenuto campano di 53 anni, sottoposto al regime detentivo del 41 bis e condannato all' ergastolo, dopo un periodo di isolamento interrotto dall'autorità giudiziaria in virtù della riscontrata esistenza di patologie psichiatriche e di tendenze autolesionistiche. Ne aveva dato notizia il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Donato Capece, segretario generale del sindacato, aveva commentato: "Purtroppo, il pur tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari non ha potuto impedire che 1' uomo, che era in cella da solo, mettesse in atto il tragico gesto". Tempestivo. Eppure un uomo è morto suicida, un uomo che in ragione delle sue patologie non doveva, non poteva essere isolato in un regime di carcerazione che ha come essenza vistosa l'annichilimento dell'essere umano, la privazione degli stimoli, l'annientamento degli istinti, perfino dei pensieri. Ma la Costituzione si ripiega su se stessa col ricorso a concetti di discrezionalità amministrativa: la perequazione di interessi pubblici. A fronte di un interesse giudicato dominante, l'incolumità pubblica, possono essere sacrificati i diritti supremi dell'uomo, alla salute, all'espressione del pensiero, alla famiglia, perfino alla vita. La sicurezza è la bandiera che viene sventolata ai nostri occhi. È un'astrazione comune, collettiva. Uno spettro che tutti unisce e raccoglie e abbacina. Le nostre vite al sicuro, i nostri figli al sicuro. È un baluardo emotivo, sofisticato e viscido che tocca corde sensibili e rende gretti, meschini, ciechi. Il 41 bis è consapevole, tracotante sintomo ed espressione di tale rassegnata grettezza. La sicurezza, origine e legittimazione di una carcerazione ferocemente afflittiva, assume contorni del tutto sfumati e sfocati e inalvea ogni genere di oppressione, privazione, repressione. Il trattamento penitenziario, ciò che umanizza il carcere offrendone la polverosa apparenza giustificatrice di strumento di rieducazione e di reinserimento, può essere sospeso in tutto o in parte, nei confronti di detenuti che, in situazioni di vistosa emergenza, destino particolare e motivato allarme per l'incolumità pubblica. Ma la repressione, il contenimento dell'emergenza devono arrecare alla persona ristretta soltanto quelle limitazioni utili ad impedire la persistenza dell'agire criminale. Solo quelle. Lo dice con una timida astrazione di principio la corte costituzionale ribadendo ogni volta la legittimità rispetto alla Costituzione, della norma di ordinamento penitenziario che tali limitazioni contempla, l'art. 41 bis. Il detenuto in 41 bis può ricevere dall'esterno meno vestiti e meno cibo. Può trascorrere all'aperto un'ora al giorno, in uno spazio infimo e grigio, spesso con il cielo oscurato, nel momento deciso dall'amministrazione penitenziaria, che piova o ci sia il sole. Può incontrare solo i detenuti della sua sezione detentiva, tre oltre a lui, ogni giorno, per anni, gli stessi. Non può avere un fornelletto in cella per cucinare alcunché, esprimere nella cucina un briciolo di creatività, occupare il tempo, aspirare alla soddisfazione di un piacere. Deve sottoporre a censura la corrispondenza che invia e che riceve subendo, a volte, il trattenimento di una missiva il cui significato appare ambiguo al censore di turno, magari per la calligrafia incerta di una madre anziana e malata. Deve attendere tempi infiniti se ha bisogno di un medico esterno finché è autorizzato dal Dap, mentre la malattia non aspetta, la morte non aspetta. Deve vedere i propri familiari per una sola ora al mese dietro un vetro divisore o, in alternativa, può chiamarli al telefono, presso altro carcere, per dieci minuti. Se il detenuto in 41 bis è padre o madre, potrà toccare i suoi bambini minori di dodici anni. Sarà un agente penitenziario a porgerglieli, attraverso la finestra che si può aprire e che viene immediatamente dopo richiusa. Fino a dodici anni. A tredici saranno adulti e pericolosi e non potranno più ricevere una carezza dal loro familiare recluso. Quale l'utilità, a fini di prevenzione, del ridimensionare l'aria, il vitto, l'abbigliamento, la possibilità di cucinare, di essere curati, il tempo da trascorrere con i propri congiunti, i minuti contati da un agente che vigila e che si aggiunge all'occhio fisso della telecamera per tenere in braccio un bambino? Oggi che tutto è ascoltato, video registrato, spiato. Quale l'ottica di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblici, leggibile nelle limitazioni ulteriori apportate dalla legge del 2009 alla carcerazione in 41 bis attraverso la riduzione delle ore di socialità e di passeggio da quattro a due? Il detenuto resta all'interno della propria cella per 22 ore al giorno. Ha due ore soltanto da distribuire tra "aria" e "socialità", "attività diverse" dalla cella che si riducono assai spesso all'accesso ad una biblioteca fornita di pochi e malconci volumi consultabili; nessun utilizzo di p.c. neppure a scopi di formazione e di istruzione per gli iscritti alle università che spesso vedono mortificati anni di studio e di sacrificio, anche economico, dallo sbarramento imposto all'accesso ad attività informatiche o di laboratorio richieste dagli Atenei per perseguire l'obiettivo didattico. Nessuna struttura per attività fisica. Quale il senso del divieto di ricevere stampa di qualsiasi genere -libri, giornali, abbonamenti - dall'esterno e della imposizione dell' obbligo di acquistare tali beni unicamente attraverso il carcere utilizzando il denaro che è consentito avere sottraendolo ad altre piccole necessità del quotidiano? La risposta è, purtroppo, una soltanto: deprivazione sensoriale, sottrazione dell'emozione, del desiderio, della speranza, del sé. Tortura, ecco tutto. Giustizia: si vota domenica… i Pm in campo Il Garantista, 29 maggio 2015 Città di Perugia. Comizio del premier Matteo Renzi in favore di Catiuscia Marini, candidata presidente del Pd alle Regionali. "Il Pd è legalità. Gli altri ne parlano, noi la pratichiamo". Segue elenco dei provvedimenti in materia di giustizia. Una cosa nevrotizzante. Che non c'entra nulla, ma proprio nulla, con il programma per governare l'Umbria. Renzi se ne infischia. I voti si chiedono sulla giustizia. Solo su quella. E anzi, per essere più precisi, sulla "presentabilità" dei candidati. È una giostra che nessuno può fermare, quella dell'incrocio tra campagna elettorale e incursioni giudiziarie. Leader e partiti ci sono saliti su e non riescono più a scendere. C'è il caso degli impresentabili che l'Antimafia si appresta a mettere all'indice. Poi quello del candidato governatore del Pd in Campania Enzo De Luca: se vince non può assumere la carica, a causa della legge Severino. E con il trasferimento di competenza ai giudici ordinari, vedrà allungarsi i tempi per veder revocata la sospensione. Come se non bastasse, arrivano gli arresti siciliani: due deputati regionali (Nino Dina e Roberto Clemente), un ex consigliere (Franco Mineo), il primo dei non eletti al Comune di Palermo (Giuseppe Bevilacqua), più un finanziere. Tutti ai domiciliari. La Procura di Palermo annuncia di aver fatto finalmente pulizia. Ma a un certo punto si contraddice: prima il coordinatore dell'inchiesta, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dice che la storiaccia offre "uno spaccato plastico del rapporto tra una certa politica e Cosa nostra"; poi però precisa di aver contestato la "corruzione elettorale" e non il voto di scambio politico-mafioso perché "non risulta che i deputati Dina e Clemente fossero consapevoli dell'appartenenza mafiosa dei soggetti a cui richiedevano i voti". E allora dove sarebbe lo spaccato sui rapporti mafia-politica, se i presunti corrotti manco sapevano di avere a che fare con uomini d'onore? I Pm padroni delle regionali Dettagli trascurabili, a questo punto. Resta l'enorme peso che la magistratura ha acquisito nelle vicende politiche, e in particolare in questa campagna elettorale. Un'influenza mai vista prima. Con i partiti che hanno rinunciato preventivamente ad affrancarsi dal condizionamento delle toghe. La politica abdica, e provoca conseguenze paradossali. Basti pensare al caso De Luca. Il quale ora dice: "Renzi ha chiaramente definito la Severino un problema superabile, confermando che chi viene scelto dai cittadini potrà tranquillamente governare". Un modo per rassicurare se stesso, prima ancora che gli elettori. E forse per mettere in mora il premier. Qualora De Luca fosse eletto governatore, sarà l'esecutivo, e dunque Palazzo Chigi, a decidere se dare al neopresidente almeno qualche ora per indicare un vice. Il quale farebbe da vicario fino all'accoglimento dell'eventuale ricorso. Ecco. De Luca deve scommettere su Renzi. Ma è proprio Renzi che lo ha tradito. Non tanto con quella frase su Caldoro che aveva "lavorato bene". Ma con la scelta, deliberata, di non correggere la Severino. Soprattutto di non escludere dalle cause di ineleggibilità un reato troppo frequentemente contestato agli amministratori locali come l'abuso d'ufficio. Non solo. Perché il governo, o almeno la maggioranza parlamentare che lo sostiene, avrebbe dovuto modificare la norma ed eliminare la discriminazione per sindaci, governatori e consiglieri, per i quali basta una condanna anche in primo grado e si viene sospesi, mentre per l'ineleggibilità dei parlamentari serve una sentenza definitiva. Regole che, nel caso degli amministratori locali, violano il principio della presunzione d'innocenza. Proprio per questo il Tar ha rimesso gli atti di de Magistris e De Luca alla Corte costituzionale. L'ignavia di Renzi sulla legge Severino Renzi non se l'è sentita. Non voleva fare la figura di chi modificava una legge per salvare De Luca. Il Parlamento si è bloccato, la Severino è rimasta lì, con tutte le sue assurdità. Colpa della poltica, appunto, che non ha avuto il coraggio di imporsi. E che ora mette le Regionali campane in una situazione folle. Con il rischio che una vittoria di De Luca si trasformi davvero nel caos. È a maggior ragione così dopo la Camera di Consiglio con cui le sezioni unite della Cassazione hanno trasferito dai Tar ai Tribunali ordinari la competenza su questo tipo di ricorsi. Come dice Gianluigi Pellegrino, l'avvocato promotore dell'istanza alla Suprema Corte, vuol dire che un'eventuale pronuncia della Consulta sulla Severino verrebbe "travolta", giacché non sarebbe più valida la decisione dei Tar che l'avevano innescata. Dopodiché per dimostrare l'incostituzionalità di quelle norme ci vorrà molto più tempo: la giustizia ordinaria non ha la prontezza di riflessi di quella amministrativa. Con il suo pavore, la politica rischia di lasciare De Luca, per un tempo insopportabile, nella condizione di presidente sospeso. La smania di Rosy per la lista nera Nella smania di compiacere l'onda forcaiola, viene fuori quest'ultima prodezza del Parlamento: le liste di proscrizione dell'Antimafia. Saltati fuori i quattro nomi "pugliesi", si danno i numeri sugli impresentabili rimanenti, ancora "segreti" e tutti campani: sarebbero 13, o forse 7. Non si sa. Si capisce solo che l'organismo presieduto da Rosy Bindi ha combinato un pasticcio incredibile. In termini di metodo, con le indiscrezioni sui quattro candidati al Consiglio regionale della Puglia trapelate prima dell'annuncio ufficiale, fissato per domani. Ma anche in termini di merito, la commissione bicamerale ha dimostrato una patetica soggezione alla dittatura dei pm. La stessa che ha paralizzato Renzi sulla Severino e che ora fa dire al presidente siciliano Crocetta, a proposito degli arresti di ieri, "questo è solo l'inizio". Un surf dissennato sull'onda della giustizia preelettorale. Sport praticato appunto anche da Bindi. Che in Puglia, tanto per dire, individua come impresentabile un candidato della lista Popolari per Emiliano, l'imprenditore Fabio Ladisa, rinviato a giudizio per una lite sorta con un ex socio attorno a degli assegni. Nulla di accertato, presunzione d'innocenza doverosa e consistenza dei fatti tutta da verificare. Ma Bindi non perdona, Emiliano neppure: con una nota ufficiale ha chiesto ieri, ai responsabili della lista, di "ritirare il candidato Ladisa". Ancora più grossa, la commissione Antimafia l'ha combinata con i due candidati del fittiano Schittulli: il brindisino Massimiliano Oggiano è stato assolto in primo grado, e ha avuto la sfortuna di trovare un pm che gli ha impugnato la sentenza e lo ha trascinato in Appello; l'altro, Enzo Palmisano è stato assolto per un reato, mentre un altro è dichiarato prescritto. Tutta gente che non avrebbe nulla da farsi perdonare, fino a prova contraria. Ma la spietata legge dei pm è più forte di tutto. E ha già vinto le elezioni. Giustizia: vittime di Equitalia e dei pm, c'è una lista elettorale nata per difenderle di Vincenzo Vitale Il Garantista, 29 maggio 2015 Nel panorama delle prossime Regionali c'è una novità: è la lista "Vittime dell'ingiustizia e del fisco", dovuta alla passione civile di Arturo Diaconale, presidente del Tribunale Dreyfus, che ha lo scopo di mettere al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica, spesso distratta e annoiata, casi giudiziari e politici di particolare delicatezza. La lista si presenta in Campania e costituisce il tentativo di coagulare politicamente una grande costellazione di vicende italiane. Che giustizia e fisco siano in Italia con troppa frequenza al centro di polemiche non è certo casuale; piuttosto è l'effetto diretto, anche se assai grave, di un malfunzionamento di entrambi, che viene sì denunciato, ma che non ha mai visto interventi seri destinati ad arginarlo. Nel primo settore, quello della giustizia e della sua amministrazione, ormai tutti conoscono i gravi problemi che affliggono chi abbia la sventura di incapparvi: processi lunghissimi; deficienza di reali garanzie per l'accusato e comunque insofferenza per le stesse; sostanziale irresponsabilità della magistratura, nonostante le recenti riforme; uso smodato della carcerazione preventiva; intercettazioni che calpestano il diritto alla riservatezza di soggetti del tutto estranei alle indagini; termini di carcerazione preventiva troppo estesi; poteri eccessivi del pm; mondo carcerario invivibile, per edilizia fatiscente, spazi inesistenti, igiene precaria. Insomma, un disastro o quasi. Sono alcuni degli aspetti su cui conviene soffermarsi e sui quali i cosiddetti benpensanti preferiscono sorvolare, convinti che a loro non capiterà mai e perciò non vale nulla interessarsene; ma evidentemente, sbagliando di grosso, perché poi se capita e quando capita anche a loro, allora sì che se ne interessano. Nel secondo settore, quello del fisco, le cose purtroppo non vanno meglio. Molte norme sono palesemente incostituzionali; le vessazioni sul contribuente sono continue e a volte, perfino occulte; le malefatte di Equitalia o di altri organismi abilitati alla riscossione sono sotto gli occhi di tutti; il peso fiscale è intollerabile; l'amministrazione sembra voler incutere timore nel cittadino, invece di chiederne la leale collaborazione; insomma, un altro disastro. Anche qui, scarsa l'attenzione degli organi deputati a correggere queste storture: molti proclami, pochissimi i fatti. Ecco allora lo scopo esaltante di questa iniziativa di spessore genuinamente politico che intende non solo rimettere al centro del dibattito pubblico i problemi sopra segnalati, ma anche favorire la nascita e l'affermazione di una compagine politica davvero capace, come si dice, di prendere il toro per le corna, mettendo mano una volta per tutte a serie riforme. In questa prospettiva, la lista "Vittime della giustizia e del fisco" propone una duplice amnistia: una strettamente giudiziaria ed una fiscale. Nell'ambito della prima, dovrebbero essere amnistiati tutti i reati punibili con pena edittale non superiore a tre anni, in quanto insuscettibili di creare vero allarme sociale e perciò da depenalizzare senza indugio: l'effetto sarebbe un effettivo alleggerimento del carico dei Tribunali e delle Corti ed una reale armonizzazione dell'illecito rispetto alla sanzione penale che sarebbe esclusa. Nell'ambito della seconda, dovrebbero essere amnistiati tutti i debiti con l'erario non superiori a 50mila euro, e ciò per assicurare definitivamente che non potrà più accadere -mai più - che un povero Cristo, per un debito di due o tre mila euro verso il fisco, si veda pignorare la casa, che poi sarà messa all'asta: quanti sono coloro che da un dramma di tale portata sono stati indotti al suicidio? Ecco dunque la grandissima importanza di una iniziativa di questo genere che è indirizzata a tutti, ben al di là degli schematismi dei singoli schieramenti. Se davvero gli italiani comprendessero che dando effettivo sostegno a questa proposta politica sarebbe possibile evitare di fatto molti dei terribili problemi che assillano centinaia, migliaia di famiglie, allora dovrebbero cingere d'assedio i seggi elettorali allo scopo di correre a votare la lista di Arturo Diaconale, ispirata, come si accennava al Tribunale Dreyfus. Speriamo ardentemente che ciò accada: che cioè al di là della nebbia delle ideologie, al di là di ogni tentennamento, giunga dalle urne campane un sostegno forte e convinto per questa iniziativa che, non a caso, parte da Napoli. Una delle città più belle del mondo: ed una delle più martoriate. Giustizia: Santacroce o dell'irresponsabilità civile di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 maggio 2015 I deboli argomenti della Cassazione contro una legge semmai timida. Il primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, attacca la legge sulla responsabilità civile dei magistrati e lo fa con due argomenti, uno falso e l'altro assai opinabile. La legge sarebbe "tutta italiana" perché non è stata affatto richiesta dalle autorità europee, sostiene, ricevendo la replica immediata del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che ricorda che l'Italia è stata messa in mora per l'inosservanza del principio del risarcimento e che se non fosse intervenuta la legge avrebbe subito sanzioni economiche. L'altra tesi sostenuta dall'alto magistrato è che la responsabilità civile (che peraltro si applica solo a casi di "negligenza inscusabile" che saranno comunque valutati da altri magistrati) farà sì che il giudice "che tiene famiglia adotterà le soluzioni più caute e meno coraggiose". A parte il fatto che la cautela dovrebbe essere una regola generale soprattutto quando si esercita il potere di privare della libertà i cittadini, non si capisce che cosa c'entri il "coraggio" con la negligenza. Quello che non si vuole accettare è un principio di responsabilità, lo stesso che vale per chiunque nell'esercizio della sua professione arrechi danni a terzi, ma dal quale i magistrati pretendono una immunità totale, ancora più ampia di quella che la timidissima legge prevede. Santacroce poi non si rende conto dell'ambiguità della sua certezza "che i giudici ne daranno la giusta interpretazione", che sembra far intendere che le sentenze sulla responsabilità saranno in sostanza ispirate al sabotaggio della legge, quella che dovrebbe essere eguale per tutti. Tutto questo allarme, peraltro, non sembra basato su nulla: i ricorsi per responsabilità civile dei magistrati che sono stati presentati a tutt'oggi si contano con le dita di due mani. È abbastanza evidente che non è il dispositivo della legge o la possibilità di una ampia azione di rivalsa di cittadini colpiti dalla malagiustizia quello che irrita la magistratura. È puramente e semplicemente il fatto che il Parlamento abbia osato deliberare in materia di giustizia senza ottenere preventivamente l'avallo della corporazione. Più interessante appare invece la considerazione del vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, sul fatto che "il legislatore spesso riversa sulla giurisdizione il compito di risolvere temi che non ha affrontato o non vuole affrontare". In questa osservazione c'è del vero, ma potrebbe anche essere capovolta, osservando come in vari casi la magistratura intervenga per cancellare scelte legislative sgradite, com'è accaduto ad esempio per ìa legge sulla procreazione assistita o sul blocco dell'indicizzazione delle pensioni. La Costituzione non prevede una supplenza della magistratura al potere legislativo, ma questa ormai è una prassi su cui bisognerebbe riflettere seriamente. Giustizia: incidente mortale, 17enne in carcere, caccia a due ragazzi rom di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 29 maggio 2015 Un gruppo di rom a bordo dell'auto pirata che a Roma ha ucciso una donna e ferito 8 persone. Diciassettenne arrestata, è indagata per omicidio volontario. Si cerca il marito, anche lui minore Il padre Bathu ha cercato fino all'ultimo di difenderlo addossandosi ogni colpa. La polizia non gli ha creduto e lo ha rilasciato. Ma lo stesso non ha fatto con la giovanissima moglie di Antony H., il sedicenne rom bosniaco ricercato da mercoledì sera in tutti i campi nomadi della Capitale - ma anche in quelli del Lazio e del Centro Italia - per l'incidente in via Mattia Battistini, fra Boccea e Primavalle, dove la colf filippina Corazon "Corie" Peres Abordo, 44 anni, è morta sul colpo e altre otto persone sono rimaste ferite, quattro delle quali in modo grave. Maddalena, 17 anni, si trova infatti nel carcere minorile di Casal del Marmo accusata di concorso in omicidio volontario, lesioni gravissime e omissione di soccorso. È stata interrogata dagli investigatori della Squadra mobile, diretti da Luigi Silipo, ai quali avrebbe fornito versioni ora al vaglio. Come quella data dal suocero che nel pomeriggio è tornato nel campo in via della Monachina, sul viadotto dell'Aurelia. "Guidavo io, lo giuro, ma ero ubriaco. Mio figlio nemmeno c'era. Dovevo andare dal medico, perché ho il pacemaker, ma quando ho visto che la polizia mi inseguiva sono fuggito: mi hanno ritirato la patente proprio per ubriachezza", ha raccontato il cinquantenne alla polizia. Gli altri del campo hanno chiesto perdono. Per chi è ancora da vedere. "Chi ha sbagliato è giusto che paghi, ma non attaccate tutti per gli errori commessi da altri", spiegano i parenti di Antony e Maddalena, che hanno una bimba di 10 mesi. La nonna racconta che la coppia "di solito fa qualche passeggiata e ogni tanto va in discoteca. Lei studia dalle suore per terminare la terza media, lui si arrabatta ai mercati generali e cerca ferro nei cassonetti". La sorella di "Tony" ha anche lanciato un appello al ricercato, smentendo di fatto il padre - "Torna e andiamo dal pm, spiegheremo tutto" -, ma ora alla Monachina i rom hanno paura di ritorsioni. Stessi timori negli altri insediamenti della Capitale dove già da mercoledì sera è stata intensificata la vigilanza esterna. Ma le indagini della Mobile riguardano proprio le altre strutture dove vivono circa 7 mila rom: in particolare quello in via Cesare Lombroso, nella zona di Monte Mario Alto, ben conosciuta dalle forze dell'ordine che hanno compiuto diverse operazioni anticrimine. Antony non è infatti l'unico ricercato. Con lui e Maddalena c'era un altro rom, un ragazzo più grande, scomparso nel nulla con il sedicenne. E c'è il sospetto che il misterioso personaggio provenga proprio dal secondo insediamento. Ieri in Questura sono stati ascoltati molti rom, almeno una ventina. In serata sono stati tutti rilasciati. "Lavoriamo senza sosta. Stiamo facendo il massimo dello sforzo per assicurare i due fuggiaschi alla giustizia. Battute e ricerche sono ancora in corso a Roma e provincia per prenderli al più presto", assicura il questore Nicolò D'Angelo. La polizia scientifica ha analizzato la Lybra da cima a fondo alla ricerca di impronte digitali - soprattutto quelle sul volante per scoprire subito chi guidava al momento dell'incidente in via Battistini, ma accertamenti sono in corso anche sui tabulati telefonici dell'apparecchio che sarebbe stato trovato nella station wagon: non si esclude che prima di schiantarsi contro una Cinquecento e abbandonare la vettura (oltre che la moglie) fra Torrevecchia e Montespaccato, Antony e il complice abbiano chiamato qualcuno per chiedere aiuto. Giustizia: i razzisti, i negazionisti e la legalità di Michele Brambilla La Stampa, 29 maggio 2015 "Rom", ecco una delle poche parole che possono ancora scaldare gli animi in un Paese che pare aver digerito tutto. Non ci si divide più per destra e sinistra, Berlusconi viene applaudito da Fazio e si vota tranquillamente un condannato. Ma su quelle tre lettere c'è la guerra. Guerra come la si intende da noi, ovviamente. Cioè a suon di accuse e di insulti vicendevolmente scambiati tra due categorie di estremisti, che per comodità chiameremo razzisti da una parte e negazionisti dall'altra. Il razzista è un tipo umano che solitamente fa cominciare le proprie argomentazioni con una premessa - "io non sono razzista" - e le fa proseguire con un "però". Io non sono razzista però questi rom qua rubano sporcano e campano a spese nostre, poi so per certo che l'altro giorno al supermercato una delle loro donne ha rapito un bambino dei nostri strappandolo dal passeggino. Il razzista, quando c'è una tragedia come quella dell'altro ieri a Roma, non prende neppure in considerazione il fatto che, a volte, i pirati della strada o i delinquenti che non si fermano ai posti di blocco possono essere anche italiani. In qualche caso perfino del Nord. Il razzista, quando c'è una tragedia come quella dell'altro ieri a Roma, considera stranieri solo gli investitori, e non gli investiti (la donna morta è filippina, come un'altra gravemente ferita; e sull'asfalto è rimasta pure una francese). Il razzista fa una certa fatica a distinguere tra stranieri e stranieri, figuriamoci tra nomadi e nomadi. Troppo complicato mettersi lì a disquisire sulle varie provenienze, religioni e culture. Non è più comodo chiamarli tutti zingari? Il razzista fa le fiaccolate solo quando i responsabili di un'aggressione, di uno stupro o di un incidente stradale sono rom, non certo quando sono, ad esempio, camorristi: anzi qualche anno fa a Napoli fu la camorra a gestire una marcia contro i campi rom, risolvendo il problema. Il razzista non arriva certo a dire che la "soluzione" debba essere affidata appunto alla criminalità organizzata: bastano le ruspe, come ha chiesto il leader politico di riferimento. Anche il negazionista è un curioso tipo umano. Pure lui, infatti, pare aver voglia di vedere solo ciò che vuol vedere. Vede benissimo, ad esempio, le misere condizioni igieniche in cui vivono i bambini dei campi rom: a volte in mezzo ai topi. Molto meno riesce tuttavia a vedere le responsabilità dei loro genitori. Il negazionista è molto informato sulle ormai famose leggende nere che avvolgono il mondo dei rom. E non ha torto, perché in effetti circolano molte calunnie. Tuttavia accanto alle leggende nere ci sono le storie vere. Sono stati celebrati, in Italia, alcuni processi per "riduzione in schiavitù", perché ci sono nomadi che costringono i bambini (quasi mai figli loro) a rubare fino a quando compiono 14 anni, cioè fino a quando non sono punibili per legge e la polizia, subito dopo l'arresto, li deve rilasciare. Ma ricordarlo, per il negazionista, è "speculazione politica". Come è "speculazione politica" parlare del disagio dei cittadini italiani che vivono vicini ai campi rom subendo furti e trovandosi la spazzatura sotto casa. D'altra parte il negazionista abita in centro. Morale. La questione dei rom potrà essere risolta solo quando verrà sfilata agli estremisti di cui sopra e presa in carico da coloro che avrebbero, per ruolo istituzionale, l'elementare compito di ripristinare la legalità. Il che vuol dire no alle ruspe, no a cacciare dall'Italia i nomadi e sì all'accoglienza. A patto, però, che gli accolti rispettino la legge, paghino i servizi e non vadano a rubare. Perché i rom non devono vivere fra i topi, ma non devono neppure fare i topi d'appartamento. Giustizia: esiste una alternativa al razzismo? di Piero Sansonetti Il Garantista, 29 maggio 2015 Una terrificante sciagura stradale ha dato il via libera a una furibonda polemica politica. Non solo Salvini ma vari leader impegnati nella campagna elettorale, e molti giornali, hanno pensato di poter trasformare il dolore di tutti nell'innesco di una ondata razzista e "rastrella voti". Naturalmente contro i rem. I quali, oggi, già sono nel mirino, e contro i quali, da un po' di tempo (sette o otto anni) è iniziata una campagna di criminalizzazione guidata da tutte le forze politiche. Le giunte di sinistra, nel 2008, raderò al suolo molti campi. Col risultato di disperdere migliaia di rom, di rendere disperate le loro condizioni di vita e anche pericolose, per se e per gli altri, le loro esistenze. Da allora la maledizione non si è fermata. Nessuno ha provato a op-porvisi, salvo qualche pezzetto di mondo cattolico. E nell'opinione pubblica si è ben radicata l'idea che i rom sono un popolo criminale. Così come è già avvenuto tante volte nella storia. C'è una via d'uscita, da questo cortocircuito, che non sia il razzismo? Occorrerebbero due cose: una politica della sicurezza moderna, tecnologicamente avanzata ma non forcaiola. E una intellettualità capace di essere intellettualità. Al momento, queste due cose, mancano. In vigore la riforma dei reati ambientali: 5 nuovi delitti con chance di ravvedimento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 Legge n. 68 del 2015, operative da oggi le nuove norme sui reati ambientali. È di ieri, infatti, l'approdo in Gazzetta (G.u n.122 di) della legge 68/2015 che interviene sugli eco reati a tutto campo. La norma introduce nel codice penale cinque nuovi delitti e allunga i termini di prescrizione per perseguire i delitti con meno affanno, aumenta le pene ma concede la possibilità di "pentirsi": con il ravvedimento operoso è assicurato lo sconto di pena dalla metà a due terzi. Nel testo anche l'aggravante mafiosa e la confisca preventiva. Nel nuovo titolo del codice penale "delitti contro l'ambiente" fanno ingresso: inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale radioattivo, impedimento di controllo e omessa bonifica. La norma, inasprisce le sanzioni e coinvolge nella responsabilità anche la persona giuridica per i reati commessi nel suo interesse. Il delitto di inquinamento ambientale è punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con multe che vanno da 10 mila a 100 mila euro, ma il suo perfezionamento richiede una duplice condizione: l'esistenza di un danno ambientale e di una condotta abusiva. Le aggravanti scattano se ad essere danneggiata è un'area protetta o l'azione ha causato il ferimento o la morte di persone. L'elemento dell'abusivismo è presente anche nel disastro ambientale, che può costare fino a 15 anni di reclusione. Per parlare di disastro ambientale è necessario che si verifichino, alternativamente, alcune condizioni che riguardano un'alterazione senza ritorno dell'equilibrio dell'ecosistema, la possibilità di eliminare le conseguenze solo con mezzi particolarmente onerosi e provvedimenti eccezionali e un'offesa all'incolumità pubblica rilevante per il numero di persone coinvolte. Il traffico e l'abbandono di materiale radioattivo è punito con la reclusione da due a sei anni, con relative aggravanti in caso di danni all'ambiente o alle persone. Si paga con il carcere, da 6 mesi a 3 anni, il tentativo di depistare o compromettere le indagini mettendo off-limit i luoghi oggetto di controllo. La legge 68 prevede anche l'invocata aggravante dell'associazione mafiosa per i sodalizi dediti al "business ambientale", mentre ancora un inasprimento di pena è previsto per i pubblici ufficiali che entrano nel "giro". Via libera alla confisca, compresa quella per equivalente, applicata anche al traffico illecito di rifiuti. Una misura però esclusa se l'imputato mette i luoghi in sicurezza o li ripristina. Possibile anche la confisca preventiva sui valori ingiustificati rispetto al reddito, in caso di disastro ambientale , traffico di rifiuti e associazione a delinquere. Con il ravvedimento operoso, attraverso lo sconto di pena si punta a ottenere la collaborazione per evitare che i reati producano conseguenze ulteriori o per scoprire i colpevoli. Niente sconto ma pena accessoria del divieto di contrattare con la Pa, nelle ipotesi di inquinamento ambientale, disastro, traffico di materiale radiaottivo, impedito controllo e traffico illecito di rifiuti. Mano più pesante anche sulla prescrizione che si allunga in maniera direttamente proporzionale alla gravità del reato. Per la responsabilità degli enti ci sono le sanzioni pecuniarie tarate sulle quote fino a un massimo di 1.000 per l'associazione mafiosa. La norma entra in vigore proprio in vista della scadenza del 2 giugno, termine entro il quale la Commissione Europea chiede alle regioni di scoprire le carte sugli interventi fatti per mettersi in regola con le discariche. L'Italia era stata condannata dalla Corte di Giustizia (C-333/13 e C-196/13 ) a pagare una sanzione forfettaria di 40 milioni di euro e 42,8 per ogni semestre di ritardo nell'adeguarsi alla sentenza del 2007. Risarcimento Contrada, reato di concorso esterno all'epoca non chiaro di Giovanni Tartaglia Polcini Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 Cedu - Sezione IV - Sentenza 14 aprile 2015 - Ricorso n. 66655/13. La decisione della Cedu (Sentenza 14 aprile 2015) sul caso Contrada è destinata certamente ad immettersi nell'alveo delle principali questioni speculative future in materia di diritto penale, scardinando alcune certezze in tema di principio di legalità e di distinzione tra famiglie di ordinamenti giuridici. L'articolo 7 della Convenzione recita: "1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili". Violazione del principio di irretroattività - La Corte, dunque, limitandosi a valutare la sussistenza della violazione dei principi enucleati nell'articolo 7 della Convenzione EDU, ha statuito che - nel caso di cui trattasi - la fattispecie incriminatrice applicata non era, al momento della commissione dei fatti-reato da parte del Contrada, sufficientemente chiara e conoscibile e prevedibile dallo stesso per poterne rispondere penalmente in base al Principio di legalità. Conseguentemente, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto essersi verificata una violazione del principio di irretroattività della norma penale quale corollario del principio nulla poena sine lege. La Corte, infine, ha evidenziato che la questione della conoscibilità e prevedibilità (al momento della commissione di fatti) della fattispecie incriminatrice contestata al Contrada non è stata affrontata e valutata dalle Autorità Giudiziarie italiane nel corso del processo nazionale, benché il ricorrente Contrada ne avesse fatto specifico motivo di doglianza nelle diverse fasi di impugnazione. Dove si ferma la sentenza - Occorre sottolineare che la Corte Edu non si è pronunciata sulla fondatezza o meno della configurabilità del reato di concorso esterno nel reato associativo mafioso quale fattispecie incriminatrice generale. La Corte ha unicamente stabilito - relativamente a questo caso specifico - che, all'epoca della commissione dei reati per cui il Contrada è stato condannato, l'elaborazione giurisprudenziale di tale figura criminosa non era sufficientemente consolidata e, quindi, dotata dei requisiti di "chiarezza e certezza" necessari al fine di consentirne la sufficiente "conoscibilità e prevedibilità" da parte dell'autore del reato. La sentenza Cedu, pertanto, non entra affatto nel merito della questione giuridica della configurabilità o non del reato di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, così come risolto nella giurisprudenza delle SS. UU della Corte di Cassazione sopramenzionata. Applicazione dei principi suddetti al caso di specie Il punto nodale - La questione che si poneva era quella di stabilire se, all'epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111-118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154-162, 7 febbraio 2012). La Corte ha ritenuto che questi elementi fossero sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione con conseguente obbligo dello Stato italiano a risarcire il danno. (Estratto dell'articolo uscito su Guida al Diritto del 6 giugno 2015 n. 24) Costituzionali i limiti al patteggiamento per i reati tributari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 Corte costituzionale, sentenza 28 maggio 2015 n. 95. Superano l'esame di costituzionalità le condizioni al patteggiamento per i reati tributari. E anche il divieto di sospensione condizionale per alcuni delitti fiscali. La Consulta, con la sentenza n. 95, depositata ieri e scritta da Giuseppe Frigo, ha giudicato rispettivamente inammissibile e infondata le 2 questioni sollevate dal Gup di La Spezia. Per quest'ultimo infatti a venire compromesso sarebbe, per quanto riguarda il limite al patteggiamento determinato dal pagamento del debito con il Fisco (un po' come avverrà con l'entrata in vigore della legge anticorruzione che subordina l'accesso al patteggiamento alla restituzione dei proventi illeciti), l'articolo 3 della Costituzione: si verificherebbe cioè una disparità di trattamento tra soggetti imputati del medesimo reato a causa delle differenti condizioni economiche; e per la sospensione condizionale della pena verrebbe, tra l'altro, spezzato il rapporto di proporzionalità fra la risposta punitiva e il fatto commesso (ma su quest'ultimo punto la Corte non si è soffermata). La Corte costituzionale, sul fronte del patteggiamento, fa notare come, in passato, abbia già rilevato che qualunque norma che impone oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini risulta diversamente utilizzabile a seconda delle condizioni economiche dei soggetti interessati a conseguirli. Non per questo solo, tuttavia, essa è costituzionalmente illegittima. Ciò avviene esclusivamente in due ipotesi: da un lato, quando ne è compromesso l'esercizio di un diritto che la Costituzione garantisce a tutti paritariamente; dall'altro, quando gli oneri imposti non sono giustificati da ragioni legate a circostanze obiettive, tanto da determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio. Per la Consulta "è del tutto evidente come questa seconda ipotesi non ricorra nel caso in esame. Il generale interesse pubblico (oltre che della persona offesa) all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato, anche per il suo valore sintomatico del processo di ravvedimento del reo (...) si coniuga, infatti, nel frangente, allo specifico interesse alla integrale riscossione dei tributi evasi". Ma neppure ricorre la prima ipotesi. Infatti, se è vero che la facoltà di chiedere io riti alternativi costituisce una modalità di esercizio del diritto di difesa, la negazione di questa facoltà, nella lettura della Corte, per una determinata categoria di reati non ne determina una compressione decisiva. Infatti, ricorda la sentenza, la possibilità di chiedere l'applicazione della pena non può essere considerata condizione essenziale per un'efficace tutela della posizione giuridica dell'imputato. Tanto è vero che è esclusa per un buon numero di reati. La stessa attenuante comune del risarcimento del danno può, del resto, condizionare la fruibilità del patteggiamento, tutte le volte che il suo riconoscimento risulta indispensabile per far scendere la pena detentiva al di sotto del limite dei 5 (oppure dei 2 anni, per i reati esclusi dal patteggiamento allargato). Inoltre, con riferimento ai reati tributari, la Consulta condivide l'osservazione dell'Avvocatura dello Stato per la quale di regola esiste un diretto legame tra entità del danno e risorse economiche proprie o gestite dal colpevole, dal momento che il profitto coincide con l'imposta sottratta al Fisco. Anche per reati satellite in materia di droghe leggere la pena va ricalcolata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 Reati satellite da ricalcolare al ribasso. Per i delitti previsti dal Testo unico sugli stupefacenti (articolo 73) anche l'aumento di pena conteggiato a titolo di continuazione per i reati satellite in materia di "droghe leggere" deve essere ricalcolato tenuto conto della nuova e più favorevole situazione venutasi a creare per gli imputati dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014. Lo puntualizzano le Sezioni unite penali della Cassazione con una sentenza, la n. 22471, depositata ieri. Le Sezioni unite, che proseguono nell'attività di chiarimento delle conseguenza della pronuncia della Consulta che ha ripristinato la distinzione ai fini sanzionatori tra droghe leggere e pesanti, sottolineano come la perdita dell'autonomia sanzionatoria dei reati satellite nell'ambito del reato continuato, non comporta affatto l'irrilevanza di una valutazione sulla gravità dei delitti "per l'ottima ragione che il momento sanzionatorio segue quello valutativo e dunque lo presuppone e, ovviamente, si distingue da esso". Ed è proprio l'articolo 533, comma 2, del Codice di procedura penale a imporre questa procedura in due fasi, con la quale il giudice prima stabilisce la pena per ciascun reato e poi determina la pena per il reato considerato in maniera unitaria. La seconda fase naturalmente, spiegano le Sezioni unite, presuppone la prima, ridefinendo, nella prospettiva di una risposta unitaria, la pena complessiva da applicare. È vero che nella prassi questa modalità operativa è spesso trascurata, ma, osserva la sentenza, non si tratta di un elemento che possa rilevare. Codice alla mano, il giudice deve sempre invece compiere l'operazione mentale delineata e non è certo autorizzato, ricordano le Sezioni unite, valorizzando in eccesso il criterio unificante del medesimo disegno criminoso, a porre sullo stesso piano reati di obiettiva e diversa gravità, dal momento che colpiscono beni giuridici tutelati in maniera differente dal legislatore penale. Lo scopo della continuazione è certo mitigare il trattamento sanzionatorio, ma solo in rapporto alla pena astrattamente prevista per i singoli reati. Anticorruzione, così le spie di pericolo nell'intesa tra Anac e Corte dei conti di Roberta Giuliani Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 A caccia di "indicatori di anomalie" già presenti nei data base: l'accordo di stretta collaborazione tra Corte dei conti e Anac ha come obiettivo quello di costituire una sistema di "alert", sfruttando indici-spia della corruzione. Segnalazione e denunce, cooperazione istruttoria, scambi di dati, e appunto elaborazioni di indici di anomalia statistica centrati soprattutto in materia di appalti: sono queste le quattro azioni individuate dal protocollo d'intesa firmato ieri dal presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, e dal presidente dell'Anac, Raffaele Cantone per "contribuire ad arginare un meccanismo criminale che, per numero di soggetti coinvolti e dispersione di risorse pubbliche, si riflette negativamente sull'economia nazionale". "La corruzione - ha detto Squitieri - non va intesa solo nell'ottica penale ma è anche sinonimo di malfunzionamento e diseconomicità della pubblica amministrazione". "Lo scopo dell'accordo - ha quindi aggiunto - è utilizzare strumenti informativi e banche dati per costruire "indicatori di anomalie" e profili sintomatici". L'obiettivo, ha ricordato il presidente dell'Anac, è quello di arrivare a definire "indici di anomalia statistica del sistema degli appalti. È uno dei limiti maggiori del nostro sistema di vigilanza, ci muoviamo su notizie di varia provenienza, anche di stampa ma manca un sistema di alert che ci spinga a predisporre i controlli. Prima si colgono certi segnali, prima si vede dove può annidarsi il malaffare e prima possiamo intervenire: farlo a danni già fatti rende difficile se non impossibile riparare. Perché la corruzione non va vista solo nell'ottica del codice penale, è anche sinonimo di malfunzionamento". Gli obiettivi Il patrimonio informativo è proprio la chiave per avviare la collaborazione che dovrà "individuare ambiti comuni di cooperazione istituzionale, rilevanti per tutti i settori di attività della Corte (Giurisdizione e Controllo) e dell'Autorità (Regolazione e Vigilanza)". Sarà invece il "Tavolo permanente", a cui siederanno uno o più componenti designati dalle due parti e che sarà coordinato a rotazione sulla base di periodicità semestrale, a definire le linee programmatiche della collaborazione. Alle riunioni potranno partecipare rappresentanti dei rispettivi istituti e per eventuali richieste del Tavolo verranno utilizzate risorse umane e strumentali "interne". Le modalità operative della collaborazione verranno disciplinate dalle parti con successivi accordi operativi. I quattro ambiti Intanto però l'intesa definisce i quattro ambiti della collaborazione. Il primo riguarda segnalazioni e denunce: compito delle parti sarà quello di elaborare criteri selettivi in modo che l'Autorità possa trasmettere alla Corte gli atti riferibili a danni erariali in materia di appalti, fenomeni corruttivi e violazione delle norme sulla trasparenza. Saranno scambiate informazioni anche su fatti che non costituiscono danno erariale ma che sono utili a rintracciare i fenomeni corruttivi. Un altro ambito è quello che riguarda la cooperazione istruttoria: le Parti si impegnano a individuare i problemi generali da inserire "nella programmazione annuale della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato o delle Sezioni regionali di controllo o di interesse della Procura generale". Un punto centrale della collaborazione riguarda lo scambio dei dati tra Corte e Autorità: le parti si impegnano a consentire l'accesso "nel rispetto delle prerogative istituzionali e del segreto istruttorio". Ultimo obiettivo riguarda proprio gli indici di anomalia. L'attività si articolerà in due azioni: • la rilevazione, anche attraverso l'estrazione dei dati, di elementi critici in particolari settori (corruzione con riferimento peculiare agli appalti pubblici); • l'elaborazione di un metodo condiviso per individuare e calcolare in via sperimentale, attraverso l'analisi dei dati, indicatori che possono segnalare un potenziale rischio di illeciti amministrativi negli appalti pubblici. Sistemi informativi Scambio delle informazioni con la possibilità di effettuare estrazioni aggregate di dati: l'Autorità e la Corte mettono reciprocamente a disposizione esperienze e competenze maturate nell'elaborazione delle notizie contenute nei propri sistemi. Sisp e Sidif sono i sistemi che la Corte rende accessibili all'Autorità: il primo è un sistema integrato che fornisce un supporto alle attività gestionali degli uffici di Procura e alle sezioni giurisdizionali e contiene dati relativi ai procedimenti di responsabilità; il secondo è un sistema informativo di irregolarità e frodi particolarmente idoneo a monitorare i casi segnalati all'Autorità competente in ambito comunitario (Olaf). L'Anac rende invece disponibile alla Corte la Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp) che contiene le informazioni relative al ciclo di vita degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture: sarà dunque possibile monitorare in particolare i tempi previsti e tempi di esecuzione come anche i costi iniziali e finali dei contratti. La collaborazione Massima e reciproca collaborazione: l'intesa vuole rappresentare un valido esempio di coordinamento e di cooperazione nella lotta alla corruzione. Così dichiarano i due presidenti che hanno siglato l'accordo. "È difficile - ha premesso Squitieri - che in ambito pubblico si verifichino sinergie, sono più frequenti contrasti e sovrapposizioni: il Protocollo rappresenta l'esempio virtuoso di due autorità che decidono di lottare gomito a gomito nel tentativo di trovare soluzioni e contrastare un fenomeno che per il nostro Paese ha conseguenze perverse. L'Italia vive momenti di difficoltà sul piano economico e finanziario, aumentati notevolmente anche dal punto di vista dell'immagine proprio dai fenomeni corruttivi: unire gli sforzi e mettere a fattor comune le rispettive conoscenze e competenze, soprattutto attraverso gli strumenti informatici, può aiutare a combattere un fenomeno che si insinua nei gangli vitali dell'amministrazione". "Una cosa è certa - ha concluso il presidente della Corte dei Conti - là dove il Paese è più avanzato tecnologicamente, c'è meno corruzione, perché l'informatizzazione dà trasparenza alle procedure". "La collaborazione tra noi c'è già - ha sottolineato Cantone - la Corte è un nostro riferimento fisiologico, ma il Protocollo rappresenta un tentativo di andare al di là: vogliamo provare a fare un discorso difficile in un Paese in cui la logica del proprio cortile prevale su quella del parco comune, e vogliamo provare a farlo mettendo assieme competenze e conoscenze". Wistleblower, quali tutele per il dipendente che segnala illeciti di Vittorio Italia Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 La tutela della riservatezza del dipendente che segnala illeciti al proprio superiore gerarchico o all'Autorità nazionale anticorruzione, è incompleta, anche a causa di una normativa complessa, frammentaria e ingarbugliata. Infatti, da un lato, l'articolo 54-bis del Dlgs 165/2001 stabilisce che: "tranne i casi di calunnia e diffamazione, il dipendente che denuncia all'Autorità giudiziaria o alla Corte dei conti o al proprio superiore gerarchico, illeciti di cui sia venuto a conoscenza (…) non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta". Anche l'articolo 1, comma 59 della legge 190/2012 stabilisce che: "le disposizioni di prevenzione della corruzione (…) sono applicate in tutte le amministrazioni pubbliche". Dall'altro lato, vi sono però altre precedenti disposizioni che stabiliscono formule generiche e che non "legano" con le norme citate. Ciò vale, in particolare, per il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. L'articolo 8 del Codice di comportamento Questo Codice, nonostante il nome altisonante, è un regolamento governativo, previsto dall'articolo 54, comma 5 del Dlgs 165/2001, ed è entrato in vigore nel 2013. L'articolo 8 del che ha come titolo: Prevenzione della corruzione, stabilisce soltanto che "…il dipendente rispetta le prescrizioni contenute nel piano per la prevenzione della corruzione … segnala al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito dell'amministrazione di cui sia venuto a conoscenza", ma non contiene altre disposizioni rivolte a garantire la riservatezza del dipendente. Le linee guida dell'Anac In questa situazione di incertezza normativa, l'Anac ha emanato delle linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, il cosiddetto Wistleblower (si veda l'articolo pubblicato sul Quotidiano degli enti locali e Pa del 7 maggio 2015), e ha stabilito importanti precisazioni sui soggetti che sono tenuti a segnalare gli illeciti; sull'oggetto della segnalazione; e sulla tutela della riservatezza del dipendente, specie per quanto riguarda i dati che sono acquisiti ed elaborati, e che coinvolgono il suo nome, le modalità di conservazione, la crittografia, i funzionari abilitati all'accesso, le password. Queste linee guida hanno anche previsto che le Amministrazioni dovrebbero introdurre nei singoli Codici di comportamento "forme di responsabilità specifica, sia in capo al responsabile della prevenzione della corruzione, sia nei confronti dei soggetti che gestiscono le segnalazioni" e che questa mancata tutela del dipendente sarà sanzionata disciplinarmente, in base all'articolo 1, comma 14 della legge 190/2012. Ma in questa intricata situazione normativa non è chiaro in che modo e con quali formulazioni le Amministrazioni pubbliche (specie quelle locali) dovrebbero modificare i Codici di comportamento in base alle linee guida stabilite dall'Anac. Le difficoltà sono numerose, perché le modifiche ai singoli Codici di comportamento dovrebbero essere effettuate sulla base di un denominatore comune, senza differenze di contenuto o di procedure, e senza diminuire la garanzia della riservatezza. Una soluzione può essere quella di inserire, nel singolo codice di comportamento, un rinvio alle linee guida stabilite dall'Anac. Tale modifica ai singoli codici potrebbe essere effettuata indipendentemente dalla modifica al codice nazionale di comportamento, che spetta al ministero dell'Interno. La tesi qui proposta potrebbe essere oggetto di alcune critiche. Si potrebbe obiettare che l'Anac ha proposto soltanto delle Linee Guida, che non hanno valore formale e l'efficacia di una legge o di un regolamento, ed il rinvio a queste Linee Guida potrebbe essere fonte di dubbi interpretativi. Ma a queste obiezioni si risponde che vi sono delle esigenze di rapidità di queste modifiche normative, e che si deve fornire una rapida tutela del dipendente che segnala gli illeciti. Oltre a ciò, data l'attuale situazione normativa intricata, si devono utilizzare gli strumenti giuridici esistenti, perché l'alternativa è che le Amministrazioni pubbliche non facciano nulla, o procedano con lentezza alla modificazione di alcune norme, e stabiliscano dei contenuti con tutele diverse, in danno di una compiuta garanzia del dipendente. La soluzione proposta è perciò una soluzione provvisoria, che potrà essere colmata quando si sarà fatta chiarezza, con norme ordinarie statali, a tutti i problemi dell'anticorruzione. Diffamazione per il file sharing su internet di immagini pornografiche di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 28 maggio 2015 n. 22933. La Cassazione traccia la linea di confine della diffamazione mediante l'utilizzo di programmi di file sharing su internet. Chiarendo che mentre scaricare video o immagini non integra il reato, "essendo necessaria anche la prova di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare o diffondere il file", l'attività di caricarli su di un sito di condivisione invece è una condotta atta a realizzare la diffamazione, per di più "con l'aggravante di avere commesso il fatto mediante la rete telematica e quindi con un mezzo di estesa pubblicità". Il chiarimento arriva con la sentenza 22933/2015 che ha confermato la condanna di una donna responsabile di aver creato delle cartelle pubbliche contenenti immagini pornografiche intestate ad una ragazza diciassettenne di sua conoscenza. La vicenda - Come accertato dalle indagini, infatti, le immagini non appartenevano effettivamente alla persona diffamata, in quanto l'imputata le aveva scaricate dal sito di condivisione Emule, e dopo averle falsamente rinominate le aveva immesse nuovamente su internet tramite upload sul diverso sito di file sharing e Donkey. In tal modo le aveva rese disponibili ad un pubblico indeterminato, "potendo essere condivise da tutti i potenziali frequentatori della rete". In aggiunta venne anche accertato che aveva informato una amica della pubblicazione con diversi sms, e in uno di essi aveva scritto: "dobbiamo scrivere la sua storia e la mettiamo su internet tipo Melissa P." ; mentre in un altro aveva addirittura mostrato l'intento di coinvolgere la madre dell'imputata, scrivendo: "ci vulissi na foto da sig. …". Il dolo - Per cui, conclude la sentenza, il fatto che l'imputata "abbia agito allo scopo di condividere, divulgandole e pubblicizzandole, le immagini con altri, proprio per screditare la vittima ed addirittura la madre di costei, è sufficiente ad integrare tutti gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 595 cod. pen.". E cioè l'elemento psicologico del dolo che l'imputata aveva vanamente negato. A rischio di incostituzionalità i limiti di pagine per i ricorsi in materia di appalti di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2015 Consiglio di Stato, decreto 25 maggio 2015. Massimo 30 pagine, senza barare. Questo è il limite di lunghezza per i ricorsi in materia di appalti deciso dal Consiglio di Stato con la direttiva 25 maggio 2015, di prossima pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale". Dal mese successivo a tale pubblicazione, per scrivere fino a 50 pagine servirà un nulla osta dall'organo giudicante, ad esempio per cause su opere strategiche, o di valore superiori a 50 milioni. La finalità è quella di snellire tempi e procedimenti, e si collega alla possibilità di redigere sentenze brevi (articolo 74 Codice della pubblica amministrazione), di decidere quali motivi esaminare dando precedenza ai motivi immediatamente esaminabili. Le pagine, sono anche definite con specifiche grafiche (corpi e caratteri, interlinee e margini), mentre nulla si dice sull'uso del fronte retro (che pure ridurrebbe pesi e consumi). Il riordino grafico già riguardava i provvedimenti amministrativi, che possono limitarsi ad allegare (senza trascriverli) altri provvedimenti; nei bandi di gara sono possibili limiti alle descrizioni dei beni e servizi offerti (ad esempio 5 pagine) mentre misure di contenimento sono operanti in Corte di Cassazione (20 pagine più un riassunto di 3 pagine) e nelle Corti europee. Alcuni di questi limiti sono connessi all'uso della telematica, (ma il limite equivale in pdf a molte centinaia di pagine). L'articolo 40 del decreto legge 90/2014, che consente di imporre limiti quantitativi, sottolinea che il giudice è tenuto ad esaminare le questioni trattate nelle pagine consentite, e quando manca questo esame è possibile impugnare la sentenza. Da ciò si desume che tutto ciò che è scritto nelle pagine eccedenti può essere trascurato dal giudice senza possibilità di appello. Una sanzione del genere è stata ritenuta legittima nelle offerte in gare di appalto (Consiglio di Stato n. 2745/12) ma solo per garantire la par condicio, l'eguale trattamento per tutti i concorrenti. Se quindi le esigenze di speditezza fanno condividere il limite posto dalla direttiva del Consiglio di Stato, la sanzione dell'omessa considerazione delle pagine eccedenti suscita rilevanti dubbi di costituzionalità. La difesa in giudizio è garantita dall'articolo 24 della Costituzione, e già la sentenza 345/1987 della Consulta ha esaminato un caso analogo, sul divieto di nominare più consulenti nel processo penale. Nell'attesa di una verifica di costituzionalità, gli studi cercano di correre ai ripari togliendo dai ricorsi tutto ciò che è diversamente documentabile: massime di giurisprudenza, descrizioni tecniche, fotografie, relazioni giurate diventeranno elementi esterni al ricorso e quindi non soggetti al limite di lunghezza. Stesso incremento avranno i link (ammessi da Tar Cagliari, 91/2012) e i rinvii a Google maps o siti qualificati (Tar Catanzaro 443/2014). E se proprio non si riesce ad essere sintetici, nelle conclusioni potrà parafrasarsi l'espressione di B.Pascal (Lettres provinciales, 16, 1657): "ho scritto un lungo ricorso non avendo il tempo di scriverne uno più breve". Lettere: riflessioni sulla Circolare Dap relativa alle Sezioni per "detenuti violenti" di Laura Baccaro (Psicologa e criminologa) Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2015 La Circolare GDAP-0186697-2015, del 26 maggio 2015: "Eventi critici" sembra voler distinguere i detenuti "violenti" dagli "altri", chiedendo ai Provveditori di individuare "non necessariamente in tutti gli Istituti e secondo le specifiche esigenze ricettive (?) - alcune Sezioni, appositamente dedicate, ove allocare quei detenuti non ancora pronti al regime aperto ovvero che si siano dimostrati incompatibili con lo stesso: e, questo, non in una logica di "isolamento" o punizione, ma di idonea attività trattamentale che miri ad agevolare, per questi soggetti, il ritorno al regime comune "aperto" e nel contempo, a salvaguardare detto regime da attività negative di prevaricazione e violenza." Mi chiedo come ciò si può configurare nel mantenimento degli "spazi vitali", proprio a partire dalla cd sentenza Torreggiani citata nella Circolare stessa. Ovvero la detenzione in cattività e spazi non adeguati non può essere una delle cause che determinano questi comportamenti nei detenuti? Ma questa è una riflessione che induce a cercare di capire cosa si intende per "violenza". Cosa significa violenza e aggressività Innanzitutto la violenza è un concetto molto complesso e di difficile definizione, in quanto, come tanti altri concetti, da un lato si manifesta con fenomenologie differenti (quindi implica significati, attori, contesti, linguaggi usati per descriverle molto diversi); dall’altro lato rappresenta un concetto che va sempre storicizzato, ovvero che risente inevitabilmente del contesto sociale e storico-culturale in cui nasce e vivifica, traendone da esso legittimità oppure ricevendone una condanna. Di conseguenza la violenza, anzi le violenze, possono trasmettersi di generazione in generazione pressoché immutate, oppure possono mutare e mutano tuttora nel corso del tempo e dello spazio. Sottolineo che violenza è spesso confusa, semanticamente, con i concetti di forza, potere, devianza, criminalità, aggressività, crudeltà, etc. Nel tempo si è costituita una connessione tra violenza e forza, quasi che la violenza sia un modo o una qualità della forza così da caratterizzarsi come la capacità d’imporsi contro la volontà di un altro, il più debole. Ad oggi, non c'è accordo tra gli studiosi sulle cause della violenza, per non parlare poi di cosa fare a tal proposito. In letteratura, gli autori hanno individuato e analizzato diversi fattori, biologici, psicologici, socio-culturali, che rispecchiano visioni antropologiche differenti, se non addirittura antitetiche, che rivelano come il tema della violenza appartenga ad una sfera interdisciplinare, alla cui comprensione concorrono contributi di biologia, genetica, psicologia, filosofia, sociologia, ecc. Di conseguenza, non esiste una sintetica ed esaustiva teoria generale della violenza in grado di integrare le diverse interpretazioni teoriche del comportamento violento e sugli interventi possibili. Va chiarito che aggressività e violenza non sono sinonimi. Basti pensare che nella maggior parte dei comportamenti aggressivi (ad esempio competitività commerciale, giochi, sport, rivalità interindividuale in rapporto alla competizione sessuale, ecc.), non è riconoscibile alcun carattere di violenza; anzi, se si pensa all’aggressività ritualizzata tipica di moltissime situazioni competitive, oltre a non esserci nessuna coercizione fisica o psicologica, l’aggressività che entra in gioco è parte delle regole concordate e come tale non si traduce in un’intrusione prevaricante. Inoltre, a livello antropologico a seconda delle culture, o persino nell’ambito di una stessa cultura, l’aggressività di un individuo o di una collettività viene valutata in termini diversi. In psicologia la violenza viene spesso presentata e spiegata come un comportamento di tipo aggressivo. Ad oggi però non esiste una definizione chiara e universalmente accettata di aggressività: nella revisione della letteratura, infatti, i vari autori, esponenti di impostazioni teoriche diverse, hanno affrontato il problema da diverse angolature che a loro volta rinviano a punti di vista spesso divergenti. L’aggressività una "parola valigia", in quanto porta dentro di sé significati molto diversi e non distinguibili, ad esempio tra un comportamento e un atteggiamento, un’emozione aggressiva giustificata o ingiustificata, una legittima competizione in ambito professionale, un atteggiamento mentale, un conflitto internazionale, e così via. Molto spesso quindi è un termine che crea ambiguità ed equivoca sul vero significato che vogliamo esprimere. Per concludere queste riflessioni sembra che il ricordo del significato etimologico del termine aggressività, cioè "andare verso", o anche "superare", stia proprio ad indicare questo concetto di assertività o di potenzialità adattiva non distruttrice. In generale, in psicologia il termine aggressività è solitamente usato nell’accezione negativa, ovvero si riferisce ad una serie di comportamenti intenzionali che possono causare danni sia fisici che psicologici a se stessi, ad altri o ad oggetti nell'ambiente. Se si adotta la metafora dello spazio territoriale personale, la violenza può essere intesa come una forma di aggressività fisica/psicologica che implica l’uso della forza. Le forme di aggressione possono essere molto diverse e interrelate tra di loro. In tutti i casi, l’aggressività si esprime con manifestazioni cognitive, emotive e comportamentali che devono essere sempre presenti e che la caratterizzano. Nel corso del tempo sono state formulate diverse e numerose ipotesi sull’aggressività. Sappiamo per certo che il dolore e il disagio aumentano le risposte aggressive. La frustrazione è un'altra delle principali cause di aggressione. La teoria aggressività-frustrazione afferma che, l'aggressività aumenta se una persona sente che è stata bloccata nel raggiungimento di un obiettivo, se è inaspettata, se ci sono oggetti o situazioni che possono fungere da stimolo che attiva la rete semantica. Si rischia che la violenza istituzionale diventi ancor più strutturale Poiché, come abbiamo visto gli studi scientifici non offrono strumenti per individuare trattamenti e gli operatori non sembrano essere stati "formati" la circolare esplicita che "la doverosa risposta dell’Amministrazione deve essere immediata", ovvero cosa devono fare gli operatori? Quale intervento devono mettere in atto? La circolare dice che gli interventi vanno effettuati "sia sul versante disciplinare attraverso la tempestiva convocazione del consiglio di disciplina, sia sul versante penale, qualora il fatto integri gli estremi di reato, mediante comunicazione all’autorità giudiziaria". Ecco qua il trattamento per non uscire dal carcere. La repressione che alimenta la violenza perché il confine tra violenza e potere è assai permeabile e indefinito, anche se la violenza si differenzia dal potere per la sua volontà di nuocere, ma è comunque apparentata alla forma relazionale del potere e ne rappresenta, in un certo senso, una sua degenerazione o estremizzazione. Sottolineo che la violenza è una forma di relazione con poteri sbilanciati, e in questo sta il suo senso più vero. Questo significa che i persecutori e le vittime si riconoscono vicendevolmente. Alcuni Autori hanno studiato varie forme di violenza e mi interessa soffermarmi velocemente sui concetti di violenza culturale e strutturale. Intendo come violenza culturale la "cultura penitenziaria" usata per giustificare e legittimare le altre forme di violenza che, poiché, ritenuta espressione del potere istituzionale viene data come scontata, cioè giusta e necessaria. E la violenza strutturale è violenza in se stessa, che non è provocata da atti di commissione intenzionali, ma da continui atti di omissione e di esclusione di persone. È quella che serpeggia insidiosamente nelle nostre istituzioni, mutevole, che assume le forme delle gerarchie, delle necessità, dell’organizzazione, delle leggi e delle circolari, etc. È la legge o la circolare che ci legittima ad escludere dall’accesso al trattamento dei detenuti in virtù della supposizione che sono "violenti". È l’istituzione che mostra la sua faccia violenta nella sua necessità di continuare a confermare delle pratiche di esclusione, quasi la necessità di creare un capro espiatorio "interno" agli esclusi. La colpa poi è data ai detenuti, ovviamente, che "si siano dimostrati incompatibili" con il regime aperto. Mi chiedo quali siano gli "eventi critici"? Le aggressioni agli agenti? Qualche denuncia che il personale ha fatto all’Amministrazione penitenziaria? Qualche furto avvenuto in cella? Il fatto che lascio tutti i detenuti in un "gabbione aperto" e si arrangiano tra di loro? Che come agente sto fuori dalla sezione e non guardo cosa succede? Oppure gli eventi critici sono quei detenuti che non vogliono uscire dalle loro celle, che temono di essere derubati delle loro cose, che si annoiano a ciondolare senza senso in corridoio, senza nulla da fare e con niente da dire. Detenuti che sottolineano le criticità del "regime aperto" fatto solo velocemente per rispondere alla sentenza Torreggiani, regime spesso non capito dal personale stesso e imposto per evitare sanzioni e rischiami dall’Europa. Regime che "butta fuori" dalle celle e non offre altre alternative ai detenuti se non di annoiarsi ancor di più che davanti alla televisione! Un regime di cattività che non potrà che inasprire e legittimare quasi qualsiasi trattamento anche "inumano e degradante" che i tutori dell’istituzione sono chiamati a mettere in atto, cioè legittimati e deresponsabilizzati dei loro atti. Si rischia così che la violenza istituzionale diventi ancor più strutturale, o meglio, necessaria agli operatori per dare un senso al loro lavoro. Ricordo che in Italia manca il reato di tortura, inoltre il limite con i "trattamenti inumani e degradanti" viene ben superato da questa circolare che sembra voler riprendere l’organizzazione degli ospedali psichiatrici e creare le sezioni degli "agitati" o dei "violenti", chissà se anche dei "luridi". Attenzione che inoltre l’attività trattamentale di prevenzione alla violenza non è rivolta agli autori di reato che all’uscita del carcere possono ricommettere reati violenti, es. reati di violenza in famiglia o per i sex offenders per i quali sarebbe previsto dalla normativa vigente un trattamento idoneo, ma bensì un trattamento per "stare in carcere". Nel nome del trattamento viene praticata, dal punto di vista organizzativo, una esclusione dentro all’esclusione, non finalizzata al reinserimento sociale ma bensì all’inserimento interno al carcere stesso. Chiudo con la frase di Bertolt Brecht: "tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo contengono". Umbria: diritto allo studio per i detenuti, firmato accordo tra Università e Prap Ansa, 29 maggio 2015 Firmato, a palazzo Murena, sede del rettorato dell'Università degli studi di Perugia, un protocollo d'intesa per l'istituzione del Polo universitario penitenziario dell'Umbria. L'accordo, di durata triennale, con contenuti e finalità innovative, intende favorire il diritto allo studio e, in particolare, l'accesso agli studi universitari dei detenuti ospitati negli istituti penitenziari dell'Umbria, garantendo la qualità dell'apprendimento, la coerenza con il programma individualizzato di trattamento redatto per i condannati e contribuendo al mantenimento di condizioni di detenzione dignitose. L'intesa - riferisce una nota dell'ateneo - coinvolge l'Università, il provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria per l'Umbria, l'Agenzia per il diritto allo studio universitario dell'Umbria e il Garante delle persone sottoposte alle misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Umbria. "È frutto di dieci mesi di lavoro - ha spiegato il prof. Carlo Fiorio - e, per diventare operativo, dovrà essere regolato da accordi esecutivi. La situazione dell'istruzione universitaria negli istituti penitenziari italiani è di 413 detenuti iscritti all'Università e, nell'anno 2013-2014, di 72 laureati. L'intesa odierna potrà contribuire a migliorare l'istruzione universitaria e la formazione dei detenuti, grazie alla disponibilità dell'Ateneo di Perugia e dell'Adisu, con l'obiettivo di avvicinare la loro condizione a quella degli studenti liberi". Il protocollo - prosegue la nota - è propedeutico ad alcuni obiettivi come il reperimento di spazi adeguati negli istituti penitenziari per attività didattica; con lezioni frontali, ma anche mediante e-learning, creando un sistema di Intranet che, coinvolgendo penitenziari e università, abbia caratteristiche di sicurezza e di erogazione di strumenti didattici di cui i detenuti-studenti possano effettivamente beneficiare. "Sono grato al professor Fiorio e a quanti hanno collaborato con lui per arrivare alla stesura dell'intesa firmata oggi - ha detto il rettore Franco Moriconi. Il nostro ateneo è interessato a dare il suo apporto per migliorare il livello di formazione di tutti. Questo protocollo, che segna un importante punto di partenza, si affianca al lavoro dei dipartimenti di Agraria e Veterinaria, entrambi impegnati in attività di collaborazione con detenuti". "Il protocollo dà attuazione a una previsione dell'ordinamento penitenziario che pone l'istruzione, e quindi la formazione e la cultura, come uno dei principali elementi del trattamento penitenziario - ha sottolineato Ilse Runsteni, provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria per l'Umbria. La convenzione con l'Università di Perugia dà opportunità, a tutti i detenuti dei quattro istituti della regione, di usufruire e beneficiare dei percorsi formativi proposti dall'Università di Perugia". Toscana: assistenza psicologica in carcere, dalla Regione finanziamento di 300mila euro Italpress, 29 maggio 2015 Prosegue anche per il 2015 e 2016 il sostegno della Regione Toscana per l'assistenza psicologica in carcere. Nella sua ultima seduta la giunta regionale ha deliberato, per il biennio 2015-2016, un finanziamento di 300.000 euro, che verranno distribuiti tra tutte le aziende sanitarie toscane in cui sono presenti istituti di detenzione (tutte le Asl, tranne la 12 di Viareggio): in Toscana ci sono 18 istituti per adulti e 2 per minori. Ogni Asl sede di istituto penitenziario dovrà presentare un progetto specifico per aumentare le ore complessive di assistenza psicologica assicurate nell'istituto penitenziario di competenza, per contrastare, con azioni mirate anche in relazione alla tipologia di detenuti presenti, il disagio psicologico indotto dalla detenzione. Sia nel biennio 2011-2012 che nel 2013-2014 sono stati finanziati progetti di assistenza psicologica in carcere, che hanno avuto ricadute positive sullo stato di salute della popolazione detenuta. Per questo la Regione ha deciso di continuare a sostenere progetti specifici di assistenza psicologica. Piemonte: il Garante dei detenuti "verso rete museale sulla storia della penalità" Ansa, 29 maggio 2015 Una rete museale sulla storia della penalità in Piemonte: è il titolo, ma anche il programma di lavoro, che è stato affrontato oggi da un seminario introdotto dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e al quale hanno partecipato, tra gli altri, il presidente della Commissione Cultura Daniele Valle e l'assessore alla Cultura Antonella Parigi. "Nella nostra regione - ha detto Mellano - esiste un significativo patrimonio storico e culturale costituito dagli edifici che sono stati in passato sedi di carcere o luoghi di detenzione. Realtà diverse, a volte valorizzate e adibite ad altri usi, a volte dimenticate o trascurate. Testimonianze della storia che non merita di andare perduta". Valle e Parigi hanno sottolineato la necessità di lavorare in rete per uscire dall'ottica della valorizzazione di singole strutture e creare un sistema capace di promuovere il patrimonio carcerario presente sull'intero Piemonte. I professori dell'Università di Torino Claudio Sarzotti, curatore scientifico del Museo della memoria carceraria della Castiglia di Saluzzo e Laura Scomparin, direttore del dipartimento di Giurisprudenza, hanno manifestato l'interesse degli atenei torinese e del Piemonte orientale all'iniziativa. Ancona: suicidio in cella di isolamento, ritrovato impiccato un detenuto di 44 anni Il Messaggero, 29 maggio 2015 Suicidio in carcere. È successo l'altro ieri nel carcere di Montacuto, ad Ancona. Si tratta di Calogero Colombo, 44 anni originario di Palermo. L'uomo era arrivato nel capoluogo dorico da pochi mesi per scontare una pena simulazione di reato e sarebbe dovuto uscire dalla casa circondariale già il prossimo settembre. L'uomo si sarebbe impiccato mentre stava scontando un periodo di isolamento. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha avviato un'inchiesta interna e sul fatto è già intervenuto il segretario nazionale del Sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo, che ha detto: "Ci sono troppi morti nel carcere di Montacuto. Sono più di 20, quasi 30 negli ultimi 10 anni per un carcere che non è neppure tra i più grandi del paese. Chiederemo un'ispezione al Ministro per capire se ci sono state delle responsabilità e non è escluso che proporremo di chiudere la struttura". Taranto: Cgil; detenuti psichiatrici a rischio, mancano figure specialistiche per curarli tarantobuonasera.it, 29 maggio 2015 Mino Bellanova e Lorenzo Caldaralo: "Il carcere di Taranto non può ospitarli perché mancano le figure specialistiche per la salute mentale". "Chiudono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la Casa circondariale di Taranto, priva di idonee figure specialistiche viene individuata come sezione per l'osservazione dei detenuti ad evidenza psichiatrica". Mimmo Bellanova, segretario generale della Cgil e Lorenzo Caldaralo, segretario funzioni centrali dello stesso sindacato intervengono sulla aggressione avvenuta nei giorni scorsi ai danni di una funzionaria giuridico-pedagogica e di nove agenti. "L'aggressione è stata compiuta di un detenuto affetto da un disturbo psicotico, che proveniva dal Centro di Osservazione Psichiatrica di Reggio Calabria- sottolineano- e si fa presente che i funzionari giuridico-pedagogici non possiedono la competenza specifica per trattare problematiche psichiatriche, ma hanno una funzione di rieducazione, ovvero hanno il compito di relazionarsi col detenuto e coordinare, individuare gli interventi atti alla risocializzazione, attraverso un percorso che li conduca e li sostenga nel reinserimento nel tessuto sociale". A tal proposito i funzionari della casa circondariale di Taranto hanno, pertanto, scritto al ministero della giustizia- dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, al provveditorato regionale, alla direzione della casa circondariale di Taranto ed al responsabile di area trattamentale , denunciando l'assenza nel carcere di figure specialistiche per la salute mentale (medico, psicologo/criminologo, infermiere, assistente sociale ed educatore professionale), pure previste dalla normativa nazionale e in delibere regionali, e preposte alla presa in carico e al trattamento di tali specifici detenuti. La Fp Cgil, ricordando che il 31 marzo scorso sono stati chiusi definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, ritiene che "non si possa individuare, come di fatto è avvenuto, la casa circondariale di Taranto, come sezione cui destinare i detenuti ad evidenza psichiatrica, poiché l'istituto, come detto, è privo di idonee figure specialistiche nonché di stanze di degenza adeguate ad accogliere i soggetti di cui trattasi. Non si può intervenire in modo superficiale quando sono in gioco la salute fisica e mentale di donne e uomini, siano essi lavoratori o detenuti". Trapani: carcere di San Giuliano, pessime le condizioni dei reparti Tirreno, Egeo e Ionio di Vincenza Grimaudo Quotidiano di Sicilia, 29 maggio 2015 Un recente sopralluogo ha messo in evidenza le pessime condizioni dei reparti Tirreno, Egeo e Ionio. Calcinacci caduti, muffa e infiltrazioni d'acqua piovana nelle pareti, porte e infissi aggrediti dalla ruggine, muri lesionati e a rischio crollo, apparecchiature per la videosorveglianza guaste, probabile presenza di coperture in amianto. Queste sono le condizioni in cui versa il carcere di Trapani, verificate e documentate nel corso di un sopralluogo di una delegazione della Uilpa penitenziari Trapani. A visitare la casa circondariale di San Giuliano, Gioacchino Veneziano, segretario generale Uilpa Trapani e coordinatore regionale Uilpa Penitenziari, Antonino Simone, coordinatore aggiunto Uilpa Penitenziari Trapani, e il componente la segreteria provinciale Uilpa Penitenziari Peppe Scaduto. "Mentre il Piano carceri - ha affermato Veneziano - prevede la costruzione di un nuovo padiglione all'interno del carcere trapanese per 250 posti detentivi, parte del vecchio San Giuliano cade a pezzi. Abbiamo visto una struttura quasi in rovina, specialmente nei reparti denominati Tirreno, Egeo e Ionio, dove si trovano i detenuti delle sezioni per reati a sfondo sessuale, femminile e alta sicurezza". Veneziano ha sollecitato addirittura la chiusura immediata dei reparti: "Destano preoccupazione le situazioni di pericolo per la salute del personale di polizia, che opera nell'arco delle 24 ore all'interno della struttura. È davvero raccapricciante, peraltro, scoprire che ci potrebbe essere presenza di amianto, ragione per cui richiederemo subito l'intervento del Vigas (Servizio di vigilanza sull'igiene e la sicurezza dell'amministrazione della giustizia, nda), Nas e Azienda sanitaria provinciale trapanese". Visibili i punti in cui la struttura è giunta la collasso: ci sono, un po' ovunque, ferri delle armature di cemento scoppiati, interventi di rattoppo che appaiono raffazzonati e comunque non risolutivi, parti intere di solai che non hanno più la copertura e le pignatte sono a vista. La muffa ha preso il sopravvento in gran parte delle pareti, anche alcune porte in ferro sono pericolosamente arrugginite, con il rischio che qualcuno possa ferirsi. Persino alcuni sanitari sono inutilizzabili, lesionati in alcune parti e quindi a rischio di cedere da un momento all'altro. Forse appare anacronistico raccontare anche di illuminazione in alcune stanze senza nemmeno la protezione, quindi con i neon a vista: un problema certamente di minore entità rispetto ai tanti altri invece che appaiono urgenti. "A questo punto - ha concluso Veneziano - è obbligatorio, a tutela di tutti i lavoratori e al fine di garantire un sistema di adeguata sicurezza operativa e funzionale del personale della polizia di Trapani, porre in essere tutte le iniziative affinché nell'agenda del direttore possa esserci lo stato dei luoghi, la loro funzionalità e quant'altro interessi la salubrità dei posti di lavoro. Fermo restando che relazioneremo agli organi competenti del ministero della Giustizia e del dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, tutte le incongruenze fotografate e, nelle parti di pertinenza, anche ad Asp, Visag e Nas". Mentre sindacati, politica, movimenti e associazioni hanno sempre parlato di gravissime carenze d'organico e di sovraffollamento nelle carceri, il ministero della Giustizia è in possesso di altri numeri, ben diversi, che addirittura pongono gli istituti penitenziari del trapanese tra quelli con la migliore situazione in Sicilia. Spesso si è assistito anche a vere e proprie guerre di cifre: tra il ministero e i sindacati c'è una grandissima divergenza di opinioni e questo si consuma proprio mentre nelle carceri trapanesi ci sono quasi il doppio dei detenuti rispetto a quelli che potrebbero essere ospitati. E qui si innesca anche un problema di sicurezza intesa comunque in un altro senso rispetto a quella delle carenze strutturali: gli agenti rischiano anche fisicamente. Problemi già segnalati al ministero della Giustizia Rispetto alla situazione di degrado la Direzione dell'Istituto penitenziario di San Giuliano ha immediatamente rappresentato le problematiche al competente ministero della Giustizia. Dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria della stessa Direzione della Casa circondariale si puntualizza però che in realtà i problemi sono "a macchia di leopardo". "A essere interessati dai crolli - hanno affermano dall'ufficio del Provveditorato per la Sicilia - alcuni reparti detentivi del San Giuliano, il Tirreno e l'Egeo. è stato inviato un tecnico per un sopralluogo, al fine di decidere quali provvedimenti adottare per salvaguardare l'incolumità dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria e amministrativo che opera all'interno dell'istituto". Nei giorni scorsi la Direzione ha anche presentato ben quattro progetti per accedere ai finanziamenti previsti dalla Cassa delle Ammende, per interventi di manutenzione straordinaria da effettuarsi nell'edificio. "La Direzione dell'Istituto - hanno precisato - è stata da sempre molto attenta alla tutela della salute sia dei detenuti che del personale che opera all'interno della Casa circondariale, effettuando nel tempo, nei limiti delle risorse finanziarie assegnate, interventi di manutenzione ordinaria, ma anche dei lavori per rendere vivibili i posti di lavoro del personale e più dignitosi gli spazi per i detenuti, così come prevede il dettato della sentenza Torreggiani". "Certamente - hanno concluso dalla Direzione - saranno portate avanti tutte le iniziative volte a salvaguardare l'incolumità dei detenuti e del personale che vi opera". Ampliamento del carcere, controlli Dia sulla realizzazione Controlli della Dia nella realizzazione dell'ampliamento del carcere di Trapani. Sono stati decisi nell'ambito dei compiti di monitoraggio delle imprese impegnate nei lavori relativi alla realizzazione di opere pubbliche, come deciso dal Prefetto di Trapani, Leopoldo Falco che ha diretto e coordinato l'accesso ispettivo presso il cantiere dove sono in corso i lavori di realizzazione di un nuovo padiglione per ampliare la Casa Circondariale di Trapani. La spesa prevista è di un milione di euro. Un nuovo padiglione per accogliere 200 detenuti. Tale attività, inserita nelle disposizioni di cui al decreto interministeriale del 14 marzo 2003, sul monitoraggio delle opere pubbliche, è finalizzata a prevenire le infiltrazioni mafiose nei cantieri di lavoro. L'accesso al cantiere, a cui ha partecipato anche personale dell'Azienda Sanitaria Provinciale, per verificare il rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro, ha permesso il controllo di 5 imprese, 18 persone e 9 mezzi. "L'assetto societario delle imprese impegnate nei cantieri - spiegano dalla Dia - i rapporti contrattuali in essere, le relative maestranze identificate ed i mezzi d'opera individuati, verranno sottoposti ad approfonditi accertamenti e riscontri, al fine di rilevare eventuali condizionamenti da parte della criminalità organizzata. I controlli della Dia saranno sempre continui sui cantieri per scongiurare il condizionamento mafioso anche nella realizzazione delle opere". Milano: tra i padiglioni Expo in cerca di riscatto, la storia di Antonio e degli altri detenuti di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 29 maggio 2015 La storia di Antonio e degli altri detenuti che lavorano dentro l'Esposizione. "Stare tra i visitatori è un'occasione unica: qui ci sentiamo persone e non numeri". I giorni fuggono come ore, le ore diventano minuti e i minuti secondi quando la mattina escono dal carcere e tra i padiglioni di Expo assaporano il gusto della libertà cosmopolita; in cella, la sera, le lancette sembrano ferme. Il tempo corre a due velocità per Antonio, Francesco e Salvatore. Sono tre degli 83 i detenuti che partecipano al progetto nato da un accordo tra Tribunale di sorveglianza di Milano e Provveditorato lombardo dell'amministrazione penitenziaria e finanziato dal Ministero della giustizia con 600 mila euro della cassa delle ammende, quelle versate dai condannati. Dopo un percorso riabilitativo nelle carceri di Opera, Bollate, Busto Arsizio e Monza, hanno ottenuto di scontare la pena lavorando all'esterno durante il giorno. Li vedi in turni di sei ore, dalle otto alle 17, tra le migliaia di visitatori in coda agli ingressi mentre danno informazioni, indicano percorsi e distribuiscono mappe. Prendono 500 euro al mese, la stessa "mercede penitenziaria" degli altri detenuti che lavorano. "Per me sono milioni perché così non mi sento un detenuto. Qui ho un rapporto con il mondo intero", dice Antonio Vitiello, un napoletano di 52 anni che per molti reati di droga si è già fatto una decina di anni e ne deve fare altri quattro a Bollate. Quando stava a Poggioreale (Napoli), trascorreva 23 ore in cella e una all'aria, ora sta all'uscita della metropolitana. Potrebbe scappare saltando sul primo treno, nessuno lo controlla perché non è previsto: "E chi me lo fa fare? Se faccio un'evasione, quando può durare? Un mese, due, tre? Poi torno in prigione". Le statistiche dicono che il 70 per cento dei detenuti che hanno espiato l'intera pena in carcere riprende a delinquere, percentuale che crolla al 18 tra coloro che hanno lavorato. Vuol dire minori costi per la società, ma in Italia lavora solo poco più del 10 per cento dei quasi 54 mila detenuti. A Francesco Catanzaro di anni ne hanno dati 17 per rapine in banca. Ha imparato le lingue scappando all'estero. "Alla mattina un altro po' dico buongiorno anche ai muri. Il primo giorno mi sono messo a piangere", racconta entusiasta mentre lungo lo stradone di Expo la folla dei visitatori del mattino avanza come un'armata vociante e spensierata. I detenuti che lavorano qui hanno fatto un corso su relazioni con il pubblico, pronto soccorso, logistica e temi dell'esposizione. "Per esempio, ci hanno insegnato a non fare cose che potrebbero disturbare persone dalla cultura diversa dalla nostra". Una cosa che lo ha davvero reso felice: "Da anni mia figlia mi pagava il caffè, ora sono io che glielo offro". Perché i soldi ""lavorati" sono tutta un'altra cosa", afferma Salvatore Messina, 28 anni, 4 anni e otto mesi per spaccio di cocaina. Con la droga faceva 300/400 euro al giorno: "Soldi facili ai quali non dai valore e alla fine non arrivi a niente. Prima o poi ti arrestano". Come va? "Ti viene voglia di vivere. Vedi la libertà, ma non ce l'hai, perché quando smetti di lavorare torni in galera". Libertà, argomento principe tra i detenuti. "In carcere non sei nessuno, sei un numero. Fuori sei una persona" sussurra mentre smista il traffico all'ingresso per vip e forze dell'ordine. Il rapporto con la Polizia penitenziaria, che in Expo ha un ufficio, segue un percorso quasi contro natura. "Tutto questo - sostiene Francesco - serve a noi e a loro, che partecipano alla nostra esperienza e aiutano quelli che sono stati troppo dentro e non sono più abituati alla libertà. È bello salutarsi la mattina, confrontarsi e discutere". Sognano tutti un lavoro dopo il carcere. Francesco: "Io sto pagando. Vedremo quando esco cosa farà la società". Orvieto (Pg): progetto del Comune per l'impiego dei detenuti in lavori di pubblica utilità orvieto24.it, 29 maggio 2015 Giovedì 28 maggio scorso, il Sindaco, Giuseppe Germani ha ricevuto in Comune e successivamente accompagnato in visita presso la Casa di Reclusione di Orvieto l'On. Walter Verini membro della Commissione Giustizia della Camera. Scopo dell'iniziativa, la realizzazione di un progetto sperimentale finalizzato all'impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità quali: manutenzione, restauro, pulizia e decoro urbano dei siti di interesse pubblico, da concretizzarsi attraverso una convenzione tra il Comune, la Casa di Reclusione di Orvieto e l'Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Spoleto. Progetto a cui l'Amministrazione Comunale sta lavorando in attuazione al dettato costituzionale sulla rieducazione e reinserimento nella società delle persone che hanno scontato una pena e ribaditi dalle regole minime dell'ONU, del Consiglio d'Europa, dalle regole penitenziarie europee e dalle modifiche legislative del nostro ordinamento nonché dal protocollo di intesa tra la Regione dell'Umbria e il Ministero della Giustizia siglato a Perugia il 7 marzo u.s. Nel corso dell'incontro, il Sindaco ha dichiarato che l'obiettivo è quello di promuovere e favorire l'avviamento di percorsi di formazione lavoro relativi a progetti di pubblica utilità ed ha sottolineato che il Comune di Orvieto intende contribuire a trasformare la locale struttura carcerarie ad Orvieto da luogo in cui scontare la pena anche a luogo dove si fa inserimento dei detenuti nel tessuto sociale. Da parte sua l'On. Walter Verini ha spiegato che per le sue tipologie di pena il carcere di Orvieto che si presta alla custodia attenuata. Ovvero, pur mantenendone la sua totale funzionalità potrebbe essere anche il luogo in cui i detenuti possono fare formazione, imparare un mestiere e a fine pena potersi riconsegnare alla società con delle competenze utili al loro completo reinserimento. Il parlamentare ha aggiunto che la nuova visita al carcere, è stata finalizzata a monitorarne le criticità, compresa quella della carenza di personale di custodia che, tuttavia in Umbria, ha subito dei miglioramenti. Roma: "Lo stato della pena", assemblea Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia 9Colonne, 29 maggio 2015 "Lo Stato della Pena" il titolo scelto dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cnvg) per la sua ottava assemblea che si terrà a Roma il 5 e 6 giugno. Apriranno i lavori, al Museo Criminologico Dap, la presidente Cnvg Elisabetta Laganà, il presidente Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e l'ispettore generale delle carceri Italiane Virgilio Balducchi. L'assemblea sarà l'occasione per fare il punto della situazione su carcere e giustizia in Italia, a partire da cosa è stato fatto e cosa invece ancora si deve fare dopo la cosiddetta Sentenza Torreggiani, con cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per reato di tortura o trattamenti disumani e degradanti. Alessandro Pedrotti, vice presidente Cnvg, ne discuterà insieme al Presidente Emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il presidente onorario di Antigone Stefano Anastasia, il magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, il vice capo Dap Luigi Pagano e l'avvocato Michele Passione della Camera Penale di Firenze. Occhi puntati anche su misure alternative e recenti misure di messa alla prova. Giovanni Torrente, vice presidente Cnvg, presiederà un tavolo di discussione con il coordinatore della Direzione Generale Uepe Eustachio Vincenzo Petralla, la rappresentante del Uepe Venezia Chiara Ghetti e il deputato Edoardo Patriarca, componente della Commissione Affari sociali. Seguiranno le testimonianze dirette delle associazioni, con i rappresentanti del VIC Caritas di Roma, Caritas Ambrosiana, Caritas di Napoli e Associazione Papa Giovanni XXIII. Il 6 giugno, presso il Centro di Servizio per il Volontariato Spes, si terrà un Workshop esperienziale sulla tutela degli affetti aperto a tutti i volontari. Interverranno Roberta Palmisano, direttrice dell'Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali del Dap, e Ornella Favero, direttrice della testata Ristretti Orizzonti. San Gimignano: i detenuti di Ranza ai fornelli con gli alunni dell'istituto enogastronomico ilcittadinoonline.it, 29 maggio 2015 Detenuti a scuola di cucina dai futuri chef per un progetto di solidarietà e integrazione lungo un anno e che ha portato alla realizzazione di un ricettario. È Cucinarte, il progetto realizzato dall'Arci Solidarietà Ì Circolo di San Gimignano in collaborazione con l'istituto enogastronomico dell'Istituto Tecnico Agrario Ricasoli di Siena e San Gimignano e la casa circondariale di Ranza con il patrocinio del Comune di San Gimignano, e che vedrà domenica 31 maggio nella sede dell'associazione Arci Solidarietà Ì Circolo un pranzo cucinato da studenti e detenuti insieme ai fornelli oltre alla presentazione del ricettario. Il progetto È durato un intero anno scolastico con laboratori di cucina a scuola e in carcere. È stata inizialmente organizzata una gara di cucina dove 18 studenti della classe terza dell'Istituto Enogastronomico di San Gimignano hanno sperimentato le conoscenze acquisite nel percorso formativo creando piatti e portate assaggiati e giudicati da una giuria di detenuti e dagli operatori penitenziari del carcere di Ranza. È stata poi la volta di 20 detenuti del Circuito di Alta Sicurezza che hanno vestito i panni di studenti per approdare ai fornelli ed essere poi giudicati da una giuria di alunni e docenti. I piatti migliori sono stati quindi premiati e i vincitori selezionati per realizzare il pranzo finale con giovani studenti e detenuti fianco a fianco in cucina per le famiglie degli studenti e per la popolazione. Il plauso dell'assessore "Cucinarte si inserisce a pieno titolo nel programma di azioni che questa amministrazione comunale - ha commentato Ilaria Garosi, assessore alle politiche sociali del Comune di San Gimignano - ha promosso negli ultimi anni, nei limiti delle proprie competenze, per reintrodurre la struttura carceraria e i detenuti nella rete sociale e associativa del territorio. Nella consapevolezza che molto deve essere ancora fatto da parte di tutte le istituzioni interessate, siamo lieti di aver appoggiato iniziative come queste che contribuiscono alla costruzione di un ponte tra il dentro e il fuori. Un ponte utile per la consapevolezza nei nostri cittadini della presenza di questa realtà "difficile" ma importante, utile a far sentire meno soli i lavoratori che a vario titolo operano all'interno delle mura carcerarie e, in particolare è un'occasione per offrire una rete sociale che possa essere opportunità di rinforzo alla finalità costituzionale del carcere. Di estremo valore - ha concluso Garosi - è che questo ponte sia stato creato all'interno di un progetto che ha come cuore il volontariato motore di inclusione sociale". Le finalità Il progetto si è posto l'obiettivo di catturare l'attenzione sul tema dell'inclusione sociale, della solidarietà e del volontariato, portando fuori dal carcere la voce e l'esperienza dei detenuti e, allo stesso tempo, si è offerto ad un gruppo di studenti l'opportunità di fare un'esperienza che ha permesso loro di entrare in contatto con una realtà del tutto sconosciuta, con la finalità di educare alla legalità e incentivare lo spirito di solidarietà. Roma: Università di Roma Tre e Antigone "Sportello di consulenza legale a Regina Coeli" Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2015 Il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Roma Tre e Antigone aprono uno sportello di consulenza legale nel carcere romano di Regina Coeli. Già ascoltati ben 150 detenuti. Il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi Roma Tre e l'associazione Antigone hanno aperto da tre mesi uno sportello di informazione legale presso la Casa Circondariale Regina Coeli di Roma. Lo sportello è parte dell'insegnamento di clinica legale penitenziaria gestito dal prof. Marco Ruotolo e da Patrizio Gonnella. Viene fornita gratuitamente assistenza e consulenza legale ai detenuti in materia di esecuzione penale, diritto penitenziario e dell'immigrazione. Lo sportello si avvale della collaborazione di laureandi, laureati, dottorandi e dottori di ricerca in materie giuridiche, nonché di avvocati specializzati in diritto penale e dell'immigrazione delle associazioni Antigone e Asgi, ai quali è affidato il ruolo di tutors. A tre mesi dall'avvio ecco un primo bilancio: ben 50 tra studenti e tutors hanno assicurato assistenza legale; sono stati incontrati circa 150 detenuti. Un terzo dei casi è ancora in via di trattamento. Le questioni con cui lo Sportello si è dovuto confrontare con maggiore frequenza riguardano il diritto dell'immigrazione (concessione e/o rinnovo del permesso di soggiorno, richieste di asilo politico), il diritto alla salute (accesso alle cure, accertamento dell'incompatibilità con il regime carcerario), i trasferimenti in altre strutture, i colloqui con i familiari e l'assistenza nella predisposizione di istanze di vario genere (espulsione come misura alternativa alla detenzione, applicazione della disciplina della continuazione del reato, identificazione, rilascio o rinnovo dei documenti di identità). Nell'ambito della sua attività, lo sportello ha potuto instaurare rapporti con le ambasciate, i consolati esteri, l'amministrazione penitenziaria e le diverse professionalità operanti all'interno della Casa Circondariale. "Si tratta di un'esperienza importantissima da più punti di vista - dichiarano il prof. Marco Ruotolo e Patrizio Gonnella - infatti da un lato è una straordinaria occasione formativa per gli studenti, dall'altra assicura sostegno legale su materie molto specifiche a tanti detenuti privi di risorse economiche." Tra i casi presi in carico quello di un detenuto italiano che vive con la bombola d'ossigeno ed è in gravi condizioni di salute. Nonostante questo rischia l'estradizione in Albania. È stata chiesta la sospensione del provvedimento. Il detenuto in Albania deve scontare una pena di quattro anni perché ritenuto colpevole dei reati di traffico di veicoli e falso documentale. Il suo stato di salute è tuttavia molto grave e l'esecuzione del provvedimento di estradizione potrebbe provocare danni irreversibili. Per tale motivo è stato chiesto alle autorità italiane di sospendere il provvedimento a tutela della sua salute e della sua stessa vita. Infatti è affetto da numerose e gravi patologie (obesità, insufficienza respiratoria in trattamento con macchina produttrice di ossigeno, ipertensione polmonare secondaria, cardiopatia ipertensiva, ipertensione arteriosa), che lo obbligano a continue visite mediche ed esami, nonché lo costringono a sottoporsi a cure salvavita, tra le quali l'ossigenoterapia domiciliare e l'assunzione continua di farmaci. Al 31 dicembre del 2014 nel carcere romano di Regina Coeli vi erano 813 detenuti di cui 499 stranieri. I posti letto regolamentari erano 642. Nuoro: "Progetto legalità", i detenuti di Mamone liberi per un giorno di Bernardo Asproni La Nuova Sardegna, 29 maggio 2015 Dodicesima edizione del "Progetto legalità" tra commozione e grandi valori. Un gemellaggio tra la colonia penale e gli studenti del "Maccioni" e del "Satta". Un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di Mamone, che dipende dal Ctp Istituto Comprensivo Maccioni-Nuoro ha vissuto l'esperienza "Il carcere va scuola". È il "Progetto legalità", giunto al dodicesimo anno, che ha visto, nei giorni scorsi, protagonisti, in permesso premio, giovani detenuti originari da paesi stranieri, fra cui Colombia, Equador, Cile, Marocco, Senegal. È il gemellaggio, vissuto a Nuoro, dopo le precedenti felici esperienze con altre scuole della provincia, con classi dell'Istituto tecnico Satta di Nuoro, della preside Pierina Masuri, che ha fatto gli onori di casa. Gli alunni di Mamone, accompagnati dalla docente Maria Lucia Sannio, coordinatrice del Ctp nonché presidente dell'associazione Onlus Luches che 12 anni fa aveva dato vita a questa interessante iniziativa con la collaborazione del suo vice Giuseppino Contu, hanno incontrato a Nuoro, presente anche il preside Antonio Alba della scuola Maccioni, prima il provveditore Mario Delrio. È così ha avuto inizio la giornata di intenso dialogo e socializzazione, con un siparietto di balli sul palco dell'auditorium. Il provveditore ha dimostrato interesse verso i detenuti e ringraziato gli insegnanti, preside e autorità penitenziarie perché sviluppano il tema legalità e rivolto ai ragazzi ha parlato dell'istruzione, importante per una scelta di vita più gratificante. Dopo i saluti dei presidi Alba e Masuri e della professoressa Sannio che ha presentato il progetto, si è entrati nel vivo del "gemellaggio" con la proiezione, nella biblioteca, di un video della struttura carceraria di Mamone, per capire la "logistica" all'interno delle pesanti cancellate. In seguito sono stati letti temi e poesie, ispirate al dopo, alla speranza, degli alunni di Mamone e i bambini hanno posto domande sulla vita carceraria, sulla quotidianità. Loro hanno risposto senza remore sulla loro condizione di detenuti, persino della mancanza di frigo in cella, della sofferenza del carcerato, dalla lontananza degli affetti delle persone più care, precisando che "chi commette un reato paga con il carcere" e hanno ammonito: "Non sbagliate come noi, non commettete reati" mentre la platea ascoltava nel silenzio più totale. "È stato positivo per i detenuti, che hanno avuto modo di socializzare, e per i ragazzi della scuola perché recepiscono il concetto di legalità da parte di chi ha sbagliato" ha commentato Sannio. Ma alla fine è stata una lezione di vita per tutti. Ferrara: Uisp; "Vivicittà" anche in carcere, come segno di civiltà di Corrado Magnoni La Nuova Ferrara, 29 maggio 2015 Ieri la corsa nella Casa circondariale con la partecipazione anche di 11 detenuti. Dall'esterno un buon numero di atleti aderenti a numerose società sportive . Vivicittà, un esempio di come viene espletato il "diritto alla salute dei nostri detenuti", come specificato dal direttore della Casa Circondariale di via Arginone, dottor Paolo Malato. Ieri mattina si è svolta la corsa podistica nazionale giunta alla 21esima edizione all'interno dello spazio aperto del perimetro carcerario. Per la cronaca, si sono sfidati undici detenuti e un gruppo di atleti esterni in un percorso di 2,8 chilometri, pari a tre giri della cinta muraria, che il primo arrivato ha compiuto in 8'18". Tutti i partecipanti sono stati premiati con una maglietta e i primi tre hanno ricevuto anche un cappellino, premi simbolici che in questo contesto valgono molto. "In questo modo, si realizzano i principi di rieducazione del carcere ed umanizzazione della pena", ha proseguito il dottor Malato, mentre Paolo Teducci, comandante della polizia penitenziaria, oltre a ringraziare tutti i colleghi che hanno collaborato ed in particolar modo il comandante Annalisa Gadaleta, ha aggiunto: "L'istituto penitenziario di Ferrara ha fatto un salto di qualità grazie al progetto ‘Le porte apertè, promosso dal comitato ferrarese Uisp sotto l'attento controllo del personale della nostra polizia penitenziaria". Il carcere non è nuovo a questo genere di iniziative sportive iniziate in inverno e che proseguiranno il 12 giugno con una riunione pugilistica confezionata ad hoc dalla Pugilistica Padana dei fratelli Duran. "La Casa Circondariale di via Arginone è una realtà positiva della città", ha sottolineato l'assessore allo sport Simone Merli, mentre il segretario regionale del Pd, Paolo Calvano gli ha fatto eco: "La forza dello sport, può essere forza enorme, come dimostrano queste iniziative; così si misura la coesione di una comunità". In sede di conferenza stampa, è stato anche ricordato come l'attività motoria in carcere della Uisp vanti una tradizione trentennale. "I primi rapporti del comitato ferrarese con la casa circondariale risalgono agli anni ‘80 - ha spiegato Enrico Balestra, presidente Uisp, ma solo dal 1992 l'attività è diventata continuativa". Ed oggi, come da tradizione, si parla di Vivicittà. "In realtà le richieste di partecipazione erano molte di più - ha detto Davide Guietti dell'Uisp: delle 80 richieste pervenute, ne abbiamo selezionate 25 che avevano i requisiti richiesti, ovvero il certificato medico e non essere collaboratori di giustizia, protetti o in alta sicurezza. Alla partenza però si sono presentati solo in undici, tutti gli altri erano probabilmente impegnati in colloqui o attività lavorative". Dall'esterno, invece, hanno risposto un buon numero di atleti che hanno aderito e facenti riferimento a queste società: Passione Running, Polisportiva Quadrilatero, Atletica Argine Berra ed Atletica Ferrariola. Roma: "Il Figliol prodigo", a Rebibbia un progetto artistico per detenuti Adnkronos, 29 maggio 2015 Usare il potere comunicativo dell'arte, per aiutare i detenuti ad accettare il proprio passato e preparare il ritorno nella società. Con questo obiettivo nasce il progetto "Il Figliol prodigo" -iniziativa nata dalla collaborazione tra Associazione Radicale "Nessuno Tocchi Caino", onlus "Pronto Intervento Disagio", galleria "Monserrato 900" di Roma, parrocchia di Santa Lucia al Gonfalone e un gruppo di artisti dell'avanguardia contemporanea- che si terrà all'interno del reparto G11 del penitenziario romano di Rebibbia-nuovo complesso. Al progetto parteciperanno 12 detenuti che realizzeranno una mostra e un calendario, con la guida e la collaborazione di artisti dell'avanguardia romana, fra i quali Marina Haas, Laura Palmieri, Elena Pinzuti, Alessandro Costa, Paolo Bielli e Vincenzo Mazzarella. L'idea, spiegano gli organizzatori in una nota, "nasce da questo anno giubilare sul tema della misericordia, proponendo una riflessione sulla capacità di ogni essere umano di saper ritornare sulle proprie responsabilità nei confronti della comunità, sia essa la famiglia che il contesto sociale nel quale si sono consumate scelte contrarie alle regole di convivenza umana e civile". "Attraverso il filtro sensibile di artisti e volontari, particolarmente attenti alle dinamiche sociali di svantaggio e alla complessità dell'animo umano - prosegue la nota - ma anche grazie alla piena adesione della direzione , dell'area educativa e del personale di polizia penitenziaria, è stato proposto ai detenuti un progetto artistico sul tema della conoscenza e della verità quale primo momento di presa in carico del proprio vissuto e l'immagine del ritorno agli affetti e alla società. Il progetto, accolto e apprezzato con slancio ed iniziato alla fine di aprile, proseguirà con la realizzazione di opere su tela e avrà il preciso scopo di portare alla luce, attraverso immagini, colori, segni quello che spesso con le parole non si riesce a comunicare. Guardare alla possibilità del ritorno e all'idea stessa di farsi speranza", concludono gli organizzatori del progetto. Enna: "Cena al... fresco", raccolti 1.500 euro da destinare ai detenuti indigenti startnews.it, 29 maggio 2015 L'Istituto alberghiero Federico II con i suoi docenti e allievi che, assieme ai detenuti, hanno realizzato il menu del gala. "Cena al... fresco" al carcere di Enna. Raccolti 1500 euro da destinare ai detenuti indigenti È stata una vera e propria gara di solidarietà che ha prodotto una serata speciale dentro il carcere di Enna. La "Cena al …fresco" è stato un successo di generosità. In testa l'Istituto Alberghiero Federico II con i suoi docenti e allievi che, assieme ai detenuti, una trentina in tutto tra camerieri, sommelier, cuochi, hanno realizzato il menu del gala il cui ricavato, oltre 1.500 euro, andrà al fondo indigenti detenuti gestito dai volontari. Il progetto dell'Onav di Enna , sotto l'egida della Prefettura, ha ricevuto un sostegno fondamentale dalle associazioni di categoria, Coldiretti, Cna e Confartigianato che hanno coinvolto i loro iscritti procurando tutte le materie prime per la realizzazione della cena. La Fisar, con i suoi sommelier catanesi, Gaetano Prosperini e Michele Rossi, hanno guidato una batteria di detenuti sbicchierando, con grande professionalità, il vino offerto dalla cantina Cottanera. Gli chef Carmelo Barberi e Carlo Verde, coadiuvati da Filippo di Meglio, a capo dell'allegra brigata di cucina, allievi dell'alberghiero e detenuti assieme, hanno preparato un menù tutto made in Enna. Dai classici arancinetti al tortino di zucchine su fonduta di Piacentino ennese Dop, risotto con crema d'asparagi e salsiccia, quadrelli ripieni di spinaci e ricotta su vellutata di mandorle e basilico, cosciotto di maialino arrosto ai profumi del territorio ennese con dadolata di verdure di stagione. Il dessert è stato affidato ai maestri pasticceri dell'Ampe, Salvatore Platania, Liberto Campisi e Filippo Murgano che hanno realizzato i classici ravioli al miele insieme alle castagnole di ricotta e ai bocconcini con crema chantilly decorati con granella di pistacchio. Il servizio di sala è stato affidato a Mario Dispinseri, Laura Lima, Angelica Previti e Renato Chirdo, tutti dell'Alberghiero ennese, che hanno lavorato fianco a fianco con detenuti ed allievi per un risultato ottimale. E mentre Giuseppe Innuso, anche egli dell'alberghiero, con la sua immancabile macchina fotografica, insieme al docente dell'Anfe regionale, Paolo Andolina, documentavano la serata, il violino del maestro Stefano Termini ha trasformato la sala dell'istituto penitenziario in un luogo magico dove trascorrere una piacevole cena. Tra gli invitati il prefetto Fernando Guida accompagnato dalla signora Cecilia, il magistrato di sorveglianza di Caltanissetta, Renata Giunta, il presidente dell'associazione magistrati di sorveglianza, Fernando Asero, i direttori delle associazioni di categoria Salvina Russo, Rosa Zarba, Mauro Todaro e, naturalmente, la padrona di casa, il direttore del carcere ennese, Letizia Bellelli. " È stata davvero una serata speciale - dice Tommaso Scavuzzo, delegato provinciale Onav che ha fortemente voluto l'evento - Siamo grati a tutti quelli che hanno permesso la realizzazione di questo momento che ha mostrato il carcere nella sua vera essenza: luogo di rieducazione e riabilitazione. La compostezza e la professionalità dei detenuti ha colpito tutti confermando che un contesto diverso, sano e propositivo, crea la propensione a quelle buone prassi che ieri sera hanno dato davvero ottimi frutti". Al termine della cena, dopo che il pittore Pietro Zappia, ristretto nella casa circondariale ennese, ha donato un suo quadro al prefetto , alcuni detenuti hanno acceso delle lanterne che si sono librate in aria dal cortile del carcere come simbolo di libertà. Libia: il sogno dell'Europa infranto nei Centri di detenzione per migranti Aki, 29 maggio 2015 Mesi in un centro di detenzione per migranti illegali hanno fatto sì che, per molti, si infrangesse il sogno di raggiungere l'Europa scegliendo piuttosto quello di "tornare a casa". Lo raccontano alcuni degli uomini che hanno tentato di lasciare la Libia sperando in una vita migliore in Europa e che hanno incontrato maltrattanti e abusi nei centri di detenzione del Paese nordafricano. "Non voglio più andare in Europa, voglio solo tornare a casa" racconta uno di loro, Charles, all'agenzia dell'Onu Irin. Dopo aver attraversato il deserto del Sahara, dopo aver subito violenze da parte dei contrabbandieri, i migranti che riescono a raggiungere la Libia rischiano l'arresto e un lungo periodo di detenzione in uno dei 20 centri ufficialmente riconosciuti nel Paese. Uno di questi, il centro Krareem, si trova alla periferia di Misurata e detiene oltre 1.100 migranti. "Qui ci sono centinaia di persone e alcuni di loro sono stati picchiati", racconta Abu, 24 anni, proveniente dalla Somalia. "Nei nostri Paesi si combatte per cui ce ne siamo andati in cerca di un futuro migliore, ma qui va molto male, le nostre vite sono state spente. Aiutateci per favore", aggiunge. Una delle guardie carcerarie spiega che il centro di Krareem è sovraffollato, per cui 219 uomini e 31 donne sono stati trasferiti in un altro alla periferia di Tripoli. "Spero spariamo in aria per mantenere il controllo", racconta il responsabile del centro di detenzione, Mohamed Ahmed al-Baghar, che parla di 34 guardie incaricate di gestire più di mille e cento migranti. "È un centro piccolo, per cui ho mandato molte persone ad altri centri. La situazione peggiora perché continuano ad arrivare immigranti irregolari", spiega. "La situazione qui è molto dura. Ci sono scontri ogni giorno per usare il bagno, perché ogni giorno centinaia di persone usano gli stessi servizi", spiega Alaji, 25 anni dal Gambia, detenuto da cinque mesi. "Ci picchiano con le catene - spiega Alaji - Ieri qualcuno ha provato a fuggire, così ci hanno picchiato tutto il giorno". Molti migranti sono costretti a fare lavori duri. "Ci usano come asini da lavoro. Potrebbe usare le macchine, ma usano esseri umani. E se ci lamentiamo, ci picchiano. Ci trattano come criminali", spiega Alaji, che per sei mesi ha lavorato a Tripoli come pittore e decoratore prima di essere arrestato perché senza documenti. Solo un piccolo numero di detenuti è tornato a casa con un programma di rimpatrio volontario gestito dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni, ora attivo in Tunisia, in collaborazione con alcuni governi dei Paesi d'origine. Ma si parla di sole 400 persone rimpatriate in questo modo dal luglio 2014. Pakistan: altre 7 esecuzioni, sul patibolo anche 3 responsabili di un dirottamento aereo Aki, 29 maggio 2015 Altre sette persone, fra le quali anche tre prigionieri responsabili nel 1998 del dirottamento di un volo della Pia, sono state impiccate in Pakistan, dove solo questa settimana sono state eseguite almeno 20 condanne a morte. Lo riferiscono i media locali. Il 24 maggio di 17 anni fa i tre tentarono di dirottare un volo partito da Turbat e diretto a Karachi con 38 persone a bordo, intimando al pilota di raggiungere l'India. L'obiettivo era costringere il governo pakistano a rinunciare al progetto di test nucleari in Baluchistan dopo gli esperimenti dell'India, ma il piano dei tre fallì, il pilota riuscì ad atterrare a Hyderabad, i tre vennero arrestati e il 28 maggio del 1998 vennero effettuati i test nel Baluchistan. I tre, si legge sul giornale pakistano Dawn, sono saliti sul patibolo in due diverse prigioni di Karachi e Hyderabad. Altri quattro prigionieri, condannati a morte per omicidio, sono stati impiccati oggi a Sahiwal, Haripur, Sargodha e Karachi. Secondo dati del ministero dell'Interno di Islamabad, nel braccio della morte in Pakistan ci sono almeno 8.000 detenuti. Dopo il sanguinoso attacco dello scorso dicembre contro una scuola di Peshawar, in cui sono rimaste uccise 150 persone (per lo più bambini), le autorità pakistane hanno deciso la revoca della moratoria sulla pena di morte per i sospetti terroristi. A marzo, poi, è stata annunciata la revoca totale della moratoria. Stati Uniti: poliziotti bianchi esibiscono la preda... un detenuto di colore globalist.it, 29 maggio 2015 Il giovane di colore è mostrato dai due agenti come un bottino di caccia. Uno dei due è stato licenziato, l'altro è stato arrestato per associazione a delinquere. Si sono fatti immortalare con la loro preda di caccia: la fotografia shock, scattata anni fa, è però emersa solo oggi. Due (ormai ex) poliziotti bianchi, sorridenti, hanno travestito un detenuto di colore da cervo e lo hanno mostrato come un bottino di caccia. I fatti si sono verificati a Chicago. La vittima di questo gioco di pessimo gusto è ai loro piedi: la lingua a penzoloni, gli occhi strabuzzati, l'uomo è sistemato proprio come se fosse un animale catturato. Uno dei due agenti che compaiono nell'immagine, Jerome Finnigan, è stato arrestato nel 2011 per associazione a delinquere con altri suoi colleghi. Tutti erano coinvolti in furti e altri tipi di crimini. Timothy McDermott, l'altro agente, è stato invece licenziato dopo che l'Fbi ha consegnato la foto alle autorità cittadine. McDermott ha presentato appello contro il suo licenziamento, ammettendo che posare per quella foto è stato un errore per il quale si è definito "profondamente imbarazzato". Russia: detenuti ai lavori forzati costruiranno stadi per i campionati mondiali di calcio? fanpage.it, 29 maggio 2015 Il deputato del partito di Putin Russia Unita, Aleksandr Khinshtein, ha presentato una proposta di legge che consentirebbe di utilizzare i detenuti non socialmente pericolosi per fronteggiare la necessità di manodopera nella regione in cui stanno scontando la pena. La Russia non vuole ritardi nella costruzione degli stadi, che ospiteranno gli incontri del Mondiale del 2018, e pare che abbia deciso di sfruttare per i lavori di costruzione i detenuti dei campi di lavoro che rappresenterebbero un notevole aiuto a livello quantitativo e costerebbero pochissimo. La notizia l'ha data l'avvocato Alexander Khinsthtein, membro del partito Russia Unita (quello al potere), che ha proposto questa soluzione al servizio carcerario russo che starebbe analizzando vantaggi e benefici di questa proposta. Queste le parole all'Associated Press: "Sarà una grossa opportunità, nel senso che avremo la possibilità di acquistare i materiali di costruzione a un prezzo più basso di quello di mercato e, inoltre, faremo lavorare i prigionieri, il che è sicuramente positivo". L'idea è nata perché la Russia ha grossi problemi economici, il rublo è stato svalutato ed è stato creato dal governo un piano per la riduzione dei costi della Coppa del Mondo, che comunque al paese costerà circa 10 miliardi di euro (637,6 miliardi di rubli). Va detto che i campi di lavoro russi hanno affrontato accuse riguardo il sotto-pagamento dei prigionieri, costretti a lavorare anche per tantissime ore durante una singola giornata. Nel 2013 una delle tre Pussy Riot, Nadeshda Tolokonnikova, era entrata in sciopero della fame per protesta contro le condizioni di lavoro nel suo campo di prigionia. Il sistema penitenziario russo dopo aver vagliato la proposta di Khinsthein riferirà i risultati alla Duma, il parlamento russo. Poi bisognerà vedere se su questa questione si esprimerà la Fifa, che ha già i suoi problemi con il Mondiale del Qatar. Perché fin qui, purtroppo, c'è stata un'altissima percentuale di morti tra i lavoratori migranti che sono deceduti mentre lavoravano per Qatar 2022. Il portavoce della Fifa, Delia Fischer, a proposito di questi brutti episodi si è lavata le mani dicendo: "Non abbiamo ricevuto alcuna informazione su questo argomento".