Vale sempre la pena di essere umani (e non buonisti) di Lucia Annibali Io Donna, 28 maggio 2015 Una giornata nel carcere di Padova, a tu per tu con i detenuti e le loro storie, offre uno spunto per riflettere sul doloroso ma indispensabile confronto tra vittime e autori di reato. Perché mai la vittima di un reato dovrebbe volersi confrontare con l'autore di un reato? Provo a spiegarlo. La scorsa settimana ho preso parte, come relatrice, alla giornata di studi organizzata dalla redazione della rivista Ristretti Orizzonti: si tratta di un gruppo di lavoro presente all'interno della Casa Circondariale di Padova, composto da volontari e detenuti (anche di alta sicurezza), impegnato nella ricerca e nella produzione di materiale informativo sul carcere. La redazione di Ristretti Orizzonti rappresenta un'importante realtà che, nel corso degli anni, ha contribuito al collegamento fra mondo esterno e comunità penitenziaria, promuovendo iniziative d'informazione e di sensibilizzazione sui problemi del carcere e del reinserimento dei detenuti. Questa giornata di studi viene proposta ormai da alcuni anni, ogni volta con un titolo diverso, e il suo intento è quello di riflettere sui temi della responsabilità e della consapevolezza, attraverso il confronto tra vittime e autori di reato. Si tratta di un progetto particolare e unico nel suo genere, perché apre le porte del carcere di Padova ad oltre 600 persone, e dà loro la possibilità di dialogare con circa 150 detenuti. Come avvocato non ero mai entrata in un carcere; come vittima, invece, era la seconda volta che mi capitava. La prima volta era stata a Parma, lo scorso dicembre, quando una cinquantina di detenuti a fine pena avevano chiesto di essere sensibilizzati sul tema della violenza contro le donne. Lo scopo del mio intervento, in entrambi i casi, era quello di raccontare il punto di vista della vittima del reato, comunicare il dolore che prova chi subisce un atto violento, descrivere quali sono le ripercussioni sulla sua vita, sulla sua famiglia, quali i segni che si porterà dentro per sempre, quanta fatica richieda risollevarsi da una violenza: provare a far mettere l'autore del reato, per un attimo, nei panni della vittima. E viceversa. Perché il momento più interessante e toccante dell'intera giornata, è stato ascoltare le storie dei detenuti: scoprire, attraverso i loro racconti, il motivo che aveva aperto per loro le porte del carcere, il momento in cui avevano scelto di essere persone violente, le cause che stavano alla base di quella scelta. La loro voce si spezzava mentre provavano a comunicare a tutti i presenti quanto fosse difficile la vita del carcere, quanto fosse grande il vuoto per il distacco dagli affetti familiari, soprattutto per chi un fine pena non ce l'ha. Erano le testimonianze di persone che avevano iniziato un difficile percorso di presa di coscienza delle proprie responsabilità. Mentre li ascoltavo, mi scoprivo a commuovermi; la loro rabbia, la tristezza, il dispiacere per se stessi e per il male che quella scelta di tanti anni fa aveva generato, anche nella vita di altri, mi arrivavano dritti al cuore. Mi sono chiesta come fosse possibile provare tutto ciò e se per caso non fossi affetta da una strana sindrome che mi rendeva, sul momento, sconsideratamente empatica! Di certo non si trattava di buonismo, perché chi si è scontrato con il male sa che il male esiste, che faccia ha, che rumore fa, sa perfino che sapore ha. Né tanto meno poteva essere sintomo di scarsa consapevolezza, perché è chiaro che per ogni persona rinchiusa in un carcere, ce n'è almeno una, fuori, che fa i conti con un dolore. Dopo averci riflettuto un po' su, la parola che mi è venuta in mente è stata UMANITÀ. E così mi sono chiesta: è possibile, ed è giusto provare ancora umanità, dopo che qualcuno ha scelto di arrecare un dolore alla tua vita? Chi soffre a causa d'altri, spesso prova rabbia, rancore, persino odio nei confronti del responsabile della sua sofferenza; è un suo diritto e, forte di questo, può arrivare a decidere che quei sentimenti saranno, da ora in poi, il filo conduttore della sua intera esistenza. Ma può anche succedere che decida di fare la scelta opposta e di trasmettere il proprio dolore senza rabbia né rancore. È in questo caso che ci si scopre ancora capaci di provare umanità. Essere "umani" significa, dunque, guardare oltre il male, staccarsi da esso, impedirgli di condizionare un'intera vita. Non necessariamente ha a che fare con il perdono, né vuol dire non sentire dolore: piuttosto riguarda la capacità e la volontà di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di bello. Provare umanità aiuta a sperare, e se è vero che sperare è già resistere al male, la nostra umanità può essere un modo attraverso cui chiedere, a chi è stato capace di fare del male, di non farlo più, di cambiare per diventare una persona migliore, per sé e per gli altri. È giusto allora provare umanità, se questo può servire a preservare altri da un dolore e aiutare chi soffre, a farlo in modo costruttivo. Essere "umani", dunque, per chiedere, in cambio, un po' di umanità. Ecco perché la vittima può decidere di confrontarsi con gli autori di reato. (Dedicato a Ornella e ai detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti). Giustizia e politica, il corto circuito delle sentenze di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 28 maggio 2015 Dovunque la democrazia si fonda su un saggio sistema di contrappesi. Il potere politico non può fare il suo comodo, e deve essere sempre sottoposto all'esame di istanze giuridiche che ne impediscano eventuali condotte arbitrarie. I contrappesi non funzionano più bene se però la bilancia pende troppo da una parte. Se non si ha bilanciamento, ma supremazia del giuridico sul politico, la democrazia perde vigore e credibilità. Se un intero progetto di politica economica di un governo viene smantellato da una sentenza della Corte costituzionale, la sentenza va applicata e non elusa, però il rischio è che l'autonomia dei governi, già fortemente indebolita dal trasferimento di consistenti quote di potere a entità sovranazionali, ne esca fortemente minata e compromessa. Se qualche istanza extrapolitica dovesse avere l'ultima parola sulle sorti di un rappresentante nelle istituzioni eletto democraticamente, l'idea stessa della sovranità popolare ne uscirebbe malconcia. La Cassazione ha appena stabilito che sarà il giudice ordinario e non il Tar a decidere se il candidato De Luca, in caso di vittoria elettorale, dovrà decadere o no dalla carica di governatore della Campania. Dovendo affrontare le conseguenze della stessa legge, la Severino, tanto De Luca (da sindaco di Salerno) quanto de Magistris (sindaco di Napoli) sono stati sottoposti al giudizio del Tar. La certezza del diritto subisce duri colpi se le decisioni appaiono così casuali, difformi, variegate. E l'attesa di una sentenza diventa quasi un confidare nella vincita al Lotto. Un giorno potrebbe essere il Tar, un altro il tribunale. Quante altre possibilità riserva la sorte? Il bilanciamento dei poteri è sacrosanto. Ma se tutto, come tende ad accadere in Italia, è sottoposto a quella dinamica particolare che viene chiamata con termine complicato "giuridicizzazione della politica", allora nascono molti problemi. La Corte costituzionale sta decidendo che non si aprirà un nuovo buco nelle finanze pubbliche sul caso Equitalia. Ma si aspettano le sue decisioni sul blocco degli stipendi del pubblico impiego. La politica economica perde la sua autonomia, appunto. I ricorsi infiniti al Tar bloccano le opere pubbliche, e non c'è quasi mai un momento in cui si possa chiudere definitivamente una controversia. Senza considerare che se si è cittadini di diverse regioni si hanno trattamenti diversi sulle stesse questioni. Le istanze di valutazione si moltiplicano. Ma le leggi stesse vengono smontate pezzo a pezzo da sentenze di singoli giudici che ne danno un'interpretazione così "soggettiva" da svuotare di significato la stessa legge. Si può pensare tutto il male possibile sulla legge che regolamenta la fecondazione assistita, ma che frammento dopo frammento venga smembrata da una miriade di sentenze che ne cancellano ora un articolo, ora un comma, ora una singola parola infligge un colpo alla sovranità del potere legislativo. Se si vuole cambiare una legge, la si cambi, ma non affidandola alle cure demolitorie dei giudici. Così come sulla legge elettorale. Prima dell'approvazione dell'Italicum si diceva che il sistema elettorale in vigore dovesse chiamarsi Consultellum, dalla Consulta. È possibile che la Corte costituzionale possa addirittura indicare con quale legge elettorale votare. Non paga di questa "giuridicizzazione" estrema cui viene sottoposta, la politica poi si inventa ulteriori tribunali per incrementare a dismisura polemiche e contenziosi. L'ultima, la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi che allo scadere della campagna elettorale dovrà stabilire quali candidati nelle elezioni regionali siano "presentabili" oppure no. Ovviamente i presunti "non presentabili" ricorreranno, si opporranno, metteranno in discussione la legittimità di un esito elettorale falsato. Chi deciderà alla fine? E se si decide fuori tempo massimo, come quando una sentenza decise di cancellare il Consiglio regionale piemontese al termine della legislatura, che senso ha una cancellazione così tardiva? Il bilanciamento dei poteri deve saper raggiungere un equilibrio, non introdurre confusione, sovrapposizioni, controversie infinite. La proliferazione del "giudiziario" rende incerto e perennemente revocabile il diritto. Con il rischio che la bilancia possa spezzarsi. Giustizia: pm Roberti smonta Renzi "sbagliato alzare le pene per allungare la prescrizione" di Errico Novi Il Garantista, 28 maggio 2015 A suo modo è una bacchettata. Se non fosse che per Franco Roberti, come per la maggior parte dei magistrati, sarebbe meglio se i processi non avessero scadenza. Ma certo il procuratore nazionale antimafia non renderà felice il premier, con la sua critica alla legge anticorruzione appena approvata. A Palazzo Chigi infatti hanno deciso di farne uno spot per le Regionali. Con il seguente slogan: adesso i processi ai corrotti non finiranno più in prescrizione. Citazione di un aspetto controverso della legge, ovvero l'allungamento dei termini di estinzione di alcuni reati, determinata dal previsto innalzamento delle pene. Come avrebbe potuto immaginare, il povero Matteo, che proprio questo risvolto sarebbe stato bocciato da una delle più importanti toghe del Paese? Roberti fa un discorso semplice: "Sull'allungamento dei tempi di prescrizione per la corruzione sono rispettosamente molto, molto critico: con il principio di innalzare le pene per allungare la prescrizione si finisce solo per prolungare i termini di definizione dei processi. E questo non va bene". Ora, è pur vero che l'effetto collaterale dal punto di vista del procuratore antimafia è disdicevole in un'ottica del tutto diversa rispetto a quella degli avvocati, per esempio: secondo lui infatti "la prescrizione dovrebbe bloccarsi quando viene chiesto il rinvio a giudizio, come del resto avviene in Francia e in altri Paesi. Perché è proprio in quel momento che si accerta l'interesse dello Stato a punire il reato, mentre in Italia continua a decorrere fino alla Cassazione, alla quale spesso si fa ricorso proprio per arrivare alla prescrizione". Discorso che attenua il diritto dell'imputato innocente ad avere giustizia, questione evidentemente trascurabile. Quello che conta però è che per Roberti le nuove smisurate pene per i reti contro la pubblica amministrazione non vanno bene. Non vi riconosce alcun vantaggio. Certo, dopo il colpo che il governo ha comunque messo a segno con questa nuova riforma, le politiche in materia di giustizia potrebbero cambiare. Nella sua agenda il ministro Andrea Orlando ha ancora da sistemare il Csm, le intercettazioni e altri aspetti della riforma penale. Ma più che a sfiancarsi sui questi fronti, tutti piuttosto impervi, il guardasigilli pare intenzionato a concentrarsi soprattutto sull'efficienza del sistema. Uno snodo decisivo, in fondi, anche dal punto di vista delle garanzie. L'obiettivo si raggiunge attraverso due strade: una è la riduzione dell'arretrato sia civile che penale, e proprio ieri Orlando ha presentato alcuni dati sull'effetto della riforma civile "incoraggianti, pur senza fare trionfalismi". L'altra vera questione, comunque intrecciata con la prima, ha come oggetto direttamente i soldi. Due giorni fa via Arenula ha messo in allarme i presidenti di Corte d'Appello di tutta Italia, con la decisione di accentrare al ministero le spese dei Tribunali, oggi gestite nei singoli comuni. D'altronde non sarebbe altrimenti possibile scongiurare fatti gravissimi per la sicurezza nei palazzi di giustizia. Episodi come quello verificatosi ieri nel Tribunale di Lodi, dove una donna partita da Napoli apposta ha sguainato un coltello da 32 centimetri, pronta a usarlo contro un pm donna, ed è stata fermata all'ultimo da un'altra signora. La quale è riuscita a fermarla ma ha riportato ferite, seppur non gravi. Tutto è stato possibile grazie al metal detector fuori uso. Nessuno lo ripara perché il Comune dice che lo farà solo una volta ricevuti da via Arenula alcuni trasferimenti pregressi. Il tutto per la gioia di chi, nel Tribunale, ci lavora ogni giorno. Giustizia: chiusi gli Opg, riaprono i manicomi! di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 maggio 2015 Chiudono gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma come alternativa vengono riaperti i manicomi civili definitivamente chiusi grazie alla legge Basaglia? Sembrerebbe di sì perché, nonostante che gli Opg ufficialmente siano stati chiusi per mandare gli ex detenuti psichiatrici in mini strutture alternative denominate Rems, vengono riaperte delle strutture tutt'altro che piccole. È accaduto in Lombardia dove, come alternativa, è stato riaperto l'ex ospedale di Castiglione trasformandolo di fatto in un manicomio civile. La legge che prometteva la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari è entrata definitivamente in vigore lo scorso 31 marzo. Da allora si sarebbe dovuto procedere alla dismissione progressiva dei vecchi ospedali psichiatrici i cui pazienti potevano andare incontro a due sorti diverse: se dimissibili, essere rilasciati e affidati alle cure dei servizi territoriali delle Asl e dei dipartimenti di salute mentale; se non dimissibili, perché pericolosi per sé e per gli altri, essere dati in carico alle Rems (Residenze per l'Esecuzione della Misura di Sicurezza Sanitaria), strutture di cura di dimensioni ridotte: non più di 20 ricoverati alla volta. Cosa è accaduto, invece, in Lombardia? In pratica ha dovuto prendere a carico i detenuti degli ex opg delle regioni Piemonte e Liguria per trasferirli, tutti, all'ex ospedale giudiziario di Castiglione dello Stiviere. Invece di ospitarne 20 (come prevedeva la legge), l'ospedale ora ospita 160 pazienti e nonostante che, per dimensioni e struttura, non è una Rems, esso viene considerato come tale. In merito a questo, Stefano Cecconi di Stop Opg, tuona: "Il paradosso, di cui non si sentiva il bisogno, è che chiudendo gli Opg si si è preso l'ospedale di Castiglione e lo si è ritrasformato in un ospedale psichiatrico civile, di quelli vecchia maniera chiusi con la Basaglia e di cui, francamente, non si sentiva la mancanza". Il presidente di Stop Opg denuncia anche un altro problema che si sta verificando. Ovvero la mancata attuazione della parte più innovativa delle legge: quella che privilegia le misure non detentive e i progetti di cura alternativi. E quindi siamo ancora alla mancata attuazione della legge 81, anche perché i dati del ministero della salute parlano chiaro: per 700 pazienti psichiatrici, i posti a disposizione nelle Rems sono 404 mentre altri 70 sono in via di arrivo e completamento. Per un totale complessivo che non raggiunge 500 posti. Ma come è composta la popolazione degli opg che è in via di trasferimento? È composto per lo più da giovani, disagiati e completamente abbandonati. Inoltre, risulta, che sono le donne a rischio di carcerazione più lungo. Tutto ciò è emerso grazie ad un progetto promosso e finanziato dal centro per la prevenzione e il controllo delle malattie del Ministero della salute e coordinato dall'istituto superiore della sanità, i cui risultati sono stati recentemente diffusi durante un convegno che si è tenuto a Roma e che rappresenta come la più ampia testimonianza disponibile su questa popolazione negli ultimi dieci anni nel panorama nazionale. L'indagine è stata realizzata su un campione rappresentativo di 473 ricoverati (alla data di avvio delle valutazioni - 1 giugno 2013 - nei sei Opg italiani erano presenti 1.015 pazienti, 835 dei quali ricoverati nelle cinque strutture coinvolte nel progetto). Il campione è costituito per circa il 90% da uomini. L'età media è pari a 42,5 anni. Il 73% circa dei pazienti partecipanti non è sposato e non ha figli e il 50% viveva con la famiglia d'origine prima del ricovero in Opg. Le donne più spesso degli uomini riescono a formare una famiglia e oltre il 50% delle pazienti ha figli. Emerge una condizione di svantaggio sociale: basso livello di istruzione unito a condizioni lavorative ed economiche precarie. Oltre il 30% dei pazienti ha una malattia fisica grave, il 24% circa è obeso e l'80% è fumatore. Il 7,6% ha una disabilità da moderata a grave dovuta a patologie del sistema nervoso centrale. Rispetto ai pazienti affetti da disturbi mentali gravi in cura presso i Centri di Salute mentale la popolazione dei ricoverati in OPG presenta condizioni di maggiore marginalità e una più elevata comorbilità (l'insieme di più patologie) con malattie fisiche. Oltre il 50% dei partecipanti ha una diagnosi di schizofrenia o altro disturbo psicotico. I disturbi di personalità rappresentano circa il 20% delle diagnosi, in aumento rispetto a quanto osservato in precedenti indagini. L'eventualità che il reato commesso sia la prima manifestazione di un disturbo psichiatrico è poco frequente: la durata media di malattia dei ricoverati è superiore ai 18 anni, ben il 75% dei pazienti aveva effettuato precedenti trattamenti per un disturbo mentale nel passato e oltre il 60% aveva avuto contatti, spesso problematici (il 30% del campione ha effettuato almeno un ricovero in regime di Tso), con i Dipartimenti di salute mentale. Suscita preoccupazione il dato relativo all'intensità dei trattamenti riabilitativi disponibili nel contesto dell'Opg (pur con differenze significative fra le diverse strutture): il 17% dei pazienti non ha effettuato neppure un'ora di riabilitazione nell'ultimo mese e solo il 15% circa è stato coinvolto in un'attività riabilitativa per almeno 8 ore settimanali. La maggior parte dei pazienti è in contatto con i propri familiari, ma più del 45% dei ricoverati non ha ricevuto neppure una visita nell'ultimo mese. Più di un terzo dei partecipanti ha commesso reati gravi contro la persona. La durata media del ricovero in Opg è risultata pari a 2,9 anni. Il sesso femminile, il reato di omicidio o tentato omicidio, la diagnosi di schizofrenia e la durata di malattia precedente al ricovero in Opg sono le variabili associate a una durata di internamento superiore ai 5 anni, che interessa l'11,7% dei partecipanti. Giustizia: disabili detenuti, una tragedia nella tragedia giornalettismo.com, 28 maggio 2015 Disabili detenuti, quella dei reclusi portatori di handicap è una tragedia nella tragedia, denunciano le associazioni che tutti i giorni con loro si trovano ad operare: barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, mancanza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica ad usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri. Se in Italia, come è noto, è la situazione delle carceri una delle principali urgenze sui diritti civili, i reclusi con disabilità se la passano davvero male. Repubblica nella cronaca di Roma riporta gli studi della cooperativa Pid, Pronto Intervento Disagio, che gestisce il reparto Terra b del reparto G11 di Rebibbia nuovo complesso, definita "a ridotte barriere architettoniche", dove ci sono circa 40 disabili ospitati. Si tratta, nella maggior parte, di italiani con un'età compresa tra i 40 e i 60 anni assistiti dai piantoni, ossia altri detenuti che, invece, sono quasi tutti stranieri. Oltre l'80% dei disabili non ha seguito corsi di formazione professionale, il 95% non lavora e il 97,5% non usufruisce di alcuna misura alternativa alla detenzione. E questo accade perché non hanno familiari in grado di ospitarli e non ci sono strutture sul territorio adeguate alle loro esigenze sanitarie e ai tempi della pena. Non solo, dice il Pid: "Ci sono a Rebibbia altri 10 detenuti che sono perfettamente in regola" per lasciare la struttura, ma gli viene negata questa possibilità per intoppi burocratici. La divisione disabilità dell'Inail riporta dei numeri preoccupanti aggiornati all'anno 2013: in Italia nei carceri ci sono solo "131 posti per i disabili, 130 per i minorati fisici, 217 per malati di Hiv e 46 per affetti da Tbc". La situazione per i disabili fisici in cella è terribile, e i numeri dimostrano che circostanze del genere stanno aumentando per numero e per peso in tutto il paese. Si calcola quindi che solo una parte dei detenuti con disabilità o malattie importanti risiedano nelle sezioni apposite delle carceri: nell'episodio del detenuto in carrozzina che ha salvato il compagno di cella, riportato dal garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, è evidente che il disabile risieda in una cella standard, e non in una sezione apposita. Le celle, per i disabili, sono una trappola infernale, dato che le carceri, per la loro stessa natura, traboccano di barriere architettoniche, e spesso i disabili sopravvivono in qualche modo grazie alla solidarietà dei compagni di cella. Sul punto interviene la parlamentare del Partito Democratico Ileana Argentin, per propria storia personale storicamente molto attenta ai problemi e ai temi della disabilità: "Non possiamo dimenticare gli ultimi fra gli ultimi, e neanche che il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero: ma se non vengono garantiti gli atti più elementari della vita quotidiana a questo punto che senso ha tenerli lì?", dice la Argentin. Giustizia: dai panettoni ai call center, se i lavoratori detenuti fanno risparmiare lo Stato di Marco Fattorini linkiesta.it, 28 maggio 2015 Dall'esempio di Padova al resto d'Italia, tra fondi e burocrazia lavora solo il 4% della popolazione carceraria. Ma l'occupazione abbatte la recidiva. Producono le biciclette per Esperia, assemblano le valigie per Roncato, rispondono al telefono per la Asl e i provider dell'energia, gestiscono una pasticceria che vende panettoni in tutta Italia. Sono i detenuti-lavoratori del carcere Due Palazzi di Padova. Loro, come altri fortunati nei penitenziari del Belpaese, vengono formati, lavorano per le aziende, intascano uno stipendio e imparano un mestiere utile per quando usciranno. I detenuti ottengono una seconda possibilità, lo Stato risparmia soldi pubblici e la percentuale di recidiva si abbassa nettamente. La rieducazione, appunto. Peccato che a fine 2014 sul totale dei 53.623 detenuti nelle prigioni italiane fossero solo 2324 quelli impiegati presso aziende e cooperative. Il 4,3% della popolazione carceraria. Eppure le esperienze dicono che il lavoro funziona, anzi salva. A Torino il catering, a Siracusa i dolci tipici. Prodotti artigianali, servizi d'eccellenza, ma soprattutto rinascite umane. A Roma è stato presentato il rapporto "Lavoro e perdono dietro le sbarre" del Centro Studi enti ecclesiastici e no-profit dell'Università Cattolica. Il case history è quello della cooperativa sociale Giotto che al Due Palazzi di Padova conta 140 detenuti-lavoratori. Qui ha portato un laboratorio per l'assemblaggio delle valigie e un'officina per la produzione di biciclette, un ufficio di business key e digitalizzazione oltre al servizio di call center. Il fiore all'occhiello però è la pasticceria che sforna 84mila panettoni e 15mila colombe all'anno, biscotti e dolciumi che escono dal carcere per rifornire bar e ristoranti. I "dolci di Giotto" arrivano in 165 negozi in Italia, si comprano pure online. Hanno vinto i premi del Gambero Rosso e vantano clienti affezionati come Ratzinger e Bergoglio. Nella filiera del Due Palazzi i procedimenti sono certosini. Dal tirocinio formativo ai corsi d'aggiornamento. Un distretto produttivo dentro la galera, con macchinari e laboratori. Ci sono psicologi, supervisori, tecnici, maestri pasticceri. Si presenta gente che non sa leggere o che non ha mai usato un pc. Condannati a 20 o 30 anni, diversi ergastolani. Ma una volta indossata la divisa non si sgarra, servono produttività e rendimento, i committenti sono grandi aziende. D'altronde, ripetono dalla Cooperativa Giotto, "siamo un'impresa sociale ma il nostro non è assistenzialismo". I prodotti "devono essere competitivi sul mercato, il lavoro svolto dietro le sbarre dev'essere di qualità pari o migliore di quello della concorrenza". La settimana lavorativa di ogni detenuto va dalle 24 alle 36 ore. I risultati si vedono, non solo dai riconoscimenti del mondo esterno. Ma anche dalle parole dei protagonisti, raccolte in forma anonima sul paper della Cattolica. Uno di loro ha 34 anni, dieci di condanna e un posto al call center. "Esco dalla cella alle 8.30 e fino alle 18.30 non sono un detenuto ma un dipendente della cooperativa, interagisco con loro come un dipendente. Quelli che mi hanno incontrato hanno visto che c'è una persona dietro il reato. Invece quando sei in carcere non sei più una persona ma un numero di identificazione e ti trattano di conseguenza, ti senti un oggetto". Un collega giamaicano, con 12 anni di condanna e un impiego in cucina, racconta: "Prima che iniziassi a lavorare stavo rinchiuso in cella tutto il giorno e uscivo solo 4 ore. Essere in cella ti logora. Quando lavori la tua mente è libera, libera persino in carcere! Non pensi alle pareti e, se ci pensi bene, ci sono molte persone fuori che sono più in carcere di noi. Inizio a lavorare presto la mattina e finisco la sera, faccio una doccia, gioco a carte con i miei amici, ceno, leggo un libro e il giorno finisce. Non pensi al carcere, pensi alla vita che va avanti". Ma la libertà del lavoro passa anche dallo stipendio. "Ho riavuto la mia dignità anche in senso economico, avevo altre persone che mi sostenevano" racconta un altro detenuto italiano, 44 anni e 15 di condanna. "Adesso è bello poter inviare a casa 500 o 600 o 1.000 euro al mese. Anche se non li vogliono. Ho riavuto la mia dignità e ho assunto un avvocato così non devo chiedere a casa per questo, me lo pago da solo". Gli fa eco un altro: "All'inizio era umiliante dover chiedere o anche solo ricevere denaro dalla mia famiglia, poi ho avuto l'orgoglio di poter contribuire al budget familiare e risparmio un po' perché quando uscirò non voglio chiedere nulla a nessuno. Devo anche riconoscere che la mia famiglia, i miei nipoti, mia sorella e i miei parenti sono rimasti con me per sedici anni e non posso dire loro che ora esco e incasino di nuovo tutta la mia vita, loro mi direbbero "Ma perché mai ti siamo rimasti vicini?". A volte la realtà si scontra con la burocrazia e i fondi a disposizione. Gli strumenti per il lavoro ci sarebbero, gli ostacoli pure. "Per difficoltà organizzative e burocratiche le imprese faticano moltissimo a entrare in carcere", sottolineava l'Osservatorio Antigone. La cornice normativa è quella della legge Smuraglia (193/2000) che prevede agevolazioni fiscali per le aziende e le cooperative sociali che assumono i detenuti. Per il 2015 la richiesta di agevolazioni al governo è stata di poco superiore ai 9 milioni di euro ma la cifra disponibile per finanziarie il credito d'imposta era di 5,9 milioni. Quindi tagli lineari e meno risorse per tutti. Intanto le aziende arrancano in mezzo alla burocrazia. I pagamenti, raccontano, arrivano dopo mesi, spesso senza la possibilità di fare una programmazione economica adeguata. "Già oggi è difficile lavorare fuori dal carcere, figuriamoci dentro", è la battuta che gira tra gli addetti del settore. Oltre alla rieducazione, i benefici del lavoro in galera ci sono anche per le casse pubbliche. Il presidente della cooperativa Giotto Nicola Boscoletto stimava che "per ogni milione di euro investito nella rieducazione se ne risparmiano nove, il tasso di recidiva passa dal 70-90% all'1-2%, senza contare che tra costi diretti e indiretti lo Stato sborsa 250 euro al giorno per ciascun detenuto. Per ogni persona recuperata si risparmierebbero 100mila euro annui". Praticamente un affare. "Tutti dicono che noi di Giotto siamo bravi, ma questo ci fa soffrire, essere un'eccellenza non serve a nulla se il lavoro si attua in 10 carceri su 200". I numeri sono impietosi: in Italia solo 2.324 detenuti lavorano per aziende esterne, mentre sono 12.226 quelli alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria. Alla cooperativa Giotto sono categorici nel distinguere il lavoro dei carcerati presso aziende e coop dal cosiddetto "lavoro domestico". Quello alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria prevede mansioni come lo spazzino, lo spesino, il cuciniere, il lavapiatti. "Spesso è un sussidio diseducativo con una paga appena più che simbolica senza formazione, accompagnamento e spesso senza valutazione". Lavori che non danno una professionalità spendibile una volta che la persona esce di prigione. Il presente delle carceri italiane è un mosaico indecifrabile. Tamponato il problema del sovraffollamento, restano sul tavolo il tema della rieducazione, le condizioni di vita nelle galere e il tasso di recidiva, tra i più alti in Europa. Il capo del Dap Santi Consolo assicura che il tema del lavoro "è uno dei punti della legge delega della riforma penitenziaria", definita "urgente e indispensabile". Ma gli ostacoli sembrano ciclici, quasi puntuali. E un ex ministro della Giustizia come Paola Severino ne individua alcuni: "In primis c'è quella contrapposizione sociale per cui chi non trova lavoro e vede un detenuto lavorare si arrabbia". Non solo. "Il discorso carcere non è nei primi pensieri di chi siede in Parlamento, ogni anno bisogna fare una battaglia per strappare qualche milione da destinare alla Legge Smuraglia". Giustizia: meno di 10 richieste di risarcimento con la nuova responsabilità dei magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Nessun allarmismo. Anche dopo i primi due mesi e rotti di applicazione la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati sembra avere auto un impatto sinora circoscritto. Le azioni di rivalsa presentate nei confronti dello Stato per chiedere un risarcimento fondato sulla condotta di giudici e Pm sono meno di 10. A dare la notizia, tanto più significativa perché era stato lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando a dare la propria disponibilità a fare un tagliando della riforma dopo averne misurato i primi effetti, è stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini in un convegno svoltosi ieri in Cassazione. "Vorrei manifestare un prudente ottimismo - ha sottolineato Legnini - perché ho avuto modo di accertare che il numero dei procedimenti contro lo Stato, promossi finora, a due mesi e mezzo dall'entrata in vigore della legge sulla responsabilità dei giudici, è limitatissimo ed è al di sotto delle 10 unità. Questo numero così limitato - ha proseguito Legnini - è sintomatico di un atteggiamento di approccio prudente alla legge 18 del 2015 sia nelle parti private sia nell'avvocatura". Legnini ha poi ricordato che alla Corte costituzionale "già pendono due questioni sollevate dai giudici di merito a proposito di questa normativa e siamo in attesa di risposte importanti". I rinvii, del resto, affrontano, sollevando svariate perplessità sulla tenuta costituzionale delle norme, pressoché tutto l'impianto della legge, dalla rimozione del filtro di ammissibilità al nuovo profilo di responsabilità per travisamento di fatti e prove. Il vicepresidente del Csm ha in conclusione ricordato che lo stesso Csm "vuole monitorare l'evoluzione processuale applicativa di questa nuova disciplina, non solo in termini quantitativi". Per il primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacorce, "Il governo ha usato la scusa dell'Europa per fare modifiche che nessuno gli imponeva alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. È stata una scelta tutta politica e, quel che è peggio, tutta italiana: la riforma suona come un avvertimento se non come una minaccia". "Il cittadino viene colpito nel suo diritto ad avere tutela, perché, per effetto della nuova legge, i giudici acquisiranno sempre più una mentalità impiegatizia - ha sostenuto Santacroce - e troveranno le soluzioni più accomodanti quando nelle cause ci saranno in gioco forti interessi economici o personaggi potenti. Anche il giudice "ha famiglia" e, dunque, farà la scelta più cauta, nel decidere i processi, e meno coraggiosa, che meglio lo metta al riparo in caso di rivalsa". Comunque, Santacroce si è detto certo che "i giudici sapranno dare alla legge la giusta interpretazione, comunque dagli abusi ci si può proteggere con i ricorsi per lite temeraria". Giustizia: "Responsabilità civile? Una minaccia". Santacroce accusa. Il governo: sbaglia di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 maggio 2015 Il vertice della Cassazione: la Ue è una scusa. Il viceministro Costa: no, rischiavamo sanzioni. La riforma della responsabilità civile dei magistrati? Una scelta che "suona come un avvertimento se non come una minaccia". Farà sì che il giudice "che tiene famiglia adotterà le soluzioni più caute e meno coraggiose". È dura la denuncia del primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce. Ad un seminario sulla norma boccia senza mezzi termini la scelta "tutta politica e soprattutto tutta italiana". "Il governo - dice il primo presidente della Cassazione - ha usato la scusa dell'Europa per fare modifiche che nessuno gli aveva chiesto". "Sì che l'Europa ce lo chiedeva. Ci aveva messo in mora e ciò avrebbe determinato una sanzione da decine di milioni di euro", replica a distanza il viceministro della Giustizia, Enrico Costa. E il sottosegretario Cosimo Ferri aggiunge: "In realtà l'Europa ha chiesto all'Italia di includere i casi di violazione manifesta della legge tra le ipotesi in cui lo Stato deve rispondere per l'operato del Giudice. Quanto poi alla responsabilità del giudice, il legislatore su richiesta del governo ha mantenuto a tutela del magistrato la garanzia di incorrere in responsabilità solo nei casi di negligenza inescusabile. La stessa Cassazione ha confermato l'importanza di questa garanzia in difesa dell'autonomia e indipendenza della Magistratura ed ha escluso la possibilità di ricusare il giudice, che ti sta giudicando. L'unica criticità rimane la soppressione del filtro su cui il Governo sta monitorando eventuali effetti distorsivi della disciplina". Nell'aula magna della Cassazione, però, Santacroce lancia l'allarme: "Si colpisce il cittadino sul piano della sua tutela, incentivando nel giudice una mentalità impiegatizia, che lo induce a decisioni meno rischiose, soprattutto se in gioco ci sono grossi personaggi o grandi interessi". E invita a "guardarsi dalle semplificazioni, come "chi sbaglia paga": è giusto punire i magistrati che sbagliano ma è meglio farlo sul piano degli avanzamenti di carriera o sul piano disciplinare". Con l'auspicio che "le rassicurazioni del ministro Orlando e del capo dello Stato Mattarella possano rasserenare il clima" Santacroce si dice "certo che i giudici ne daranno la giusta interpretazione". Per ora, conclude, "si può solo vedere come la legge funziona, ed eventualmente correggerla". Già, come va? Per ora il numero dei procedimenti contro lo Stato, promossi da cittadini scontenti, a due mesi e mezzo dall'entrata in vigore della legge è "limitatissimo, meno di 10" ha accertato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Per questo, si sente di esprimere "prudente ottimismo". Ma assicura che il Csm monitorerà "l'evoluzione applicativa di questa disciplina", non solo dal punto di vista quantitativo. Ricordando che alla Corte Costituzionale "già pendono due questioni sollevate dai giudici di merito", Legnini però evidenzia come "il legislatore spesso riversa sulla giurisdizione il compito di risolvere temi che non ha affrontato o non vuole affrontare" e per questo cresce "il rischio di esposizione dei giudici all'azione risarcitoria proprio su argomenti sui quali il legislatore non è ancora intervenuto". E questo "determina un sovraccarico della giurisdizione e un crescente disallineamento tra norma e fatto". Giustizia: legge Severino, alla Consulta anche il ricorso di un giudice ordinario di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Non solo Tar. C'è anche un giudice ordinario che si è già rivolto alla Corte costituzionale sostenendo, come il Tar Campania, l'illegittimità del decreto Severino là dove sancisce, con effetto retroattivo, la sospensione dalla carica di amministratori locali condannati in via non definitiva. A gennaio 2014, infatti, la Corte d'appello civile di Bari ha investito della questione la Consulta che, nel frattempo, le ha rinviato l'ordinanza per integrare le notifiche alle parti e ora attende che ritorni. Se questa formalità verrà espletata nei prossimi giorni (l'ordinanza dev'essere pubblicata entro il 15 luglio), il provvedimento dei giudici baresi sarà probabilmente riunito a quello del Tar Campania e discusso all'udienza del 20 ottobre. Sul tavolo, quindi, ci saranno entrambe le giurisdizioni - ordinaria e amministrativa - e se l'ordinanza del Tar fosse dichiarata inammissibile perché emanata da un giudice che, dopo la decisione di martedì delle sezioni unite della Cassazione, non ha più voce in capitolo, la Corte dovrebbe comunque fare i conti con quella dei giudici baresi. I giochi, quindi, sono ancora aperti. Così come lo sono, nonostante la decisione delle sezioni unite (che forse sarà depositata già domani), rispetto ai casi De Luca e De Magistris. Il provvedimento della Corte d'appello di Bari smentisce infatti chi, in queste ore, si è affrettato a sostenere che la decisione delle sezioni unite renderà più difficile la vita degli amministratori locali condannati che, come De Magistris e De Luca, hanno ottenuto dal Tar lo stop della sospensione dalla carica di sindaco, perché il giudice ordinario sarebbe "più severo" di quello amministrativo. Il caso-Bari dimostra che non è vero poiché, al di là del rinvio alla Consulta del decreto Severino, i giudici hanno comunque sospeso in via cautelare l'efficacia del decreto di sospensione dalla carica di un consigliere della regione Puglia condannato in via non definitiva a 1 anno e 8 mesi per falso e abuso d'ufficio. Quanto alla legittimità costituzionale del decreto Severino, la Corte di Bari denuncia tre aspetti. Anzitutto sottolinea il "carattere afflittivo" della sospensione dalla carica (a prescindere dalla sua natura amministrativa o penale) derivante dalla condanna, ancorché non definitiva, per un reato "consumato in data antecedente" all'entrata in vigore del decreto Severino, il che sarebbe in contrasto con gli articoli 25 e 117 della Costituzione. Questa modalità di tutela dell'onorabilità dei pubblici amministratori, secondo la Corte, "collide con i diritti costituzionali di accesso alle cariche elettive e di esercizio delle funzioni connesse alla carica", diritti garantiti dall'articolo 51 della Costituzione. In secondo luogo, il decreto Severino, facendo scattare la sospensione a seguito di condanna non definitiva, sarebbe andato oltre il limite stabilito dalla legge delega (che fa riferimento solo a condanne definitive). Infine, viene denunciata una disparità di trattamento tra gli eletti ai consigli regionali e i parlamentari nazionali ed europei: per questi ultimi la condanna per abuso d'ufficio fa scattare l'incandidabilità solo se la pena è superiore a 2 anni; per gli altri, invece, non c'è alcun tetto e "non si comprende quale sia la ratio" di questa disparità di trattamento. Se la Corte di Bari impugna l'articolo 8 del decreto 235/2012, il Tar della Campania censura invece l'articolo 11 del medesimo decreto sostenendo sempre la natura sanzionatoria della sospensione e dunque la sua irretroattività. Tuttavia, non è detto che la Consulta entri nel merito delle questioni sollevate dal Tar poiché potrebbe dichiararle inammissibili in quanto il Tar, dopo la pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, non è più competente in materia. L'inammissibilità, però, non è automatica perché la giurisdizione ordinaria, nel caso del decreto Severino, non era affatto scontata e dunque il Tar ben poteva ritenersi competente (così come peraltro ha fatto anche il giudice ordinario di Brindisi e poi di Bari). La non punibilità per particolare tenuità del fatto con favor rei di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Le eccezioni che limitano la non punibilità per particolare tenuità del fatto vanno interpretate restrittivamente in nome del principio del favor rei. Il tribunale di Milano sottolinea l'importanza di applicare l'articolo 131-bis del codice penale, disciplinato dal decreto legislativo 28/2015, tenendo presente un duplice obiettivo: non ridurre il raggio d'azione di una norma a vantaggio dell'imputato e sfoltire i processi. Tre le ipotesi di reato analizzate: maltrattamento di animali, tentato furto e sostituzione di persona finalizzata alla truffa (sentenze 3937, 3936 e 4195: tutte concluse con l'applicazione dell'articolo 131-bis). I casi esaminati forniscono l'occasione al giudice monocratico Marco Tremolada, per interpretare alcuni punti non di immediata comprensione della norma. L'esame parte dai presupposti per l'applicazione: la particolare tenuità dell'offesa, da misurare in base alla modalità della condotta e all'esiguità del danno o del pericolo e la non abitualità del comportamento. Il primo dubbio riguarda la necessità per il giudice di far pesare nella valutazione della particolare tenuità gli elementi di carattere soggettivo come l'intensità del dolo e il grado della colpa. Il Tribunale sottolinea che, a questo proposito, la relazione a tratti ambigua, non è di grande aiuto nel risolvere il problema. Da un lato specifica, infatti, che il legislatore non menziona, tra gli indici di valutazione, grado e intensità della colpevolezza, il che sarebbe indizio della volontà di sganciare il giudizio dalla necessità di fare "scivolosi" accertamenti di carattere "psicologico-soggettivistico", dall'altro però nella stessa relazione si sottolinea che il criterio della modalità della condotta richiama considerazioni che riguardano l'elemento soggettivo. Ad avviso del giudice milanese è corretto includere nella valutazione intensità del dolo e grado di colpa per una serie di ragioni: perché la norma nel fare riferimento ai criteri dettati (articolo 133 comma 1 del Cp) non esclude espressamente quello attinente a intensità del dolo e grado di colpa e perché il riferimento alla "modalità della condotta" non comporta solo considerazioni di carattere oggettivo. Anche per quanto riguarda il secondo presupposto della non abitualità del comportamento il Dlgs non specifica il significato del concetto, ma si limita a definirlo in negativo, indicando le ipotesi nelle quali è obbligatorio parlare di abitualità: se l'autore è stato dichiarato delinquente abituale, se ha commesso più reati della stessa indole (anche se ciascun fatto isolatamente considerato sia di particolare tenuità) se i reati hanno a oggetto condotte plurime, abituali o reiterate. Tre eccezioni limitanti che, secondo il Tribunale, devono essere interpretatate restrittivamente "in ossequio al principio di stretta interpretazione delle norme che costituiscono eccezione, nonché in ragione del principio del favor rei, dato che ci si trova a limitare un istituto favorevole all'imputato". Coerente con questa impostazione, il giudice esclude che la commissione di più reati della stessa indole, ma uniti dal vincolo della continuazione, possa rientrare tout court nell'ipotesi di più reati della stessa indole per i quali sarebbe preclusa la valutazione della particolare tenuità; la continuazione va inquadrata, piuttosto, tra le condotte plurime abituali e reiterate che consente l'accesso all'applicazione dell'articolo 131-bis. Per spiegare la differenza di comportamento tra reati della stessa indole continuati o commessi in contesti spazio-temporali lontani il giudice ricorre ad un esempio, sottolineando la differenza di comportamento tra un soggetto che in un momento di rabbia insulta più persone e chi invece distribuisce insulti a distanza di tempo per ragioni varie. Il reato commesso in tempi diversi è segno di una maggiore pericolosità. La reiterazione dello stesso reato in contesti isolati, dunque, taglia la strada alla valutazione di non punibilità mentre la reiterazione continuata non la preclude. Messa alla prova, termine invalicabile anche per i processi in corso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 maggio 2015 n. 22104. Lo sbarramento processuale per proporre la "sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato" si applica anche ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge 67/2014. Ciò vuol dire che non sono ammissibili tutte le richieste formulate in grado di Appello e in Cassazione, in quanto il procedimento è già andato troppo avanti. Il beneficio dell'estinzione del reato, che segue all'esito positivo della prova, infatti, "presuppone lo svolgimento di un iter processuale alternativo al giudizio". Lo ha stabilito laCorte di cassazione, sentenza 22104/2015, respingendo la richiesta di un uomo, di origine cinese, condannato a 4 mesi di reclusione ed a 7mila euro di ammenda per aver immesso in commercio accendini e puntatori laser pericolosi. Nel ricorso l'imputato aveva lamentato che il superamento del termine non poteva rappresentare "una linea di confine invalicabile" nei processi che alla data del 17 maggio 2014, quella cioè di entrata in vigore della norma, si trovavano già in una fase processuale successiva, pena la violazione dell'articolo 3 della Costituzione e dei principi dettati dalla Cedu in tema applicabilità retroattiva della lex mitior. La motivazione - Per i giudici di legittimità, invece, la Corte di appello di Trieste ha proceduto correttamente valutando preliminarmente la "tempestività" della richiesta per poi bocciarla una volta accertato il superamento del termine. Infatti, argomenta la sentenza, si deve tener conto che, come chiarito dalla Corte costituzionale (236/2011), il principio della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo "riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto che porti a ritenerlo pienamente lecito o comunque di minore gravità". La qual cosa, appunto, non accade con l'istituto della messa alla prova, essendo esso costruito come "un percorso del tutto alternativo rispetto all'accertamento giudiziale" che dunque "non incide sulla valutazione sociale del fatto". Si è, perciò, al di fuori dell'ambito di operatività del principio di retroattività della lex mitior, ed è pertanto da escludere un contrasto con l'articolo 7, paragrafo 1 Cedu, e con l'articolo 117, comma 1, della Costituzione. Né tantomeno, prosegue la sentenza, vi è una violazione dell'articolo 3 della Carta, dal momento che l'individuazione del termine finale è "rimessa alla discrezionalità del legislatore", che è "insindacabile" tranne quando sia "palesemente irragionevole". Ed è proprio il carattere "alternativo" del procedimento a non rendere irragionevole la previsione di un termine invalicabile (che nel caso specifico è il momento di apertura del dibattimento, trattandosi di un procedimento con citazione diretta a giudizio). Del resto, la Cassazione richiamando gli stessi principi aveva già negato l'applicabilità nel giudizio di legittimità della sospensione del procedimento con la messa alla prova (negando anche la possibilità di annullamento con rinvio della sentenza). In ultimo, argomentano i giudici, "l'apertura in Appello o in Cassazione di una nuova fase incidentale volta a consentire l'eventuale svolgersi della messa alla prova, allungando i tempi del giudizio, andrebbe a cozzare con il principio della ragionevole durata del processo, oltreché con l'esigenza di evitare la eventuale dispersione di attività processuali già compiute". Mentre, "solo una disciplina transitoria, che prevedesse espressamente l'applicazione retroattiva delle nuove regole potrebbe risolvere definitivamente Il problema". Reati tributari, il ravvedimento non costituisce un'esimente della responsabilità penale di Valerio Stroppa Italia Oggi, 28 maggio 2015 Il ravvedimento non ferma il penale. Se nel corso di una verifica la Guardia di finanza ravvisa elementi che fanno ipotizzare un reato tributario, le pattuglie dovranno procedere alla trasmissione della notizia di reato all'autorità giudiziaria, anche se il contribuente nel frattempo ha proceduto alla regolarizzazione spontanea delle violazioni. Ciò in quanto il ravvedimento non costituisce un'esimente della responsabilità penale né prevede alcun effetto premiale. Ai sensi dell'articolo 13 del dlgs n. 74/2000, il pagamento dei debiti fiscali prima dell'apertura del dibattimento costituisce soltanto un'attenuante del reato, che dovrà essere valutata dal pm. È quanto ricorda una direttiva inviata lo scorso 15 maggio dal Comando generale della Gdf ai comandi territoriali. La nota contiene istruzioni operative in merito al nuovo ravvedimento operoso "senza limiti" introdotto dalla legge n. 190/2014. Il filo conduttore delle istruzioni è improntato alla stessa ratio perseguita dal legislatore e dall'Agenzia delle entrate, ossia cercare un rapporto il più collaborativo e trasparente possibile con il contribuente, volto a favorire la tax compliance. Per questo motivo, le fiamme gialle dovranno adeguatamente considerare la tempistica e le circostanze che hanno portato al ravvedimento e agire di conseguenza a seconda della situazione. Dichiarazioni integrative e F24 saranno consultabili dai militari tramite l'applicativo Serpico. Se il contribuente ha effettuato il ravvedimento prima dell'avvio dell'attività ispettiva nei suoi confronti, la Gdf dovrà "attentamente valutare l'opportunità di avviare comunque l'intervento". Ciò sia in un'ottica di collaborazione, sia per ottimizzare le risorse. Diverso il caso del ravvedimento effettuato in corso di verifica. Se le fattispecie sanate sono diverse da quelle che hanno innescato il controllo, le pattuglie dovranno "proseguire nelle operazioni secondo il piano predisposto", pur dando atto dell'avvenuta adesione all'istituto nel verbale di verifica giornaliero e nel successivo pvc. Se invece le fattispecie sanate sono le stesse interessate dall'attività ispettiva e le violazioni non sono state ancora oggetto di verbalizzazione, la pattuglia "non procederà alla redazione dei rilievi", sempre che il ravvedimento sia stato validamente effettuato. Viceversa, per i rilievi già formalizzati la verifica proseguirà fino all'ordinaria conclusione. Ordine di esibizione delle prove, rassegna delle recenti pronunce della cassazione Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Prova civile - Istanza di esibizione di documenti formulata nel giudizio relativo all'"an" della pretesa fatta valere - Obbligo di conservazione dei documenti - Fino alla formazione del giudicato sulla decisione definitiva di rigetto dell'istanza - Sussistenza - Successivo giudizio sul "quantum" - Permanenza dell'obbligo - Fondamento - Distruzione dei documenti successivamente all'istanza e prima della decisione definitiva - Contegno valutabile ai sensi dell'articolo 116 cod. proc. civ. - Sussistenza. Il giudice, su istanza di parte, può ordinare l'esibizione documenti di cui ritenga necessaria l'acquisizione (articolo 210 cod. proc. civ.) per conoscere i fatti di causa (articolo 118 cod. proc. civ. ) e, nell'ipotesi in cui ne corso d'un giudizio civile sia formulata istanza di esibizione documentale ex articolo 210 cod. proc. civ., la parte nei cui confronti tale istanza è formulata è obbligata a conservare la documentazione che ne è oggetto fin quando il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto sulla stessa. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 21 gennaio 2015 n. 1029. Prova civile - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Istanza di esibizione di documenti - Obbligo di conservazione dei documenti - Sussistenza - Fondamento - Violazione - Conseguenze. Nel caso in cui, nel corso di un giudizio civile, venga formulata istanza di esibizione documentaleex articolo 210 cod. proc. civ., la parte nei cui confronti tale istanza è formulata è tenuta - in ossequio al dovere di lealtà e probità processuale ex articolo 88 cod. proc. civ. e alla stregua del principio di acquisizione della prova, in forza del quale, un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, è definitivamente acquisito alla causa - a conservare la relativa documentazione fino a quando il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto sulla stessa, sicché, ove la documentazione venga distrutta dopo la presentazione dell'istanza e durante il tempo di attesa per la formazione della decisione definitiva sulla stessa, la mancata conservazione è suscettibile di essere valutata come argomento di prova ex articolo 116 cod. proc. civ. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 22 dicembre 2014 n. 27231. Prova civile - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Istanza di esibizione di documenti formulata nel giudizio relativo all'"an" della pretesa fatta valere - Obbligo di conservazione dei documenti - Fino alla formazione del giudicato sulla decisione definitiva di rigetto dell'istanza - Sussistenza - Successivo giudizio sul "quantum" - Permanenza dell'obbligo - Fondamento - Distruzione dei documenti successivamente all'istanza e prima della decisione definitiva - Contegno valutabile ai sensi dell'articolo 116 cod. proc. civ. - Sussistenza. Nel caso in cui, nel corso di un giudizio civile relativo all'"an" della pretesa fatta valere, venga formulata istanza di esibizione documentale ex articolo 210 cod. proc. civ., la parte nei cui confronti tale istanza è formulata è tenuta a conservare la relativa documentazione fino a che il giudice - avuto riguardo anche al successivo giudizio sul "quantum", dovendosi ritenere che la richiesta sia divenuta parte del dibattito processuale - non abbia definitivamente e negativamente provveduto e non si sia formato un irreversibile negativo giudicato; ne consegue che, ove la documentazione sia stata distrutta dopo la presentazione della relativa istanza e durante il tempo di attesa per la formazione della decisione definitiva sulla stessa, la mancata conservazione è suscettibile di essere valutata come argomento di prova ex articolo 116 cod. proc. civ. ai fini della valutazione equitativa del "quantum". • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 3 ottobre 2008 n. 24590. Prova civile - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Istanza di esibizione di documenti contabili - Sopravvenuta maturazione del termine decennale di conservazione di documenti - Obbligo di conservazione dei documenti fino alla decisione definitiva di rigetto dell'istanza - Sussistenza - Obbligo di conservazione ultradecennale dei documenti in mancanza di istanza di esibizione - Sussistenza - Esclusione - Distruzione dei documenti dopo il decennio e prima dell'istanza di esibizione - Contegno valutabile ai sensi dell'articolo 116 cod.proc.civ. - Esclusione. Nel caso in cui, nel corso di un giudizio civile, venga formulata istanza di esibizione documentale ex articolo 210 cod. proc. civ., la parte nei cui confronti tale istanza è formulata è tenuta a conservare la documentazione oggetto di essa fino a che il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto sulla stessa, a nulla rilevando che, trattandosi di documentazione contabile, sopravvenga, "medio tempore", la maturazione del termine decennale di durata dell'obbligo di conservazione delle scritture contabili fissato dall'articolo 2220 cod. civ. ; nessun obbligo di conservazione oltre il decennio grava invece sulla parte finché la suddetta istanza non sia presentata, con la conseguenza che dalla distruzione della documentazione contabile il giudice può trarre argomenti di prova a norma dell'articolo 116 cod. proc. civ. solo se tale distruzione sia avvenuta successivamente alla presentazione della relativa istanza e durante il tempo di attesa della decisione su di essa. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 agosto 2000 n. 11225 Il Comune risarcisce il danno al dipendente mobbizzato dal superiore di Maurizio Tatarelli Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 La sentenza della Corte di cassazione, sezione Lavoro, n. 10037/15. Il Comune, ancorché organo politico, risponde, ai sensi dell'articolo 2049 del Cc, del danno biologico e professionale subito dal dipendente in conseguenza del comportamento mobbizzante posto in essere dal superiore gerarchico, ove i suoi responsabili politici siano rimasti colpevolmente inerti alla rimozione del fatto lesivo, tollerandolo pur essendone a conoscenza. Lo ha affermato la sezione Lavoro della Cassazione con la sentenza n. 10037/15. La dipendente di un ente territoriale ha agito in giudizio contro il Comune datore di lavoro e il proprio superiore gerarchico, per ottenere il risarcimento del danno biologico e professionale, deducendo di essere stata vittima di condotte vessatorie poste in essere dal secondo con la tolleranza del primo, causative di una grave malattia, la psicosi paranoide. Radicatasi la lite, la domanda è stata accolta dal tribunale e la decisione confermata dalla corte territoriale. I giudici del merito hanno ascritto la patologia denunciata alle condotte poste in essere dal superiore, concretanti la fattispecie del mobbing, note e tollerate dai responsabili politici dell'ente, all'uopo valorizzando sia gli esiti di due consulenze tecniche, una delle quali espletata in sede penale, sia le risultanze della prova testimoniale. La Suprema Corte, rigettando il ricorso delle parti soccombenti, ha ribadito la correttezza dell'accertamento, evidenziando: a) la sussistenza della fattispecie del mobbing, in ragione della presenza contestuale dei sette parametri tassativi di riconoscimento del fenomeno, rappresentati dall'ambiente, dalla durata, dalla frequenza, dal tipo di azioni ostili, dal dislivello tra gli antagonisti, dall'andamento secondo fasi successive, dall'intento persecutorio, in un contesto lavorativo nel quale la prova testimoniale aveva confermato la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di trovarsi subordinata ad un lavoratore che in precedenza era un proprio sottoposto, l'assegnazione a un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di lavorare, circostanza che rendeva ancor più cocente l'umiliazione stessa; b) la configurabilità della responsabilità risarcitoria non solo in capo all'autore dei comportamenti mobbizzanti ai sensi dell'articolo 2043 del Cc, ma anche a carico del datore di lavoro per violazione dell'articolo 2049 del Cc, avendo questi omesso di intervenire e di porre fine alle condotte delle quali era a conoscenza, correttamente desumendosi quest'ultima circostanza dalla durata e dalle modalità delle condotte stesse. Appalti, vincoli di pagine sui ricorsi a rischio di costituzionalità di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Massimo 30 pagine, senza barare. Questo è il limite di lunghezza per i ricorsi in materia di appalti deciso dal Consiglio di Stato con la direttiva 25 maggio 2015 n. 40, di prossima pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" (si veda l'articolo pubblicato sul Quotidiano degli enti locali e Pa del 26 maggio). Dal mese successivo a tale pubblicazione, per scrivere fino a 50 pagine servirà un nulla osta dall'organo giudicante, ad esempio per cause su opere strategiche, o di valore superiori a 50 milioni. La finalità è quella di snellire tempi e procedimenti, e si collega alla possibilità di redigere sentenze brevi (articolo 74 Codice della pubblica amministrazione), di decidere quali motivi esaminare dando precedenza ai motivi immediatamente esaminabili. Le pagine, sono anche definite con specifiche grafiche (corpi e caratteri, interlinee e margini), mentre nulla si dice sull'uso del fronte retro (che pure ridurrebbe pesi e consumi). Il riordino grafico già riguardava i provvedimenti amministrativi, che possono limitarsi ad allegare (senza trascriverli) altri provvedimenti; nei bandi di gara sono possibili limiti alle descrizioni dei beni e servizi offerti (ad esempio 5 pagine) mentre misure di contenimento sono operanti in Corte di Cassazione (20 pagine più un riassunto di 3 pagine) e nelle Corti europee. Alcuni di questi limiti sono connessi all'uso della telematica, (ma il limite equivale in pdf a molte centinaia di pagine). L'articolo 40 del decreto legge 90/2014, che consente di imporre limiti quantitativi, sottolinea che il giudice è tenuto ad esaminare le questioni trattate nelle pagine consentite, e quando manca questo esame è possibile impugnare la sentenza. Da ciò si desume che tutto ciò che è scritto nelle pagine eccedenti può essere trascurato dal giudice senza possibilità di appello. Una sanzione del genere è stata ritenuta legittima nelle offerte in gare di appalto (Consiglio di Stato n. 2745/12) ma solo per garantire la par condicio, l'eguale trattamento per tutti i concorrenti. Se quindi le esigenze di speditezza fanno condividere il limite posto dalla direttiva del Consiglio di Stato, la sanzione dell'omessa considerazione delle pagine eccedenti suscita rilevanti dubbi di costituzionalità. La difesa in giudizio è garantita dall'articolo 24 della Costituzione, e già la sentenza 345/1987 della Consulta ha esaminato un caso analogo, sul divieto di nominare più consulenti nel processo penale. Nell'attesa di una verifica di costituzionalità, gli studi cercano di correre ai ripari togliendo dai ricorsi tutto ciò che è diversamente documentabile: massime di giurisprudenza, descrizioni tecniche, fotografie, relazioni giurate diventeranno elementi esterni al ricorso e quindi non soggetti al limite di lunghezza. Stesso incremento avranno i link (ammessi da Tar Cagliari, 91/2012) e i rinvii a Google maps o siti qualificati (Tar Catanzaro 443/2014). E se proprio non si riesce ad essere sintetici, nelle conclusioni potrà parafrasarsi l'espressione di B. Pascal (Lettres provinciales, 16, 1657): "ho scritto un lungo ricorso non avendo il tempo di scriverne uno più breve". Niente secondo lavoro non autorizzato nella Pa, la Consulta non cancella la norma di Arturo Bianco Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Sentenza della Corte costituzionale n. 90/2015. I giudici ordinari e i Tar non possono occuparsi del recupero delle somme percepite da dipendenti pubblici che hanno svolto una attività ulteriore per conto di altri soggetti pubblici o privati senza preventiva autorizzazione da parte della propria amministrazione. La relativa competenza spetta alla Corte dei conti, in quanto trattasi di responsabilità erariale. Per cui la questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici ordinari e dai Tar dinanzi alla Consulta è da ritenere manifestamente inammissibile. Sono queste le indicazioni dettate dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 90 del 26 maggio. Si deve subito rilevare che i giudici delle leggi non si sono espressi nel merito delle questioni di legittimità sollevate, quindi non hanno stabilito la legittimità della irrogazione della sanzione della privazione di tutti i compensi percepiti per il "secondo lavoro" non autorizzato dei dipendenti pubblici, avendo l'ordinanza un carattere riferito esclusivamente all'esame delle questioni pregiudiziali iniziali. Sembra comunque di potere leggere tra le righe della pronuncia un orientamento negativo della Consulta sul merito della richiesta. L'articolo 53 del Dlgs 165/2001 disciplina l'applicazione del principio della esclusività del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, indicando in modo tassativo le limitate deroghe che sono previste: dipendenti in part time fino al 50%, attività che sono riconducibili allo svolgimento di diritti riconosciuti dalla Costituzione ed attività previamente autorizzate da parte del datore di lavoro. Il comma 7 stabilisce che tutti i compensi percepiti in violazione del principio della esclusività vanno versati all'ente da cui si dipende per essere destinati al fondo per le risorse decentrate. Il giudice ordinario di Bologna ed il Tar della Puglia hanno eccepito, rispettivamente per dipendenti pubblici contrattualizzati e non contrattualizzati, la legittimità di questa disposizione. In particolare sostenendo che la stessa viola numerosi principi costituzionali, tra cui quelli della proporzionalità dei compensi, della ragionevolezza della sanzione e del necessario bilanciamento degli interessi, eccependo inoltre sulla legittimità della irrogazione di una sanzione automatica. Si deve sottolineare che la richiesta del Tar è inoltre riferita alla irrogazione della sanzione del versamento alla propria amministrazione del compenso percepito da un dipendente pubblico non contrattualizzato che si era collocato in congedo straordinario senza assegni. Su questo aspetto l'ordinanza della Consulta, bacchettando il Tar della Puglia, richiama l'esistenza di norme che sembrano consentire lo svolgimento di ulteriori attività nel caso di collocamento in aspettativa o in congedo non retribuito e nella remissione alla Consulta non è stata dimostrato la rilevanza della risposta nel procedimento, posto che ad un primo esame tali disposizioni dovrebbero consentire l'accettazione della richiesta del dipendente. La Corte costituzionale ha rigettato come inammissibile la domanda in quanto non è stata dimostrata la competenza dei giudici ordinari e del Tar. Essa ci ricorda che già dal 2011 le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno chiarito che spetta alla competenza della Corte dei conti l'esame di tutti i contenziosi che hanno come oggetto l'avere causato un danno all'ente sia direttamente sia indirettamente. Ed ancora che il comma 7 bis dello stesso articolo 53 del Dlgs 165/2001 introdotto dalla legge anticorruzione, n. 190/2012, ha espressamente stabilito che siamo in presenza di una "ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei Conti". Società tra avvocati aperte a tutti gli Ordini professionali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 È ampia l'apertura alle altre professioni per la costituzione di società multidisciplinari con gli avvocati. Tanto da comprendere tutte le professioni organizzate in collegi e in ordini. A delineare il futuro modello è la bozza di decreto del ministero della Giustizia, inviata al Consiglio nazionale forense, sulla quale si è aperta la consultazione all'interno dell'avvocatura. Il provvedimento rappresenta uno degli snodi attuativi della riforma dell'ordinamento forense che, a poco a poco, sta prendendo una forma ancora più compiuta. È la legge n. 247 del 2012, infatti, a prevedere, all'articolo 4 che la professione legale può essere esercitata sia individualmente sia in forma associata. Tenendo fermo, naturalmente, che l'incarico professionale è comunque sempre attribuito all'avvocato in via personale. La costituzione di un'associazione quindi (al di là delle discussioni sull'ingresso del socio di capitale, passaggio che non è in questione nel decreto), aperta anche ad altri professionisti, ha lo scopo di potere assicurare al cliente prestazioni più complete anche a livello multidisciplinare. Con il modello proposto che il ministero sottolinea essere in sintonia con l'indicazione che è arrivata dal Cnf, per agevolare il più possibile chi si rivolge all'associazione, sono state comprese nel modello futuro tutte le professioni ordinistiche. Dai dottori commercialisti agli psicologi, passando per biologi e architetti. Il perimetro circoscritto alle professioni articolate in ordini e collegi è stata fatta poi per un'evidente omogeneità con la professione forense. Duplice il vantaggio: da una parte creare sinergie estese con altre categorie professionali, dall'altra avere la possibilità di entrare in contatto con "mercati" che, magari nell'immediato non sembrano potere offrire grandi spazi, ma che in futuro potrebbero riservare prospettive di collaborazione utili anche per la qualità del servizio da offrire all'assistito. Il riconoscimento al concordato preventivo elimina la misura cautelare di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 maggio 2015 n. 22127. Quando l'azienda in crisi chieda e ottenga l'ammissione al concordato preventivo non è possibile chiedere il sequestro per la confisca per equivalente in relazione ai debiti tributari a carico dell'impresa. Lo precisa La Cassazione con la sentenza n. 22127/2015. La Corte ha enunciato il principio dopo aver attentamente analizzato il reato di evasione fiscale e la relativa confisca per equivalente. I fatti - In particolare è stato ricordato come oggetto della misura cautelare non siano solo quei beni fungibili direttamente riconducibili alla società o alle persone fisiche che la compongono, ma può essere costituito anche dal risparmio dovuto al mancato versamento nelle casse dell'Erario. E in questo caso, richiamando anche la precedente sentenza delle Sezioni unite n. 18734/2013, è stato ricordato che in tema di reati tributari il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da ogni tipo di vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e dunque può consistere anche in un risparmio di spesa. "Se nelle casse di colui (persona fisica o società) su cui gravava l'obbligo di versamento viene rinvenuto del denaro, si tratta di profitto sequestrabile, direttamente riconducibile al reato. E questa regola vale sia che si voglia aderire all'orientamento giurisprudenizale per cui si tratta di sequestro diretto che si di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente". L'importanza del concordato - Nel caso concreto, tuttavia, i giudici nei precedenti gradi hanno omesso di considerare una circostanza di importanza fondamentale. Ossia il contribuente aveva chiesto e ottenuto l'ammissione al concordato preventivo. Circostanza questa che doveva far desistere il giudice cautealare dall'applicazione della misura inflitta viste le intenzioni di versare mostrate dal contribuente. La Cassazione ha pertanto concluso ritenendo che per una corretta valutazione del fumus commisi delicti del reato previsto dall'articolo 10 del Dlgs 74/2000 deve essere tenuto conto dell'esistenza del concordato preventivo, del tempo in cui lo stesso è intervenuto e dell'inserimento integrale del debito tributario nello stesso. Conclusioni - La Corte ha precisato inoltre che la circostanza che il concordato preventivo sia allo stato un mero progetto di pagamento, non ancora attuato, per cui non si è ancora verificato alcun effettivo e concreto recupero delle imposte evase a favore dell'amministrazione finanziaria, di modo che è giustificato il mantenimento in essere della misura cautelare reale può essere ritenuta corretta solo se emessa in relazione alla mancata prova dell'avvenuta omologazione dello stesso. Circostanza questa che i giudici in passato non avevano dimostrato e che in sede di rinvio dovranno necessariamente fare. L'azienda può creare un falso profilo Facebook per controllare il lavoratore di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 27 maggio 2015 n. 10955. Non è illegittima la condotta dell'azienda che crea un falso profilo Facebook per incastrare il dipendente negligente. Provando in questo modo la propensione ad assentarsi dal posto di lavoro, tanto da arrivare al licenziamento. Sul punto, e sulla più generale questione dei controlli sul lavoratore, interviene la Corte di cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 10955 depositata ieri. La pronuncia ritiene accertati i fatti sulla base dei giudizi di merito, nei quali era emerso come il capo del personale dell'impresa avesse creato un falso profilo femminile su Facebook con richiesta di amicizia a un dipendente che già era stato sorpreso ad assentarsi dal posto di lavoro per una telefonata di oltre un quarto d'ora, lasciando incustodito un macchinario che, durante l'assenza, si era bloccato. Quello stesso giorno era stato trovato nel suo armadietto aziendale un Ipad acceso e collegato alle rete elettrica. Nei giorni successivi, in seguito alla richiesta di amicizia arrivata dal falso profilo Facebook, il dipendente aveva chattato a lungo e in più occasioni in orari che coincidevano con quelli di lavoro. Sulla base di tutti questi elementi era scatta la procedura di licenziamenti per giusta causa, adesso avallata dalla decisione della Cassazione. La Corte, in una fase in cui si attende il decreto attuativo del Job's Act sui controlli a distanza, sottolinea la necessità che il potere di controllo del datori di lavoro sia temperato dal diritto alla riservatezza del dipendente e che l'esigenza del datore di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti annulli ogni forma di garanzia della dignità del lavoratore. Problema di bilanciamento quindi tra diritti diversi e confliggenti. Una sintetica ricostruzione giurisprudenziale conduce la Cassazione a sottolineare il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi "occulti", anche ad opera di personale estraneo all'organizzazione aziendale, in quanto diretti all'accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa". Una fattispecie, che comprende anche il caso in questione,che si pone al di fuori del perimetro dello Statuto dei diritti del lavoratori. Per la Corte, infatti, il comportamento dell'azienda aveva come obiettivo non tanto la verifica sulla prestazione lavorativa e sul suo esatto adempimento, quanto piuttosto la realizzazione di atti illeciti da parte del dipendete, poi effettivamente riscontrati e già manifestatisi nei giorni precedenti. Un controllo difensivo, quindi, indirizzato a individuare e sanzionare un comportamento tale da "ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti". In questa prospettiva allora, la creazione del profilo Facebook costituisce, nella lettura della Cassazione, un semplice modalità di accertamento dell'illecito commesso "non invasiva né induttiva all'infrazione". Basilicata: Uil-Pa; bene la Circolare del Dap se creazione di Sezioni per detenuti violenti dasilicata24.it, 28 maggio 2015 Dopo la forte presa di posizione della Uil Penitenziari con lo sciopero bianco del voto e sit-in di proteste in ogni luogo in cui era presente il Ministro della Giustizia e/o i vertici del Dap per denunciare la mancata soluzione e interventi mirati a tutelare l'incolumità fisica dei poliziotti penitenziari, l'Amministrazione Penitenziaria interviene con una lettera circolare per istituire sezioni più stringenti per detenuti violenti, a dichiaralo è il segretario regionale della Uil-pa Penitenziari di Basilicata, Donato Sabia: "abbiamo raggiunto un altro grande obiettivo per gli operatori penitenziari che lavorano in trincea che quotidianamente subiscono il malessere dei ristretti. Dal 1 gennaio 2015 ad oggi infatti, sono 85 gli agenti penitenziari feriti a seguito di aggressioni da parte di soggetti detenuti e ben 56 gli agenti intossicati a seguito degli incendi appiccati alle celle". La Uilpa Penitenziari, infatti, nel rivendicare un ruolo primario nel raggiungimento degli obiettivi che hanno consentito all'Italia di superare le riserve sullo stato della detenzione formulate dall'Europa non può non sottolineare amaramente e criticamente come sia stato soprattutto il Corpo di Polizia Penitenziaria a pagare un duro dazio. Non era possibile che in merito alla sentenza Torreggiani nel dare più libertà ai detenuti, i poliziotti penitenziari erano stati lasciati soli ed abbandonati alla mercé di centinaia di detenuti senza alcun strumento di difesa e senza alcun percorso di deresponsabilizzazione conseguente, per cui non si possono sottacere i rischi derivanti dall'operare il servizio di traduzioni con mezzi obsoleti, inadeguati e insicuri. Continua il dirigente sindacale: "alla fine il Capo del Dap, Consoli scrive al Segretario Generale della Uil Penitenziari Sarno, con l'intento di far sospendere le manifestazioni in atto, emanando anche una Circolare Dipartimentale con cui dispone ai Provveditorati Regionali e alle Direzioni degli istituti penitenziari di individuare alcune sezioni, appositamente dedicate, ove allocare quei detenuti non ancora pronti al regime aperto e per coloro che si sono resi responsabili di aggressioni in danno di poliziotti. Adesso attendiamo risultati anche in ambito regionale per conoscere come l'Amministrazione intende muoversi". Conclude Sabia - "speriamo che con tale iniziativa inizi la cd Fase 2, il rilancio del Corpo; la polizia penitenziaria, infatti, è l'unico Corpo a subire discriminazioni e penalizzazioni ordinamentali ed economiche dei propri Funzionari, Ispettori e Sovrintendenti. Non bastasse ciò è l'unico Corpo di Polizia a cui si chiede di pagare l'uso delle camere delle caserme, nonostante il Ministro Orlando si fosse pubblicamente impegnato a trovare una soluzione". Lamezia Terme (Cz): il Sindaco Speranza; proporrò ricorso contro chiusura del carcere Ansa, 28 maggio 2015 "Nelle ultime settimane ho cercato in tutti i modi di avere un incontro, continuamente rinviato, con il Ministro della Giustizia per contrastare la decisione sulla chiusura del carcere di Lamezia Terme". Lo afferma in una nota il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza. "Allo stato - aggiunge - solo i parlamentari di Sel, al Senato e alla Camera, hanno presentato interrogazioni urgenti al Ministro di Giustizia per avere risposte chiare ed ufficiali. Proporrò quindi alla giunta di adottare una delibera per fare ricorso contro il decreto di chiusura firmato dal Ministro per l'infondatezza delle sue premesse e le falsità in esso chiaramente contenute. Faccio sommessamente una osservazione a tutti coloro che continuano ad urlare a sproposito nelle piazze della città e soprattutto all'avv. Mascaro, che ha usato un linguaggio a dir poco non rispettoso verso di me. Nessuno dei parlamentari e degli esponenti di Governo che lo sostiene ha preso una iniziativa pubblica ed ufficiale, per impedire o contrastare la chiusura del nostro carcere. Questi sono i fatti. Colgo l'occasione, prima che inizi l'ennesima guerra sul possibile spostamento del Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, per dire anche su questo punto come stanno le cose". "Ci sono - prosegue Speranza - dei dati certi e incontrovertibili: il primo è che un anno fa, con un blitz del tutto inaspettato ed inconcepibile, è stato sgombrato il carcere di Lamezia Terme; il secondo è che il Governo, dopo aver sempre affermato che il vecchio edificio del carcere o avrebbe continuato ad ospitare la casa circondariale o sarebbe diventato sede del Provveditorato, un mese fa, ha firmato il decreto di chiusura dello stesso carcere; terzo, solo qualche anno fa, il Ministero di Giustizia aveva ristrutturato e restaurato l'ex complesso conventuale di S. Francesco all'interno del quale era ospitato il carcere. Fin dal primo sgombero, essendo i locali di proprietà del demanio e quindi pubblici ed essendo stati fatti costosi lavori di ristrutturazione e ammodernamento, si è parlato di un loro diverso utilizzo, compresa l'ipotesi di spostamento degli uffici del Provveditorato attualmente in affitto. Quello che sarebbe utile fare è pretendere dal Governo, ed in particolare dal Ministro Orlando, risposte alle domande che noi e tutta la nostra comunità ha posto e cioè sul perché si sia deciso di chiudere una struttura da poco ristrutturata, sul perché questo sia accaduto mentre tutti sanno del sovraffollamento che affligge le nostre carceri e infine del perché, per giustificare una scelta così discutibile, si sia sostenuto il falso". Brescia: il Sindaco Del Bono; nel dimenticatoio progetto per la costruzione nuovo carcere di Paolo Cittadini Il Giorno, 28 maggio 2015 Il sindaco: "Nessuna novità", per Canton Mombello. Eppure, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri il 21 ottobre durante una visita ufficiale a Brescia aveva promesso di trovare una soluzione. Finita l'emergenza sovraffollamento, le vicende della casa circondariale cittadina di Canton Mombello sono scivolate in fondo o, peggio ancora, scomparse dall'agenda della politica nazionale. "Entro 15 giorni troveremo una soluzione per il carcere", aveva garantito l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri il 21 ottobre durante una visita ufficiale a Brescia. Nulla è successo da allora. Cancellieri non solo non è più ministro, ma anche l'intero Governo è cambiato. E il nuovo Guardasigilli, Andrea Orlando, non ha Canton Mombello in cima ai suoi pensieri. La struttura non è adatta alle esigenze di un moderno istituto di pena e le carenza strutturali sono evidenti. "Venuto meno lo sponsor che poteva rappresentare l'ex prefetto di Brescia, Cancellieri, il progetto di nuovo carcere per la città è finito nel dimenticatoio - ammette il sindaco Emilio Del Bono - Risorse sui penitenziari del resto il Governo non è intenzionato per ora a metterle. Le ultime sono quelle servite per intervenire sull'istituto di Cremona che, ampliato, ha dato un po' di respiro a Canton Mombello". Oggi i detenuti della casa circondariale di via Spalti san Marco sono 320 (il 60% è rappresentato da stranieri), di questi 110 sono i definitivi. Nulla in confronto a quanto accadeva all'inizio dello scorso anno quando nelle celle dell'istituto che lo scorso 26 dicembre ha festeggiato i 100 anni di vita erano stipate circa 600 persone. Partì anche una class action per le inadeguate condizioni di detenzione in cui versavano gli ospiti proposta dall'allora garante dei detenuti Emilio Quaranta che aveva messo insieme circa 400 ricorsi di detenuti bresciani e mandata alla Corte Europea Tutto va bene quindi, fino alla prossima emergenza. "La struttura non è più adeguata - ricorda Del Bono. Ma per ora non ci sono novità all'orizzonte". Mancano le risorse da Roma, e la Loggia continua a ripetere che sulla partita non ha voce in capitolo. "Confermiamo la nostra posizione - sottolinea Del Bono. L'eventuale nuova struttura deve sorgere vicino a quella di Verziano. L'area è la stressa individuata nel Pgt precedente, abbiamo solo cancellato la compensazione "preventiva" che prevedeva il documento della Giunta Paroli. Altre soluzioni non sono praticabili anche perché cassate già a suo tempo dai tecnici del Ministero. Di più non possiamo fare". Padova: corruzione al Due Palazzi, chiesti 14 anni di carcere per il "boss" degli agenti di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 28 maggio 2015 Da agenti di Polizia penitenziaria a imputati. E, all'orizzonte, il rischio di una condanna davvero pesante. È ormai alla resa dei conti l'inchiesta sul carcere Due Palazzi, un colabrodo dove entrava di tutto, dalla droga ai telefonini, bastava pagare. Davanti al gup padovano Domenica Gambardella, una lunga requisitoria ancora non conclusa, poi pubblico ministero padovano Sergio Dini ha formulato le prime richieste di condanna per due secondini del carcere Due Palazzi, finiti in manette all'alba dell'8 luglio 2014 con altri quattro colleghi, mentre nei mesi successivi l'indagine si è allargata tanto da coinvolgere ben 31 persone (tra detenuti e loro familiari di detenuti oltre a qualche spacciatore, tutti caduti nella rete degli investigatori in stato di libertà). Il sostituto procuratore Dini ha chiesto 14 anni e 7 mesi di condanna per l'assistente capo Pietro Rega, 48 anni originario di Mariglianella (Napoli), residente a Mirano nel Veneziano, "il grande capo" lo chiamavano i colleghi, considerato il boss degli agenti perché era il responsabile della sicurezza nel quinto piano della struttura carceraria, trasformata in un supermarket dello spaccio, di cellulari e sim card. Richieste non lievi (5 anni e 10 mesi) per il collega Roberto Di Profio, 46 anni, originario di Chieti e residente ad Abano; per l'avvocato rodigino Michela Maragon, 51 anni di Porto Viro (4 anni), accusata di aver pagato in due occasioni 500 euro per rifornire di droga i suoi clienti; per Giuseppe Acquavella, un detenuto (3 anni e 6 mesi): i quattro avevano chiesto e ottenuto di essere giudicati con rito abbreviato, rito che prevede lo sconto di un terzo della pena. Il prossimo 15 giugno il pm completerà le richieste nei confronti di altri tre imputati, sempre giudicati con rito abbreviato: l'agente Giandonato Laterza, 32 anni di Matera domiciliato a Piazzola sul Brenta, soprannominato "bambolotto", e altri due detenuti, Mohamed Es Soukti e Charf Ed Dine Ez Zayani. Il 15 giugno saranno pure definite sei istanze di patteggiamento, altro rito alternativo che prevede il beneficio dello sconto e che ha già ottenuto il parere favorevole della pubblica accusa: quelle degli agenti di Polizia penitenziaria Luca Bellino, 39 anni, originario di San Paolo di Civitate, residente a Padova, detto u cafone (4 anni e 9 mesi) e Angelo Raffaele Telesca, 37 anni, toscano, residente ad Albignasego, per tutti "Condor" (4 anni e 6 mesi); del tunisino Karim Ayari (3 anni); dei detenuti Mohamed El Ins (3 anni), Antonino Fiocco (1 anno e 10 mesi) e Fabio Zanni (1 anno e 10 mesi). E gli altri 18 imputati, reclusi, parenti o fornitori di stupefacenti? Di fronte alla richiesta presentata dal pm di mandarli a processo, non hanno avanzato nessuna richiesta. Così il 15 giugno, il gup potrà spedirli a processo o decidere il loro proscioglimento (assai improbabile). Si tratta dei detenuti Gaetano Bocchetti, Ferruccio Chiostergi, Bledar Dinja, Mourad El Arachi, Ivan Firenze, Giuseppe Marino, Domenico Morelli, Makrem Mestiri, Eros Murador, Adriano Patosi, Sigismondo Strisciuglio, Mohamed Tilli e dei liberi cittadini Issam Tilli, Hakim Nufasi, Adel Chabba, Amal El Arachi, Abdelhamin Jebrani e Adil Khamlic. C'era un sesto agente penitenziario coinvolto, Luca Giordano, chiamato "il poeta": l'11 agosto 2014 si è suicidato all'interno dell'alloggio di servizio in cui si trovava agli arresti domiciliari. Roma: a Rebibbia la raccolta del grano, seminato per la prima volta dalle detenute Dire, 28 maggio 2015 "Oggi a Rebibbia è una giornata di festa e di raccolto, con la presenza di don Ciotti e dell'assessore Sabella. Abbiamo collaborato tra istituzioni per dare un grande messaggio di speranza". Così Antonio Rosati, amministratore unico di Arsial, che oggi ha preso pare alla raccolta del grano seminato per la prima volta dalle detenute di Rebibbia grazie al progetto "Terra terra" finanziato da Arsial con 10mila euro. "Tra l'altro - ha detto ancora Rosati- qui si fa un'agricoltura buona, di qualità, quella che chiamiamo agricoltura di prossimità. Aderendo al progetto e finanziandolo con 10mila euro, ho voluto dare tre messaggi: uno di grande speranza, perché in fondo ognuno di noi può sbagliare. Queste persone hanno sbagliato e stanno riflettendo su se stesse, cercando un nuovo capitolo della propria vita. E le istituzioni devono tentare di dare un'altra possibilità, tendendo una mano". Secondo, ha proseguito l'amministratore unico, "l'agricoltura, che è la nostra attività, dimostra che il lavoro dà libertà e dignità e l'agroindustria è un grande veicolo di possibilità e di sbocchi di mercato. Certo, questa non è un'agricoltura che fa pensare ai mercati di Melbourne o di Shanghai, ma è un'agricoltura buona che può interessare questo quartiere e la città e, perché no, anche il nostro corner a Fiumicino". Terzo messaggio, ha detto ancora Rosati, "è che per uscire dall'austerità che sta attanagliando l'Europa, che ha introdotto una paura che ormai pervade intere società europee, dobbiamo continuare certamente a essere con i bilanci in ordine e rigorosi, ma dobbiamo anche aprire sempre una valvola per lo sviluppo e gli investimenti. L'austerità da sola ha dimostrato il suo totale fallimento. Questa è l'idea che ci accompagna: tentare sempre un'altra strada per uscire da questa austerità, altrimenti l'Europa salta". La giornata di festa che ha chiuso la prima parte del progetto ‘Terra terrà "è un grande messaggio di cultura e di speranza. Tornare alla terra come madre di tutti noi. E in fondo ci fa pensare a chi siamo, dove andiamo e da dove veniamo. Siamo uomini e donne pieni di sentimenti e vedere qui tanta gente tra le detenute, delle quali molte giovani, intorno a questa grande idea che con il lavoro si ha un'altra possibilità, mi fa dire che è stata una giornata veramente di privilegio e di insegnamento. Siamo contenti come Arsial e come amministrazione regionale di avere messo il nostro nome in questo progetto". Infine, "invito tutti a cercare questi prodotti che vengono da "Terra libera", la cooperativa del carcere femminile, perché non solo si possono comprare cose buone, ma con quel gesto si può dare speranza e fiducia a chi sta cercando un'altra via e un altro senso alla propria vita". Padova: Consorzio sociale Giotto; call center più grande e nuova pasticceria in carcere Il Mattino di Padova, 28 maggio 2015 Finanziamento da due milioni per migliorare gli spazi in cui lavorano i carcerati. Un call center più ampio e nuovi laboratori di pasticceria, gelateria e cioccolateria sono stati inaugurati ieri nella Casa di reclusione Due Palazzi a Padova. L'investimento per la realizzazione raggiunge i due milioni di euro: un milione per la struttura con il contributo della Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia e un milione per le attrezzature, di cui 500 mila euro erogati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e il rimanente dalle cooperative del Consorzio sociale Giotto. Sono 120 i detenuti impegnati in attività lavorative: oltre che sfornare dolci per la pasticceria, raccolgono prenotazioni sanitarie e gestiscono la rete vendita di un'azienda di energia attraverso il call center, si occupano dell'assemblaggio di valige e biciclette e realizzano business key per la firma digitale. Presenti al taglio del nastro, oltre 200 imprenditori, clienti e ristoratori provenienti da tutto il mondo, in Italia per Expo 2015, che hanno fatto tappa in carcere per conoscere la pasticceria Giotto. Una visita inconsapevole visto che solo durante il tragitto sono stati informati che la pasticceria si trovava all'interno di un carcere di massima sicurezza. L'iniziativa fa parte di Top Food Experience, marchio varato in occasione dell'Expo da quattro aziende della food valley italiana: Coppini Arte Olearia, Casale, Steriltom e Agugiaro & Figna. I commercianti giunti al Due Palazzi a bordo di quattro pullman provengono da 36 paesi dei cinque continenti, dall'Australia alla Cina, dal Libano alla Svezia. "L'Expo è una vetrina delle eccellenze del nostro Paese", dichiara Paolo Giopp, direttore dell'Associazione industriali di Padova. "E anche qui in carcere c'è l'eccellenza del prodotto, del metodo e dei risultati sociali: un vero modello". Lo scorso anno sono stati prodotti 85 mila panettoni, 15 mila colombe e 100 mila chili di prodotti di pasticceria. Ogni giorno i detenuti sfornano mille brioche. "Il lavoro richiede impegno e persone che nella vita hanno commesso degli errori hanno la possibilità di dare un nuovo significato alle proprie giornate", afferma il direttore della pasticceria, Matteo Florean. Testimonial della giornata è stato il noto pasticcere Luigi Biasetto. Padova: la pasticceria del carcere inaugura la produzione di cioccolato e gelati gamberorosso.it, 28 maggio 2015 Il caso della Pasticceria Giotto all'interno del Carcere Due Palazzi di Padova è ormai così celebre che non necessita di introduzioni. Stavolta l'iniziativa da mettere in risalto - sulla scia di un interesse crescente del mercato di settore per un progetto che coniuga qualità del prodotto e finalità sociali - è l'ennesimo attestato di stima per l'impegno di Officina Giotto, che arriva attraverso la visita di oltre duecento operatori internazionali alle strutture produttive del carcere, quel laboratorio che ogni giorno sforna prodotti di alta pasticceria sotto la direzione di esperti mastri pasticcieri. Ma soprattutto grazie alla dedizione di un gruppo di carcerati che così scoprono nuove attitudini, concentrati su un percorso di totale riabilitazione sociale e professionale. Tramite Top Food Experience - marchio che vede unite in occasione di Expo quattro grandi realtà dell'alimentare italiano, Agugiaro & Figna, Coppini Arte Olearia, Casale e Steriltom, raggiunte in un secondo momento da dieci aziende italiane di riferimento nel settore enogastronomico - alcuni importatori confluiti a Milano per l'Esposizione da tutto il mondo (Australia, Cina, Danimarca, Brasile, Emirati Arabi, Libano, Messico, Sudafrica, per citarne alcuni) hanno intrapreso un tour sul territorio alla scoperta delle eccellenze made in Italy, e dopo la tappa parmense arriveranno a Padova proprio per scoprire da vicino l'esperienza significativa del Penitenziario della città. La delegazione sarà accolta con dolci e caffè e introdotta alla visita degli impianti di produzione e introduzione alle lavorazioni del carcere, alla presenza di un testimonial d'eccezione come il pasticciere Luigi Biasetto. Intanto l'attività nella Pasticceria Giotto ferve, e proprio la visita degli importatori sarà occasione per inaugurare i nuovi locali di produzione che consentiranno l'incremento dell'attività e la specializzazione in nuovi settori come la gelateria e la cioccolateria, che nel 2015 disporranno per la prima volta di una linea dedicata. E infatti, nei prossimi giorni, nel centro di Padova (con sede in via degli Eremitani) vedrà la luce la prima Gelateria Giotto, con la vendita dei prodotti made in Due Palazzi. Intanto da Napoli arriva un'altra bella storia di collaborazione in cucina a sfondo sociale. È Pietro Parisi a farsi promotore delle attività di riabilitazione del Centro Penitenziario di Secondigliano, sostenendo il progetto Un'altra via d'uscita, operativo da diversi anni per merito dell'Associazione Caritas Regina Pacis di Giugliano per alleviare il percorso dei detenuti condannati all'ergastolo. Lo chef utilizza in cucina i prodotti degli orti coltivati in carcere, dove si producono frutta e verdura rigorosamente biologiche sotto il nome di Orti di Antonia (la figlia di Pietro Parisi). Lo chef di Palma Campania continua peraltro a riversare il suo impegno anche nel progetto della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, che produce il Caffè Lazzarelle servito sulla tavola de Le Cose Buone di Nannina. Sondrio: carcere e legalità, la "lezione" dell'ex magistrato Gherardo Colombo La Provincia di Sondrio, 28 maggio 2015 L'ex magistrato ha incontrato ieri mattina gli studenti del liceo Piazzi-Perpenti di Sondrio. "I diritti sono la cartina di tornasole per capire se siamo una società delle opportunità uguali per tutti". Parlare di carcere e diritti è fondamentale, perché "questo argomento è la cartina di tornasole per capire da parte si sta, se dalla parte di una società delle opportunità pari, in cui è riconosciuta la dignità di tutti, oppure di una società verticale, in cui chi sta in alto può e chi sta in basso deve". Ne è convinto l'ex magistrato Gherardo Colombo, ospite ieri mattina a Sondrio per un incontro con gli studenti del liceo Piazzi - Perpenti all'interno del progetto di educazione alla legalità e alla cittadinanza responsabile che l'istituto ha avviato nel 2009. Nei mesi scorsi i ragazzi hanno approfondito diversi temi con il garante dei detenuti del Comune Francesco Racchetti e con esperti e volontari, come ha ricordato la dirigente scolastica Maria Grazia Carnazzola, e ieri si sono confrontati con Colombo sui concetti di libertà, responsabilità, diritti e giustizia riparativa. Ed è stato un confronto nel vero senso della parola, perché l'ex magistrato ha subito abbandonato l'approccio del relatore "istituzionale" per discutere con i ragazzi, coinvolgendoli nel ragionamento con domande dirette ed esempi presi dalla vita quotidiana. Esempi per far riflettere innanzitutto sul fatto che "non è che siano poi così distanti da noi, le persone che stanno in carcere", e che "non è mica tanto vero che il male sta tutto da una parte, per cui chi sta in carcere è il cattivo e noi qui fuori siamo i buoni, è una separazione molto finta con cui cerchiamo anche di allontanare il male da noi, per promuoverci e sentirci migliori". Ma anche esempi molto concreti per far comprendere quali siano le condizioni di vita in moltissimi penitenziari italiani, e quali effetti abbiano sull'applicazione concreta dell'idea di pena e rieducazione sancita dalla Costituzione. "Una cella standard è sui 12 metri quadrati - ha detto Colombo -, spazio in cui state in quattro o in sei, con due letti a castello, il water e un lavandino che usate anche per cucinare, qualcosa a cui appendere i vestiti, e lì dentro tocca passare 14 o 15 ore al giorno. Sei ore al mese per vedere i parenti, unico contatto con il mondo esterno è un televisore da gestire in quattro. Quando uno esce di lì, avrà voglia di abbracciare tutti o sarà pieno di sentimenti di rivalsa? Ecco perché se teniamo alla sicurezza, non è questa la strada giusta". In tutto il suo discorso l'ex magistrato è tornato più volte su due concetti fondamentali, libertà e responsabilità, strettamente correlati: "C'è un punto di contatto fra voi ragazzi e chi sta in carcere - ha detto -, voi state crescendo, avete bisogno di prendere le misure col mondo, di diventare liberi e perciò responsabili, perché libertà significa rispondere di ciò che si fa. È lo stesso percorso che dovrebbero fare coloro che stanno in carcere, devono educarsi ad avere responsabilità, e per far questo un carcere oppressivo non serve. Fa diventare obbedienti, ma in democrazia abbiamo bisogno di persone responsabili, altrimenti la democrazia non funziona". Secondo Colombo allora è tempo di cambiare strada, seguendo le modalità che vengono applicate in tanti Paesi: "È necessario come presupposto effettivo - ha detto - mettersi nella prospettiva del recuperare le persone, come si fa a Bollate. Come membro dell'Unione, l'Italia sarebbe tenuta ad introdurre un sistema di giustizia riparativa, che prevede percorsi più impegnativi e riduce le percentuali di recidive". Bologna: una laurea in carcere, alla Dozza nasce un Polo universitario La Repubblica, 28 maggio 2015 Il numero dei detenuti iscritti è raddoppiato: sono 26. Sui libri anche due agenti penitenziari. All'interno del carcere bolognese della Dozza si apre un polo universitario, per permettere ai detenuti di laurearsi. A oggi sono 26 gli iscritti, fra cui due donne. All'inaugurazione ha partecipato il Collegium Musicum dell'Alma Mater e il Coro Papageno, composto da detenuti della sezione maschile, femminile e da volontari. "È un miracolo quello che sta avvenendo qui - ha detto il rettore dell'Ateneo, Ivano Dionigi - per riscattare tanta volgarità che c'è fuori, anche perché il diritto allo studio è un diritto di tutti, soprattutto di chi è in difficoltà. Ci sono luoghi dove si sta meno bene e questo è uno di quelli: si impara dalla cattedra, dagli amici, dalla chiesa, dalla televisione, ma c'è una scuola più efficace di tutte, quella del dolore. In questo Polo si riesce a insegnare, ma c'è anche tanto da imparare". I detenuti del carcere Dozza potevano iscriversi singolarmente ai corsi dell'Alma Mater già da diversi anni, ma grazie al nuovo protocollo è stato ora istituito un polo all'interno della Casa circondariale e il numero degli iscritti ai corsi è quasi raddoppiato. In sette si sono iscritti a Giurisprudenza, in tre a Storia, mentre alcuni in Agraria, Scienze politiche, Dams e altre facoltà. Tra gli studenti ci sono anche due agenti della Polizia penitenziaria. "Delle persone hanno creduto in questo progetto - ha detto la direttrice del carcere, Claudia Clementi - e hanno aggregato tanta energia e tanta forza. Il Polo oggi è finalmente una realtà". I professori responsabili di Scuole e Dipartimenti all'interno del Polo universitario penitenziario sono 13, 40 i professori responsabili di esami o tesi, 22 i tutor e quattro i docenti volontari. Venezia: al via a il Festival dei Matti, tre giorni per "dissequestrare la follia" Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2015 "Quando hai chiuso la porta un'altra si apre. / Non esistono chiavi o serrature, / né sbarre. Catenacci: basta voltare / lo sguardo e spingere / piano con le mani". I versi di Goliarda Sapienza, tratti dalla raccolta "Ancestrale", bene aderiscono al leitmotiv scelto per il "Festival dei Matti" di Venezia, che si terrà nei giorni 29-30 e 31 maggio e che quest'anno è intitolato "Politiche/Poetiche". Il tema scelto per questa sesta edizione, dichiara un auspicio, un'intenzione: ricominciare a snidare quel che resta dei manicomi nelle pieghe dei discorsi, nei saperi diffusi, nei gesti, nelle istituzioni deputate ancora a trattare la follia. Tornare a disfare i nodi delle ideologie che disegnano il volto di ciò che diamo per scontato, scansare questa fattualità inerziale e disperante, ricollocarci nel solco di una storia che qualcuno vorrebbe marginale, e che pure continua a rovesciare l'impossibile e a farlo divenire possibile: la rivoluzione culturale che ha condotto alla legge 180, la comunità possibile del movimento legato a Franco Basaglia, che non smette di restituire cittadinanza, parola, soggettività a chi continua ad esserne amputato perché dichiarato matto da qualche opinione prevalente. "Per dissequestrare la follia dalle segregazioni plurime che le abbiamo riservato occorrono varchi, vie d'uscita. Porte aperte, si diceva e si continua a dire. Ma non basta spostarla, dobbiamo farcene spostare. Non basta ripensarla, dobbiamo lasciarci pensare da lei. Dobbiamo ammettere rovesciamenti, incroci, commistioni", afferma Anna Poma, ideatrice e curatrice del Festival. "Le politiche, da sole, corteggiano le istituzioni e lo diventano, traducendosi in mera amministrazione dell'esistente. Le poetiche, da sole, annunciano mondi sospesi nel vuoto, confusi dal vuoto. Senza corpo e schiacciati dai corpi. Vorremmo politiche che prendano il largo dai dati di fatto, poetiche capaci di farsi mondo. Utopia della realtà, diceva Basaglia. La sfida che lanciamo". Al via, dunque, da venerdì, tre giorni di incontri in vari luoghi di Venezia con presentazioni di libri, dialoghi con autori ma anche protagonisti delle battaglie sociali del nostro tempo, e poi reading e spettacoli teatrali "dentro la follia", com'è nella tradizione della manifestazione. A inaugurare il Festival, venerdì 29 (ore 11.00) al teatro Malibran, sarà don Luigi Ciotti in un incontro intitolato "La cittadinanza è terapeutica"; dal 1995 Presidente di Libera, è testimone e protagonista di primo piano della lotta alla mafia, dell'impegno contro le discriminazioni e per le politiche di inclusione sociale. Ciotti ci parlerà di cittadinanza, di quali diritti e quali condizioni siano necessari per tradurla in appartenenza, riconoscimento, opportunità, e da quale follia si debba guarire per rendere possibile tutto questo. Alle 19.00, presso la Libreria Marco Polo, la presentazione di due libri: Nicoletta Bidoia, Vivi. Ultime notizie dal signor Luciano D. (Edizioni La Gru, 2013) e Barbara Buoso, L'ordine innaturale degli elementi (Baldini e Castoldi, 2014). Due storie sbarrate, occluse dai muri della violenza, dell'omertà, dei silenzi, da miti e tabù pubblici e privati, dalle istituzioni totali, manicomi o famiglie che siano, storie che, nella lingua incantata della "poesia in prosa" di Bidoia e di Buoso, tornano al mondo e finiscono per reinventarlo. Sabato 30, presso il teatrino di Palazzo Grassi, due sezioni: la prima (dalle 10.00) è intitolata "Inventare si può: l'altro mondo della salute mentale", e vedrà come filo conduttore alcune straordinarie esperienze di cura realizzate nel nostro Paese, all'insegna della libertà, della cittadinanza e del protagonismo. Ne parleranno: Vito D'Anza direttore del Dsm di Pistoia, Thomas Emmenegger, Presidente Olinda, impresa sociale e culturale, Milano, Massimo Magnano della Comunità di Sant'Egidio di Civitavecchia, Roberto Mezzina, direttore del Dsm di Trieste, coordinati da Franco Rotelli, Presidente della Commissione Tutela della Salute Regione Friuli Venezia Giulia. La seconda nel pomeriggio (dalle 16.00): "Restituire diritti, restituire cittadinanza. A proposito e intorno alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari", incontro con Luigi Manconi, senatore, Presidente Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani, anche autore di "Abolire il carcere" (Chiarelettere, 2015). Si parlerà degli Opg, dei manicomi, delle carceri, ma anche dei centri di accoglienza per gli immigrati, di tortura e di dispositivi che comprimono ed erodono il diritto facendo invece credere di garantirlo. Interverranno Stefano Cecconi, Comitato Nazionale Stop Opg, Annamaria Marin Avvocato Camera Penale Veneziana, Giovanna Del Giudice, Presidente Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia, Gisella Trincas, Presidente Unasam, Ass.ne Psiche 2000 Onlus, Riviera del Brenta. Alle ore 19.00, all'Hotel Saturnia & International, l'inaugurazione della mostra Bobo e le sue storie di ordinaria follia, esposizione di alcune strisce storiche e recenti del fumettista Sergio Staino. Staino sarà protagonista anche la sera (ore 21.00) presso il Teatrino di Palazzo Grassi, in un incontro con Massimo Cirri, conduttore di Caterpillar. In "Fumo di carta. Normalità e follia in punta di matita" si parlerà della follia di questa nostra normalità paradossale e amara, e degli antidoti politico-poetici che si devono inventare per tenerle testa. Domenica 31, al teatrino Groggia e nel parco (dalle 15.30), nella sezione intitolata "Franco Basaglia e dintorni. Le storie che ne vengono", saranno presentati quattro libri: Alberta Basaglia, Le nuvole di Picasso, Feltrinelli, 2014; Franco Rotelli, L'istituzione inventata (Alphabeta Verlag, 2015), Giovanna Del Giudice, …e tu slegalo subito, (Alphabeta Verlag, 2015); Piero Cipriano, Manicomio chimico (Elèuthera, 2015). Questi volumi, importanti e coraggiosi, raccontano sia l'accaduto sia ciò che sta accadendo oggi nel nostro Paese, sfatando i luoghi comuni e le verità pseudoscientifiche che governano l'universo di pratiche psichiatriche ancora foriere di troppi crimini di pace. La chiusura del Festival (dalle 18.30) sarà interamente dedicata alla figura poliedrica di Goliarda Sapienza. "Personaggia" nella cultura italiana della seconda metà del Novecento, attrice di teatro e di cinema, poetessa, scrittrice e molto altro, sarà presentata attraverso la sua storia e i suoi libri, il dentro e il fuori di una poetica che è immediatamente anche politica. Due gli omaggi: "Goliarda. Voce di donna, voce di Goliarda Sapienza. Un racconto", reading-performativo di Anna Toscano, Fabio Michieli e Alessandra Trevisan, e la pièce teatrale di Cristiana Raggi "La signora G. Conferenza spettacolo su Goliarda Sapienza" (ore 21.00). Tutti gli eventi del Festival sono a ingresso libero e gratuito fatta eccezione per La signora G. (biglietto unico 10 euro). Napoli: l'editore Guida regala 1.600 volumi ai detenuti di Poggioreale di Claudia Procentese Il Mattino, 28 maggio 2015 "Questa donazione andrà ad arricchire le nostre biblioteche di testi significativi perché trattano della speranza, raccontano di persone che, partite svantaggiate ed in condizioni di disagio, con impegno e forza di volontà sono riuscite a riscattarsi e addirittura ad avere successo". Sono le parole di ringraziamento che il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Santi Consolo ha rivolto ieri mattina, nell'aula magna della casa circondariale di Poggioreale, all'editore Guida per la cessione gratuita alle biblioteche delle carceri italiane di 1.600 volumi della collana "Sul sofà", realizzata con "Il Mattino" e grazie al sostegno di Fondazione Banco Napoli - Istituto ed Eccellenze campane. Otto i volumi, firmati da Pietro Gargano, dedicati a noti personaggi della cultura e dell'imprenditoria campana (Sofia Loren, Enzo Gragnaniello, Maurizio de Giovanni, Ciro Discepolo, Lorenzo Insigne, Paolo Sorrentino, Vincenzo Salemme e Paolo Scudieri) che si sono distinti per una storia personale fatta di sacrifici ma a cui l'arduo lavoro ha garantito ricompense. "È per questo che nei detenuti che li leggeranno - ha sottolineato Consolo - si accenderà quella speranza che è presente nello stesso motto della Polizia penitenziaria "Despondere spem munus nostrum", cioè garantire la speranza è il nostro compito". I libri come porte aperte verso la libertà è stato l'augurio di Diego Guida che ha precisato come l'idea della collana sia nata "dalla volontà di raccontare Napoli sotto una luce diversa, con un taglio costruttivo, non distruttivo", la Napoli di coloro che "hanno dimostrato un desiderio di emergere tra mille difficoltà che auspico possa essere di esempio per i lettori che vivono negli istituti". Idea condivisa da Paolo Scudieri, presidente di Eccellenze campane, che ha aggiunto quanto "il mettere l'uomo al centro dell'azione è la strategia vincente per il successo". L'incontro di presentazione dell'iniziativa, a cui ha partecipato anche il procuratore capo di Napoli Giovanni Colangelo e il vicedirettore de "II Mattino" Federico Monga, è divenuto ulteriore occasione di dibattito sul mondo carcerario. A snocciolare i dati statistici è stato Tommaso Contestabile, provveditore campano dell'amministrazione penitenziaria. Sono 17 gli istituti della regione, di cui uno femminile, due Opg, 7.166 detenuti, di cui 333 donne, il 12% di stranieri, il 22% di tossicodipendenti, 3.389 i soggetti che eseguono pene fuori dal carcere in misura alternativa. "L'istruzione è uno degli elementi fondamentali del trattamento rieducativo voluto dal legislatore - ha detto Contestabile. I libri sono strumenti di conoscenza che possono modificare modi di essere e di pensare dal punto di vista soggettivo e sociale". La detenzione, dunque, come spazio di riflessione e non di ozio, "la lettura come possibilità di riparare e riprogrammare la propria vita" secondo il direttore di Poggioreale Antonio Fullone. "Cultura e lavoro - la chiosa di Carmine Antonio Esposito presidente del Tribunale di sorveglianza partenopeo - contribuiscono in modo decisivo a quella che è la finalità della pena che non deve essere afflittiva ma rieducativa". Firenze: a Sollicciano, detenuti attori nello spettacolo "Ubu Re" Redattore Sociale, 28 maggio 2015 Lo spettacolo, riscrittura dell'opera del francese Alfred Jarry, Ubu Roi, vede in scena gli attori della Compagnia di Sollicciano ed ha il sostegno della Regione Toscana e della Fondazione Carlo Marchi. Martedì 30 giugno e mercoledì 1 luglio 2015 presso il Teatro del Carcere di Sollicciano la Compagnia di Sollicciano, formata da attori-detenuti con la regia di Elisa Taddei dell'Associazione Krill Teatro, presenta la nuova produzione in prima nazionale Ubu Re. Lo spettacolo, riscrittura dell'opera del francese Alfred Jarry, Ubu Re vede in scena gli attori della Compagnia di Sollicciano, che in uno spazio desolato, racconteranno al pubblico la terribile storia di come Padre e Madre Ubu riuscirono a conquistare il trono di Polonia. Per assistere allo spettacolo è necessario prenotare entro il 14 giugno inviando la fotocopia scannerizzata del documento di identità o patente all'email teatro.sollicciano@gmail.com Nell'email dovrà inoltre essere specificato a quale delle due date si vuole partecipare e riportato un recapito telefonico per eventuali comunicazioni. Se non sarà richiamata la persona che ha inviato i propri dati, dovrà presentarsi il giorno prescelto direttamente all'entrata del carcere con un documento. Il progetto ha il sostegno della Fondazione Carlo Marchi e della Regione Toscana progetto nazionale Teatro e Carcere. Firenze: "16 sbarre", due dischi rap realizzati dai detenuti Sollicciano e dell'Ipm Gozzini di Fulvio Paloscia La Repubblica, 28 maggio 2015 Non è facile per gli operatori della cooperativa Cat depositare il proprio bagaglio di libertà all'ingresso del carcere, entrare nelle celle sapendo che un'ora dopo saranno di nuovo in quel fuori che i detenuti torneranno ad assaporare in un futuro non vicino. Non è facile prima di tutto rispetto a chi sta scontando una pena, a chi vede gli operatori come messaggeri di un mondo che si sono ormai dimenticati, a chi si aggrappa a loro come a dei portatori di speranza. A far incontrare libertà e detenzione in una zona franca c'è la musica. Il rap: la cooperativa fiorentina, che festeggia il suo trentennale, ha tenuto il suo primo laboratorio nel carcere minorile tra il 2012 e il 2013; da quell'esperienza nacque il cd Senz'ali che conteneva le rime inventate ed eseguite dai detenuti; adesso i laboratori sono due: a Sollicciano e a alla casa circondariale Gozzini, e due sono i cd appena usciti e che saranno presentati domani alle Murate con una giornata che, nel pomeriggio (16.30), prevede un incontro di presentazione dell'attività di Cat e, la sera, dalle 21, la presentazione dell'album dei Danger Clok Tuttodunfiato. Sul palco, ci sarà Michel Di Paolo, romano, l'unico detenuto tra quelli coinvolti a godere di un permesso lavorativo che gli concede l'uscita quotidiana dalla struttura. La diversità di provenienza è una matrice che differenzia i due progetti. I Danger Clok vengono dal Gozzini, dove si pratica la custodia attenuata, dove il reinserimento è l'obiettivo principale, dove i reati sono furto e spaccio, dove le ore concesse al laboratorio sono molte di più rispetto a Sollicciano (due incontri di circa tre ore ciascuno contro un'ora e mezza settimanale), e la lor musica mescola rock, pop e rap con morbidezze che dai Blocco 2/r e dai Black Dogs (protagonisti dell'altro cd, Punto di raccolta, tra di loro c'è anche chi è dentro per tentato omicidio) non sono contemplate. Nei Danger c'è il rimorso ma anche la consapevolezza che una vita spezzata prima o poi deve ricucirsi per tornare a pulsare in un quotidiano migliore; nel frattempo, anche dietro le sbarre, pensano all'amore. Nelle altre due realtà invece scorre un sangue incandescente di rabbia, di aggressività, di cinico disincanto, di vita vissuta raccontata con linguaggio crudo: in quell'ora d'aria trasformata in session hanno tirato fuori tutto di loro stessi, "anzi - racconta Angelo Tommasi, uno degli operatori, rapper lui stesso con lo pseudonimo di Charlie Dakilo e anima dei laboratori - gli incontri sono sentiti come obiettivi settimanali fortissimi, sui quali concentrarsi ogni giorno per sconfiggere la noia e vivere un rapporto col fuori". "16 sbarre" (il nome del progetto è un calembour giocato sulle "16 barre", ovvero quattro quartine, la lunghezza media di un testo rap) ora però chiede quale sarà il suo futuro: il passaggio dalla vecchia alla nuova giunta della Regione (il finanziatore) non dà nessuna sicurezza al riguardo. Sicurezza a cui si appella non solo la Cat, ma gli stessi detenuti. Roma: teatro, detenuti di Rebibbia in scena con "Il carcere è stato inventato per i poveri" di Erika Cofone persinsala.it, 28 maggio 2015 All'interno della rassegna D.O.I.T. Festival al Teatro Due, i detenuti di Rebibbia portano in scena "Il carcere è stato inventato per i poveri". Sul palco non vi sono attori professionisti che si personificano in detenuti, tantomeno vengono riportati cliché sulla condizione nelle carceri da chi quel luogo con le sue dinamiche li conosce solo attraverso sitcom o sentiti dire. In scena viene esibito il lavoro del Capsa Service, l'associazione culturale che da anni tiene laboratori teatrali all'interno della casa di reclusione di Rebibbia. Gli attori sono gli stessi detenuti, l'impatto è quindi diverso, l'emozionalità anche. Si avverte tutta la verità e il peso delle storie, ma soprattutto una grande lezione, quella della resistenza oltre la frustrazione. È un microcosmo difficile quello del carcere, dove tutto viene amplificato, soprattutto il dolore e la sensazione di annientamento e fallimento. È necessario avere equilibrio, l'equilibrio conta più della forza ed è molto più difficile da mantenere "per chi non cammina su un marciapiede largo ma su di una corda tesa". Il teatro si mostra, ancora una volta, stimolo sociale, e lo spettacolo - pur senza una lunga preparazione - è l'evidente certificazione di quanto i ragazzi del carcere avessero da dire. Il tutto viene espresso con semplicità, con intelligenza, senza aggressioni verbali scontate che potevano essere facilmente, troppo facilmente, criticate come faziose e qualunquiste. Hanno giocato con forme di vicinanza, abbattendo divari e spingendo alla comprensione. Piccoli siparietti sulla vita in carcere, metafore di vita partendo da una semplice tazzina di caffè, ragionamenti sull'attesa, l'elemento più duro da affrontare dentro perché pone al cospetto del rimpianto e della frustrazione, del pentimento e del vacillante gioco della psiche, della capacità di rifarsi e rinnovarsi, e dell mantenere comunque una coscienza critica. Avere anche e soprattutto in carcere, delle scaramanzie, dei riti propiziatori che sono frutto di una speranza condensata che deve continuamente reinventarsi per sopravvivere. "Non si scrive il proprio nome in carcere se non vuoi tornarci". "Ogni respiro ha senso". E ancora testi scritti fra le sbarre e letti, dediche a familiari, profondità di chi si scava dentro. Un pensiero ai compagni del penitenziario che non hanno potuto partecipare per restrittive scelte burocratiche. Sul palcoscenico sfumano quelle che molti potrebbero vedere come differenze in altri ambiti, dimenticando che quelli sono uomini con storie e vissuti, non schedari senza una vita passata o futura. In carcere rischi di perderli, l'identità e la tua personalità, gli slanci e le idee, ti senti inutile e si avverte il peso di esser trattati con superficiale arroganza. "Noi non siamo utili alla società secondo loro, sempre colpevoli". In una parola marchiati. Non si è voluto però creare uno spettacolo di giustificazionismo, come potrebbe sembrare. Ogni interprete sale sul palco conscio e consapevole che il carcere "noi lo meritiamo, è vero, ma non per questo dobbiamo sopportare pene non corrette, eccessive, senza la possibilità di riscatto". Qual è il confine fra l'uomo che commette un reato e chi lo punisce mostrando non giustizia ma abuso di potere? E, poi, l'ingiustizia viene annunciata già dal titolo: Il carcere è stato inventato per i poveri. "Ricchi in carcere non ce ne stanno". Un testo vero, che non può che lasciare amarezza accanto ad aria di spontaneità. A volte, infatti, in teatro si respira la bravura, la capacità, l'impegno, la tecnica, ma molto spesso si perde il contatto umano e rimane solo un'impronta dell'autenticità. Per il resto molta forma, estetica, Arte con l'iniziale maiuscola, quella dei professionisti, su cui solo i professionisti possono autorevolmente dibattere. Il loro non esserlo, attori professionisti, ha permesso di ricordare quanta importanza rivesta il teatro a scopo socio-culturale, quanta importanza possa avere un tessuto attivo e dinamico come un laboratorio teatrale. È la base di un riscatto, di una riappropriazione, di un avvicinamento a forme alte di sentire, nel senso greco della parola, aisthesis (percezione e, quindi, sentire). È un nobilitare l'animo. Un palcoscenico che unisce e aggrega al Teatro Due, senza banalità, senza dimenticare che un uomo non è il suo errore. Brescia: sport in carcere, domenica prossima le finali del "Memorial Zappa" bresciaoggi.it, 28 maggio 2015 Nella Casa reclusione di Verziano sabato scorso si sono disputate le gare di semifinali del 30esimo campionato di calcio a 7 giocatori "Memorial Giancarlo Zappa", che ha visto dall'ottobre scorso ad oggi la partecipazione di 10 squadre (tre di detenuti e sette esterne) e con le gare dirette da detenuti/arbitri. Sono state due semifinali, come si dice, senza storia, con la Tipografia Gandinelli Ghedi che ha superato per 5-0 la formazione dei Detenuti "B" eguagliando il record di 10 vittorie consecutive; e i campioni in carica de I Bonvicino hanno risposto con un'altra goleada, vincendo per 9-2 l'incontro con I Sans Papiers. Domenica prossima 31 maggio sono allora in programma le attese gare di finale: alle 9.30 si giocherà la finale per il terzo e quarto posto tra i Detenuti "B" ed I Sans Papiers; alle 10.30 la finalissima tra I Bonvicino e la Tipografia Gandinelli Ghedi. La manifestazione terminerà con le premiazioni delle squadre finaliste, del capocannoniere e del miglior portiere alla presenza, come sempre in questa occasione, dei familiari dei detenuti, dei volontari e delle autorità cittadine. Nel campo in erba adiacente al campo di calcio di Verziano terminerà invece oggi con un rinfresco e le relative premiazioni il 42esimo torneo di pallavolo femminile, con la partecipazione delle detenute, delle volontarie Uisp Brescia, dell'Associazione di Promozione Sociale "Tutte in Rete", Istituto Superiore "Lorenzo Gigli" di Rovato e Istituto Professionale dei Servizi Socio Sanitari "Maddalena di Canossa" di Brescia. Tutte le iniziative organizzate nei due Istituti Penitenziari bresciani sono inserite nel "Progetto-Carcere" dell'Uisp di Brescia, realizzato in collaborazione con le Associazioni "Carcere e Territorio" Onlus Brescia, A.S.D. Sport per Tutti, col patrocinio del Comune di Brescia (Assessorato allo Sport e Presidenza del Consiglio, col sostegno della Fondazione Asm Brescia e della Regione Lombardia(l'esperienza bresciana, infatti, rientra nel "Progetto speciali carceri" regionale "Oltre il muro, porte aperte alla speranza"). Piacenza: il Jazz Fest torna a Le Novate con gli Sugar Pie & The Candymen www.piacenzasera.it, 28 maggio 2015 Coerentemente con la propria mission di far risuonare la musica in ogni angolo della città per portarla anche a coloro che altrimenti non avrebbero l'occasione e il modo per goderne, il Piacenza Jazz Fest ancora una volta organizza un concerto oltre le mura del carcere cittadino. E quest'anno sarà la settima volta consecutiva che varcherà la soglia del Carcere delle Novate, grazie alla disponibilità dell'autorità carceraria e con l'aiuto e il coordinamento dell'Associazione di volontari "Oltre il muro" che lavora da anni all'interno del carcere. Si terrà così giovedì 28 maggio un altro appuntamento tradizionale della manifestazione. Il concerto è riservato ai detenuti della Casa Circondariale. A tenere il concerto sarà la band di Sugar Pie & The Candymen, che offrirà agli spettatori uno spettacolo scoppiettante e ricco di verve. Sarà inoltre presente Gianni Azzali, presidente dell'Associazione Piacenza Jazz Club che organizza la manifestazione che per l'occasione dichiara: "Teniamo in modo particolare a questa data che si ripete in maniera costante da alcuni anni e che ci offre la possibilità di portare anche ai detenuti il messaggio del Jazz, che è la musica della libertà e del riscatto". Il prossimo appuntamento nell'ambito del Piacenza Jazz Fest è il Galà di premiazione dei vincitori del Concorso "Chicco Bettinardi 2015", che si terrà sabato 30 maggio alle ore 21.15 allo Spazio Rotative, in via Benedettine n. 66 a Piacenza. Immigrazione: suddivisi tra vari Paesi Ue 40mila richiedenti asilo siriani ed eritrei di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 28 maggio 2015 Saranno trasferiti i richiedenti asilo siriani ed eritrei sbarcati dal 15 aprile sulle coste italiane e greche. Il grosso delle quote fra Germania, Francia e Spagna. Londra e Copenaghen si chiamano fuori La Commissione europea propone una prima iniziativa di condivisione e solidarietà tra i Paesi membri per aiutare Italia e Grecia ad affrontare l'emergenza degli arrivi di richiedenti asilo dalla Siria e dall'Eritrea. In due anni, pur senza imporre quote obbligatorie, 40 mila siriani ed eritrei sbarcati sulle coste italiane e greche "dovrebbero essere ricollocati" in Germania (5.258), Francia (4.051), Spagna (2.573) e in altri Stati Ue in base a una ripartizione predefinita. L'Italia trasferirebbe 24 mila rifugiati arrivati "dopo il 15 aprile 2015 o dopo il lancio di questo meccanismo". In due anni altri 20 mila richiedenti asilo saranno accolti dall'estero nei Paesi membri (in Italia 1.989) aiutati con fondi Ue. Il rafforzamento della missione comunitaria Triton nel Mediterraneo dovrebbe estendere l'area di intervento a quella precedentemente dell'operazione italiana Mare Nostrum in modo da cercare di salvare più vite di migranti. La Germania ha ottenuto un potenziamento dei controlli sui richiedenti asilo (soprattutto sulle impronte digitali) per evitare che Italia e Grecia trasferiscano come rifugiati degli immigrati clandestini, invece di rimpatriarli. Le proposte della Commissione passano ora alla trattativa tra 25 governi (Regno Unito e Danimarca si sono già chiamati fuori appellandosi a una clausola dei Trattati Ue utilizzabile anche dall'Irlanda). Nel Consiglio dei ministri degli Interni del 15 giugno e nel summit dei capi di governo del 25 giugno ci sarà da superare l'opposizione annunciata da una decina di Paesi, guidati da Ungheria e Polonia. La delicatezza del tema immigrazione nella politica interna di molti Stati ha portato a escludere ogni intervento di condivisione sugli immigrati illegali e sui rifugiati accolti da Italia e Grecia prima del 15 aprile scorso. Restano molte incertezze sull'esito della trattativa. "Quelli che non possono avanzare giustificate richieste di asilo dovrebbero essere rapidamente identificati e rimpatriati - ha precisato il vicepresidente olandese della Commissione europea Frans Timmermans. Questo è fondamentale affinché le politiche sull'immigrazione siano accettate dai cittadini". La responsabile della politica estera della Commissione e dei governi Ue, Federica Mogherini, ha auspicato interventi nei Paesi d'origine "per contrastare le cause che spingono a scappare e migrare: povertà, guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e disastri naturali". Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, a Bruxelles per incontrare il presidente lussemburghese della Commissione Jean-Claude Juncker, ha esortato ad "allargare ogni strada legale" per evitare che i migranti ricorrano ai trafficanti di esseri umani e che azioni di tipo militare contro queste organizzazioni criminali possano provocare effetti negativi. Italia e Grecia avevano ben altre aspettative per la condivisione dell'emergenza migranti nel Mediterraneo. Il partito europopolare Ppe ha espresso le riserve anche di Germania e Svezia, che accolgono il maggior numero di rifugiati e vorrebbero allentare maggiormente la pressione degli arrivi. Immigrazione: non sporchiamo il volontariato di Francesca Coleti (Segreteria regionale Arci-Napoli) La Repubblica, 28 maggio 2015 La vicenda delle truffe sull'accoglienza dei profughi e sul servizio civile per i giovani, non presenterebbe nulla di nuovo se si guardasse solo alle vittime. Immigrati, profughi, giovani senza futuro - e tra questi ultimi ci sono anche i ragazzi campani avviliti dalla disoccupazione vengono da sempre sfruttati e raggirati da speculatori senza scrupoli. Talvolta, come accade per i lavoratori stranieri in agricoltura, i truffatori si organizzano in vere e proprie associazioni a delinquere, come quella che, ad esempio, la mia associazione ha portato in tribunale a Salerno sostenendo la denuncia di un gruppo di marocchini sfruttati e taglieggiati, e che avrebbe raggirato più di duecento vittime. Gli imputati sono ventisei, tra colletti bianchi, avvocati, commercialisti, caporali, faccendieri. L'associazione che avrebbe investito i fondi per l'accoglienza dei profughi addirittura in un casinò del Montenegro, non sarebbe molto diversa da quest'ultima. L'associazione che prestasse il servizio civile per fornire giovani alle segreterie politiche di qualche consigliere regionale, non sarebbe un'organizzazione di terzo settore. Quello che preoccupa le tante associazioni e le cooperative sociali che si impegnano quotidianamente per l'affermazione dei diritti e della solidarietà, è che chi ha intenzione di fare affari sulla pelle dei più deboli oggi prova a travestirsi perfino nei panni del volontariato e del no profit. Si tratta di un fenomeno che può e deve essere fermato. Non solo per le truffe, lo sfruttamento e i ricatti che subiscono le vittime, immigrati o giovani disoccupati, ma perché è a rischio il valore della fiducia, legame essenziale che tiene insieme le nostre comunità e vera forza che riesce ad unire le persone per combattere ingiustizie e disuguaglianze. È questo che, soprattutto per chi milita nel terzo settore, rende odiosa la vicenda degli scandali dell'accoglienza. Gli strumenti per fermare i millantatori della solidarietà esistono. Le reti del terzo settore li conoscono bene, e anche la pubblica amministrazione, che dovrebbe assumere politiche non improntate all'emergenza ma alla qualità ed alla verifica degli interventi. Le reti, nel terzo settore, hanno la possibilità di effettuare l'autocontrollo e la verifica delle pratiche di democrazia e partecipazione degli aderenti. Se le organizzazioni sono realmente partecipate dai propri soci, difficilmente potranno scivolare verso fenomeni degenerativi. Nelle grandi cooperative come nei piccoli circoli, i soci partecipano alle scelte assembleari sulle attività sociali; approvano i bilanci, tanto che presentito finanziamenti pubblici o che si reggano sull'autofinanziamento; eleggono i propri rappresentanti. In tantissime organizzazioni, poi, sono gli stessi beneficiari degli interventi ad attivarsi per chi si trova nella loro stesse condizioni: soci stranieri, giovani che vogliono spendersi per migliorare le proprie città, disabili, anziani, ex detenuti. Vanno quindi promosse politiche che mettano le reti nelle reali condizioni di effettuare l'autocontrollo, come la legge delega sul terzo settore in discussione al Senato promette di fare. Lo Stato, le Regioni ed i Comuni devono fare poi la loro parte: niente gare al massimo ribasso sui servizi sociali e di tutela dei diritti essenziali; procedure snelle, perché nei cavilli si annidano le truffe; strumenti di verifica non solo dei rendiconti economici ma della realizzazione delle attività. Non sporchiamo il volontariato, è una delle poche risorse della nostra società. Anche per questo, ci auguriamo che venga fatta chiarezza al più presto sulla vicenda di Pozzuoli. Ucraina: Amnesty International; torture e scosse elettriche, la nuova Guantánamo è a Kiev di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 maggio 2015 Picchiati fino a spezzargli le ossa, torturati con la corrente elettrica, presi a calci, accoltellati, appesi al soffitto, privati del sonno per giorni e di cure mediche urgenti, minacciati di morte e sottoposti a finte esecuzioni. È questo il rapporto agghiacciante di Amnesty International riguardante la detenzione di oltre trenta detenuti rinchiusi nel carcere dell'Ucraina. Dei 33 ex prigionieri intervistati da Amnesty International - tutti detenuti per vari periodi di tempo tra il luglio 2014 e l'aprile 2015 e incontrati tra marzo e maggio di quest'anno - 32 hanno descritto brutali pestaggi e alni gravi abusi commessi dai gruppi separatisti e dalle forze pro-Kiev. Amnesty International ha corroborato le testimonianze degli ex prigionieri con ulteriori prove, tra cui radiografie di ossa fratturate, cartelle cliniche, fotografie di bruciature e altre ferite, di cicatrici e di denti mancanti. Al momento dell'intervista, due di loro erano ancora in cura in ospedale. I torturatori appartengono ad ambo i lati del conflitto: 17 delle vittime sono state detenute dai separatisti, 16 dall'esercito, dalla polizia e dai servizi segreti di Kiev. Amnesty International ha inoltre ricostruito - sulla base di testimonianze oculari, cartelle cliniche, prove pubblicate sui social network e notizie di stampa - almeno nei casi recenti in cui i gruppi separatisti hanno passato sommariamente per le armi otto combattenti pro-Kiev. In un'intervista, il leader di un gruppo separatista ha apertamente ammesso di aver ucciso soldati ucraini, attribuendosi dunque un crimine di guerra. Alcune delle violenze peggiori vengono commesse in centri non ufficiali di detenzione, soprattutto nei primi giorni. I gruppi che agiscono al dì fuori della catena di comando effettiva o ufficiale tendono ad avere comportamenti brutali e fuorilegge, La situazione dal lato separatista è particolarmente caotica: gruppi differenti trattengono prigionieri in almeno 12 diverse località. Quanto al lato pro-Kiev, uno dei racconti fatti da un ex prigioniero nelle mani della milizia nazionalista "Settore destro" è risultato estremamente sconvolgente. "Settore destro" ha preso decine di civili in ostaggio, li ha portati in un cenno giovanile in disuso e qui li ha sottoposti a crudeli torture per poi estorcere ampie somme di denaro tanto ai detenuti quanto alle loro famiglie. Amnesty International ha segnalato la vicenda alle autorità ucraine senza ricevere alcuna risposta. Le ricerche di Amnesty International hanno verificato che entrambe le parti hanno arbitrariamente trattenuto civili che non avevano commesso alcun reato, per il mero fatto di aver espresso simpatia per la parte avversa o per organizzare scambi di prigionieri. Amnesty International sta chiedendo alle agenzie e agli esperti delle Nazioni Unite - tra cui il Sottocomitato per la prevenzione della tortura, i Gruppi di lavoro sulle detenzioni arbitrarie e sulle sparizioni forzate e il Relatore speciale sulla tortura - dì svolgere una missione urgente in Ucraina per visitare tutti i centri di prigionia, compresi quelli non ufficiali, in cui si trovano persone detenute nel contesto del conflitto in corso. Ma cosa sa accadendo in Ucraina e come è iniziata la crisi che sa provocando anche indicibili torture tra le diverse fazioni? La crisi ucraina è iniziata alla fine del 2013, con la decisione del governo dell'ex presidente Viktor Yanukovich di abbandonare il processo di avvicinamento all'Unione europea, per tornare nell'orbita della Russia. La scelta di Yanukovich ha innescato le proteste della popolazione della parte occidentale del Paese. Per settimane la capitale Kiev è stata teatro di violenti scontri (la cosiddetta rivolta di Euromaidan, dal nome della piazza principale della città), culminati, nel febbraio del 2014, con la fuga di Yanukovich. In primavera sì sono tenute nuove elezioni, che hanno portato alla presidenza il filo-europeo Poroshenko. Dopo la fuga dì Yanukovìch, le popolazioni delle regioni orientali, maggiormente legate alla Russia, si sono sollevate chiedendo l'indipendenza. Per prima la Crimea, che tramite referendum (non riconosciuto da Kiev) ha deciso di rendersi autonoma e dì federarsi con Mosca. Ribellioni al potere centrale e consultazioni "illegittime" per l'indipendenza sono state indette anche in altre province orientali, come quelle di Donetsk e Lugansk, che si sono autoproclamate repubbliche indipendenti. Nel frattempo, il governo di Kiev ha inviato l'esercito per ripristinare l'ordine. A sua volta, il Cremlino ha schierato le proprie truppe al confine e (questa l'accusa di Usa e Unione europea) fornito appoggio logistico e militare ai ribelli filorussi. Il Donbass (la parte orientale del territorio ucraino) è diventato così teatro di violenti e sanguinosi scontri, che hanno causato in un solo anno duemila morti e centinaia di feriti. Per il suo appoggio ai ribelli filorussi, Mosca è stata pesantemente sanzionata da Usa e Unione europea, a livello politico, economico e finanziario. Attualmente c'è una tregua, ma fragilissima. Una tregua "garantita" dalla pesane crisi nella quale riversa l'Ucraina. Nel primo trimestre di quest'anno il prodotto interno lordo ucraino ha perso 17,6 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Il micidiale balzo all'indietro si motiva in ragione del fatto che nel gennaio-marzo del 2014 la guerra nel Donbass, nell'est del paese, non era ancora scoppiata. Quindi le risorse pubbliche non erano state ancora dirottate in larga parte sullo sforzo militare, né l'apparato infrastrutturale e produttivo dei territori occupati dai miliziani filorussi nell'est, tra i più avanzati del paese, era stato danneggiato. Benché largamente attesa, la performance negativa del primo trimestre ha avuto la forza di ricordare che l'economia dell'ex Repubblica sovietica è in stato agonizzante e rappresenta la prima urgenza nazionale, ora che sul fronte del Donbass, dopo la tregua siglata a Minsk lo scorso febbraio, gli scontri sono diminuiti d'intensità. La guerra, ora, è un'altra: è tra il governo ucraino e i creditori. Il primo vorrebbe che una parte del debito sia tagliata. I secondi si oppongono con nettezza. Negli ultimi giorni la discussione si è inasprita. Kiev ha accusato i creditori, riunitisi in associazione su impulso di Franklin Templeton, società americana di gestione fondi, di agire in cattiva fede. Questo perché alcuni di loro rifiutano di rivelare la propria identità. In soccorso di Kiev è intervenuto Larry Summers, docente di Harvard, già segretario al Tesoro ai tempi della presidenza di Bill Clinton. Sul Financial Times ha scritto che salvare l'Ucraina ha una rilevanza morale, economica e geopolitica, aggiungendo che i creditori negoziano a viso coperto perché imbarazzati dalle loro stesse posizioni, definite poco costruttivo. Stati Uniti: il Nebraska abolisce la pena di morte, il parlamento batte il governatore Corriere della Sera, 28 maggio 2015 Pete Ricketts aveva messo un veto, ma è stato battuto 30 voti contro 19: il suo è il primo stato americano conservatore ad abolire la pena capitale dopo il North Dakota. Il Nebraska ha abolito la pena di morte. Il parlamento statale ha raccolto abbastanza voti - 30 sì e 19 no - per rovesciare il veto posto dal governatore Pete Ricketts alla legge per lo stop alle esecuzioni. Il voto fa del Nebraska il primo stato controllato da repubblicani che abolisce la pena di morte dopo il North Dakota, che lo fece nel 1973. Il Nebraska diventa così il 19 esimo stato americano, insieme a Washington Dc, in cui la pena capitale non è più in vigore. L'ultima esecuzione nello stato risale al 1997, e fu compiuta con l'elettroshock. Lo stato aveva poi adottato l'iniezione letale, ma i farmaci necessari sono terminati nel 2013, e le esecuzioni quindi sospese. Alcuni senatori, durante il dibattito, si sono detti "filosoficamente" d'accordo con la pena di morte, ma anche convinti che gli ostacoli legali per metterla in pratica la rendevano di fatto inattuabile. La mozione è stata condotta dal senatore indipendente Ernie Chambers, che ha combattuto per quattro decadi per l'abrogazione delle esecuzioni captali. L'ultima mozione presentata in Nebraska risaliva infatti al 1979, ma allora non ci furono abbastanza voti per superare il veto del governatore. L'ultimo stato ad abolire l'esecuzione capitale è stato il Maryland, nel 2013. Altri stati "moderati" l'hanno abilita recentemente: New Mexico nel 2009, Illinois nel 2011 e Connecticut nel 2012. Stati Uniti: il suicidio di Paula Cooper, simbolo contro la pena di morte di Guido Olimpio Corriere della Sera, 28 maggio 2015 Una storia maledetta, dall'inizio alla fine. Paula Cooper, che fu la più giovane condannata a morte americana, è stata trovata senza vita in un appartamento di Indianapolis. Il rapporto della polizia suggerisce come prima ipotesi il suicidio. Un colpo di pistola alla testa. L'indagine, come sempre in questi casi, resta aperta per altri accertamenti. Sarebbe così per tutti, ancora di più per questa vittima. E per ciò che ha rappresentato. È il 1986. Paula, allora quindicenne, uccide in modo brutale un'insegnante di religione, la povera Ruth Pelke. La killer le sale a cavalcioni, la insulta, le chiede dove sono i soldi, poi infierisce con un coltello. Ruth non può difendersi, risponde pregando il Signore. La polizia risolve il caso in modo rapido. Finiscono in manette la ragazza e tre complici, tutti ragazzini. Il loro processo si conclude con una sentenza esemplare: condanna capitale per Cooper, lunghe pene detentive per gli altri. L'orrore per il delitto, atroce, senza attenuanti, è seguito dalle polemiche per il verdetto. Ci si chiede come sia possibile mandare sul patibolo una quindicenne, una giovane che non ha conosciuto la giovinezza ma solo abusi e violenza. Non si invoca clemenza ma pietà. Nasce così una campagna internazionale, dagli Usa all'Europa, per fermare il boia. Tra i più attivi in Italia i radicali. Si raccolgono firme, si lanciano appelli, si muove anche Giovanni Paolo II. Tra quanti chiedono una soluzione diversa c'è anche Bill Pelke, il nipote di Ruth. Visita spesso Paula in prigione, intreccia un rapporto di amicizia solido, cerca di sensibilizzare autorità e opinione pubblica. Alla fine la battaglia per Paula ottiene l'impossibile. La Corte Suprema Usa, chiamata a pronunciarsi su un altro caso, sancisce che è incostituzionale giustiziare chiunque abbia meno di 16 anni al momento del crimine. La Corte dell'Indiana si adegua e commuta la pena per la Cooper in 60 anni di prigione. Paula ne sconterà 27 e uscirà, per buona condotta, nel 2013. Durante il periodo nel penitenziario studia, segue corsi di filosofia, si guadagna un diploma da infermiera. I professori di allora ricordano le sue difficoltà, l'incapacità di stabilire un rapporto tra il gesto criminale che ha compiuto e gli effetti. "Era una bambina e non doveva essere trattata da adulta", sottolinea Warren Lewis, uno degli insegnanti. E all'inizio delle detenzione Paula si mette ancora nei guai aggredendo una guardia. Assalto che le costerà tre anni di isolamento. Poi il riscatto, il tentativo di trovare un'altra strada. Missione difficile, sentiero pieno di ostacoli. Una volta fuori Paula Cooper è diventata quasi invisibile, faticava forse ad adattarsi. Bill Pelke rivela che in uno scambio di email l'ex condannata le aveva detto: "Sono spaventata. Ho passato gran parte della mia vita dietro le sbarre. Non so fare un assegno o pagare una bolletta". E il professor Lewis aggiunge: "Probabilmente aveva dei problemi a interagire con il nuovo mondo". Eppure voleva aiutare quanti avevano sbagliato a redimersi, era pronta a dare una mano in un'associazione di sostegno ad ex detenuti. Non c'è riuscita. La storia maledetta si è chiusa alle 7.15 di un mattino, all'isolato 9500 di Angola Court, Indianapolis. Condannata da 16enne alla pena capitale, per lei si mobilitò il mondo Pakistan: pena di morte; saliti al patibolo altri 9 detenuti, oltre 130 da dicembre Ansa, 28 maggio 2015 Altri nove detenuti, condannati a morte per omicidio, sono stati impiccati stamane all'alba in diverse prigioni del Pakistan. Lo riferisce Dunya Tv. Due prigionieri sono saliti al patibolo nella prigione di Kot Lakhpat a Lahore, mentre le altre esecuzioni sono avvenute a Rawalpindi, nel resto del Punjab e in Baluchistan. Ieri il boia è entrato in azione per nove prigionieri che erano nel braccio della morte da diversi anni con accuse di assassinio. Dallo scorso dicembre, quando il governo ha sospeso la moratoria adottata nel 2008 in seguito alla strage talebana alla scuola di Peshawar, sono stati impiccati oltre 130 detenuti. Lo scorso anno, il generale Raheel Sharif, capo delle forze armate, aveva detto che circa 3 mila carcerati potevano andare al patibolo in seguito alla ripresa delle esecuzioni nel Paese asiatico. Secondo i media locali, nel braccio della morte dei penitenziari ci sono circa 8 mila criminali, tra cui alcuni leader islamici irriducibili e talebani. Cina: campagna anticorruzione, prigione per un giorno come educazione dei burocrati di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 28 maggio 2015 Carcere di Shiyan, provincia cinese dello Hubei: le porte si sono aperte per ricevere, tutti insieme, 70 quadri del partito comunista e funzionari governativi di alto livello. Non li hanno arrestati (non ancora). I burocrati dell'apparato comunista sono stati portati un giorno in prigione per incontrare gli ex colleghi condannati per corruzione e uscirne tanto spaventati da evitare di fare gli stessi errori. È la nuova iniziativa a scopo educativo-preventivo elaborata dalla Commissione centrale per la disciplina del partito. Dal novembre del 2012 la campagna di pulizia lanciata dal presidente Xi Jinping ha fatto finire in cella centinaia di migliaia di burocrati corrotti. "Combatterò le tigri e schiaccerò le mosche", aveva detto il capo dello Stato: le tigri sono gli uomini del vertice che intascano tangenti milionarie, e già in cento sono cadute nella rete; mosche sono la massa dei piccoli e medi dipendenti pubblici che arrotondano stipendi bassi con ruberie varie. Un fenomeno, quello della corruzione, che la Cina non si può più permettere, perché il costo economico è enorme e mina la credibilità del partito-Stato. Nella visita obbligata al carcere, gli uomini erano accompagnati dalle mogli, perché il messaggio arrivasse al cuore delle famiglie, rafforzandolo. Durante il tour durato un'intera giornata, propagandato dalla stampa statale, il gruppo ha incontrato 15 funzionari condannati: "I loro ex capi e colleghi, colpevoli di aver preso tangenti o di abuso di potere", ha scritto il China Daily. Il personale dell'istituto di pena aveva preparato la scena come un parco a tema, appendendo alle pareti della stanza dove si è tenuta una lezione di buon comportamento le foto dei corrotti in divisa da detenuto o durante gli umilianti interrogatori ai quali secondo la procedura cinese seguono confessioni complete. "Siamo rimasti colpiti ascoltando i corrotti che raccontavano il loro profondo pentimento", ha detto uno dei partecipanti. Tra gli ospiti permanenti delle celle c'era l'ex compagno Lu Xingguo, già capo del demanio nello Hubei, soprannominato "il segretario tre sacchi": aveva un sacco di amici e clienti, un sacco di traffici e un sacco di soldi. Vedendolo in quella condizione, schiacciato dalle sue colpe, i visitatori dovrebbero essere stati sufficientemente impressionati (spaventati) da evitare di ripetere i suoi errori. Tour analoghi si stanno svolgendo in tutte le province della Repubblica popolare. L'inventiva degli inquisitori della Commissione di disciplina non si ferma qui. Siccome le autorità sostengono che un'alta percentuale di corruzione sia ispirata da mogli e amanti dei quadri del partito, vengono organizzate anche escursioni per sole compagne. Cinquanta mogli di alti funzionari dello Jianxi sono state invitate a indossare l'antica divisa dell'Armata Rossa maoista e condotte in luoghi simbolo della Lunga marcia. Immergendosi in quell'atmosfera di purezza rivoluzionaria, vestendo come i vecchi soldati dell'esercito contadino e operaio che negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso non conoscevano la corruzione, le compagne dei moderni quadri della seconda economia del mondo dovrebbero recuperare il rigore delle origini e "riportare sulla via dell'integrità i loro mariti", scrive il China Daily.