Non benefici, ma diritti. Urge nominare il Garante nazionale delle persone detenute di Redazione Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2015 Solo riconoscendo alle persone detenute il rispetto dei loro diritti è possibile chiedere loro responsabilità e consapevolezza, per questo è urgente che venga nominato il "Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale". La legge penitenziaria compie quarant'anni, è tempo di bilanci anche per i diretti interessati, per le persone detenute che vivono sulla loro pelle le cose buone e quelle meno buone di quella legge, e la capacità delle istituzioni di applicarla o invece di violarla, come è avvenuto sistematicamente in questi anni di sovraffollamento. Se le carceri del nostro Paese sono tutt'altro che un esempio di civiltà, se lo Stato è costretto a risarcire i detenuti per averli trattati in modo disumano e degradante, allora forse è venuto il momento di fare una riflessione seria sulla necessità di un cambiamento radicale nel modo di intendere le pene e il carcere. Noi pensiamo che non si faranno grandi passi avanti se le persone detenute non si riprendono in mano in qualche modo il loro destino. In fondo, l'esperienza di Ristretti Orizzonti ci ha insegnato questo: che a parlare di carcere, a ripensare il senso che dovrebbero avere le pene, a ragionare su temi complessi come l'ergastolo e i regimi di 41 bis e Alta Sicurezza non possono essere solo gli esperti o gli addetti ai lavori, e che non è pensabile un cambiamento vero se non si coinvolgono le persone detenute nel confronto e nelle battaglie necessarie per dare forza e sostanza all'idea di una esecuzione penale che abbia alla base il concetto di dignità. E non ci può essere dignità delle persone private della libertà personale se ancora si continua a parlare di "benefici" e non invece di diritti. È un diritto scontare una pena che abbia un senso, e scontarla in modo umano. E non c'è dignità se le persone detenute sono trattate come bambini, spostate come pacchi ed escluse da qualsiasi decisione che ha a che fare con la loro condizione. Recentemente abbiamo lanciato la campagna "Per qualche metro e un po' di amore in più" che ha coinvolto le associazioni appartenenti alla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e migliaia di detenuti in una grande battaglia per cambiare la legge che riguarda i loro affetti, le loro famiglie. Pensiamo che sia importante che quella partecipazione così attiva diventi una pratica comune, invitiamo allora le persone detenute a chiedere la parola per intervenire in tutte le situazioni in cui è in gioco il loro destino, a battersi per essere coinvolte davvero negli Stati Generali sulle pene e sul carcere, a cercare di allargare quel ruolo che in tanti hanno avuto quando si è trattato di lottare per un po' di amore in più. Ma sappiamo anche bene che chi è detenuto ha poche tutele, e se si impegna in prima persona in battaglie non violente, ma significative per cambiare le sue condizioni di vita può anche rischiare rapporti disciplinari, trasferimenti, difficoltà nei suoi rapporti con le Istituzioni. È anche per questo che chiediamo allora che venga finalmente nominato il "Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale", che è stato istituito con la legge n. 10 del 2014 ed è chiamato a vigilare "affinché l'esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, dei sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazioni della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall'Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti". E chiediamo anche che, dopo la sua nomina, la nostra redazione possa incontrare questa nuova, importante figura di tutela: perché da anni ci impegniamo per portare ovunque il punto di vista delle persone detenute, per informare e sensibilizzare sulla realtà delle pene e del carcere a partire dalle testimonianze dei diretti interessati, e allora pensiamo che un confronto con chi finalmente si dovrà occupare di tutelare la nostra dignità e i nostri diritti sarebbe un inizio significativo della attività del Garante. L'ex direttrice di Bollate, Lucia Castellano, in un recente incontro nella nostra redazione ha definito Ristretti Orizzonti una "goccia cinese" sulla testa dell'Amministrazione. La goccia cinese è una specie di tortura, e noi sappiamo di esserlo quando martelliamo sulla necessità di trasformare una pena che infantilizza in una pena che riconosce responsabilità alle persone detenute, ma il dizionario della lingua italiana spiega bene il funzionamento di quella goccia "Essere come la goccia cinese, insistenti e implacabili". È così che vogliamo essere, "insistenti e implacabili" nel chiedere di avere un ruolo ATTIVO in quella che si spera sia una fase nuova della esecuzione delle pene, che porti a un superamento del concetto di "benefici" e alla affermazione dell'idea di riconoscere DIGNITÀ e DIRITTI a chi è privato della libertà. Il progetto "Scuola Carcere" va in vacanza di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2015 Durante il progetto "scuola carcere" oggi mi hanno chiesto cosa mi manca più di tutto Ci ho pensato qualche istante. Poi ho risposto che la cosa che manca più di tutto ad un ergastolano è il futuro. (Diario di un ergastolano carmelomusumeci.com). Anche quest'anno il progetto "scuola carcere", qui nel carcere di Padova, va in vacanza. E fra i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti c'è un po' di malinconia perché a molti di noi piace uscire dal nostro isolamento sociale per incontrare in carcere gli studenti. Raccontare le nostre storie di vita che ci hanno portati in carcere e rispondere alle domande dei ragazzi ci aiuta a sentire che facciamo ancora parte della società e della umanità. Vi confido che nei primi tempi facevo fatica a gestire le mie emozioni quando ero davanti ai visi, agli sguardi, agli occhi di quei ragazzi. Vi confesso che probabilmente condizionato da decenni d'isolamento sociale totale, in un primo tempo durante questi incontri stavo male, mi sentivo impreparato, senza difese, fragile e a volte mi vergognavo. Adesso però va un po' meglio. E ormai questi incontri mi danno tanta forza per continuare a scontare la mia pena che non finirà mai. Vi svelo che solo davanti a loro ho iniziato a sentirmi in colpa per le mie scelte di vita sbagliate e credo di avere imparato più da loro che dalle pareti della mia cella o dalle sbarre della mia finestra. Mi sono anche accorto che il senso di giustizia dei giovani è molto più avanti di quello degli adulti. Le parole di questi ragazzi mi hanno spesso riempito il cuore e la cella di dubbi, senso di colpa, conforto, tenerezza e amore sociale. Quest'anno a una domanda di una ragazza ho risposto che l'ergastolano si chiede spesso perché deve continuare a vivere anziché farla finita con una vita che tanto spesso è un inferno. E ammazzarsi non è affatto una domanda, ma una risposta. Invece a un ragazzo ho risposto che spesso si è cattivi quando manca una via di scampo, non hai alternative e ti senti impotente. Ed in tutti i casi è difficile rimanere umani quando ti chiudono dentro una cella, per un quarto di secolo, a doppia mandata e buttano via le chiavi. A una domanda di una insegnante ho risposto che amo tanto i miei figli perché sono tutto quello che io non sono riuscito ad essere. Poi ho aggiunto che è difficile amare un ergastolano eppure la mia compagna ci sta riuscendo da ventiquattro anni. E a un insegnante ho risposto che probabilmente è giusto che la società ci punisca e ci chiuda in una cella, ma se non vuole diventare una società crudele e cattiva è meglio che un giorno si ricordi di aprire la cella. Non vedo già l'ora che arrivi settembre e che inizi di nuovo il progetto "scuola carcere" per trovarmi di nuovo davanti ai miei "giudici" molto più giovani, umani e sensibili di quelli che mi hanno maledetto e condannato ad essere cattivo e colpevole per sempre. Gli Stati Generali sul carcere e sulla pena visti da Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2015 "L'Assassino dei Sogni è un carcere senza più sbarre e senza orizzonte, è la presenza silenziosa del nulla, è il secondino nella testa. È oggi è qui. Eppure non c'è disperazione in queste pagine, né resa. C'è la lucida consapevolezza del male e l'incanto di uno sguardo bambino, ed è tutto in uno stesso sguardo. E in quello stesso sguardo, l'ultima parola ce l'ha la libertà, ben al di là dei muri e delle sbarre, del dolore e della paura, della vita e persino della morte. Così questa storia evade, vola via dall'Asinara e da Sulmona e osserva dall'alto il "mondo irriformabile" che la circonda. E gli sorride." (Dalla postfazione di Claudio Falbo al libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni". Prefazione di Erri De Luca. Edizioni Erranti. Anno 2015. Il libro si può ordinare tramite il sito www.carmelomusumeci.com con l'indirizzo email zannablumusumeci@libero.it). L'altra settimana nel carcere di Bollate alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, di associazioni e istituzioni c'è stata la presentazione degli "Stati Generali" sul carcere e sulla pena per discutere sulle tematiche carcerarie. E dai vari giornali che sfoglio tutti i giorni ho letto che si organizzeranno 18 tavoli di lavoro aperti a tutti, anche ai detenuti. E mi fermo a questa ultima parola "anche ai detenuti" perché penso che gli Stati Generali li debbono fare, o devono avere un ruolo da protagonista, soprattutto i prigionieri che la galera la conoscono e la vivono tutti i giorni sulla propria pelle. Che ne sanno, con tutto il rispetto e la simpatia che provo per le personalità del mondo della cultura, della magistratura, del volontariato, della politica e dell'amministrazione penitenziaria, come vivono, cosa pensano e cosa provano i detenuti? In questi giorni dal carcere di Bollate (Milano) Matteo mi ha scritto "(…) Proprio ieri martedì 19 maggio, il Ministro Orlando ed altri esperti hanno visitato il carcere per aprire gli "Stati Generali" sul carcere e sulle pene. E hanno presentato un'idea di fare 18 tavoli tematici sui problemi della detenzione per riformare l'ordinamento penitenziario. Non si sono però degnati di far presenziare una rappresentanza di detenuti e hanno "dato buca" al gruppo che per loro aveva preparato un concerto musicale. Le ingiustizie continuano ad essere molte, queste le minori, e molto spesso accade che una ri-educazione ci sia, ma una ri-educazione alla menzogna e non all'onestà. Le storie da raccontare potrebbero essere moltissime. E se veramente fossero conosciute farebbero rabbrividire (…)". Ho risposto a Matteo che purtroppo in molti non vogliono che vengano conosciute. A questo punto che altro posso fare se non prendere carta e penna e scrivere una lettera aperta al Ministro della Giustizia? Ministro, (da quello che apprendo dai giornali) Lei parla di un percorso di approfondimento con 18 "tavoli tematici" che in autunno dovrebbe tradursi concretamente "sia a livello normativo che organizzativo". Leggo ancora che per la prima volta ha coinvolto non solo gli "addetti ai lavori" ma anche il mondo della cultura, dell'economia, dello spettacolo e del volontariato per cercare di parlare all'opinione pubblica. E a questo punto le domando: che cosa faranno i detenuti a parte farsi la galera? Penso che lei rischi di perdere una buona occasione per unire chi la pena la vive e chi la deve ripensare. Credo che noi dovremmo avere un ruolo attivo perché chi meglio di noi può consigliare cosa funziona e cosa no? Penso che anche dai cattivi c'è da imparare, se veramente vuole portare la legalità, la legge, e la nostra carta costituzionale in carcere. Ministro venga in carcere parli e si confronti con noi come facevano i politici di una volta, ma lo faccia subito, non "a giochi fatti".. E mi permetto di ricordarle che i padri della nostra Costituzione il carcere lo conoscevano bene perché molti di loro sotto il fascismo si sono fatti tanti anni di galera. Ministro, oggi pensavo con tristezza che fra il carcere minorile e quello da maggiorenne ho quasi passato quarant'anni nelle patrie galere. Quasi tutta la vita da ragazzo e quella da uomo. E adesso ci sto passando la vecchiaia. Sapesse quante cose le potrei raccontare se lei veramente volesse umanizzare le carceri. Sono entrato in carcere appena quindicenne. Nel lontano 1972. In quasi quarant'anni di carcere ho passato tanti lunghi periodi in regime d'isolamento nelle sezioni di punizione. Ed ho girato così tante galere che non me le ricordo neppure più tutte. Nel frattempo ho visto che alcune carceri sono state chiuse. E altre sono state aperte. I cortili dei passeggi però, sia nelle galere vecchie che in quelle nuove, sono rimasti sempre i soliti. Tutti assomigliano a delle tombe allargate dove i detenuti vanno avanti ed indietro. Spesso nelle aree dei detenuti di alta sicurezza il cielo viene coperto da una fitta rete metallica. Ed in questo modo questi fazzoletti di cemento assomigliano a delle voliere per uccelli. Ministro, Le potrei raccontare di celle con le pareti scrostate umide e buie, larghe un metro e mezzo e lunghe due metri e mezzo. Le potrei riferire di celle, che voi avete il coraggio di chiamare camere, con i pavimenti di cemento color pece con grossi cancelli arrugginiti davanti e pesanti blindati dietro, dotate di una feritoia per fare passare i pasti. Le potrei narrare di finestre con doppie sbarre esternamente circondate da spesso filo spinato e delle porte di ferro che anni fa rimanevano sempre chiuse sia di giorno che di notte sia d'inverno che d'estate. Le potrei raccontare dei locali dove si svolgono i colloqui con i familiari spogli e che odorano di sofferenza. Le potrei riferire delle lunghe attese che i familiari fanno per incontrare i propri cari. Le potrei narrare dei colloqui che fanno i detenuti quando sono sottoposti ai regimi del carcere duro tramite un vetro divisorio che non permette di sentire battere il cuore delle persone a cui vogliono bene. Le potrei raccontare di tante altre cose, venga a trovarci a Padova e le racconteremo l'inferno delle nostre Patrie Galere. Nel frattempo le invio un sorriso fra le sbarre. Giustizia: l'allarme dei pm Gratteri e Cafiero de Raho "nessuno tocchi il 41 bis" di Stefano Perri strill.it, 27 maggio 2015 Nessuno tocchi il 41 bis. È l'urlo che si solleva dalla Procura di Reggio Calabria. I boss continuano a gestire le cosche, ad impartire direttive sulle gerarchie e gli interessi economici, pur da detenuti in regime di carcere duro. Figuriamoci cosa accadrebbe se venisse in qualche modo depenalizzato. A parlarne sono due trai più autorevoli esponenti della procura reggina: l'aggiunto Nicola Gratteri e il Procuratore Capo Federico Cafiero de Raho. L'operazione condotta stamani dalla Guardia di Finanza su alcuni esponenti della cosca Commisso di Siderno è l'ennesima dimostrazione di come i boss continuino, pur in regime di detenzione, ad impartire ordine e disposizioni ai clan, soprattutto per mezzo dei familiari. È il caso ad esempio del 59enne Antonio Commisso, detto "l'avvocato", considerato uno dei capi dello storico sodalizio criminale di Siderno. Le carte dell'indagine che questa mattina ha portato alla sbarra 18 soggetti a vario titolo legati alla cosca del mandamento ionico parlano chiaro: il boss pianificava e definiva le decisioni più rilevanti e le strategie criminali del gruppo attraverso il fratello Giuseppe Commisso, detto "il mastro", che lo informava costantemente di ciò che avveniva all'esterno. E sempre nell'ambito dell'odierna operazione gli inquirenti hanno accertato anche il ruolo di Santo Rumbo, giovane rampollo della cosca, che mentre il padre era detenuto si occupava per conto dell'organizzazione dell'esercizio abusivo del credito e dell'usura, ricevendo direttive direttamente dal padre ed informandolo di tutte le evoluzioni più determinanti nelle dinamiche criminali del gruppo. Circostanze inaccettabili, certamente frustranti per gli apparati giudiziari responsabili della repressione del fenomeno mafioso. Anni di indagini molto spesso vanificati dalla possibilità per i boss, di continuare a detenere il loro ruolo egemone sul territorio, nonostante il regime di detenzione. "La Commissione Manconi in parlamento chiede di ammorbidire il regime di 41 bis - ha commentato il Procuratore Aggiunti Nicola Gratteri - ma è bene ricordare che se i detenuti sono sottoposti al carcere duro è perché hanno ucciso, perché sono i capi delle organizzazioni criminali. Dobbiamo capire se è più importante tutelare i diritti di una minoranza che sta dentro il carcere o tutelare la sicurezza di tutti quelli fuori". Un richiamo al quale si unisce l'allarme lanciato dal Capo della Procura reggina Cafiero de Raho. Per lui "non si può giustificare la necessità di depenalizzare il regime del carcere duro con la difficoltà di reperire strutture adeguate. Se le carceri non ci sono costruiamone di nuove - ha spiegato Cafiero de Raho - altrimenti riapriamo quelle che c'erano. Certo momenti di socialità non possono essere assolutamente negati anche ai criminali, ma io penso che qualsiasi intervento normativo di questo tipo, così come quello sul regime di custodia cautelare, va assolutamente parametrato alle esigenze del territorio. Per reati di tipo mafioso - ha aggiunto il Procuratore - non si può assolutamente fare passi indietro. Cosa diversa è invece per altri tipi di reato, sui quali è possibile porre il problema. Oggi assistiamo ad una netta divaricazione tra le analisi sul sistema giudiziario: c'è chi chiede maggiori strumenti per interventi più incisivi e chi dall'altra parte chiede quasi un ridimensionamento. Io penso queste due spinte vadano in qualche modo conciliare. E ad interpretarle non può che essere il giudice, che valuta il contesto territoriale sul quale vanno ad applicarsi". Giustizia: Banca dati nazionale del Dna. Intervista a Beniamino Migliucci (Ucpi) Adnkronos, 27 maggio 2015 La legge per la creazione di una banca dati nazionale del Dna esiste, dal 2009, ma da sei anni mancano i decreti attuativi per colmare un ritardo tutto italiano su questo tema. La legge per la creazione di una banca dati nazionale del Dna esiste, dal 2009, ma da sei anni mancano i decreti attuativi per colmare un ritardo tutto italiano su questo tema. A spiegare, in termini giuridici comprensibili, un tema complicato è Beniamino Migliucci, presidente dell'Unione delle camere penali italiane. Interpellato dall'Adnkronos sull'inchiesta sulle violenze sessuali spiega che la legge 85 del 2009 prevede l'istituzione della banca dati nazionale del Dna e del Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna, il primo di competenza del ministro dell'Interno, l'altro del ministero della Giustizia. La legge del 2009 che attuava il trattato di Prum del 2005 prevedeva l'istituzione entro quattro mesi di regolamenti per il funzionamento di questi nuovi strumenti; questo termine invece non è stato rispettato. Lo scorso febbraio però il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha rassicurato sul via a breve: "il secondo semestre del 2015 potrà vedere l'avvio concreto di operatività di Banca dati e Laboratorio, dotando così la polizia giudiziaria e la magistratura di un nuovo, efficace mezzo di conduzione delle indagini". I diversi articoli inseriti nella legge prevedono, spiega l'avvocato "la raccolta dei profili genetici" in caso di persone fermate o arrestate, così come "il compito di raffronto per l'identificazione" del responsabile. E' corretto e giusto - sottolinea il legale Migliucci - che se esistono tracce utili per le indagini vengano acquisite e che si proceda all'analisi anche a carico di ignoti, rispetto a un reato che può essere seriale come la violenza sessuale". La legge del 2009 prevede "che possano essere raccolti profili del Dna relativi a reperti biologici acquisiti nel corso delle indagini per poi potere effettuare eventuali comparazioni". Il tutto "senza dimenticare" il rispetto dei protocolli che impediscono di contaminare un campione e ricordando che "più si tardano queste analisi, maggiore è il rischio di deterioramento e di contaminazione del materiale biologico". In sostanza, conclude il presidente dell'Unione delle camere penali italiane "esiste un riferimento normativo chiaro su cui, visto che siamo in ritardo, occorre accelerare anche per garantire il rispetto delle procedure previste dalla normativa". Giustizia: Cassazione; sulla legge Severino decide il giudice ordinario e non il Tar di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2015 Spetta al giudice ordinario, e non a quello amministrativo, decidere sugli atti di sospensione degli amministratori locali condannati, disposti in base alla Legge Severino. È questa la decisione che, secondo indiscrezioni, avrebbero preso ieri le sezioni unite civili della Corte di cassazione. Il verdetto ufficiale si conoscerà al più presto venerdì o, più probabilmente, dopo le elezioni amministrative, contestualmente al deposito della motivazione perché nel civile, a differenza del penale, il dispositivo non è pubblico dopo l'udienza. Ma anche se le indiscrezioni saranno confermate, non cambierà lo scenario per Vincenzo De Luca, candidato in Campania - dove il 31 maggio si vota insieme a Marche, Puglia, Toscana, Liguria, Veneto e Umbria - poiché, in caso di una sua vittoria e di impugnazione del prefetto, spetterà al Tribunale invece che al Tar la decisione sulla sua eleggibilità. Tutto da rifare, invece, per il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, intervenuto in Cassazione e, sempre se saranno confermate le indiscrezioni, uscito soccombente dalla decisione: la sospensiva del Tar che al momento lo mantiene nelle sue funzioni di primo cittadino sarà azzerata e, entro trenta giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza delle sezioni unite, il sindaco di Napoli dovrà riassumere la questione davanti al giudice civile e attenderne la pronuncia. Il ricorso alle sezioni unite della Cassazione per stabilire la competenza giurisdizionale sul destino dei politici condannati, e perciò incappati nelle maglie della Legge Severino, è stato presentato dal "Movimento per la difesa del cittadino", rappresentato al Palazzaccio dall'avvocato Gianluigi Pellegrino. Davanti alla Corte, presieduta da Antonio Rovelli, numero due della Cassazione dopo il primo presidente Giorgio Santacroce, la Procura generale si è espressa per la giurisdizione del giudice ordinario, sia con una requisitoria scritta del sostituto Luigi Salvato e depositata due mesi fa sia con la requisitoria pronunciata ieri in udienza dal Pg Umberto Apice. Musica per le orecchie di Pellegrino; boccone amaro per l'avvocato di De Magistris, Lorenzo Lentini. Ancora di più dopo la notizia, seppure ufficiosa, del verdetto della Corte. La decisione della Cassazione non dovrebbe avere conseguenze nel giudizio di legittimità costituzionale sollevato dal Tar Campania sulla legge Severino sia perché all'epoca i giudici amministrativi erano legittimati sia perché, nel frattempo, anche la Corte d'appello di Bari si è rivolta alla Consulta nel reintegrare un consigliere pugliese, così come aveva fatto il Tar Campania con De Magistris. Le questioni saranno quindi probabilmente riunite e decise insieme. La giurisdizione del giudice ordinario non avrà effetti nei casi in cui siano già passate in giudicato le sentenze dei giudici amministrativi. Laddove non sia così, la sentenza delle sezioni unite riporta indietro le lancette. È il caso di De Magistris ma anche di De Luca, candidato governatore del Pd, condannato a gennaio scorso in primo grado per abuso d'ufficio e sospeso dalle funzioni di sindaco di Salerno per effetto della legge Severino, salvo poi essere reintegrato nelle funzioni dal Tar. Nel frattempo, però, la sua partita si è spostata sul governo della Regione e a questo punto avrà davanti a sé tre strade, qualora fosse eletto governatore e l'elezione fosse impugnata dal prefetto davanti al Tribunale: il giudice civile potrebbe decidere nel merito e non reintegrare De Luca; oppure potrebbe decidere anche lui di impugnare davanti alla Consulta la legge Severino sospendendone gli effetti e, quindi, lasciando in carica De Luca; o, ancora, potrebbe emettere un provvedimento di sospensione cautelare e riservarsi di decidere nel merito solo dopo la pronuncia della Consulta sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Bari. Giustizia: con la negoziazione possibile un taglio del 20% per le nuove cause civili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2015 Sullo smaltimento dell'arretrato civile arriva qualche segnale incoraggiante. E il ministero della Giustizia lo attribuisce all'efficacia delle nuove misure sulla composizione stragiudiziale del conflitto. I risultati di un primo monitoraggio a campione, condotto però su 10 uffici giudiziari che per dimensioni sono stati ritenuti rappresentativi della realtà nazionale, aggiungendovi anche 5 grandi città, sono stati presentati ieri dal ministro Andrea Orlando che ha parlato di "febbre che inizia a scendere". A confortarlo ci sono i numeri delle controversie in entrata. Con riferimento al 2014, le liti in ingresso nei 15 tribunali presi in esame, sono diminuite quasi del 14% (13,8%, passando, rispetto al 2013, da 697.428 a 601.029). Ma a corroborare ulteriormente il buon umore del ministro sono i dati di gennaio 2015 (su gennaio 2014), che segnala un calo tendenziale del 20 per cento. "I risultati sono assai confortanti", ha detto Orlando, pur evidenziando che per ora si tratta di un trend, cioè di "numeri che hanno un valore indicativo". "La tendenza - fa un primo bilancio Orlando - è migliore di ciò che ci si aspettava, c'è stata una riduzione drastica delle cause in ingresso; il che ci consente di dire che le norme funzionano. Senza trionfalismi possiamo dire che è la prima buona notizia sull'esito delle riforme e sul fronte della giustizia civile da molti anni". Altro elemento confortante è quello relativo ai primi effetti del divorzio facile, la procedura che, a parità di tempi di separazione, permette lo scioglimento del matrimonio senza la necessità di un procedimento giudiziario. A gennaio 2015, su gennaio 2014, sia pure con un andamento più altalenante da sede a sede, il calo delle iscrizioni nella materia è stato del 30 per cento. Questi dati di minori nuove iscrizioni di cause civili fanno stimare, si fa osservare in via Arenula, un calo di pendenze nei soli Tribunali di oltre 100.000 affari. Il calo delle pendenze, che farà sentire i suoi effetti anche nei prossimi anni per effetto dell'anzianità dell'arretrato, dipenderà anche dal livello di definizioni che sarà realizzato dagli Uffici. Le pendenze civili si ridurranno tanto più quanto il sistema saprà mantenere alto il livello di produttività (fatto segnare negli anni passati). Con questa riduzione di iscrizioni a parità di produttività si può anche prevedere di raggiungere rapidamente la soglia dei 4,5 milioni di pendenze rispetto ai 6 milioni di solo pochi anni fa. E ieri il viceministro Enrico Costa ha anche diffuso i dati al Forum della pubblica amministrazione sulla giustizia digitale ha diffuso i dati sull'andamento del processo digitale. Ad aprile 2015, rispetto a dicembre 2014, in particolare, si è registrato un forte incremento dei depositi (+196%); in particolare progressione il deposito di atti endo-procedimentali (+ 215%) e introduttivi (+412%). Rispetto a luglio 2014, gli atti endo-procedimentali depositati telematicamente sono aumentati del 476% e quelli introduttivi addirittura del 726 per cento. Il 43% degli atti è stato depositato da avvocati, seguiti dai curatori (16%), dagli ausiliari (13%), dai delegati (13%), dai custodi (12%). Quanto alla tipologia del contenzioso, il 53% riguarda il civile, il 16% il fallimentare, il 18% le esecuzioni, il 12% il lavoro, l'1% la volontaria giurisdizione. Con riferimento, invece, ai provvedimenti digitali depositati dai magistrati, da aprile 2014 ad aprile 2015 ammontano a 2.332.882, di cui: 695.507 verbali di udienza (30% del totale); 346.337 decreti ingiuntivi (15%); 182.687 sentenze (8%). Sempre ieri, in un incontro con l'Anm, Orlando ha assicurato, che entro la fine dell'anno, dovranno entrare in servizio 2.000 addetti amministrativi. Una boccata di ossigeno a fronte di scoperture che toccano ormai quota 8.000. Mediazione, la mancata partecipazione dell'onerato rende la domanda improcedibile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2015 Tribunale di Firenze - Sezione terza civile - Sentenza 21 aprile 2015. La terza Sezione civile del tribunale di Firenze, con la sentenza 21 aprile 2015, prende posizione sulla questione della sanzione processuale applicabile in caso di mancata partecipazione alla mediazione della parte onerata ex lege. E sceglie per l'improcedibilità della domanda, e non dunque per le sanzioni ex articolo 8 del Dlgs 28/2010, con una soluzione interpretativa che si pone in contrasto con altra recente giurisprudenza di merito. Secondo il giudice Alessandro Ghilardini, inoltre, la condizione di procedibilità non può dirsi avverata per la mera attivazione di fronte all'organismo competente del procedimento di mediazione, essendo, invece, necessaria anche la partecipazione della parte onerata. La vicenda - Il caso parte dall'opposizione di una Srl ad un decreto ingiuntivo, per circa 22mila euro, emesso dal tribunale di Empoli per lavori eseguiti in appalto. L'opponente aveva eccepito l'errato computo del credito, il ritardo ed una serie di danni conseguenti alla non corretta esecuzione dei lavori chiedendo la riduzione del debito. Disposta la mediazione delegata, la parte opposta l'ha regolarmente avviata nei tempi ma l'opponente, "malgrado i numerosi rinvii", non si è mai presentato. Da qui la richiesta di improcedibilità dell'opposizione. La norma - Doglianza accolta dal tribunale che premette di aderire all'orientamento secondo cui, in caso di omessa mediazione in procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, la sanzione dell'improcedibilità non va a colpire la pretesa creditoria azionata in via monitoria, bensì la stessa opposizione, con conseguente irrevocabilità del decreto ingiuntivo. Sul punto, poi, il giudice afferma che l'articolo 5, comma 2-bis del Dlgs n. 28/2010, così come introdotto dal Dl 69/2013 convertito nella legge 98/2'13 - secondo cui la condizione di procedibilità della domanda giudiziale "si considera avverata se il primo incontro avanti al mediatore si conclude senza l'accordo" - va interpretato nel senso che "il "primo incontro" non può che essere quello delle parti, cioè di tutte le parti del giudizio, avanti al mediatore". E la parte onerata, prosegue la sentenza, che sempre "secondo l'orientamento cui si aderisce", è "la parte opponente nelle opposizione a decreto ingiuntivo (ovvero l'appellante nell'appello)", ha in ogni caso l'onere di partecipare al primo incontro avanti al mediatore. Ciò non solo quando, come di solito accade, la stessa abbia promosso tale procedimento, ma anche quando lo stesso sia stato in concreto attivato dalla controparte. La motivazione - Ciò detto, prosegue la sentenza, "esperire una procedura" non equivale ad avviarla, bensì a compiere tutto quanto necessario perché la stessa raggiunga il suo esito fisiologico, che nel caso della mediazione coincide, quantomeno, con il primo incontro avanti al mediatore e, se anche l'altra parte compare, con l'avvio dell'effettiva attività mediatoria". Né a diversa conclusione, continua il tribunale, può giungersi guardando l'articolo 8, comma 4-bis del Dlgs 28/10, secondo cui dalla mancata partecipazione il giudice può desumere argomenti di prova, e condannare al versamento di una somma di importo pari al contributo unificato. Se, infatti, "ad una prima lettura tale disposizione sembrerebbe escludere che alla mancata partecipazione di una parte al procedimento possa seguire la sanzione della improcedibilità, per cui le conseguenze sarebbero unicamente di carattere probatorio (ex art. 116 c.p.c. ) e pecuniario (Trib. Taranto ord. 16.4.2015)", "alla luce della ratio della sanzione della improcedibilità e della efficacia deflattiva dell'istituto", tale disposizione "va invece letta nel senso che essa sia applicabile esclusivamente nei confronti della parte che non è onerata ex lege, sotto comminatoria di improcedibilità, all'esperimento della mediazione". La ratio - E infatti la logica dell'istituto "è chiaramente, nel senso di onerare chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero propone opposizione a decreto ingiuntivo, ovvero appello, non solo a promuovere la mediazione, ma anche a partecipare al relativo procedimento al fine di rendere possibile un accordo tra le parti in quella sede". Diversamente si renderebbe possibile alla parte onerata "di assolvere alla condizione, assicurando così la procedibilità della propria domanda, semplicemente attivando il procedimento e non mediante "l'esperimento" dello stesso". In conclusione va sanzionato con l'improcedibilità il comportamento della parte onerata ex lege che, a prescindere dalla attivazione o meno del procedimento da parte sua, non lo coltiva non comparendo al primo incontro avanti al mediatore. Al contrario, la mancata partecipazione della parte convenuta "non potrà avere alcuna rilevanza ai fini della procedibilità della domanda attorea, non potendo certo la parte diligente subire un pregiudizio per la mancata collaborazione di quella che non ha interesse". Niente equa riparazione al dirigente comunale connivente con il piano del sindaco di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 26 maggio 2015 n. 22063. Non spetta alcuna riparazione per ingiusta detenzione al dirigente comunale che assecondi la volontà del sindaco di demansionare dipendenti della Polizia municipale che risultino sgraditi al primo cittadino. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 22063/2015 . La Corte si è trovata a decidere su una vicenda in cui il protagonista, un dirigente pubblico, era stato condannato per connivenza con l'operato del sindaco alla misura cautelare degli arresti domiciliari per un totale di 56 giorni per i reati di abuso di ufficio, violenza privata e peculato. I due precedenti giudizi - Nei precedenti gradi l'esito era stato completamente differente. Mentre, infatti, i giudici della Corte territoriale avevano rilevato come il gip nel corso dell'udienza preliminare avesse prosciolto il dirigente dal reato di peculato e rispetto ad alcune ipotesi di abuso di ufficio. I medesimi togati, peraltro avevano prosciolto l'imputato, anche dalle residue imputazioni di abuso di ufficio e violenza per non aver commesso il fatto e da altra ipotesi di peculato per insussistenza del fatto. Completamente differente il verdetto dei giudici della Corte distrettuale. Questi hanno evidenziato come il dirigente avesse assunto un ruolo contiguo rispetto alle decisioni prese dal sindaco e relative agli spostamenti di alcuni dipendenti della polizia municipale, da un settore all'altro, rispondenti a finalità assolutamente extraistituzionali. Basti citare la circostanza che l'imputato avesse convocato un dipendente della polizia prospettandogli l'opportunità di schierarsi dalla parte del sindaco. Secca - quindi - era stata la condanna da parte della Corte d'appello di Firenze che aveva riconosciuto pienamente legittima la condanna. Responsabilità anche con comportamento passivo - La Corte ha puntualizzato a tal fine che anche il comportamento passivo del connivente può assumere valenza ostativa, rispetto al diritto all'equa riparazione, qualora il soggetto non si sia limitato ad assistere passivamente alla consumazione di un reato da parte di terzi, ma abbia tollerato che il reato venisse consumato pur essendo in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell'attività criminosa. Conclusioni - Si legge nella sentenza come già la Corte distrettuale avesse evidenziato che il soggetto che pretendeva la riparazione fosse in pieno accordo con il sindaco per effettuare gli spostamenti del personale e conseguentemente mandare in crisi i dipendenti stessi che non si allineavano alla linea operativa indicata dal primo cittadino. E questo era facilmente desumibile dall'attività svolta dal dirigente nel fugare le voci che indicavano il sindaco come autore dei trasferimenti, tanto che nel corso della conferenza dei dirigenti, aveva fatto mettere a verbale che gli spostamenti rispondevano a criteri di buona amministrazione. Rimborsi indebiti per prestazioni sanitarie, Asl condannate per danno erariale di Michele Nico Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2015 Sentenza della Corte dei conti Toscana n. 81/2015. Condanne per una somma complessiva superiore a 25 milioni di euro, oltre a interessi legali e rivalutazione monetaria, a carico di varie case di cura private e dei dirigenti di un'azienda sanitaria, in conseguenza del danno causato alle casse di quest'ultima per l'indebito rimborso di prestazioni sanitarie non previste a carico del Servizio sanitario nazionale, e già in precedenza pagate dai pazienti privati. Questo l'esito della sentenza della Corte dei conti (Sezione giurisdizionale Toscana) 5 maggio 2015 n. 81, destinata probabilmente a suscitare una revisione nelle modalità di pagamento, non sempre accurate, con cui il Ssn rimborsa i costi delle prestazioni svolte presso gli istituti privati. La vicenda prende avvio dalle indagini e dagli accertamenti dei Nas, nonché dalla successiva chiamata in giudizio di funzionari e rappresentanti legali da parte della Procura contabile, giungendo poi a conclusione in seguito a una lunga e complessa istruttoria. Nel trattare i fatti addotti in causa la magistratura contabile accerta le responsabilità dei vari imputati coinvolti, addebitando un comportamento colpevole commissivo per i responsabili delle case di cura, e omissivo per i responsabili dell'azienda sanitaria. C'è da premettere che le case di cura in questione avevano stipulato con l'Asl una convenzione per il periodo 1997/1998, con decorrenza retroattiva al 1° gennaio 1997, in seguito rinnovata tacitamente. In tale contesto, le case di cura avevano inviato all'Azienda fatture per il rimborso integrale per tutte le prestazioni - sia per quelle per le quali i pazienti non avevano pagato oneri professionali, sia per quelle per le quali gli stessi avevano pagato le prestazioni ai chirurghi - sulla base di codici informatici di controllo indicanti l'assenza di pagamenti di attività libero professionale. La responsabilità del danno erariale è stata rinvenuta dalla Corte in una condotta connotata da dolo contrattuale o gravemente colposo da parte delle case di cura, mentre i vertici dell'Azienda sanitaria sono stati condannati a titolo di culpa in vigilando, per una somma individuata nella percentuale del 10% rispetto all'intero importo del dolo. Con riferimento all'operato dell'Azienda il collegio osserva che, ai sensi del Dlgs 502/1992, "il Direttore generale della USL è investito di tutti i poteri di gestione e di controllo ed è pertanto costituito garante della complessiva correttezza dell'azione amministrativa riferibile all'Ente che dirige" di modo che nella vicenda, in presenza di indici di anomalia e di comportamenti elusivi, era preciso dovere del Direttore generale "dare precise e tempestive disposizioni, attivare controlli specifici, chiedere direttive sollecite agli Enti di vigilanza (la Regione)". In un siffatto quadro normativo al Direttore generale compete in particolare - anche in forza dell'istituzione dell'apposito servizio di controllo interno - l'onere di verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti di risultati, la corretta ed economica gestione delle risorse attribuite ed introitate, nonché l'imparzialità ed il buon funzionamento dell'azione amministrativa. La giurisprudenza contabile ha in effetti statuito che la normativa ha inteso "dare ampissimi poteri al direttore generale delle Asl nei cui confronti il direttore amministrativo ed il direttore sanitario possono vantare un (limitato) potere di proposta e pareri (Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Veneto, sentenza 12 giugno 2006, n. 589)". La magistratura toscana accerta, in ogni caso, anche la responsabilità della dirigenza di segreteria dell'Asl, che avrebbe dovuto effettuare una verifica sostanziale sulle prestazioni sanitarie svolte dalle case di cura, nonché della congruità della durata delle degenze, in relazione al tipo di malattia e intervento. La mano pesante della Corte dei conti stigmatizza, in questo caso, la scarsa attenzione prestata dall'Azienda nel dare corso ai rimborsi delle prestazioni sanitarie secondo un improprio sistema funzionale, adottato non soltanto in spregio alle regole prescritte, ma anche senza alcun riguardo per un corretto impiego delle risorse pubbliche a beneficio degli interessi della collettività. Nessuno sconto del contributo unificato per il volontariato di Eugenio Traversa Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2015 Corte costituzionale, ordinanza 26 maggio 2015 n. 91. Ancora incertezze sul contributo unificato che precede le liti civili, tributarie e amministrative: la Corte costituzionale con la sentenza 91 della 26 maggio ha dichiarato inammissibile il giudizio che tendeva a garantire un'esenzione da tale contributo alle associazioni di volontariato. Il contributo, inserito dal Dpr 115/2002 sulle spese di giustizia, rimane quindi applicabile anche alle associazioni che, con specifico riconoscimento dello Stato, perseguono finalità della tutela dei diritti civili. Prima della norma del 2002, la legge sul volontariato (266 del 1991) e le norme sul bollo (642 del 1972) garantivano un regime agevolato, di esenzione per tutte le attività Onlus, compreso quelle giudiziarie. Riordinando la fiscalità dei processi (civili, tributarie ed amministrativi) il legislatore ha riconosciuto esenzioni ad alcune materie (quali lavoro, pensioni, equo canone), oltre quelle "già esenti". Tra queste ultime, varie Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale) rivendicavano anche esenzioni per il contenzioso, in continuità rispetto a precedenti esenzioni ed in coerenza rispetto alle finalità delle associazioni stesse. Dichiarando inammissibile la questione, la Corte non respinge questa ipotesi, , ma ritiene che il giudice di merito (la Commissione tributaria regionale del Lazio) avrebbe dovuto criticare la norma sulle spese di giustizia (l'art. 10 d.p.r. 115 del 2002, che non prevede l'esenzione) invece che le norme del 1972 e del 1991 che prevedevano l'esenzione e che non sono state esplicitamente confermate dalla norma del 2002. La questione quindi rimane aperta, perché nello stesso giudizio, o in altro giudizio di identico contenuto, potranno riproporsi i dubbi di costituzionalità, indirizzati questa volta verso la norma del 2002. La materia resta incandescente perché a giorni, limitatamente alla settore degli appalti pubblici, la Corte di giustizia dell'Unione Europea esaminerà la compatibilità del contributo unificato rispetto al principio di agevole accesso alla giustizia: la conclusione dell'Avvocato generale, rese in data 7 maggio 2015 (Sole dell'8 maggio) , fanno pensare ad un accoglimento parziale. In particolare, l'Avvocato generale riconosce ai singoli Stati membri il potere di esigere contributi per l'attivazione di liti, ma nel contempo critica la logica che impone il pagamento di un contributo per ogni fase della lite, giungendo ad una quadruplicazione per motivi aggiunti o impugnazioni collegate. Spetterà poi al giudice nazionale, se la Corte confermererà l'opinione dell'Avvocato generale, applicare il principio che ad ogni procedura di aggiudicazione, anche se contestata in più fasi, collega un unico contributo unificato. Lettere: i ragazzi di Nuoro e quelli di Padova di Angela Azzaro Il Garantista, 27 maggio 2015 Due casi sono pochi per gridare vittoria. Ma certo sono un segnale d'insofferenza rispetto a come i media trattano i casi di cronaca nera. I ragazzi di Padova forse non parlano anche per questo, perché spaventati - e come dare loro torto - dalla gogna pubblica. I ragazzi di Orune non parlano con i media perché giustamente diffidenti. Sarà, forse, la volta buona che si faranno processi fondati su prove certe e non su indizi basati sul nulla. Gianluca Monni viene ucciso venerdì mattina, alle 7,30, mentre sta aspettando l'autobus che da Orune, piccolo paese della Barbagia, lo porta a Nuoro dove frequenta l'ultimo anno dell'istituto professionale. Tre persone incappucciate, sparano tre pallettoni: lo feriscono al volto e al fianco davanti ai suoi amici. Gianluca è già morto, quando la fidanzata, che aspettava l'autobus una fermata dopo, lo raggiunge richiamata dagli spari. I suoi amici le nascondono il viso, ormai non c'è più nulla da fare. Due giorni dopo, alle 8,30 del 10 maggio, viene ritrovato il corpo esamine di Domenico Maurantonio. Ha fatto un volo di venti metri dal quinto piano di un albergo di Milano, dove è in gita con la sua classe, una quinta liceo scientifico di Padova. Domenico non indossa indumenti intimi, accanto a lui, come se fossero stati buttati in un secondo momento, si trovano le mutande e i pantaloncini. Su un braccio ci sono segni non compatibili con la caduta e nel corridoio, dove si trovava la sua stanza che condivideva con altri ragazzi, vengono trovate tracce di feci. Si pensa che abbia assunto dei lassativi. Gli inquirenti da subito archiviano la possibilità che sia stato un suicidio. Si ipotizza uno scherzo finito male. Le indagini hanno inizio. Nel giro di poche ore, la vita di due giovani viene tragicamente stroncata: un destino comune per due considerati entrambi bravi ragazzi. Ma appena la notizia della loro morte finisce sui giornali le loro strade si dividono. Gianluca diventa un cattivo ragazzo e i suoi amici barbari omertosi, gli amici di Domenico sono bravi ragazzi spaventati dall'accaduto. Le indagini Lo sconcerto per la morte di Gianluca dura poco. Fin dai primi interrogatori appare chiara la possibile pista che ha portato alla sua morte: il giovane orunese, mesi prima, era stato protagonista di una rissa. Un ragazzo di Nule, probabilmente minorenne, aveva detto una parola considerata di troppo alla ragazza di Gianluca, il quale era intervenuto per difenderla. Ne era nata una rissa e una serie di dissapori finiti in quella maledetta mattina di venerdì in cui avviene il delitto. Tre ragazzi di Nule vengono messi sotto torchio. Il giallo, nel giro di poche ore, si dipana e si ingarbuglia allo stesso tempo. La macchina che è stata utilizzata per l'agguato viene ritrovata, nelle campagne di Nule, completamente carbonizzata, ma il giovane che la utilizzava, presa in prestito dal padre, è sparito. Gli inquirenti non si sbilanciano, ma l'ipotesi più accreditata tutt'ora è che il giovane scomparso abbia visto troppo e per questo sia stato ucciso. La procura di Nuoro, ancora oggi, non ha spiccato i mandati di cattura. Una volta tanto si agisce nel massimo riserbo, ma il quadro è molto chiaro fin da subito grazie al racconto degli amici di Gianluca e di chi aveva visto cosa era accaduto quella mattina. Dopo qualche giorno salta fuori anche una pistola: Gianluca e i suoi amici l'avevano sequestrata ai ragazzi di Nule durante la rissa e questo è molto probabilmente il movente del delitto. Nonostante questo profluvio di informazioni, gli orunesi fanno due errori imperdonabili: sono orunesi e non parlano con i giornalisti che arrivano dal continente. Orune, che in questi anni ha fatto di tutto per uscire dagli anni bui delle faide, ripiomba nel passato, descritta come un luogo di feroci assassini e di omertosi allergici al vivere civile. La sentenza è scritta. Orune da vittima diventa carnefice, per un'intera isola - la Sardegna - si ferma il tempo della storia e della modernità. Nelle stesse ore la Procura di Milano cerca di far chiarezza sul volo di Domenico. Il quadro indiziario è fermo a due settimane fa. Si aggiungono solo le prime analisi sul corpo del ragazzo e da ieri il sequestro di alcuni cellulari. Domenico aveva sì bevuto, ma poco, e non aveva fatto uso di lassativi. L'ipotesi di uno scherzo finito male, diventa sempre più valida. Ma, a differenza dei cattivi ragazzi di Orune, i giovani dell'alta borghesia padovana parlano con grande difficoltà. Non hanno visto nulla, non hanno sentito nulla, non sospettano nessuno. All'inizio si parla di ragazzi spaventati, sotto choc. Solo da qualche giorno, dopo che hanno evitato anche di partecipare alla veglia funebre dedicata al loro collega di scuola, i giornali iniziano timidamente a parlare di omertà. Non solo non parlano con i giornalisti, ma neanche - ed è questa la differenza fondamentale - con la procura. Sono giovani, belli, ricchi. A loro, che vivono al Nord, non si possono applicare schemi che vengono dal passato. Sono il futuro. Anche se forse sanno e non parlano. In difesa dei bravi e dei cattivi ragazzi A questo punto sulle inchieste sappiamo con certezza due cose: a Orune diversi che sanno hanno parlato (con la procura), a Padova gli interrogatori vanno molto a rilento. Non è infatti detto che i giovani padovani sotto torchio e, ora sotto i riflettori, abbiano davvero visto o sentito qualcosa. È probabile, ma non sicuro. Ciò che è invece certo è come i mezzi di informazione usino due pesi e due misure: da una parte il Nord ricco e civile, dall'altra l'isola barbara e piena di assassini efferati. Ma, quasi a voler riunire con un colpo di coda il destino dei due ragazzi morti così tragicamente, Orune e Padova ci raccontano una storia comune. Entrambe le comunità hanno rifiutato di farsi immergere nel baraccone giustizialista messo in scena da tv e giornali. Hanno detto no allo sputtanamento di storie e di sentimenti. È presto per dire se si tratta di un cambiamento generale. Viste da Orune e da Padova, sembrano lontane Avetrana e Garlasco. Ad Avetrana, dopo l'uccisione di Sara, si creò un tutt'uno tra la famiglia della vittima, la comunità e la tv, a tal punto che la notizia della morte di Sara fu data alla madre in diretta. A Garlasco - il delitto Poggi, per cui è stato condannato Stasi - fu lo stesso un turbinio di personaggi di secondo piano che cercavano notorietà tramite la tv. Questa volta no. Due casi sono pochi per gridare vittoria. Ma certo sono un segnale d'insofferenza rispetto a come i media trattano i casi di cronaca nera. I ragazzi di Padova forse non parlano anche per questo, perché spaventati - e come dare loro torto - dalla gogna pubblica. I ragazzi di Orune non parlano con i media perché giustamente diffidenti. Intanto, anche questo un caso più unico che raro, i magistrati responsabili dell'inchiesta lavorano in silenzio, senza passare sotto banco informazioni riservate ai giornali. Sarà, forse, la volta buona che si faranno processi fondati su prove certe e non su indizi basati sul nulla. Puglia: appello dell'Ass. Nessuno tocchi Caino "anche i detenuti hanno diritto al voto" leccesette.it, 27 maggio 2015 L'associazione "Nessuno tocchi Caino" lancia un appello alle Istituzioni perché si facilitino le operazioni di voto anche nelle carceri. Come prescritto dalla Costituzione infatti anche le persone recluse negli istituti penitenziari hanno diritto ad esprimere la propria preferenza. In vista della prossima tornata elettorale per l'elezione del presidente della Regione Puglia, il prossimo 31 maggio, l'associazione raccomanda che anche i reclusi siano messi nelle condizioni di poter esercitare il proprio diritto. Proprio per questo, l'esortazione è alle Prefetture e alle amministrazioni degli Istituti carcerari perché sia data preventiva diffusione dei candidati in lizza. La preoccupazione di alcuni detenuti e dei loro famigliari è che, proprio per la scarsa circolazione di informazioni, i reclusi non sappiano di poter votare e che non esprimano la propria volontà politica. Abruzzo: Garante dei detenuti, il bando riaperto grazie ai Radicali di Marianna De Troia Il Centro, 27 maggio 2015 È stata l'ostinazione delle battaglie dei leader radicali e degli esponenti dell'associazione Amnistia, Giustizia e Libertà di Teramo a far tornare attuale il tema dell'istituzione di un Garante dei detenuti. Approda infatti oggi nella conferenza dei capigruppo in consiglio regionale la discussione sul bando che riapre i termini per la nomina in Abruzzo di questa figura di raccordo tra mondo penitenziario e giurisdizione. A perorare la causa ieri a Teramo, alla presenza del presidente del consiglio regionale Giuseppe Di Pangrazio, è stato il leader radicale Marco Pannella, che ha parlato di "colpevole ritardo" dell'Abruzzo sull'attuazione di una legge approvata nel 2011 su impulso degli ex consiglieri regionali Maurizio Acerbo, Antonio Saia e Riccardo Chiavaroli, ma a cui non è stata mai data attuazione. "Altre 14 Regioni italiane hanno istituito d'ufficio la figura del Garante", ha detto Pannella, "qui questa legge è rimasta incomprensibilmente congelata". Di Pangrazio non ha escluso l'ipotesi che in commissione possano approdare modifiche alla legge per uno snellimento sulle qualifiche e i criteri per l'adozione della figura del Garante, ma anche sull'ipotesi di un'elezione a maggioranza semplice, piuttosto che qualificata. Acerbo ha sostenuto invece la necessità che l'ufficio del Garante, che oltre ai detenuti è inteso come figura di tutela anche per i malati psichiatrici, venga nominato subito per evitare di riaprire i termini di legge ed evitare ulteriori slittamenti nei tempi. La proposta, come spiegato dall'esponente teramano di Amnistia Giustizia e Libertà Vincenzo Di Nanna, è riaprire subito il bando con una "finestra" di 20 giorni per recepire nuovi curriculum. Come candidata è stata indicata Rita Bernardini, segretaria nazionale dei Radicali italiani, sul cui nome converge anche il governatore D'Alfonso. Calabria: il Sappe annuncia una protesta riguardo a piano ferie e carenza di personale di Gianluca Prestia Quotidiano del Sud, 27 maggio 2015 Il Sappe (uno dei maggiori, se non il maggiore, sindacato di categoria della Polizia penitenziaria) ha proclamato lo stato di agitazione. Il motivo è presto detto: la pianta organica definita carente, fissata in 142 unità (da verificare). Attualmente in forza sono 165 di cui due Commissari, nove ispettori 10 Sovrintendenti e 144 Agenti, 28 distaccati e 3 in missione. Un numero decisamente inferiore a quello precedente che contemplava 201 unità, ad ogni modo molte di meno di quando, nel 1997, aprì l'istituto di località "Castelluccio": 250. Il Sappe non ci sta e nei giorni scorsi ha chiesto al direttore del carcere, Antonio Galati, di rivedere l'organizzazione del lavoro e di prevedere che il personale che oggi espleta turno di otto ore, lo svolga su sei ore in virtù dell'esubero. Direttore che ha al Prap (Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria regionale) una proposta da più di un anno - a seguito di una circolare di Tamburino che dice chiaramente che con gli uomini in forza bisogna garantire tutto - che non ha formulato alcun parere. "Ne consegue - affermano dal sindacato - che addirittura il Provveditore, la scorsa settimana, disponeva il rientro dell'unità distaccata da Catanzaro a Vibo, lo scorso settembre, al fine di sopperire alle due a Laureana di Borrello. È inconcepibile - attacca il Sappe - che il rientro sia motivato dal fatto che Vibo non ha più carenze organiche. Differente invece è la decisione del rigetto di un distacco per una unità femminile da Vibo a Catanzaro". A questo punto viene chiesto all'amministrazione di adoperarsi a predisporre un'organizzazione di lavoro su quattro quadranti e a concedere tutti i diritti al personale di Polizia penitenziaria che giornalmente, per garantire le traduzioni detenuti, copre due tre posti di servizio, oltre al richiamo del congedo e riposi settimanali, segnalando altresì che al Nucleo è "allarmante la situazione degli automezzi" per come già denunciato nei giorni scorsi. Veicoli che, "in base a delle disposizioni emanate sempre dal Prap, non solo non potranno essere più riparati quelli in avaria, ma addirittura sembra essere stato disposto il ritiro di quelli già "ricoverati". Tale situazione appare assurda in un sistema che dispone solo di mezzi obsoleti con più di 500mila chilometri percorsi". Il risultato è che il Nucleo, per far fronte alle quotidiane incombenze, deve "continuamente chiedere l'assegnazione giornaliera dei singoli auto o furgoni attingendo da altri avendo, peraltro, la disponibilità solo il giorno prima della programmazione della traduzione con il concreto pericolo che qualche traduzione salti". Una situazione, secondo il sindacato della Polizia penitenziaria che rischia di far saltare i processi e che appare "contraria ai principi di economicità, oltre che di efficienza dell'Amministrazione, con possibili ed eventuali responsabilità per danno erariale, considerato che la nostra organizzazione sembra raddoppiare i costi stessi (di missione, di carburante, eccessivo consumo dei pochi mezzi, senza considerare lo stress accumulato dal personale per i logoranti turni di lavoro), quando, in realtà, probabilmente, con gli stessi soldi si sarebbero potuti riparare i mezzi in avaria dell'autoparco di Vibo Valentia. Qui, attualmente, dei nove mezzi assegnati solo uno funziona. Sembra, tra l'altro, che vi sia disponibilità, da tempo, per la concessione, gratuita, di un veicolo dei beni confiscati ma, ad oggi, pare che per problemi burocratici questo non sia stata assegnato". Il 21 maggio scorso si è svolta una riunione alla casa circondariale tra le varie organizzazioni sindacali (Sappe, Uil, Cisl, Si-nappe, e Cgil) e la parte pubblica rappresentata dal direttore Galati, dal comandante Montauro, dal suo vice Cugliari e dal responsabile dell'unità di sicurezza Falvo, nel corso della quale sono state messe sul tavolo tutte le problematiche emerse in quest'ultimo periodo. In particolare sono state avanzate proposte in ordine alla predisposizione del piano ferie in relazione alle unità in servizio nella struttura con la richiesta di una nuova rideterminazione dello stesso, mentre la parte pubblica ha evidenziato l'impossibilità matematica di venire incontro alle esigenze delle sigle sindacali che prevedono la concessione delle ferie estive su quattro turni impartendo disposizioni ai tecnici ed al comandante affinché il piano venga predisposto tenendo contro delle passate esperienze, delle indicazioni rappresentate nel corso della riunione e dalla necessità di favorire in ogni modo il benessere del personale. Ad ogni modo, il Sappe ha proclamato lo stato di agitazione anche sulla circostanza "che il direttore ha ammesso di aver inoltrato al Prap un progetto organizzativo che tenesse conto dell'esubero, ma ad oggi non ha avuto alcuna risposta". Lecce: detenuto di origini greche si impicca nel carcere di Borgo San Nicola www.radiocarcere.com, 27 maggio 2015 Atanasios Masavetas, un cittadino greco di 37 anni, si uccide alle prime luci dell'alba nella sua cella del carcere di Lecce. Atanasios, che era in carcere perché sottoposto a misura cautelare e che era in attesa di un primo giudizio, si è ucciso impiccandosi con delle lenzuola attaccate alla porta della cella. Vale la pena di precisare che Atanasios era ristretto nell'infermeria del carcere di Lecce e questo perché, avendo già manifestato segni di squilibrio, doveva essere maggiormente controllato. Un controllo che evidentemente non è stato sufficiente, visto che Atanasios ha avuto tutto il tempo per fabbricarsi una forca rudimentale e impiccarsi. A questo proposito è necessario sottolineare che il carcere di Lecce non è solo sovraffollato, visto che vi sono ristretti oltre 1.000 detenuti a fronte di circa 600 posti, ma soffre anche di una grave carenza di personale, mancando non solo medici, educatori e psicologi sufficienti ma anche circa 200 agenti della polizia penitenziaria. Con il suicidio di Atanasios, sale a 45 il numero delle persone detenute morte nelle carceri italiane dall'inizio del 2015, tra cui ben 18 sono quelli che si sono suicidati. Ovvero una media di 9 decessi al mese e di oltre 3 suicidi al mese. Reggio Emilia: detenuto dell'Opg soffocato da una bistecca, medico indagato di Elisa Pederzoli La Gazzetta di Reggio, 27 maggio 2015 È lo psichiatra che definì farmaci e dieta di Daniele De Luca Il 29enne fu trovato esanime in cella, inutile ogni soccorso. C'è un indagato per la morte di Daniele De Luca, il 29enne di Roma internato all'Opg di Reggio e morto soffocato da un pezzo di bistecca il 12 gennaio del 2013. Il sostituto procuratore Valentina Salvi, titolare dell'inchiesta, ha iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo un medico psichiatra dell'Opg: colui che all'ingresso del giovane nella struttura di via Settembrini definì dieta e cura farmacologica per il giovane. Proprio in questi giorni, è arrivato all'indagato l'avviso di conclusione delle indagini. Per la famiglia di Daniele De Luca, rappresentata dall'avvocato del Foro di Roma Flavio Rossi Albertini, è un primo importante passo per stabilire cosa è successo e perché Daniele è morto. Il giovane di Tor Bella Monaca era malato: da tempo lui, e i suo genitori con lui, lottavano con quella schizofrenia paranoide che era capace di far diventare il ragazzo violento. Fu durante uno di quei frequenti momenti bui che la madre a malincuore lo denunciò. Quello che avvenne dopo fu che il ragazzo passò da una comunità all'altra, sino al suo arrivo all'Opg di Reggio. Il procedimento per la sua morte, in una prima fase, finì con una richiesta di archiviazione, da parte del pm. A cui, però, la famiglia del giovane con l'avvocato Albertini si oppose, portando all'attenzione del giudice più di una questione: come è possibile che i soccorritori non riuscirono a capire, e a togliere, il grosso pezzo di bistecca - 10 centimetri per 6 - che soffocò e uccise in cella il giovane? Ma soprattutto perché a un internato praticamente senza denti, e sottoposto a una terapia farmacologica capace di influire sulla masticazione, è stato dato da mangiare una bistecca? Evidenziando come le "Linee guida nazionali per la ristorazione ospedaliera ed assistenziale" indichino, in caso di pazienti con disturbi del genere, la necessità di prevedere cibi adeguati. Obiezioni che il gip Angela Baraldi accolse, rinviando tutto al pm per un supplemento di indagine. Cosa che è stata fatta e che ha portato la Salvi all'individuazione di un indagato. Il quale, ora, avrà la possibilità di essere sentito, o di depositare memorie difensive, prima che dalla procura arrivi la richiesta di rinvio a giudizio. Roma: Cooperativa Sociale Pid "disabili detenuti a Rebibbia, niente assistenza e servizi" La Repubblica, 27 maggio 2015 Questo quadro emerge dai dati raccolti dalla cooperativa sociale Pid. Nel Nuovo Complesso di Rebibbia i disabili faticano a svolgere le loro attività quotidiane senza l'assistenza di altri detenuti, ma sono costretti a rimanere in carcere anche quando potrebbero usufruire di misure alternative alla detenzione, perché non ci sono strutture in grado di accoglierli con il personale sanitario necessario. È il quadro che emerge dai dati raccolti dalla cooperativa sociale Pid, Pronto intervento disagio, nella sezione Terra b del reparto G11 di Rebibbia nuovo complesso, definita "a ridotte barriere architettoniche", dove ci sono circa 40 disabili, che faticano anche a utilizzare i servizi igienici e le docce. Si tratta, nella maggior parte, di italiani con un'età compresa tra i 40 e i 60 anni assistiti dai piantoni, ossia altri detenuti che, invece, sono quasi tutti stranieri. Oltre l'80% dei disabili non ha seguito corsi di formazione professionale, il 95% non lavora e il 97,5% non usufruisce di alcuna misura alternativa alla detenzione. E questo accade perché non hanno familiari in grado di ospitarli e non ci sono strutture sul territorio adeguate alle loro esigenze sanitarie e ai tempi della pena. Stando sempre ai dati del Pid attualmente ci sarebbero 10 persone con le carte in regola per lasciare Rebibbia alle quali questo diritto è negato. "Non possiamo dimenticare gli ultimi fra gli ultimi" afferma la deputata dem Ileana Argentin "e neanche che il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero: ma se non vengono garantiti gli atti più elementari della vita quotidiana a questo punto che senso ha tenerli lì? È giusto che chi sbaglia paghi ma cominciamo a dire che le barriere architettoniche devono essere eliminate completamente e che i detenuti disabili devono avere gli stessi diritti degli altri sia dentro sia fuori il carcere. Così sto un'interrogazione parlamentare per conoscere la situazione nelle altre regioni, ma credo che questo tema debba essere affrontato per garantire a tutti pari opportunità e pari dignità pur senza regalare alibi a nessuno". Cagliari: Sdr; "territorialità" pena per detenuto albanese con familiari a Reggio Emilia Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2015 "L'applicazione del principio della territorialità della pena consentirebbe a un cittadino albanese, E. P., in Italia da 20 anni, di ricongiungersi alla famiglia, residente nella provincia di Reggio Emilia. L'uomo, 35 anni, si trova nel carcere di Cagliari - Uta da 7 mesi e da allora non vede la moglie e le due figlie di 12 anni e di appena 10 mesi. Una situazione facilmente risolvibile per il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che potrebbe trasferire il detenuto nell'Istituto Penitenziario del capoluogo dell'Emilia Romagna". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "il giovane, che è definitivo avendo patteggiato la pena, vive con particolare afflizione l'allontanamento dalla famiglia e soffre per la mancanza di regolari colloqui". "E. P., in Italia con regolare carta di soggiorno dal 1995 - evidenzia Caligaris - è in stato di detenzione a Cagliari dal 28 ottobre scorso. Da allora non ha più visto la giovane moglie, anche lei albanese di Lushnje, e le figlie, la più piccolina delle quali aveva appena 3 mesi quando lui è stato tratto in arresto. Il suo iter giudiziario si è concluso il 27 marzo scorso e il suo legale avv. Giovanni Christian Melis ha presentato subito l'istanza per il trasferimento del detenuto rimasta però ancora senza risposta". "Non si tratta di dargli la libertà - osserva la presidente di Sdr - ma di trasferirlo in un'altra struttura della Penisola dove possa effettuare i colloqui con i parenti e ricongiungersi alla famiglia che non può per motivi economici effettuare viaggi in Sardegna. Il Dap del resto dovrebbe consentire ai detenuti, specialmente in presenza di bambini in tenera età e in considerazione delle notevoli distanze, permettere l'uso di sistemi di comunicazione del genere di Skype in modo da favorire più costanti relazioni con i parenti". "Il caso del giovane albanese richiama l'attenzione sulla necessità di rispettare il principio della territorialità della pena. Riempire le strutture penitenziarie senza utilizzare questo criterio significa vanificare il lavoro rieducativo e di reinserimento sociale degli operatori penitenziari aggiungendo alla pena inflitta dai Giudici - conclude Caligaris - un ulteriore orpello che grava pesantemente anche sui familiari del detenuto". Paola (Cs): primo caso di un detenuto ammesso al "lavoro esterno", soddisfatti i Radicali Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2015 Finalmente anche nella Casa circondariale di Paola, uno dei detenuti è stato ammesso al lavoro esterno. Speriamo che non sia l'unico e che, presto, questa possibilità venga data anche ad altri cittadini ristretti. Lo riferisce l'esponente dei Radicali Italiani Emilio Quintieri che, nell'occasione, ringrazia per l'attività svolta la Direzione della Casa Circondariale di Paola e la Magistratura di Sorveglianza di Cosenza, ognuna per la parte di propria competenza. Da qualche giorno, infatti, Luca Cicerale, un detenuto lavorante all'interno dell'Istituto e già beneficiario di permessi premio, attualmente allocato nel reparto a custodia attenuata, potrà uscire tutti i giorni dal Carcere e farvi ritorno la sera per andare a lavorare in un locale commerciale sul Tirreno. Il lavoro esterno al carcere non è nulla di "eccezionale" - continua il radicale Quintieri - perché questo strumento, di ampia operatività, è espressamente previsto dall'Art. 21 dell'Ordinamento Penitenziario anche se, purtroppo, in Calabria, è quasi del tutto inattuato. Possono essere ammessi al lavoro esterno i condannati, gli internati e gli imputati sin dall'inizio della detenzione per svolgere attività lavorativa, per frequentare corsi di formazione professionale e, grazie ad un recente provvedimento del legislatore proposto dall'ex Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, per prestare attività a titolo volontario e gratuito in progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali, o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato o, infine, per prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle vittime dei reati da loro commessi. Ci sono alcuni "limiti" per l'ammissione dovuti, ad esempio, ai condannati per reati associativi o altri di grave allarme sociale previsti dall'Art. 4 bis. Questi detenuti possono essere assegnati al lavoro all'esterno solo dopo aver espiato almeno un terzo della pena o comunque di non più di cinque anni. Anche gli ergastolani, esclusi quelli ostativi, vi possono essere ammessi dopo aver scontato almeno dieci anni di pena. Non possono, invece, essere ammessi al lavoro all'esterno per svolgere lavori a titolo di volontariato i detenuti e gli internati per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (Art. 416 bis c.p.) e per reati commessi per favorire le attività di stampo mafioso. Il lavoro all'esterno deve essere previsto nel programma di trattamento elaborato dall'Equipe dell'Istituto, disposto dal Direttore ed approvato dal Magistrato di Sorveglianza se si tratta di condannati ed internati o disposto dal Direttore dell'Istituto previa approvazione dell'Autorità Giudiziaria competente nel caso di imputati. Le disposizioni previste dall'Art. 21 possono essere applicate anche per l'assistenza all'esterno dei figli minori di dieci anni (Art. 21 bis) e per consentire visite al minore infermo (Art. 21 ter). La possibilità di svolgere un'attività lavorativa costituisce, per i detenuti, se non l'unico, il più importante strumento rieducativo. Ed infatti, l'Art. 15 della Legge Penitenziaria, annovera esplicitamente tra gli "elementi del trattamento" il lavoro tra i mezzi per darvi attuazione prevedendo che venga assicurato salvo impossibilità. L'Art. 20, poi, dedicato alla disciplina dello stesso, sottolinea la necessità che gli Istituti Penitenziari favoriscano in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro perché svolge una funzione normalizzatrice e correttiva in quanto sottrae i reclusi alle conseguenze negative dell'ozio, favorisce il loro trattamento rieducativo ed offre loro la possibilità di ricavare un guadagno, col quale soddisfare le loro necessità, pagare il mantenimento carcerario e sussidiare la famiglia. Nel dicembre 2012, per come ci ha riferito in Parlamento il Vice Ministro della Giustizia On. Enrico Costa, rispondendo ad una delle Interrogazioni da me sollecitate - prosegue Emilio Quintieri - il Comune di Paola ha sottoscritto un Protocollo di intesa con la locale Casa Circondariale, avente validità triennale, con il quale avrebbero dovuto essere avviati al lavoro esterno ai sensi dell'Art. 21 della Legge Penitenziaria, un congruo numero dei detenuti ristretti nell'Istituto per lavori di pubblica utilità. Ad oggi, sono quasi trascorsi i 3 anni, ma non è stata data esecuzione al protocollo stipulato e non se ne comprendono i motivi. Pertanto - conclude l'esponente del Partito Radicale - mi auguro che il Sindaco di Paola Basilio Ferrari e la sua Giunta rispettino il Protocollo che hanno stipulato con il Carcere e lo rinnovino visto che siamo in prossimità della sua scadenza, dando la possibilità ai detenuti di uscire dall'Istituto per svolgere un attività lavorativa, a titolo volontario ed a beneficio della collettività". Milano: Acceleratore di Impresa Ristretta" (Air), un'iniziativa promossa dal Comune di Flavio Fabbri key4biz.it, 27 maggio 2015 Sviluppare una nuova idea di detenzione e di sistema carcerario in Italia, a partire dalla possibilità di lavorare per chi deve scontare una pena, di aprire attività economiche (profit, non-profit) e di stabilire rapporti di lavoro con l'esterno. È l'obiettivo che si pone il progetto "Acceleratore di Impresa Ristretta" (Air), promosso dal Comune di Milano, in condivisione con il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria e l'onlus A&I, per creare una connessione diretta e trasparente tra il penitenziario e la realtà produttiva della città. Come è spiegato bene all'interno della piattaforma web dedicata, www.acceleratoreimpresaristretta.it, Air è al tempo stesso una rete che coinvolge 24 aziende, uno spazio di confronto, formazione e crescita, un'occasione di coworking e condivisione di idee e strumenti (sharing economy), per la nascita del primo polo economico carcerario d'Italia. Sul lancio dell'iniziativa, sui luoghi di attività, sul funzionamento e la possibilità di entrare nel progetto, ci sono le voci per l'accesso a contenuti e documenti disposte nella parte alta della home page: Il progetto, Il negozio, Imprese aderenti, News e Contatti. Percorsi rapidi e molto semplici, in cui comprendere immediatamente l'importanza del progetto e del lavoro come leva sociale e civile per il recupero dei detenuti. Una piattaforma facilmente accessibile e comprensibile a tutti, che sfruttando il potenziale di internet completa il progetto lanciato dall'AIR, lanciando un nuovo messaggio per una proposta che dovrebbe ottenere ben altri supporti a livello istituzionale, superando l'esperienza locale, per abbracciare l'intero territorio nazionale. Verona: arriva il "risciò della solidarietà", così i detenuti pedalano per anziani e disabili L'Arena, 27 maggio 2015 Progetto di inserimento sociale a chi è in carcere e opportunità di svago per le persone svantaggiate. Pedalare su un risciò per partecipare a un progetto di solidarietà sociale e per realizzare un'occasione di inserimento sociale. È duplice la finalità dell'iniziativa di Clv impresa sociale, Pensionati Cisl Verona e Anteas Veronacon il supporto di Fondazione Cattolica per avviare un nuovo concetto di mobilità e trasporto eco-sostenibile con finalità sociali, il risciò solidale. Daunlato coinvolgere i detenuti della Casa circondariale di Montorio in un progetto di volontariato e dall'altra, offrire opportunità di svago alle persone anziane e a quelle con disabilità che potranno essere accompagnate gratuitamente in giri per il centro storico comodamente sedute su un risciò alla cui guidaci sarà un detenuto volontario. Al progetto partecipano la Casa circondariale di Montorio, le sezioni di Verona della Federazione associazioni nazionali disabili (Fand), l'Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti (Uici) e l'Ente nazionale sordi (Ens), gli Amici della Bicicletta di Verona e l'associazione "A mente libera". Il progetto, ha spiegato Fausto Scandola, presidente di Clv Impresa sociale, "intende attivare in città un servizio di trasporto con risciò a pedalata assistita, gestito da persone svantaggiate e dedicato a persone svantaggiate, nell'ottica dello sviluppo di reciproci rapporti di solidarietà e arricchimento emotivo. L'iniziativa si ispira a un modello consolidato e di successo che nei Paesi del Nord Europa ha indotto a ripensare il concetto di mobilità e di sollievo per le fasce cosiddette "deboli" della popolazione, come gli anziani e le persone con disabilità". I risciò saranno condotti da detenuti volontari, ha spiegato la direttrice della Casa circondariale Maria Grazia Bregoli, che seguiranno un periodo di formazione teorica e pratica a partire da giugno. Per il progetto saranno formati otto detenuti, anche se poi solo due saranno "in servizio". Queste persone hanno aderito al cosiddetto percorso trattamentale e si impegneranno a seguirne le regole. Una volta in attività non avranno controllori anche se avranno dei vincoli di orario e di percorso. È un progetto che ha tanti contenuti educativi, che rappresenta un'opportunità di riscatto e di inserimento sociale e che abbatte tanti pregiudizi. Per dirla con il segretario generale di Fondazione Cattolica, Adriano Tomba, "un laboratorio di ecologia umana". Per l'avvio del progetto, previsto tra un mese, sono stati acquistati due risciò, ai quali potranno aggiungersene altri sulla base delle richieste. L'idea è di ampliare il servizio e farlo diventare un'opportunità di lavoro. Lecco: condannati due agenti penitenziari, ritenuti colpevoli per l'evasione di due detenuti di Andrea Morleo Il Giorno, 27 maggio 2015 Colpevoli entrambi. La sentenza che non ti aspetti è arrivata nella mattinata di ieri, in calce al dispositivo la firma del giudice del tribunale di Lecco Salvatore Catalano che ha condannato i due agenti penitenziari Domenico Stoto (due mesi) e Vincenzo De Vito (un mese e venti giorni) finiti a processo con l'accusa di aver favorito la fuga dal carcere di Pescarenico di Nicodemo Romeo e dell'egiziano Aly Amr El Fadly che la mattina del 18 luglio 2010 si resero protagonisti di una rocambolesca evasione. Un colpo di scena perché era stata la stessa accusa, una manciata di settimane or sono, a chiedere l'assoluzione per i due agenti. Nell'udienza del 30 marzo scorso il Vpo Pietro Bassi aveva concluso la propria requisitoria ricordando che "le falle della struttura penitenziaria non possono essere imputate agli agenti". Per l'accusa insomma mancava l'elemento soggettivo, presupposto essenziale per la commissione del reato di favoreggiamento e neppure ci fu negligenza "perché i due dovevano vigilare su cinquanta-sessanta detenuti". Perché in quel periodo la sicurezza del carcere cittadino era deficitaria, come peraltro emerse dai testimoni chiamati a deporre - l'ex direttrice "in missione", Antonina D'Onofrio e l'ex vice-commissario di allora, Giovanna Propato, nonché Antonio Verbicaro, ispettore della questura di Lecco incaricato di indagare su quanto accadde quella mattina, i quali ricordarono come a Pescarenico mancasse la sentinella nella garitta, le telecamere di sorveglianza no fossero spente e del tutto assente invece il sistema anti-intrusione e anti-scavalcamento. Insomma "il sistema di sicurezza presentava enormi falle e pertanto le due guardie carcerarie non possono essere ritenute responsabili dell'evasione dei due detenuti", aveva spiegato Bassi in aula. Ieri il colpo di spugna con la sentenza di primo grado che, di fatto, cancella in un sol colpo l'impianto assolutorio dell'accusa e adombra invece il profilo della colpa intesa come negligenza. "Sono dispiaciuto per il mio assistito - spiega l'avvocato Marcello Perillo, difensore di Stoto - che con il collega paga le carenze di sicurezza della struttura". Dello stesso tenore le dichiarazioni del collega, l'avvocato Ruggero Panzeri, che in attesa delle motivazioni annuncia sin da ora "il ricorso in appello". Saluzzo: Roberto Saviano nel carcere di Saluzzo per l'iniziativa "Voltapagina" di Eleonora Scafaro thelastreporter.com, 27 maggio 2015 Domenica 17 maggio, nell'ambito dell'iniziativa "Voltapagina", promossa dal Salone del libro di Torino, lo scrittore Roberto Saviano ha incontrato i detenuti del carcere "Rodolfo Morandi" Saluzzo. Un applauso, quasi come un abbraccio ha accolto Saviano che, in punta di piedi e timidamente, ha discusso del suo libro "Zero zero zero". Le evasioni dei detenuti. A fare da scenografia all'incontro, fotografie e ritratti del progetto "Evasioni", dell'associazione di volontariato Liberi dentro, finestra sulla complessità della realtà carceraria e sulle vite dei detenuti. Immagini di vite che trascorrono dietro alle sbarre, fotografie che, spogliate da ogni pregiudizio e giudizio, si mostrano per quello che sono: crude, a volte tristi, altre ancora piene di tenerezza. Stare rinchiusi non significa smettere di vivere e affrontare la realtà. La realtà piomba addosso come un macigno. Da qui la volontà di raccontare e di raccontarsi, anche attraverso le immagini. Ciascuno cresce solo se sognato. Si è presentato così, Roberto Saviano, ai presenti all'evento, citando il verso di una poesia del filosofo Danilo Dolci. "Ciascuno cresce solo se sognato": ogni persona cresce solo se fa parte del sogno di qualcun altro. Affinché una comunità migliori, a volerlo devono essere le stesse persone che ne fanno parte. Il verso di Danilo Dolci ha dato il via alla discussione del libro tra alcuni detenuti e lo scrittore. Zero zero zero, libro-inchiesta sul traffico e il consumo della cocaina, è un libro duro, che spiattella in faccia al lettore i cartelli della droga e il traffico di cocaina. Coinvolge. La discussione, durante l'incontro con i detenuti, ha toccato i temi principali affrontati da Saviano nell'opera. La cocaina, ormai, è la droga di tutti. Roberto Saviano ha risposto alle domande dei detenuti affrontando argomenti come il ruolo della scrittura nella conoscenza e la diffusione di alcune problematiche, il flusso di denaro che nasce dalla commercializzazione della cocaina, la legalizzazione delle droghe leggere e la situazione delle carceri italiane. Il ruolo della letteratura. Scrivere aiuta le persone a capire e a sapere. Il libro però - come ha sottolineato Saviano - arriva in una fase complicata, non abbiamo tempo per leggere e quello che si ha per scrivere deve essere considerato una preziosità. La letteratura accorcia la distanza tra il testo e il lettore. Il lettore è portato a vivere ciò che sta leggendo, la letteratura lo fa essere altrove e gli permette di scoprirsi. Soldi sporchi. Il traffico di cocaina porta denaro. Soldi che pesano sulla finanza mondiale. I protagonisti di questa storia - ha spiegato Saviano - sono le banche e le mafie. Non si sono mai amate ma, con la crisi, le banche hanno abbassato le difese per ricevere denaro. Di qualunque tipo esso sia. Questo è un aspetto importantissimo del traffico di droghe ma, invece, si tende sempre a mantenere la discussione su questo argomento a un livello molto basso. Si parla sempre della parte più superficiale, pusher e consumatori, senza porre l'accento sulla finanza. Negli Stati Uniti, per esempio, è stato messo in atto un pacchetto legislativo per contrastare il flusso di denaro criminale incassato dalla banche. Ogni banca è stata convocata e messa di fronte a una scelta: o la sospensione dell'attività e il processo oppure il blocco dei flussi di denaro sporco. Ovviamente hanno tutti scelto la prima opzione. Di denaro, in Italia, non si parla perché c'è censura e disinteresse. I soldi che coinvolgono il mondo del narcotraffico superano il fatturato di aziende come Shell e Samsung. Il motivo è che con la droga si guadagna, tanto e in breve tempo. Questo mondo non può essere contrastato con la violenza. Nel narcotraffico c'è già, si tende a eliminare i concorrente, ma il problema rimane. I soldi sporchi vengono investiti nel pubblico e nella sanità per guadagnarne altri. Ormai la mafia è parte dello Stato e questo male si deve affrontare con più conoscenza e più analisi. La legalizzazione delle droghe leggere. Un primo punto di partenza per il contrasto del flusso di denaro sporco è la legalizzazione delle droghe leggere, per quelle pesanti, invece, ci vuole uno Stato molto forte. Il dibattito sulla legalizzazione deve essere affrontato da tutta l'Europa: lo Stato deve investire nel contrasto del narcotraffico per togliere soldi alle organizzazioni criminali. In Colorado, dove le droghe leggere sono state legalizzate, non liberalizzate come in Olanda, il consumo si è dimezzato e sono diminuite le morti per droga perché c'è maggiore controllo. Una parte della pubblicità sulla legalizzazione, secondo Saviano, è sbagliata, perché induce al consumo. Bisogna raccontarne il percorso, gli effetti e la devastazione fisica che il consumo porta con sé. "Bisogna guardare dentro l'abisso, a quel punto l'abisso guarderà dentro di te", ha riassunto lo scrittore. La corruzione, inoltre, è un meccanismo vincente del mercato della droga. La vera estorsione fornisce una serie di servizi che lo Stato o non dà, oppure dà in tempi lunghissimi. È più facile, quindi, comprare, anche illegalmente, un pacchetto di servizi che dà una serie di vantaggi: la visita dal primario migliore in poco tempo, il posto di lavoro, il voto di scambio. Le carceri italiane: trasformare, non punire. Dalla corruzione, poi, Roberto Saviano, sollecitato dalla domanda di un detenuto, volge la discussione sulle carceri italiane. Anche in questo caso lo scrittore ha parlato sinceramente. L'unica strada, secondo lui, è quella di portare le carceri italiane ad agire sulla trasformazione, non sulla punizione. Questo, però, in Italia non è possibile. A carceri infernali corrispondono governi infernali. Nelle fasi di crisi economica è ancora più difficile cambiare le cose perché le persone provano rabbia che riversano su chi sbaglia. "Se sbagli, devi essere punito", è questo che oggi si sente dire molto spesso, ma bisogna conoscere il problema e affrontarlo. La via è conoscere per trasformare. Libri: "Collusi", di Nino Di Matteo, il coraggio non cancella la paura di Corrado Stajano Corriere della Sera, 27 maggio 2015 Per Nino Di Matteo la guerra si vince se non si scende a patti con il nemico (né con se stessi). I "Collusi", pubblicato dalla Bur, scritto dal magistrato palermitano con il giornalista Salvo Palazzolo. "Io resto al mio posto, non mi rassegno a questo stato di cose. Soffro tremendamente le limitazioni della mia libertà, nel tempo divenute sempre più pressanti, ma ho anche buoni motivi per reagire allo scoramento e alla stanchezza mentale". A esprimersi così è Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, l'uomo più odiato da Cosa nostra, il magistrato che Totò Riina vuole morto. Con il giornalista Salvo Palazzolo, Nino Di Matteo è autore di Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, appena pubblicato dalla Bur (pagine 186, 16,50). Il libro è un documento prezioso non soltanto per conoscere a fondo le pratiche della trattativa con i poteri criminali, comportamento devastante per uno Stato di diritto, anche se non sembra che il dibattimento in corso venga seguito con la dovuta attenzione dall'opinione pubblica. Collusi è anche una lezione di umiltà così com'è costruito, capace però di prendere alla gola per il dramma che raccontano le sue pagine, per le storie sanguinanti che hanno lacerato e seguitano a minacciare un Paese civile come il nostro. Di Matteo ha mostrato di avere la schiena diritta, anche se il coraggio, confessa, non cancella la paura. Ma chi potrà ripagarlo di quel senso di solitudine, di isolamento e di spaesamento che tanti fedeli servitori dello Stato, prima di lui, soffrirono in quel Palazzo dei veleni di Palermo? Non si contano le minacce, i propositi di ucciderlo, gli ossessivi ordini di morte di Totò Riina. Ne parlò in carcere, all'ora d'aria, registrato da una telecamera, con il boss pugliese Alberto Lorusso. Le testimonianze dei "pentiti", poi: Vito Galatolo, di una temibile famiglia stragista, ha confessato pochi mesi fa a Di Matteo che a Palermo era arrivato l'esplosivo, duecento chili di tritolo, tutti per lui (pare, speriamolo, che il magistrato sia ben protetto. Giovanni Bianconi ha scritto sul Corriere che, oltre alle normali misure di sicurezza per la sua tutela, è in funzione anche il bomb jammer che serve a rilevare gli ordigni attivati a distanza). "Se si vuole vincere la guerra, e non semplicemente le battaglie, non si deve scendere a patti con il nemico. E nemmeno dargli la sensazione di scendere a patti": è il leitmotiv di Collusi. Se Cosa nostra fosse soltanto una normale organizzazione criminale sarebbe stata ovviamente annientata, in un secolo e mezzo di esistenza, dalle forze di polizia. Sono state e sono proprio le sue connessioni con il potere politico e finanziario e con l'ambiguità di uomini corrotti delle istituzioni ad aver fatto della mafia il mostro che è. I politici imputati davanti alla Corte d'Assise di Palermo non rispondono del "reato di trattativa", scrive Di Matteo. Quel che viene contestato agli uomini delle istituzioni è di aver "consapevolmente assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell'organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni". È nata così la contestazione "del reato di concorso in violenza o minaccia al corpo politico dello Stato". Di Matteo analizza gli anni focali dell'ultimo Novecento, il 1982, l'assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa; il 1992, l'assassinio del dc Salvo Lima, gran luogotenente di Sicilia, punito perché non rispettò i patti con la mafia e, nello stesso anno, gli assassinii di Falcone e di Borsellino. Le zone d'ombra mai cadute, le domande senza risposta, i sospetti sulla trattativa sono ancorati a quegli anni. L'estate delle lenzuola bianche di Palermo - il popolo della città visse allora ribelle nelle strade - finì presto, per stanchezza, delusione. Poi la controffensiva della mafia, il 1993, e l'oscura stagione delle stragi-ricatto di quella primavera-estate a Roma, Firenze, Milano. Non sono stati sufficienti i processi, le indagini, le condanne di personaggi di rilievo a dire la verità su quanto accadde. E non ha certo contribuito alla chiarezza il conflitto tra la Procura di Palermo e il Quirinale, con le imbarazzanti telefonate tra Nicola Mancino e l'allora presidente della Repubblica, nel 2011-2012, di cui tutto si doveva sapere. Collusi è una miniera di documenti, fatti, giudizi che fa capire il mondo della mafia anche a chi crede di conoscerlo. Qualche tema affrontato nel libro: la sottigliezza delle strategie criminali dell'organizzazione che non è più quella dei disegni di Bruno Caruso, coppola e lupara. I patti di scambio tra mafia e politica: elettorali, economici, imprenditoriali. Le mani sugli ingenti stanziamenti pubblici. La figura dell'intermediario insospettabile. I boss che non hanno più bisogno di farsi avanti, è lo Stato che li cerca. Il riscatto della Chiesa, l'importanza di papa Francesco. Le talpe nelle istituzioni. Il rischio delle fonti confidenziali. La prudenza e la pavidità di non pochi magistrati e i pericoli quotidiani che vivono invece coloro che "vanno troppo oltre". Il ruolo di certa massoneria. La troppo lunga latitanza di Matteo Messina Denaro che fa sospettare si voglia proteggere chi custodisce segreti inconfessabili sulle stragi. Un libro importante, Collusi. Soprattutto utile in un Paese senza memoria. Libri: "Almond Garden" di Gabriela Maj, donne condannate per "reati contro la morale" ilpost.it, 27 maggio 2015 Un reportage sulle donne incarcerate in Afghanistan per aver violato "la legge di Dio", spesso destinate a essere uccise una volta rilasciate. Gabriela Maj è una fotogiornalista polacco-canadese che ha collaborato con diverse testate internazionali e televisioni. Il suo ultimo lavoro è stato raccolto in un libro intitolato "Almond Garden" e racconta per immagini e attraverso una serie di interviste la vita delle donne afghane detenute in carcere per "reati contro la morale". "Reato contro la morale" è un termine molto vago applicato per qualsiasi violazione della legge islamica, la sharia: in alcuni casi queste donne sono fuggite da matrimoni in cui venivano abusate o ridotte a condizioni di schiavitù domestica, in altri sono colpevoli di aver fatto sesso prima o fuori del matrimonio (nel diritto islamico, si tratta del reato di zina), in altri casi ancora si tratta di donne che sono state stuprate o costrette a prostituirsi. Mentre i responsabili di queste violenze restano liberi, le loro vittime sono condannate a vivere in carcere, a volte incinte e con poche speranze di un futuro per sé e per i propri figli. Gabriela Maj ha avviato il suo progetto nel 2010 su incarico e per uno specifico servizio. Nei quattro anni successivi, fino al 2014, è tornata in Afghanistan sei volte cercando di avere accesso anche ad altre carceri del paese, spesso non ottenendo il permesso. In diverse prigioni le è invece stato concesso di entrare, perché era una donna e dunque il suo lavoro non era percepito come minaccioso o politicamente rilevante: in molti casi, quando veniva lasciata alla sola presenza di un'interprete, è riuscita a parlare liberamente con le detenute. Ha avuto contatti con decine di donne nelle loro celle, venendo molto spesso disprezzata perché le trattava con cura e dignità. Maj ha pubblicato solo le parole o le immagini per le quali ha ricevuto uno specifico permesso dalle dirette interessate: i nomi delle donne sono stati comunque cambiati e le loro storie sono state volutamente separate dai loro ritratti. Le carceri in Afghanistan, ha spiegato la fotografa, non hanno sbarre e non prevedono particolari uniformi: questo significa che le donne possono in una certa misura personalizzare i loro spazi e prendersi cura dei loro figli nonostante siano molto vulnerabili allo sfruttamento sessuale (molto spesso sono infatti detenute in carceri miste e sorvegliate da uomini). Nonostante i bisogni primari siano "garantiti", le cure mediche variano da una struttura all'altra e in generale sono assenti le risorse a disposizione per la loro salute mentale. Non c'è poi alcuna garanzia sulla loro vita dopo il rilascio. Molte donne, a specifica domanda della fotografa, hanno risposto "sarò uccisa". Le donne accusate di reati contro la morale sono infatti destinate a essere ripudiate dalla famiglia poiché rappresentano una "vergogna" per la comunità e, una volta uscite, non hanno più un posto dove andare a vivere. Dopo aver concluso il suo progetto Maj ha cercato con difficoltà di non perdere i contatti con le donne che aveva incontrato: alcune di loro hanno trovato un posto nei rifugi a loro dedicati (che sono comunque molto pochi e concentrati solo in alcune zone del paese), almeno due sono state uccise dai membri delle rispettive famiglie nei cosiddetti "delitti d'onore". Negli ultimi anni, dopo la caduta del regime dei talebani, in Afghanistan hanno ripreso forza i movimenti conservatori. Secondo Human Rights Watch il 95 per cento delle ragazze e il 50 per cento delle donne rinchiuse nelle carceri dell'Afghanistan ha commesso "reati contro la morale". Le ultime statistiche disponibili del ministero dell'Interno indicano che il numero di donne e ragazze imprigionate per "crimini morali" in Afghanistan era salito a circa 600 nel maggio 2013 da 400 nel mese di ottobre 2011. L'Afghanistan ha adottato alcune misure "di facciata" - soprattutto a causa delle pressioni internazionali - per affrontare la violenza contro le donne, tuttavia non vengono molto spesso applicate, sono poco incisive e sono sotto continuo attacco. Nel 2014, per esempio, le due camere del Parlamento dell'Afghanistan avevano approvato una modifica al codice di procedura penale che vietava ai parenti delle persone accusate di testimoniare nei processi a loro carico: questo dà sostanzialmente il permesso agli uomini che hanno commesso abusi o violenze domestiche di restare impuniti davanti alla legge, con la conseguenza di ridurre letteralmente al silenzio sia le vittime della violenza che la maggior parte dei potenziali testimoni. Va ricordato che la maggior parte degli abusi contro le donne in Afghanistan, come altrove, avviene all'interno della famiglia e da parte di aggressori maschi: una società strutturata in nuclei che vivono in complessi piuttosto isolati, circondati da mura e spesso con le finestre dipinte proprio perché le donne non possano essere viste dall'esterno. Immigrazione: le "quote" dell'Ue per i rifugiati? un malinteso di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 27 maggio 2015 Commissione europea. La "solidarietà" rivista al ribasso: per il "ricollocamento" dei migranti, Bruxelles verso la conferma del limite di 20mila in due anni (la metà di quanto richiesto dall'Onu), in particolare eritrei e siriani, "casi di emergenza" che rientrano nell'articolo 78, comma 3 del Trattato di Lisbona. Per l'attuazione, bisogna aspettare la riunione dei ministri degli Interni del 15 giugno e il via libera del Consiglio europeo di fine giugno. In seguito all'accoglienza più che fredda dell'ipotesi di "quote" di rifugiati da spartirsi tra paesi europei per far fronte all'emergenza degli sbarchi, la Commissione europea adesso parla di "malinteso" e cerca di presentare un progetto che non venga bocciato al prossimo Consiglio dei ministri degli Interni, il 15 giugno, in vista del vertice dei capi di stato e di governo del 25-26 giugno, che dovrà esaminare la proposta. In realtà, Jean-Claude Juncker non ha mai parlato di "quote", ma solo di ricollocamento dei richiedenti asilo, in una fase di emergenza di flussi, come stabilito dall'articolo 78, comma 3 del Trattato di Lisbona, che prevede una "misura provvisoria" e niente di più. "Non proponiamo un sistema di quote per tutti i migranti - spiega la portavoce per le questioni migratorie, Natasha Bertaud - ma un meccanismo di ripartizione di emergenza e temporaneo per le persone che hanno manifestatamente bisogno di protezione internazionale". La misura potrebbe venire limitata a eritrei e siriani, a cui la maggioranza dei paesi della Ue riconosce il diritto d'asilo. Già nella prima stesura della proposta di Bruxelles, era questione di 20mila rifugiati da ricollocare su due anni, cioè la metà di quanto richiesto all'Europa dall'Alto Commissariato ai Rifugiati dell'Onu (a titolo di esempio, i 28 paesi Ue hanno concesso l'asilo a 112.170 siriani, su 2,9 milioni che sono fuggiti dalla guerra, un milioni dei quali accolti nel piccolo Libano). Questa cifra potrebbe crescere a 24mila, ma resterebbe comunque molto al di sotto della richiesta Onu. In ogni caso, mai la Commissione ha allargato la solidarietà ai "migranti" in senso più generale. L'Italia aveva chiesto "solidarietà" agli altri stati membri, ma la limitazione a eritrei e siriani ridurrà l'incidenza dell'operazione, visto che gli eritrei rappresentano il 24% delle persone sbarcate negli ultimi mesi e i siriani il 7%. Inoltre, per venire incontro alle molte riserve degli stati membri, la misura di ricollocamento potrebbe venire riservata agli arrivi dei prossimi mesi, cioè a partire da luglio, sempre che l'iniziativa della Commissione passi il vaglio degli stati membri. In più, non ci sarà nessuna modifica del regolamento di Dublino, come aveva sperato Matteo Renzi. Questo significa che il paese di primo arrivo dovrà continuare ad istruire la documentazione per stabilire se le persone hanno diritto all'asilo. All'Italia, accusata sotto voce di essere un po' troppo sbrigativa, potrebbe venir richiesto di presentare un rapporto a Bruxelles ogni tre mesi sull'andamento di queste pratiche. La Commissione aveva previsto di calcolare il numero dei ricollocamenti sulla base del pil, del numero di abitanti, del tasso di disoccupazione e del numero di accoglienze già effettuate. Ma c'è stata una levata di scudi, in particolare della Francia, seguita dalla Spagna, che non ha gradito il fatto che avrebbe dovuto aumentare il numero di rifugiati accolti. Già Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca sono escluse dal calcolo grazie a un opt out in questa materia. L'Europa centrale e orientale, Ungheria in testa, è ostile. La Germania ha fatto sapere di non essere d'accordo sulle "quote", anche se è il paese che, con la Svezia, si è mostrato finora più aperto. Nel 2014, i due terzi circa della protezione (rifugiati, protezione sussidiaria, autorizzazione di soggiorno per ragioni umanitarie) sono stati concessi da 4 paesi nella Ue, Germania (47.600 permessi, in rialzo dell'82% rispetto al 2013), Svezia (33mila, +25%) Francia e Italia, con un po' più di 20mila a testa. In Gran Bretagna, David Cameron, che fa pressioni su Bruxelles per ottenere concessioni con la minaccia di prendere posizione per il "no" all'Europa nel referendum promesso entro il 2017, vuole limitare la libera circolazione persino dei cittadini Ue. In Francia, François Hollande e Manuel Valls hanno rifiutato chiaramente le "quote", dopo aver lasciato credere di essere favorevoli. Ieri, nell'ambito della riforma dell'asilo politico, il Senato ha reso ancora più difficili le condizioni, imponendo il rinvio sistematico di chi non ha ottenuto il permesso di soggiorno. Il progetto della Commissione sarà "molto probabilmente massacrato, come lo è stato il piano di azione presentato nel dicembre 2013 dopo il naufragio al largo di Lampedusa" prevede un esperto. Droghe: le coltivazioni della canapa in Sardegna di Daniele Pulino (Dipartimento PolComIng, Università di Sassari) Il Manifesto, 27 maggio 2015 Per osservare ciò che si muove nel campo delle politiche sulla cannabis può essere interessante indagare i contesti locali dove queste producono i loro effetti. Da questa prospettiva la Sardegna rappresenta un caso interessante soprattutto in tema di coltivazioni illegali considerando che, negli ultimi anni, l'isola si è collocata ai primi posti tra le regioni italiane per numero di piante di cannabis sequestrate. Questo fenomeno è stato affrontato in modo puntuale da un recente lavoro di ricerca dell'Osservatorio Sociale sulla Criminalità dell'Università di Sassari (a cura di Antonietta Mazzette, "La criminalità in Sardegna. Reati, autori e incidenza sul territorio", Quarto rapporto di ricerca, Edes 2014). La ricerca segnala come, dal 2010 al 2014, in Sardegna ci siano stati 516 sequestri di coltivazioni di cannabis da parte delle forze dell'ordine che hanno portato alla confisca di oltre trentamila piante. Il fenomeno è però tutt'altro che omogeneo. Dall'indagine emerge una differenza sostanziale tra i sequestri avvenuti in aree urbane e quelli avvenuti nei comuni con meno di tremila abitanti. Nel primo caso si assiste infatti alla prevalenza di coltivazioni domestiche, realizzate con modalità che vanno dalla semplice coltivazione in vaso a coltivazioni indoor più sofisticate che utilizzano sistemi elettronici di illuminazione e aereazione. Si tratta in prevalenza di piccole coltivazioni, ovvero coltivazioni che sembrano destinate all'autoconsumo, allo scambio amicale oppure al piccolo spaccio. Nel secondo caso spicca invece la presenza di coltivazioni di grandi dimensioni (da 500 fino a oltre 2000 piante), collocate prevalentemente in terreni agricoli, con logiche che prevedono modalità organizzative complesse. Queste spesso mostrano la compresenza di altre attività illegali e della diffusione di armi da fuoco come elemento di sfondo che permea alcuni contesti territoriali dell'isola. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, gran parte dell'attività delle forze dell'ordine si è concentrata sulla prima tipologia di coltivazioni. Da un'analisi dei dati dell'Osservatorio fatta da chi scrive, risulta evidente come circa il 29% dei casi abbia riguardato sequestri in cui erano presenti massimo cinque piante, che sale a quota 42% se si considerano i sequestri di massimo 10 piante. Inoltre, nei casi delle coltivazioni più consistenti non è raro che gli autori siano rimasti impuniti. Fin qui i risultati della ricerca da cui è possibile trarre alcune considerazioni. In primo luogo occorre vedere come l'azione repressiva contro le droghe in questi ultimi anni abbia avuto l'effetto di concentrarsi su quelli che Grazia Zuffa, nel V Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi ha chiamato i "pesci piccoli", ovvero coloro che hanno commesso reati di lieve entità (qui il pdf). Il caso delle coltivazioni di marijuana in Sardegna sembra suggerire che questo non sia avvenuto solo in relazione alla carcerazione, ma a partire da un'azione delle forze dell'ordine sbilanciata sul piccolo consumo. In secondo luogo la normalizzazione del consumo di cannabis che è avvenuta nell'isola si è realizzata in un quadro di politiche che, colpendo in modo forte la piccola produzione, hanno lasciato maggiori spazi di manovra a gruppi criminali strutturati nel territorio. È anche da questa prospettiva che occorre osservare come dalla Sardegna si siano mosse azioni esemplari della magistratura, quali ad esempio la sentenza del giudice Carlo Renoldi del 2011(corte d'appello di Cagliari), che hanno sostenuto come, in alcuni casi, l'auto-coltivazione possa erodere dall'interno la domanda senza finanziare l'attività della criminalità organizzata (cfr. Franco Corleone, "Un'assoluzione esemplare", Il Manifesto, 27 gennaio 2012). Ucraina: la denuncia di Amnesty International "torture e uccisioni, da ambo le parti" Adnkronos, 27 maggio 2015 Amnesty International ha diffuso nuove, schiaccianti prove sui crimini di guerra in Ucraina, in particolare torture e uccisioni sommarie di prigionieri ad opera di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. In un rapporto pubblicato in questi giorni l'organizzazione descrive ex detenuti hanno riferito di essere stati picchiati fino ad avere le ossa spezzate, torturati con gli elettrodi, presi a calci, accoltellati, appesi al soffitto, privati del sonno per giorni e di cure mediche urgenti, minacciati di morte e sottoposti a finte esecuzioni. "All'ombra del conflitto ancora in corso nell'Ucraina orientale, le nostre ricerche sul campo hanno raccolto denunce di tortura tanto frequenti quanto scioccanti. Oltre 30 ex prigionieri, catturati da entrambe le parti, hanno fornito resoconti credibili e orribili di ciò che hanno vissuto", ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty. "Prigionieri di entrambe le parti hanno subìto pestaggi e finte esecuzioni. Abbiamo anche documentato uccisioni sommarie ad opera dei gruppi separatisti. Ricordiamo che torturare o uccidere deliberatamente persone fatte prigioniere durante un conflitto è un crimine di guerra" , ha aggiunto Dalhuisen. "Le forze pro-Kiev e i gruppi separatisti devono porre fine a queste azioni criminali e far sì che tutti coloro che combattono ai loro comandi siano consapevoli delle conseguenze cui andranno incontro, secondo il diritto internazionale, in caso di abusi contro i prigionieri nel corso di un conflitto armato. Le autorità ucraine devono indagare su tutte le denunce di crimini di guerra e di altro genere, aprire fascicoli e raccogliere le prove degli abusi commessi dalle forze separatiste, con l'obiettivo di portare di fronte alla giustizia i responsabili di queste azioni vergognose" , ha proseguito Dalhuisen. Dei 33 ex prigionieri intervistati da Amnesty International - tutti detenuti per vari periodi di tempo tra il luglio 2014 e l'aprile 2015 e incontrati tra marzo e maggio di quest'anno - 32 hanno descritto brutali pestaggi e altri gravi abusi commessi dai gruppi separatisti e dalle forze pro-Kiev. Amnesty International ha corroborato le testimonianze degli ex prigionieri con ulteriori prove, tra cui radiografie di ossa fratturate, cartelle cliniche, fotografie di bruciature e altre ferite, di cicatrici e di denti mancanti. Al momento dell'intervista, due di loro erano ancora in cura in ospedale. I torturatori appartengono ad ambo i lati del conflitto: 17 delle vittime sono state detenute dai separatisti, 16 dall'esercito, dalla polizia e dai servizi segreti di Kiev. Amnesty International ha inoltre ricostruito - sulla base di testimonianze oculari, cartelle cliniche, prove pubblicate sui social network e notizie di stampa - almeno tre casi recenti in cui i gruppi separatisti hanno passato sommariamente per le armi otto combattenti pro-Kiev. In un'intervista, il leader di un gruppo separatista ha apertamente ammesso di aver ucciso soldati ucraini, attribuendosi dunque un crimine di guerra. Alcune delle violenze peggiori vengono commesse in centri non ufficiali di detenzione, soprattutto nei primi giorni. I gruppi che agiscono al di fuori della catena di comando effettiva o ufficiale tendono ad avere comportamenti brutali e fuorilegge. La situazione dal lato separatista è particolarmente caotica: gruppi differenti trattengono prigionieri in almeno 12 diverse località. Quanto al lato pro-Kiev, uno dei racconti fatti da un ex prigioniero nelle mani della milizia nazionalista "Settore destro" è risultato sconvolgente. "Settore destro" ha preso decine di civili in ostaggio, li ha portati in un centro giovanile in disuso e qui li ha sottoposti a crudeli torture per poi estorcere ampie somme di denaro tanto ai detenuti quanto alle loro famiglie. Amnesty International ha segnalato la vicenda alle autorità ucraine senza ricevere alcuna risposta. Le ricerche di Amnesty International hanno verificato che entrambe le parti hanno arbitrariamente trattenuto civili che non avevano commesso alcun reato, per il mero fatto di aver espresso simpatia per la parte avversa. L'organizzazione per i diritti umani ha incontrato persone arrestate e picchiate solo per aver scattato fotografie delle proteste di EuroMaydan o per aver avuto nella rubrica del loro cellulare i numeri di telefono di separatisti. "In alcuni casi questi civili vengono presi per organizzare scambi di prigionieri, in altri soltanto per punire le loro idee. Questa prassi illegale e inquietante deve cessare immediatamente" , ha concluso Dalhuisen. Amnesty International sta chiedendo alle agenzie e agli esperti delle Nazioni Unite - tra cui il Sottocomitato per la prevenzione della tortura, i Gruppi di lavoro sulle detenzioni arbitrarie e sulle sparizioni forzate e il Relatore speciale sulla tortura - di svolgere una missione urgente in Ucraina per visitare tutti i centri di prigionia, compresi quelli non ufficiali, in cui si trovano persone detenute nel contesto del conflitto in corso. Iran: esecuzione di massa a Karaj, impiccati 22 detenuti condannati per traffico droga Aki, 27 maggio 2015 Nuova esecuzione di massa in un carcere iraniano. Ventidue detenuti, condannati a morte per traffico di droga, sono stati impiccati nel carcere di Ghezel Hesar, la più grande prigione della Repubblica islamica situata a Karaj, 20 chilometri a nord di Teheran. Secondo Iran Human Rights (Ihr), organizzazione che si batte contro la pena di morte in Iran, le esecuzioni sono state eseguite ieri, anche se è possibile che alcuni dei detenuti possano essere stati impiccati domenica. I 22 detenuti erano stati trasferiti nella quarantena della prigione a seguito di una manifestazione non autorizzata alla quale venerdì avevano preso parte decine di prigionieri rinchiusi nell'Unità 2 di Ghezel Hesar, il braccio della morte del carcere, dove al momento sono detenute circa duemila persone. I detenuti avevano rivolto un appello alla Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, chiedendo la commutazione della pena di morte nell'ergastolo. La manifestazione - ha riferito Ihr - è stata pacifica. Secondo Ihr, nelle ultime tre settimane sono stati 44 i detenuti giustiziati nel solo carcere di Karaj. Altre due esecuzioni di massa, infatti, hanno avuto luogo il 6 e il 21 maggio. In entrambe le occasioni 11 prigionieri accusati di narcotraffico sono stati impiccati. Alcuni di loro erano stati protagonisti di una rivolta scoppiata a Ghezel Hesar lo scorso anno. La notizia delle esecuzioni di massa - ha precisato Ihr - non è stata confermata da alcun media ufficiale della Repubblica islamica. "La maggior parte di questi prigionieri è stata sottoposta a processi irregolari e le loro condanne a morte sono state emesse sulla base di confessioni estorte sotto tortura", ha affermato in una nota il portavoce di Ihr, Mahmood Amiry-Moghaddam. "Ci appelliamo alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale - ha concluso - perché agiscano per fermare queste esecuzioni di massa". Iran: il caso del giornalista Rezaian, il deal nucleare e i diritti umani ormai dimenticati Il Foglio, 27 maggio 2015 Ieri si è tenuta a porte chiuse a Teheran la prima udienza del processo al giornalista del Washington Post Jason Rezaian, iraniano-americano (ma l'Iran non riconosce la doppia cittadinanza), accusato di spionaggio "a favore del governo ostile degli Stati Uniti", scrive l'agenzia Irna, e di propaganda contro la Repubblica islamica. Rezaian è a capo dell'ufficio di Teheran del quotidiano americano dal 2012, da dieci mesi è detenuto nella prigione di Evin, il centro in cui durante le proteste dell'Onda verde, nel 2009, entrarono e scomparvero molti giovani manifestanti (per i primi due mesi con lui c'era anche la moglie, poi liberata dietro il pagamento di una cauzione): secondo il Washington Post, Rezaian non ha potuto scegliere il suo avvocato e ha avuto un colloquio durato soltanto un'ora e mezza con il legale che gli è stato imposto. Non ci sono prove, le accuse sono "assurde", dice il quotidiano, che ha anche cercato di inviare uno dei suoi dirigenti a Teheran, ma la domanda di visto è rimasta senza risposta. Non si sa quando ci sarà la prossima udienza, ma intanto il processo ha proiettato un'altra ombra sul negoziato in corso sul programma nucleare di Teheran: c'è chi spera che la questione venga risolta allo stesso tavolo, ma si tratterebbe comunque di un'eccezione ad personam. L'Onu ha contato, tra giugno 2013 e giugno 2014, 852 condanne a morte in Iran (soprattutto impiccagioni), il trend continua anche quest'anno, anzi secondo alcune ong si è intensificato (ci sarebbe stato un picco brutale ad aprile), ma i diritti umani non sono in testa all'agenda di questi incontri, non lo sono mai stati e non lo sono ormai più in nessun altro negoziato. Il realismo e la determinazione di Barack Obama a ottenere un deal con l'Iran hanno avuto il sopravvento, per la violazione dei diritti umani non si alza più nemmeno un sopracciglio. Pakistan: giustiziati 11 detenuti, totale esecuzioni a 128 da loro ripresa lo scorso dicembre Askanews, 27 maggio 2015 Il Pakistan ha impiccato undici detenuti, portando a 128 il numero delle condanne a morte eseguite dalla ripresa, lo scorso dicembre, delle esecuzioni. Dieci esecuzioni sono avvenute in diverse città della provincia centrale del Punjab, mentre un condannato è stato impiccato nel carcere di Mach, nella provincia sudoccidentale del Baluchistan. Tutti erano stati condannati a morte. Una moratoria sulla pena di morta è in vigore in Pakistan dal 2008, ma le esecuzioni sono riprese a dicembre dopo che i militanti talebani hanno ucciso 154 persone, in maggior parte bambini, in una scuola nel nordovest del Paese. Stati Uniti: veto del governatore del Nebraska sulla legislazione per abolire pena di morte Askanews, 27 maggio 2015 Il Nebraska potrebbe essere il primo stato conservatore in oltre 40 anni ad abolire la pena di morte ma la strada per un tale risultato è tortuosa. Ieri il governatore Pete Ricketts ha infatti posto un veto sulla legislazione approvata la settimana scorsa per appunto rendere illegale la pena capitale. Ora il disegno di legge torna ai legislatori, che tenteranno di scavalcare il veto stesso. Per il cosiddetto Cornhusker State è una seconda volta. L'ultimo tentativo legislativo per abolire la pena di morte risale al 1979, quando i senatori non raccolsero voti sufficienti per avere la meglio sul veto dell'allora governatore Charles Thone. Per provare a centrare l'obiettivo, adesso serve il voto di 30 senatori ma il governatore repubblicano Ricketts ha già preso contatti per fare cambiare loro idea. Tra chi si dice pronto ad approvare l'abolizione di questa punizione, c'è chi cita motivi religiosi e chi parla di costi ed inefficienze. È dal 1997 che in Nebraska nessun detenuto percorre il cosiddetto ultimo miglio, quello che figurativamente parlando porta al braccio della morte. Allora fu usata la sedia elettrica ma adesso è richiesto per legge il ricorso a un'inizione letale, mai ordinata fino ad ora. È il Maryland ad avere abolito per ultimo la pena di morte nel 2013. Negli ultimi anni altri tre Stati, tra il moderato e il liberal, hanno fatto altrettanto: il New Mexico nel 2009, l'Illinois nel 2011 e il Connecticut nel 2012. L'ultimo Stato conservatore a eliminare questa punizione è stato il North Dakota nel 1973. In totale sono 32 gli Stati americani che permettono la pena di morte. Anche il governo federale la consente, come visto per esempio dal caso di Dzhokhar Tsarnaev: il 21enne che l'8 aprile scorso fu giudicato colpevole di tutti i 30 capi di imputazione per il suo ruolo nell'attentato alla maratona di Boston (Massachusetts) del 15 aprile 2013, lo scorso 15 maggio è stato condannato a morire dalla giuria popolare, così come avevano voluto i procuratori federali. Medio Oriente: Amnesty International "Hamas ha ucciso e torturato cittadini palestinesi" di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 maggio 2015 Amnesty denuncia una serie di violazioni tra le quali l'esecuzione extragiudiziale di 23 palestinesi oltre all'arresto di decine di persone tra le quali anche membri del partito rivale Fatah. Dopo aver messo sotto accusa Israele per la devastante offensiva militare "Margine Protettivo" del 2014 che ha ucciso e ferito migliaia di palestinesi e distrutto decine di migliaia di abitazioni civili a Gaza, Amnesty International ora punta l'indice contro Hamas. In un rapporto che sarà diffuso oggi, "Strangling Necks: Abduction, torture and summary killings of Palestinians by Hamas forces during the 2014 Gaza/Israel conflict", Amnesty denuncia una serie di violazioni tra le quali l'esecuzione extragiudiziale di 23 palestinesi oltre all'arresto di decine di persone tra le quali anche membri del partito rivale Fatah. "Constatare che mentre le forze israeliane seminavano morte e distruzione a Gaza, le forze di Hamas ne approfittavano per regolamenti di conti spietati, con una serie di uccisioni extragiudiziali e altre gravi violazioni, fa inorridire", ha dichiarato Philip Luther di Amnesty. Un numero di questi omicidi, ha aggiunto Luther, è stato presentato come attacchi contro collaborazionisti che avevano aiutato Israele durante "Margine Protettivo", ma almeno 16 delle persone uccise erano state fermate dal movimento islamico prima che esplodesse il conflitto. Molti erano in attesa della fine del loro processo quando sono stati messi a morte. Le forze di Hamas, secondo il rapporto, hanno pure rapito e torturato militanti di Fatah. Nessuno è stato chiamato a rendere conto di questi crimini, un fattore che, sottolinea Amnesty, indica che sono stati ordinati o tollerati dalle autorità. Sud Corea: 10 anni di detenzione ingiusta, il poeta Kim Ji Ha risarcito con 1,2 mln di euro Adnkronos, 27 maggio 2015 Nel 1974 i suoi articoli sulle torture delle autorità sudcoreane gli erano costati il carcere e una condanna a morte. Ma a 41 anni di distanza, a Kim Ji Ha, poeta e attivista sudcoreano, quella detenzione considerata ingiusta è valsa invece un risarcimento da 1,5 miliardi di won, pari a circa 1,2 milioni di euro. Kim, che venne condannato a morte con l'accusa di aver partecipato complotto degli studenti per rovesciare il governo del presidente Park Chung Hee e per aver scritto articoli di denuncia delle violenze delle autorità, rimase in carcere per dieci mesi e fu rilasciato dietro pressioni internazionali. Istruito, su sua richiesta, un nuovo processo e dichiarato non colpevole nel 2013, l'attivista aveva presentato allo Stato una richiesta di risarcimento, accolta dalla Suprema Corte di Seul lo scorso 8 aprile. E confermata nei giorni scorsi quando, riferisce l'agenzia stampa Yonhap, i legali dell'accusa non si sono presentati davanti ai giudici. Nel 1974, l'allora presidente Park Chung Hee, padre dell'attuale capo di stato sudcoreano Park Guen Hye, fece arrestare 180 membri della National Youth Association for Democracy, movimento studentesco appoggiato dalla Corea del Nord. Imprigionati con l'accusa di voler rovesciare il potere di Park, otto attivisti vennero giudicati colpevoli nel 1975 e giustiziati 20 ore dopo il verdetto.