La rabbia e la pazienza Il Mattino di Padova, 25 maggio 2015 "La rabbia e la pazienza" è il titolo della Giornata di studi, che ha portato nella Casa di reclusione di Padova il 22 maggio seicento persone, a confrontarsi e dialogare con più di cento persone detenute. La rabbia è dentro le vite di tutti, ma nelle storie degli uomini e delle donne che hanno passato il limite della legalità, e che vivono l'esperienza del carcere, la rabbia spesso è il "filo conduttore" di tutta un'esistenza. PRIMA, quando hanno commesso quei reati, per i quali la spinta più forte gli è venuta proprio dalla rabbia, dal rancore, dal risentimento, DOPO, mentre scontano la pena, perché, come ha scritto un ergastolano, "La colpa non è sempre di coloro che cedono alla rabbia, ma in parte pure di chi la provoca, di chi anche dentro una galera tenta di farti restare quello che sei o farti tornare quello che eri". Dare un senso alla pena dovrebbe significare aiutare le persone a non restare prigioniere della rabbia: questo però può succedere solo se il carcere non è un luogo di abbandono, di tempo perso e sofferenza inutile, ma di riflessione, di crescita, di cambiamento. Le due testimonianze di persone detenute, che raccontano il passaggio da un regime di carcere duro a una carcerazione "sensata", hanno spiegato bene che una pena giusta e "mite" responsabilizza e sconfigge la rabbia molto più della pena che mostra la "faccia rabbiosa" della giustizia. Nei primi anni di carcere duro la rabbia era la mia unica ragione di vita Ho trascorso quasi otto anni nel regime del 41 bis in carceri diverse: Ascoli Piceno, Asinara, Brindisi, L'Aquila, Lecce, Parma, Spoleto e Viterbo. Sono stati anni al limite della sopportazione, la dignità della persona veniva calpestata puntualmente e scientemente si mirava alla depersonalizzazione del detenuto. L'applicazione dell'art. 41 bis sospende le normali regole di trattamento dei detenuti. Ciò non vuol dire che il detenuto potrà essere spogliato della propria dignità personale, il cui rispetto è un diritto universalmente riconosciuto. Ma nella realtà il rispetto della persona detenuta soccombeva di fronte al trattamento quotidiano cui si era sottoposti. Tutto era rigidamente regolamentato e improntato sulla dipendenza assoluta, anche quella psicologica, dal sistema. Non ti concedevano neppure la libertà di pensiero. I rapporti con la famiglia erano limitati a un'ora di colloquio al mese e alla corrispondenza, sottoposta al visto di censura. L'incontro con la propria famiglia si rivelava sempre un momento di ulteriore sofferenza e in modo particolare quando c'era la presenza dei figli che un vetro ti impediva di abbracciare e baciare, e questo mi riempiva di rabbia. Ricordo perfettamente le diverse reazioni che mia figlia aveva in quegli ambienti. Una era che, nelle carceri dotate di cornetta per comunicare, si appropriava della cornetta e non la cedeva a nessuno, parlava sempre lei diventava logorroica, ma quando tornava a casa cadeva in un mutismo totale e al colloquio successivo non veniva. Un'altra reazione che mi ricordo è quella della sua manina impressa sul vetro che mi invitava ad apporre la mia sulla sua. Un altro episodio indimenticabile mi capitò nel carcere di Viterbo. Avevano previsto che gli ultimi dieci minuti i figli minori di dodici anni potevano stare in contatto con il proprio padre, ma senza la loro mamma. Avvenne che mi fecero spostare in una saletta attigua molto piccola, c'era un tavolino e null'altro. Mentre sul lato sinistro della saletta dietro ad un vetro era piazzata una telecamera e un agente riprendeva l'incontro con mia figlia, che un po' incuriosita un po' frastornata era attratta da quel freddo strumento. Non so in quei momenti cosa le sia passato per la mente, so di certo che mia figlia ha subito una violenza dallo Stato senza averne colpa. Personalmente ho sempre avuto un rapporto conflittuale perché non accettavo che calpestassero la mia dignità di persona e mi ribellavo in vari modi. Mal sopportavo le imposizioni a mio avviso spesso arbitrarie e questo mi ha comportato la perdita della liberazione anticipata nella misura di ventidue semestri, oltre a diverse altre condanne a seguito di scontri verbali e non solo. Ho sempre vissuto nella rabbia durante questo periodo, ci sono voluti anni prima che questo sentimento si sedimentasse. Nei primi anni di 41 bis la rabbia era la mia ragione di vita! Quella rabbia che provi in pancia sempre pronta ad esplodere, spesso accadeva anche questo. La causa di questo stato la individuavo nel fatto che non ti davano nessuna possibilità di interloquire, ti trovavi sempre di fronte ad un muro. Capivo che l'intento era quello di non farti sentire una persona, eri invisibile, eri nullo e così dovevi restarci finché non arrivavi a quella condizione di non poter avere nessun tipo di reazione, miravano a ridurti in uno stato d'impotenza, e questo io non l'accettavo, sentivo che mi stavano facendo violenza e la rabbia accumulata dentro di me veniva fuori con gesti violenti. Mancava del tutto il confronto. Preso atto che non c'era spazio di dialogo, negli anni a seguire la mia rabbia era diventata la ragione di vita, ma riuscivo a reagire in modo diverso, veicolavo questo sentimento non nella pancia ma nella mente, protestavo ma senza ricorrere ad atti violenti. Rispondevo alle provocazioni con altrettante sottili provocazioni di ogni tipo, avevo invertito i ruoli e tante volte ad arrabbiarsi erano i miei carcerieri. Andavo sempre incontro a vari rapporti disciplinari, ma quanto meno ci ironizzavo sopra e non come in precedenza che mi avvilivo. Sono riuscito a sopravvivere in questo modo: sentendomi vivo, sentendomi una persona che non poteva cedere la sua dignità alla volontà di un sistema. Mentre pensavo questo mio intervento, mi è venuto in mente il film di C. Chaplin "Tempi moderni" dove la vita di fabbrica nella catena di montaggio porta alla perdita del controllo della propria mente e quando cerchi di liberarti con gesti forti rischi di essere ingoiato da un sistema, che come obiettivo si pone l'annientamento della persona. A quel meccanismo posso dire che sono sfuggito! Adesso tutto è più facile, nel corso degli anni ho maturato altri concetti, altre prospettive ed in particolar modo in questo istituto dove la persona la si mette al centro del sistema e si accompagna verso un cammino positivo e di riflessione. Ora non sono diventato una persona sempre paziente e serena, perché il carcere è il luogo per antonomasia del conflitto e della rabbia, che è quella fedele compagna che non ti abbandona mai, però ho imparato ad agirla in modo simbolico, e così invece di armarmi di sgabello o gambe di tavolo, ricorro all'ascolto di buona musica classica. Ho imparato a ricostruire pazientemente la mia vita, e se mi trovo di fronte a questa platea è solo grazie a chi ha creduto in me. "Teniamoli alla catena questi cani rabbiosi" Sono Tommaso Romeo, da ventitré anni in carcere in quanto condannato all'ergastolo ostativo, tutta la mia detenzione l'ho trascorsa nelle sezioni speciali tra cui otto anni al 41bis, gli anni passati al 41bis non hanno fatto altro che far crescere in me la rabbia e in certi casi trasformarla in odio, quegli anni di restrizioni mi hanno spinto a vedere come nemici tutta quella parte di società convinta di aver risolto il problema pensando "teniamoli alla catena questi cani rabbiosi". Nel 2009 mi viene revocato il 41bis e arrivo nel carcere di Padova e vengo collocato nella sezione di Alta Sicurezza 1, fin da subito entro in contatto con l'educatrice e volontari, figure che fino ad allora non sapevo neppure che esistessero, perché in sedici anni di detenzione ho solo incontrato agenti penitenziari. Dopo un anno mi iscrivo all'università, ero certo che non avrei dato neppure un esame per gli strascichi dovuti agli otto anni di 41bis, in quanto quel regime ti fa perdere la padronanza nell'esprimerti, perché per anni tutti i giorni oltre a dire le stesse cose al massimo in una giornata usi pochissime parole, ma con l'aiuto dei tutor comincio a dare i primi esami. Poi succede che per mia fortuna salgo sul treno che dà una sterzata alla mia vita, questo treno si chiama "Ristretti Orizzonti", alla cui guida ci sono persone, che con le parole dette al momento giusto mi hanno aiutato ad abbattere quel muro di rabbia che mi offuscava la mente da tantissimi anni, facendomi riflettere e mettere in discussione le mie convinzioni di una vita lontana. Dalla mia esperienza personale posso dire che se anche al detenuto più pericoloso viene data la possibilità di espiare la sua pena in un istituto dove può vivere la sua detenzione in serenità e impegnare il suo tempo in attività utili, invece di lasciarlo chiuso in una cella per ventidue ore, è più facile che quando uscirà sarà un uomo senza rabbia pronto a portare un suo contributo alla società civile. Spero comunque che diventino molte di più le persone che credono e investono anche sui cani rabbiosi. La rabbia, la pazienza e il coraggio: alcune considerazioni dopo il convegno di Ristretti di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 25 maggio 2015 Poco più di 200 chilometri di attesa all'andata e altrettanti di entusiasmo al ritorno. Un entusiasmo profondo e un po' stanco. In genere il mio senso dominante è la vista ma oggi ho bisogno di chiudere gli occhi e riascoltare. Su tutte la voce di Biagio, il suo italiano sincero e imperfetto, le parole essenziali per raccontare la svolta terribile della sua vita: - Mio fratello era lì morto sotto un lenzuolo bianco. Ucciso. - L'anno scorso il suo intervento mi aveva lasciato tanti dubbi, una sorta di ribellione. Quest'anno non c'è distanza, quel lenzuolo bianco mi tocca nel profondo. Alla voce di Biagio si alterna la voce di Ornella: - Queste persone hanno commesso reati terribili; siamo qui per comprendere, non per giustificare. - lo ripete più e più volte con l'urgenza di chi non autorizza nessuna confusione. È chiara Ornella e ha coraggio. Lavora instancabile con le parole e non accetta né ambiguità né superficialità. Credo sia Sandro che parla di discussioni quasi estenuanti in redazione, dopo gli incontri con le scuole che, ormai, si susseguono a ritmi quasi impossibili. Oltre la voce di Biagio e quella di Ornella, se chiudo gli occhi, sento il silenzio. E il silenzio di diverse centinaia di persone non è un silenzio qualsiasi. È denso, si può quasi toccare. E poi ancora sento l' ultimo applauso forte, affettuoso alla polizia penitenziaria, un grazie sincero per l'impegno e l'accoglienza: più di seicento persone sono entrate l'altra mattina nel carcere di Padova, si sono mescolate con le persone detenute, hanno pranzato e ascoltato. La sera, appena rientrata, ho scritto a Ornella per dirle il mio grazie di cuore, un grazie da amica ma anche un grazie da cittadina. Per la qualità e il coraggio del suo impegno. La redazione di Ristretti, nel corso degli anni, è diventata un laboratorio, un luogo di sperimentazione e di conoscenza per tutti noi. Un testo da consultare quando si è a corto di idee, il tavolo cui sedersi se la motivazione vacilla o soffre colpi inaspettati. Ci si guarda negli occhi, ci si confronta, si discute. Con onestà, ordine e tanto rispetto. Le persone aspettano il loro turno per parlare e il tono della voce non è violento o esagitato. C'è silenzio. Ci si ascolta. Ma pensa un po', ci si ascolta. E dire che intorno al tavolo si contano tanti anni di galera quanti non è nemmeno possibile immaginare! Questa redazione è una sfida al pensiero debole, a chi concepisce la pena come isolamento, separazione, annullamento. È una spina nel fianco per chi non crede che le persone possano cambiare, lavorando, faticando, confrontandosi, assumendo le proprie responsabilità, accettando persino di assumere piena consapevolezza dell'enormità dei propri reati. Di fronte a ragazzi giovani come i propri figli, come i propri nipoti. Attenti a usare parole oneste e sapienti che non lascino spazio all'ambiguità. Non è la terra promessa e nemmeno l'isola che non c'è. È un luogo dove si fatica tanto, si scava e si ripulisce senza tregua. Si va in fondo, alla ricerca di quel bisogno che - come diceva giustamente Alfio Maggiolini durante il convegno - è all'origine di ogni reato e, a dirla tutta, anche di ogni peccato. Non per giustificare, appunto, ma per comprendere e poi per correggere, per prevenire. Per lavorare ancora e ancora in un'ottica di restauro, di ricostruzione. Il convegno annuale di Ristretti è il momento di condivisione del percorso, la possibilità per ciascuno di noi di ripulire le lenti attraverso cui guarda il mondo, una preziosa opportunità formativa. Per tutte queste ragioni ci sembra necessario insistere affinché gli Stati Generali sul carcere prevedano una sosta ai Due Palazzi per un momento di incontro con quella realtà incarnata della pena che continuiamo ad avvertire così distante dai tavoli ufficiali, dalle relazioni tecniche, filosofiche, giuridiche. Perché si trovi il coraggio di ammettere che la teoria ha forza e valore solo se accetta il rischio di incontrare le storie, gli sguardi, i corpi, le voci. È noto a tutti, d'altronde, che la Legge Gozzini che a suo tempo ha rivoluzionato la pena detentiva nel nostro paese, è nata da un incontro, da una visita in carcere, da alcune parole scambiate con un giovane detenuto. L'esercizio di pensiero è interessante, affascinante e spesso molto gratificante per chi lo coltiva ma se non ha l'audacia e la pazienza di agganciarsi alla carne, alla sofferenza, alla rabbia e all'esperienza umana, incide ben poco. Purtroppo. Giustizia: Manconi (Pd); è ragionevole abolire le carceri, detenzione solo per delitti gravi Adnkronos, 25 maggio 2015 Solo il 20% di recidivi dopo affidamento in prova ai servizi sociali. "Abolire il carcere". Il titolo dell'ultimo libro di Luigi Manconi (Pd), presidente della Commissione Diritti umani del Senato, non è una provocazione, come potrebbe sembrare a prima vista, ma una "ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini". Perché la prigione priva della dignità i detenuti e, lungi dal rieducarli come auspica la Costituzione, finisce spesso per diventare una sorta di università del crimine, mettendo a contatto chi ha rubato al supermercato con gli autori dei crimini più efferati. Così oltre il 68% di chi esce dal carcere si ritroverà dietro le sbarre entro i sette anni successivi, mentre la percentuale di recidivi di chi ha scontato o finito di scontare la pena con un affidamento in prova ai servizi sociali è di circa il 20%. Scritto assieme a Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, con una postfazione di Gustavo Zagrebelski, il libro vuole spiegare che pene alternative al carcere sono possibili e forse anche più efficaci per tutelare la società. E del resto, se in Italia l'82,6% dei condannati sconta la pena in carcere, in Gran Bretagna e Francia la percentuale cala al 24%. Un preciso decalogo mostra la strada di questo percorso che amplia la tipologia delle sanzioni, rendendo quelle detentive davvero l'extrema ratio. Si può infatti pensare a sanzioni a carattere interdittivo (per esempio revoca della patente, divieto di emettere assegni o utilizzare carte di credito), pene pecuniarie (anche da versare in quote periodiche in modo da modulare la sanzione sulle condizioni economiche del reo, confisca di beni), sanzioni civili con l'eventuale impegno ad eliminare o attenuare le conseguenze del reato, sanzioni a carattere prescrittivo (limitazione della libertà di movimento, lavori di pubblica utilità, svolgimento di un programma terapeutico, riparazione del danno compiuto). La detenzione rimarrebbe solo per i "delitti più gravi, da eseguirsi presso il domicilio del condannato o presso luoghi appositi di dimora sociale, limitando il carcere ai soli casi nei quali le esigenze di difesa sociale non siano altrimenti tutelabili". Oggi, fatti i conti delle spese dell'intero sistema carcerario, ogni detenuto costa in media 125 euro al giorno. Forse è tempo di chiedersi, se sono soldi ben spesi per la collettività. Se l'attuale carcere, fatto di sovraffollamento, soprusi, privazione della dignità, anche percosse, sia veramente il sistema migliore per tutelare la sicurezza dei cittadini, anche di chi non andrà mai in carcere. La tentazione del "chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave è comprensibilmente umana", nota il libro, ma forse è anche vero che "la maggior parte degli italiani non ha nemmeno la più lontana idea di cosa sia una prigione". "Abolire il carcere" è un invito a osare un pensiero diverso. E forse non è così difficile farlo, come prova l'esempio di Belen. È stata lei, malgrado non abbia fatto studi giuridici, "a esprimere le considerazioni più pertinenti " sulla condanna a 13 mesi di carcere di Fabrizio Corona, afferma Manconi. "Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta - ha detto Maria Belen Rodriguez ad un settimanale - lui è in galera perché ha una malattia per i soldi". Giustizia: "Abolire il carcere", un libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone intervista agli autori realizzata da Costantino Cossu La Nuova Sardegna, 25 maggio 2015 "La detenzione in strutture in genere fatiscenti è sovraffollate deve essere abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale". Questa la tesi del libro "Abolire il carcere" (Chiarelettere, 122 pagine 12 euro) scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Una provocazione? No. In questa intervista i due autori spiegano perché. Il carcere è un deterrente efficace contro la violazione delle leggi o, al contrario, ha un effetto di incremento del tasso generale di criminalità? Valentina Calderone: "Se fosse un deterrente non avremmo quei dati così allarmanti sulla recidiva, e l'esito positivo del ricorso alle misure alternative dice che la via per ridurre il numero dei reati è proprio un'altra. E poi bisogna sempre ricordare da chi è composta la popolazione detenuta: stranieri, tossicomani, poveri, malati di mente, senza fissa dimora, alcolisti. Tutte persone che richiederebbero misure radicalmente diverse, come cura, disintossicazione, assistenza sociale, formazione e avvio al lavoro. I veri pericolosi in carcere, coloro i quali commettono reati gravi, sono al massimo il 10 per cento. Se a portarti in carcere sono la miseria e la marginalità, come si può pretendere che le cose cambino dopo anni di vuota segregazione, senza alcuna attività o prospettiva? Il carcere nel nostro paese è una sorta di "parcheggio", dove vieni abbandonato insieme a tanti tuoi simili. Puoi rischiare di entrare venticinquenne come piccolo spacciatore e, nei lunghi giorni senza niente, uscire trentenne come rapinatore. In questo senso sì, il carcere può essere davvero una grande scuola di criminalità. Se il carcere non recupera e neppure scoraggia il crimine, a che cosa serve? Luigi Manconi: "Non serve a niente, appunto. Anzi, se non servisse a niente e fosse, come dire, un luogo "neutro", che non arricchisce ma nemmeno annichilisce, allora forse sarebbe diverso. Ma il carcere ha degli effetti, ben visibili, tangibili, indiscutibili. Abbrutisce, rende pericolosi. Insomma, incattivisce. E allora è meglio chiedersi a chi serva il carcere, piuttosto che a cosa: serve a agli imprenditori politici della paura, che possono riempirsi la bocca con parole come "tolleranza zero", "certezza della pena", "carcere duro". Insomma, più carcere per tutti. E serve anche al comune cittadino, che preda di paura e insicurezza talvolta reali talvolta immaginarie, si sente tutelato dall'esistenza del carcere. Se solo quel cittadino sapesse quanto in realtà il carcere fa male in primo luogo a lui". C'è un rapporto tra l'attuale sistema carcerario e le violenze di cui si rendono responsabili le forze dell'ordine nell'atto di svolgere i loro compiti istituzionali? V.C. "Sì c'è, ed è inevitabile. Noi pensiamo che quanto succede in carcere, soprusi, violenze, umiliazioni, non dipenda tanto dal sadismo dei singoli. È l'istituzione carcere, con le sue dinamiche, a giocare un ruolo determinante. La cattività, la promiscuità, l'inattività - tanto per i controllori quanto per i controllati - crea una miscela esplosiva. Il carcere ti invade con il suo vuoto, e tira fuori la parte peggiore di te. E la violenza non è solo quella che si esprime tra poliziotti e detenuti, o tra detenuti e detenuti. In carcere ci si taglia il corpo con lamette di fortuna, si aspira il gas delle bombolette da campeggio fino a soffocarsi, ci si impicca alla grata della finestra. Ci si fa male e in alcuni casi, troppi, si muore. Ma non sono solo i detenuti a decidere che il carcere è talmente insopportabile da trovare preferibile togliersi la vita. Oltre al costante numero di suicidi tra detenuti è cresciuto enormemente quello tra poliziotti: negli ultimi dieci anni oltre 100 agenti si sono tolti la vita". Con quali misure alternative va sostituito il carcere? L.M. "Nel nostro ordinamento esistono misure come l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Recentemente è stato introdotto l'istituto della messa alla prova, il cui scopo è evitare addirittura l'inizio del processo, che verrà celebrato solo nel caso in cui la messa alla prova dovesse fallire. L'utilizzo di queste misure non è sufficiente e in ogni caso possiamo imparare molto da alcuni paesi europei che da anni ricorrono a sanzioni diverse, con un principio di gradualità che porta a considerare il carcere come extrema ratio: le sanzioni a carattere interdittivo e prescrittivo, le pene pecuniarie e le sanzioni civili". Quali problemi organizzativi e quali problemi economici comporterebbe l'attuazione di tali misure? V.C. "Forse bisognerebbe porsi la domanda contraria: quanto viene speso per l'attuazione delle misure alternative? Briciole, purtroppo. Le risorse messe a bilancio e utilizzate nel 2013 ammontano a poco più di tre miliardi di euro e agli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) ne viene destinato solo il 2,5 per cento. Su 45mila dipendenti dell'amministrazione penitenziaria, solo 1500 sono gli addetti agli Uepe, i quali devono gestire 31.000 persone all'anno. I poliziotti penitenziari sono quasi 40mila. Quello che ci chiediamo, allora, è: dopo lo scandalo prodotto dalla Sentenza Torreggiani, in cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ci ha condannati per il sovraffollamento, i provvedimenti svuotacarceri e il piano di costruzione di nuovi istituti, non era più semplice ridistribuire le risorse e potenziare le strutture che si occupano di alternative? Per noi la risposta è scontata, ma evidentemente i nostri criteri di buon senso non sono abbastanza condivisi". Ma in Italia esiste oggi uno spazio politico per costruire una moderna cultura dei diritti? L.M. "È uno spazio assai angusto. Ma ciò, lungi dall'indurci all'inerzia ci spinge a provarci e a riprovarci ancora. Come facciamo con questo libro". Giustizia: le prescrizioni lunghe sono l'opposto della giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 25 maggio 2015 Gli eccessi, insegnava Pascal, offuscano i sensi e la ragione. Troppo rumore assorda, troppa luce abbaglia, troppa distanza e troppa prossimità impediscono la vista, la troppa verità ci stupisce. E troppa beneficenza irrita. Se eccede le nostre possibilità di ricambiare il favore, pro gratia odium redditur: la gratitudine diventa invidia. Anche la giustizia penale ubbidisce a questo principio. Il suo primo requisito è infatti la proporzione tra gravità del delitto e severità del castigo. Punire tutti i reati allo stesso modo non è solo ingiusto, ma irrazionale. Consapevole di questo principio, la stessa Chiesa ha ritenuto incongruo infliggere al peccatore, per una mancanza commessa nello spazio e nel tempo, una dannazione eterna: l'inferno, dicono oggi i teologi, esiste ma è vuoto. I recenti provvedimenti che inaspriscono le pene per il falso in bilancio, la corruzione e, in prospettiva, l'omicidio stradale, manifestano certamente la sensibilità del governo nella repressione di questi perniciosi reati, ma non ubbidiscono al principio di proporzione. I conti sono facili: un imprenditore che alteri per qualche anno le scritture contabili, o un conducente irresponsabile che, bevute due birre, ammazzi un pedone, saranno puniti come un sadico che abbia violentato un bambino, o il coniuge che abbia strangolato il partner infedele. E poiché l'ergastolo, come l'inferno, è stato di fatto abolito, anche il più crudele assassino rischierà solo qualche anno in più rispetto all'automobilista ubriaco. Questo proliferare di leggi apparentemente severe, sarà peraltro accompagnato dalla loro sostanziale inattuazione, perché comporterà processi più numerosi e complessi, con tempi più lunghi, aggravati dal prossimo e sconsiderato pensionamento coatto di 500 magistrati. L'apparato giudiziario collasserà e l'impotenza del sistema rivelerà, ancora una volta, l'incompetenza del legislatore. Ma il disastro non si limiterà a questo. Consapevole che un tale guazzabuglio normativo è incompatibile con le sempre più esigue risorse disponibili, il governo sta progettando di limitare i danni allungando i tempi di prescrizione. La quale, come il lettore saprà, significa estinzione del reato per decorso del tempo: non solo perché lo Stato perde interesse a punire, ma soprattutto perché la durata del processo, dice la Costituzione, deve essere ragionevole. I termini di prescrizione sono collegati all'entità delle pene previste. Aumentate queste, anche quelli sono stati ampiamente dilatati. Con il progetto allo studio si vorrebbe allungarli ancora di più. In pratica, il cittadino dovrebbe aspettare anche vent'anni per ottenere una sentenza definitiva. È una risoluzione chiesta anche dai magistrati, e questo è comprensibile, perché, come insegnava Senofane, se un triangolo potesse pensare immaginerebbe Dio come un triangolo; con ciò significando che ognuno vede la realtà attraverso la lente deformante dei propri pregiudizi. E infatti gli avvocati la vedono diametralmente opposta. Ma quale che sia l'immagine corretta, la fotografia che se ne ricava è una sola: vent'anni di processo sono incompatibili con la sua ragionevole durata. Concludo. Se il legislatore vuole davvero fare la faccia feroce, rafforzi almeno il braccio con cui intende colpire: la minaccia inconcludente e velleitaria è peggiore dell'indulgenza benevola, e persino della rassegnata pigrizia, perché sconfina pericolosamente nel ridicolo. Adegui i mezzi ai fini che si propone, e riconduca questi ultimi nell'ambito della concreta fattibilità. Se poi risponderà che non ci sono le risorse, potremo sempre replicare che la giustizia costa cara: forse per questo se ne fa tanta economia. Giustizia: in Parlamento sale la febbre delle indagini, 114 le indagini conoscitive aperte di Valeria Uva Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2015 A metà legislatura Camera e Senato viaggiano già oltre quota 100: per l'esattezza sono 114 le indagini conoscitive aperte da marzo 2013 a oggi. E gli argomenti sono i più vari: dalle carceri al Fisco, dalla competitività delle imprese fino al (testuale) "diritto dei minori a fruire del patrimonio artistico e culturale nazionale". Molto più basso, però, è il numero di indagini arrivate a conclusione: due soltanto al Senato (sulla tassazione degli immobili e sul caso Stamina) e 12 alla Camera (sulle 70 complessive). Le altre si interrompono dopo due o tre audizioni o, al contrario, proseguono per anni, senza mai arrivare a un documento conclusivo (anche se non obbligatorio a norma di regolamento). Secondo i regolamenti parlamentari le commissioni di Camera e Senato possono sempre decidere di avviare un'indagine conoscitiva sulle materie di propria competenza, chiamando in audizione esperti del settore e chiunque possa fornire dati e informazioni sul tema. Lo strumento è esplorativo, nulla a che vedere con le commissioni d'inchiesta in cui i parlamentari godono degli stessi poteri dell'autorità giudiziaria. Quando poi viene usato in parallelo con l'esame di un Ddl (un classico è il caso dei documenti di bilancio) o dei decreti del Governo, non arriva mai a una conclusione, ma serve ai parlamentari per crearsi un punto di vista autonomo rispetto al Governo o per "farsi un'idea" della materia su cui si va a legiferare. Eppure, anche sottraendo le indagini legate a doppio filo con le proposte di legge in discussione (42 in questa legislatura), restano comunque 58 iniziative partite e mai concluse. Sulle concessioni autostradali, per esempio, la commissione Lavori pubblici del Senato aveva deciso a luglio 2013 di avviare un'indagine per "acquisire informazioni sugli investimenti effettuati". Da allora più nulla, neanche una seduta dedicata al tema (ora affrontato dall'omologa commissione della Camera). "Sono cambiate le priorità - spiega il presidente Altero Matteoli - e adesso la commissione è impegnata con le riforme degli appalti e della Rai". Anche l'indagine sull'edilizia scolastica, partita a passo di carica a luglio 2013 con "l'ambizione di affrontare un problema urgente... che richiede la massima rapidità" - proclamava il resoconto - si è poi arenata senza conclusione a dicembre dello stesso anno. "Certo l'indagine è un'arma in più per l'opposizione - conclude Matteoli, ma in tanti anni da parlamentare io risultati significativi non li ho mai visti". Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria del Senato, offre una lettura diversa: "L'indagine non va letta in modo burocratico, come una corsa ad arrivare a scrivere sempre e comunque un pezzo di carta, ma può avere altre funzioni". E cita quella sull'Ilva (varata ben prima dello scoppio del caso) "che ci ha permesso di arrivare preparati all'esame dei decreti del Governo e di correggerli in modo tale da poter usare i fondi sequestrati ai Riva dalla magistratura". Sicuramente l'indagine con la grande quantità di audizioni (ben 78, per esempio, quelle sulla tutela dei diritti umani) può creare un ponte tra il Parlamento-torre d'avorio e la società reale. A costi tutto sommato contenuti: prassi vuole, infatti, che nessun rimborso sia concesso a chi è chiamato in audizione. Giustizia: la rotta italiana dei "foreign fighters", via mare in Tunisia per unirsi all'Isis di Guido Olimpio Corriere della Sera, 25 maggio 2015 La ministra Pinotti: "Pronti a dare una mano, ancora più forte, contro il Califfato". Il primo allarme risale al 6 novembre. In un'intervista, il segretario uscente dell'Interpol, Ronald Noble, avverte: i volontari jihadisti usano la rotta marittima per raggiungere i fronti di guerra in Medio Oriente. Un viaggio a bordo di traghetti e persino di navi da crociera dirette verso la Turchia o zone vicine. Ora arriva un secondo avviso, rilanciato da fonti della sicurezza britannica attraverso il quotidiano Guardian. Gli estremisti inglesi - è la rivelazione - raggiungono prima l'Italia quindi, via mare, la Tunisia, per poi proseguire verso la Libia, tappa di un lungo viaggio che termina in Siria o in Iraq. I servizi inglesi avrebbero seguito le mosse dei militanti per un certo periodo arrivando alla conclusione che questo percorso è stato creato per sottrarsi ai controlli negli aeroporti. Negli ultimi tre anni, le reclute del Califfato e di altre fazioni, sono arrivate in Turchia a bordo di voli low-cost in partenza dai principali scali europei. Con spesa ridotta e poche ore di viaggio possono arrivare molto vicini alle future zone d'operazione. Quando sono scattate le misure di sicurezza per fare da filtro, avrebbero diversificato il "sentiero". Alcuni hanno optato per spostamenti tortuosi attraverso i Balcani: la Bulgaria è così diventata uno snodo importante. Altre segnalazioni hanno riguardato la Grecia, raggiungibile tanto dall'Italia - sempre in traghetto - quanto dall'asse ex Jugoslavia-Albania. Infine la scelta del viaggio in partenza dai porti italiani. Difficile dire quali siano i numeri. Secondo i funzionari citati dal Guardian alcuni dei "viaggiatori" hanno postato su Facebook foto che li ritraggono in località del nostro Paese prima del trasferimento. La storia si affianca a quella che vede la Libia come possibile trampolino per terroristi determinati a infiltrarsi in Europa. E alle note polemiche sul rischio che gli estremisti possano mimetizzarsi tra i profughi dei barconi. Siamo sempre nel campo degli scenari. Ed è anche vero che è complicato stabilire l'esatto profilo di un clandestino. La stragrande maggioranza sono persone in fuga da conflitti e miseria. Ciò non impedisce la presenza di altri "personaggi", pericolosi e con altre intenzioni. La valutazione dell'intelligence però tende a considerare minore questo tipo di rischio. L'Interpol ha in programma l'istituzione del sistema I-Checkit anche per le navi, un archivio che registri i dati dei passeggeri e li incroci con quelli in possesso delle polizie. Un elenco simile a quello usato per monitorare chi viaggia in aereo. In teoria un elemento sospetto che acquista un biglietto per un traghetto verrebbe subito segnalato. A patto che viaggi con il suo documento o con un passaporto che gli permetta di bucare la rete. Problemi che si pongono alle forze di polizia mentre ai militari tocca trovare nuove risposte all'incalzare dello Stato Islamico dall'Iraq alla Siria. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha affermato che "se ci sarà bisogno di dare ancora una mano, ancora più forte, siamo pronti a deciderlo assieme al Parlamento". Per ora l'Italia ha impegnato 250 militari dell'aviazione (si occupano della selezione degli obiettivi insieme agli alleati) e ha inviato istruttori in Kurdistan. Bardo: Farina in cella da Touil "è smarrito" "Smarrito ma in buone condizioni fisiche". Daniele Farina, capogruppo di Sel in Commissione Giustizia della Camera, ha descritto così Abdel Majid Touil, il marocchino arrestato nei giorni scorsi su mandato di cattura delle autorità tunisine per l'attentato al Museo del Bardo e che oggi ha incontrato nel carcere di Opera. Touil, è stato riferito, si trova in una delle celle di accoglienza e osservazione da dove poi verrà trasferito nel vero e proprio reparto di alta sicurezza, in compagnia solo della televisione. Come ha raccontato il parlamentare, Touil, che ha rifiutato l'ora d'aria, "non parla altro che arabo". Non conosce i rudimenti del francese o dell'inglese e "dell'italiano sa solo qualche parola basilare" per cui è stato difficile avere un colloquio vero e proprio. In una nota ufficiale, postata sulla sua pagina di Facebook, il deputato ha ribadito che" nel corso dell'incontro abbiamo constatato un apparente stato di buona salute fisica e la regolarità delle condizioni detentive" ha ribadito che "in attesa che la magistratura completi i suoi accertamenti Sel mantiene un monitoraggio sull'applicazione della recente normativa antiterrorismo e respinge ogni tentativo di strumentalizzazione politica che tenta di collegare l'emergenza profughi col terrorismo". Cause di estinzione del reato: sospensione del processo con messa alla prova Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2015 In tema di sospensione del processo e messa alla prova dell'imputato minorenne, è illegittimo il provvedimento con cui il giudice, senza la consultazione delle parti e del servizio minorile competente, imponga prescrizioni ulteriori rispetto a quelle stabilite nel progetto di intervento. Cause di estinzione del reato - Sospensione con messa alla prova - Ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione - Autonoma impugnabilità - Esclusione. L'ordinanza con la quale il giudice del dibattimento rigetta l'istanza di sospensione del processo per la messa alla prova dell'imputato è impugnabile, ai sensi dell'art. 586 cod. proc. pen., solo unitamente alla sentenza. •Corte di cassazione, sezione V, sentenza 6 febbraio 2015 n. 5673. Cause di estinzione del reato - Sospensione con messa alla prova - Termine finale di presentazione dell'istanza ex articolo 464 bis, comma secondo, del Cpp - Preclusione della richiesta di applicazione della messa alla prova nei procedimenti pendenti al momento dell'entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 - Questione di legittimità costituzionale in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - Manifesta infondatezza - Ragioni. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 464 bis, comma secondo, cod. proc. pen., per contrasto all'art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l'applicazione dell'istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell'entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile. •Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 18 novembre 2014 n. 47587. Sospensione del processo con messa alla prova - Applicabilità nel giudizio di cassazione - Possibilità - Esclusione - Annullamento della sentenza impugnata - Possibilità - Esclusione - Ragioni. Nel giudizio di cassazione l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all'art. 168-bis cod. pen., né può altrimenti sollecitare l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, perché il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un "iter" processuale alternativo alla celebrazione del giudizio. •Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 10 ottobre 2014 n. 42318. Sospensione del procedimento con messa alla prova - Applicabilità nel giudizio di cassazione - Possibilità - Esclusione - Annullamento della sentenza impugnata - Possibilità - Esclusione - Ragioni. Nel giudizio di cassazione l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all'art. 168-bis cod. pen., né può altrimenti sollecitare l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, per l'incompatibilità del nuovo istituto con il sistema delle impugnazioni e per la mancanza di una specifica disciplina transitoria. •Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 13 agosto 2014 n. 35717. Sospensione del processo e messa alla prova - Progetto generico di intervento formulato dai servizi minorili - Integrazione d'ufficio da parte del giudice - Omesso contraddittorio sulla integrazione - Violazione di legge - Sussistenza. In tema di sospensione del processo e messa alla prova dell'imputato minorenne, è illegittimo il provvedimento con cui il giudice, senza la consultazione delle parti e del servizio minorile competente, imponga prescrizioni ulteriori rispetto a quelle stabilite nel progetto di intervento. •Corte di cassazione, sezione V, sentenza 17 febbraio 2014 n. 7429. Gli squilli di telefono ripetuti nella giornata equivalgono al reato di molestia di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2015 Tribunale di Taranto - Sezione I penale - Sentenza 26 gennaio 2015 n. 154. Le chiamate telefoniche verso un numero fisso di un'abitazione consistenti in semplici squilli o conversazioni di brevissima durata, e non in telefonate vere e proprie, se ripetuti nell'arco della stessa giornata rappresentano il segno evidente della volontà di colui che chiama di arrecare fastidio a chi riceve le telefonate. In questo caso è configurabile il reato di molestia previsto dall'articolo 660 del Cp. Questo è quanto emerge dalla sentenza del Tribunale di Taranto 154/2015. Il caso - La vicenda, alquanto singolare, vede come protagonisti due inquilini di uno stabile condominiale i cui rispettivi appartamenti erano collocati su piani diversi. Il condomino del piano superiore in alcuni giorni nell'arco di qualche mese riceveva delle brevi e ripetute telefonate anonime, consistenti perlopiù in squilli o chiamate di pochi secondi. Infastidito da tale comportamento, aveva sporto denuncia e dai tabulati telefonici era emerso che le chiamate provenivano dal condomino che abitava al piano inferiore. Quest'ultimo, tratto a giudizio, si era giustificato dicendo che quelle telefonate erano state effettuate per rappresentare alla famiglia che abitava nell'appartamento al piano superiore tutto il disagio subito da sé e la sua famiglia per i rumori continui che erano costretti a subire per via delle feste che i vicini organizzavano in casa loro sia di giorno che di notte "ospitando sino a 20 persone alla volta le quali, con scarpe spesso fornite di tacchi, cagionavano notevole rumore". A ciò si aggiunga che tra le due famiglie già non intercorrevano buoni rapporti, date le precedenti reciproche denunce per ingiuria e minaccia. Le motivazioni - Il Tribunale ritiene che il comportamento dell'imputato integri gli estremi del reato di molestia. Per il giudice il punto fondamentale della questione non è quello di capire se i rumori lamentati siano stati o meno reali, bensì quello di appurare se le chiamate fatte dall'imputato siano state effettuate per far cessare i comportamenti rumorosi o per arrecare fastidio all'altro condomino. E analizzando i tabulati telefonici, che testimoniavano ripetute e brevi telefonate in ore notturne e diurne, come ad esempio alle due di notte e alle sette del mattino seguente, il giudice ritiene pretestuosa la giustificazione dell'imputato e chiara la sua volontà di arrecare fastidio. Tale condotta configura quella del reato di cui all'articolo 660 del Cp, in quanto questa non è necessariamente abituale potendo essere realizzata anche con una sola azione di disturbo, la quale sia caratterizza da petulanza, ovvero "quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà della persona offesa". Agenzia entrate, effetto domino sugli atti dei dirigenti decaduti di Stefano Loconte e Daria Pastorizia Italia Oggi, 25 maggio 2015 Il ko dei "falsi" dirigenti delle Entrate segnato dalla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale ha generato nelle aule di giustizia un'incontrollabile reazione a catena. A meno di due mesi dalla pubblicazione in G.U. della pronuncia della Consulta, le prime sentenze emesse dai Collegi di merito, sebbene altalenanti, sembrano delineare un orientamento più favorevole al contribuente: gli avvisi di accertamento firmati dai funzionari delle Agenzie fiscali nominati dirigenti senza concorso sono nulli. All'origine del fenomeno il ricorso al Consiglio di stato proposto da circa un migliaio di pubblici funzionari per la riforma del provvedimento con cui il Tar Lazio aveva annullato la delibera grazie alla quale le Agenzie fiscali avevano per anni conferito e prorogato a più riprese incarichi dirigenziali (asseritamente provvisori) a soggetti privi della relativa qualifica e senza concorso. Con ordinanza del 26/11/13, il Consiglio di stato ha sollevato la questione di legittimità dell'art. 8, comma 24, dl n. 16/2012 (e delle successive proroghe) e con la sentenza n. 37 depositata il 17/3/15, la Corte costituzionale, alla quale la questione è stata rimessa, ha bocciato la normativa denunciata di incostituzionalità dichiarando decaduti dagli incarichi dirigenziali, con effetto retroattivo, tutti coloro che erano stati nominati senza concorso. Se è vero che la sentenza della Consulta travolge senza dubbio la disposizione censurata mettendo la parola fine ad anni di incarichi illegittimi, è altrettanto vero che essa incide profondamente anche sulla validità degli atti amministrativi emessi e sottoscritti da personale privo di qualifica e di poteri, in quanto viziati da difetto assoluto di attribuzione. A condividere per prima questa conclusione è stata la Ctp di Milano, che con pronuncia n. 3222/25/15 del 31/3/15 ha spiazzato quanti avevano risposto alla sentenza della Consulta dissuadendo i contribuenti dal proporre azioni processuali "temerarie" ed "inutili", convinti che la decadenza dei dirigenti non avrebbe comportato la nullità degli atti da loro emessi e sottoscritti. Il Collegio, a pochissimi giorni dallo stop della Consulta ai "falsi" dirigenti, ha annullato il primo avviso di accertamento sottoscritto, per delega, da un funzionario cui erano stati conferiti incarichi dirigenziali senza concorso pubblico e il cui nome compariva nell'ordinanza del Consiglio di stato tra gli interventori ad adiuvandum. La reazione delle Entrate non si è fatta attendere. All'indomani del primo arresto di merito, è infatti corsa ai ripari diramando un comunicato stampa con il quale segnalava a suo favore la pronuncia della Ctp di Gorizia n. 63/1/2015 dell'1/4/2015 convinta che la decadenza dei dirigenti "non debba comportare affatto la caducazione (nullità)" degli atti impugnati: "essendo irrilevante verso i terzi il rapporto fra la pubblica amministrazione e la persona fisica dell'organo che agisce", spiega, troverebbe applicazione la "teoria del funzionario di fatto". Ad anestetizzare la risposta dell'Agenzia, un nuovo colpo basso è inferto stavolta dai giudici di legittimità. Con sentenza del 14/4/15, n. 7495, anche la Corte di cassazione, sez. Lavoro, ha bocciato le nomine di vertice burocratico conferite dall'Agenzia delle entrate, questa volta in ragione del mancato previo esperimento della selezione pubblica di cui all'art. 19 del T.u. Pubblico impiego. L'altalena delle pronunce di merito prosegue in favore contribuente. Infatti, alla sentenza del Collegio lombardo fa subito eco la Ctp di Brescia. La pronuncia n. 277/01/2015 del 14/4/15 sposa la tesi della nullità dell'accertamento fiscale, sostenendo che l'onere dell'Agenzia di dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo e di esibire la delega di firma del titolare dell'ufficio, è ancor più attuale visto il tenore della sentenza della Consulta. Di orientamento opposto, invece, la sentenza del 20/4/15, n. 150/02/2015, con cui la Ctp di Macerata, pur riconoscendo che "non è assolutamente consentito attribuire incarichi dirigenziali a funzionari che non abbiano espletato regolare concorso", ha più in generale sostenuto che "ciò non determina che siano travolti tutti gli atti già emessi da funzionari provvisti di semplice delega". Dopo l'incertezza delle sentenze di prime cure, l'orientamento giurisprudenziale si attesta però in favore del contribuente con il primo precedente in appello rappresentato dalla sentenza n. 2184/13/2015 depositata il 19/5/15 dalla Ctr della Lombardia per la quale "sul punto della nullità degli atti amministrativi firmati da dirigenti illegittimi, non sembra esservi ombra di dubbio sulla loro caducità". Il Collegio lombardo è lapidario sulla nullità degli avvisi di accertamento firmati dai "falsi" dirigenti poiché gli artt. 42 dpr n. 600/1973 e 56 dpr 633/72 stabiliscono che gli atti devono essere sottoscritti a pena di nullità da un dirigente (legittimamente nominato) o da impiegato della carriera direttiva a questi delegato. La portata innovativa della sentenza è nel richiamo all'art. 21-septies della legge n. 241/90 in forza del quale il provvedimento viziato da difetto assoluto di attribuzione configura un'ipotesi di nullità assoluta insanabile che può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio, anche d'ufficio, spazzando via così ogni dubbio circa la possibile decadenza dell'eccezione di nullità. Infine, il Collegio lombardo interviene anche sull'applicabilità dell'istituto del "funzionario di fatto", precisando che ai fini della validità degli atti "l'orientamento giurisprudenziale vede nella tutela della buona fede del privato destinatario il fondamento di tale efficacia e cioè quando gli atti adottati dal funzionario di fatto siano favorevoli ai terzi destinatari". Per l'effetto, tale istituto non può trovare applicazione quando la notifica dell'avviso di accertamento, firmato da soggetto privo di poteri, è un atto sfavorevole al contribuente, interessato a contestarlo per farlo dichiarare illegittimo. Ultima importante conferma arriva dalle due sentenze gemelle Ctp di Lecce nn. 1789/02/15 e 1790/02/15 depositate il 21/5/15, che oltre a ribadire la piena rilevanza della sentenza n. 37/15 ai fini della validità degli atti e l'onere della prova a carico dell'Agenzia in ordine alla legittimità della nomina dirigenziale, al netto della teoria del funzionario di fatto, hanno confermato l'assenza di qualsiasi preclusione processuale al rilievo del vizio di nullità assoluta, sollevabile in ogni stato e grado del giudizio, oltre che d'ufficio, anche nella memoria illustrativa, in appello o addirittura oralmente in sede di discussione di merito. Accertamenti al macero, di Marino Longoni (Italia Oggi) Sette sentenze favorevoli al contribuente (e tra queste anche una Commissione tributaria regionale e una Cassazione) e due al fisco. La questione della nullità degli atti di accertamento sottoscritti da dirigenti dell'Agenzia delle entrate dichiarati decaduti comincia a prendere una brutta piega. Per il fisco. Appaiono quindi poco profetiche le parole del direttore dell'Agenzia, Rossella Orlandi che, all'indomani della sentenza della Corte costituzionale che dichiarava la invalidità della nomina dei dirigenti, aveva stigmatizzato il tentativo di impugnazione degli atti firmati dai dirigenti decaduti ("smettiamola di far girare sciocchezze, gli atti sono validi, non si facciano spendere soldi inutili ai cittadini per i ricorsi"). Infatti, chi ha seguito il suo consiglio, ora si sta mordendo le mani. Anche perché, pur essendo la materia estremamente complessa, le motivazioni delle ultime sentenze favorevoli ai contribuenti sono ben argomentate e stroncano alla radice le pretese dell'Amministrazione: una su tutte la decisione della Ctr Lombardia che dichiara senza mezzi termini la nullità degli atti firmati da dirigente nominato in modo illegittimo; nullità rilevabile in ogni stato e grado del processo, anche d'ufficio. La stessa decisione demolisce anche l'argomentazione principale sostenuta dalle Entrate, che fa riferimento alla figura del "funzionario di fatto", una figura che, per i giudici di Milano, può essere invocata per far valere la validità di atti favorevoli ai terzi destinatari, non all'amministrazione. Di fronte a sentenze così nette, chi ha sostenuto, su certa stampa specializzata, che l'impugnazione degli atti di accertamento avrebbe esposto il contribuente al rischio di lite temeraria, fa una figura altrettanto misera. Ora la maggior parte degli atti di accertamento, anche e soprattutto quelli che nel merito erano inattaccabili, sarà impugnata dai contribuenti, con esiti che rischiano di essere molto pesanti per l'erario. Sono circa 800, infatti, i dirigenti delle Entrate che hanno firmato centinaia di migliaia di documenti che ora rischiano di finire nel tritacarte (ruoli, avvisi di accertamento, avvisi di liquidazione delle imposte, provvedimenti irrogativi di sanzioni, atti riguardanti le operazioni catastali, atti di diniego espresso emessi dalle Agenzie fiscali, atti processuali). E sono solo 366 i dirigenti diventati tali per concorso, quindi in grado di sottoscrivere atti in modo legittimo. Il problema potrebbe quindi esplodere in termini drammatici. Oltretutto il tentativo di minimizzarne la portata ha avuto come conseguenza che due mesi dopo la sentenza della Corte costituzionale, ancora non si vede all'orizzonte nessuna soluzione in grado di ripristinare il normale svolgimento dell'attività delle Entrate: sono anzi esplosi all'interno dell'Agenzia malumori e polemiche che finora erano rimasti sepolti sotto la cenere, con prese di posizioni durissime di alcuni rappresentanti sindacali e degli ormai ex dirigenti, che stanno scatenando una guerra intestina che non sarà facile ricomporre. Il contribuente raggiunto da accertamento, invece, vive un momento magico: può comprare, a modico prezzo, un biglietto della lotteria dove si vince 77 volte su 100. Alla notifica del Comune non serve l'avviso di ricevimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2015 Corte di cassazione n. 10554/15. Non è necessario che sia con avviso di ricevimento la raccomandata con cui il destinatario viene informato dell'avvenuta notifica perfezionata - in sua assenza - con la consegna dell'atto al portiere. Così il Comune di Roma Capitale ottiene ragione dalla Corte di cassazione del suo procedere. La sentenza della Cassazione n. 10554/15, depositata venerdì scorso, infatti, rigettato un ricorso con cui si lamentava la nullità della notifica dell'impugnazione in appello da parte del Comune di una sentenza di primo grado, che lo aveva condannato a un risarcimento danni a favore della parte attrice. Ma nel giudizio di appello - con la contumacia della ricorrente - il verdetto veniva ribaltato con l'ordine di restituire le somme ottenute a titolo di ristoro. Da qui la richiesta di cassare la sentenza per nullità della notificazione dell'atto d'appello. La questione. Il Comune nel giudizio in Cassazione riconosce l'assenza dell'avviso di ricevimento della comunicazione dell'avvenuta notifica al portiere tramite ufficiale giudiziario. L'avviso di ricevimento è prescritto per la raccomandata con cui si notifica l'atto e non quella con cui si dà notizia al destinatario dell'avvenuto adempimento. La prossimità di soggetti quali un familiare, un vicino di casa o il portiere dello stabile che provvedono alla ricezione dell'atto lasciano supporre la conoscibilità dell'avvenuta notifica da parte dell'interessato, che verrà comunque informato dell'adempimento con seguente lettera raccomandata semplice, cioè senza avviso di ricevimento (quarto comma dell'articolo 139 del Cpc). Il principio applicato al caso specifico - Nell'ipotesi di notifica dell'atto - a mezzo di ufficiale giudiziario - al portiere o al vicino di casa o - a mezzo posta - a persona diversa dal destinatario ai fini del perfezionamento della notifica non è necessario che sia fatta con avviso di ricevimento la raccomandata diretta all'interessato e contenente la notizia dell'avvenuta notificazione alle persone suddette; con la conseguenza che, nella specie, è stata legittimamente dichiarata la contumacia della parte destinataria dell'atto di appello ricevuto dal portiere e della raccomandata, senza avviso di ricevimento, contenente la notizia dell'avvenuta consegna al portiere. Questo il principio di diritto applicato al caso specifico. Il corretto adempimento del Comune - La Corte esclude drasticamente la nullità della notifica dell'atto di appello effettuata dal Comune di Roma. I giudici ricostruiscono l'adempimento nel caso in cui la notifica non avvenga nelle mani del destinatario. Ricorda la Cassazione che infatti la necessità di corredare la raccomandata con l'avviso di ricevimento vale solo nei casi di irreperibilità o di rifiuto a ricevere la notificazione da parte dei soggetti di "prossimità" presso la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario. Infatti, solo nel caso di irreperibilità, rifiuto o incapacità di tali persone, indicate all'articolo 140 del Cpc, deve essere con avviso di ricevimento la raccomandata con cui si dà notizia al destinatario dell'affissione alla porta dell'abitazione, dell'ufficio o dell'azienda dell'avviso di deposito di copia dell'atto nella casa del Comune. In conclusione la legge di norma richiede espressamente l'avviso di ricevimento per la notifica dell'atto a mezzo posta e non per la comunicazione della notizia che la notificazione è stata effettuata ad altra persona. Eccezionalmente il Legislatore richiede l'avviso di ricevimento anche quando non si tratti della notifica dell'atto, ma della notizia da comunicare al destinatario: quando l'atto è stato consegnato in luogo lontano dalla disponibilità del destinatario. Nozione atto di frode presupposto della revoca dell'ammissione al concordato preventivo Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2015 Ai fini della revoca dell'ammissione al concordato, rilevano solo gli atti non espressamente indicati nella proposta che abbiano una valenza decettiva tale da pregiudicare il consenso informato dei creditori ancorché annotati nelle scritture contabili. Fallimento - Concordato preventivo - Revoca ex art. 173 L.F.- Atti di frode - Nozione. Gli atti di frode vanno intesi come le condotte volte a occultare situazioni di fatto idonee a influire sul giudizio dei creditori, aventi valenza potenzialmente decettiva per l'idoneità a pregiudicare il consenso informato degli stessi sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate nella loro sussistenza o anche solo nella loro completezza e integrale rilevanza, a fronte di una precedente rappresentazione del tutto inadeguata, purché siano caratterizzati, sul piano soggettivo, dalla consapevole volontarietà della condotta, di cui, invece, non è necessaria la dolosa preordinazione. •Corte di cassazione, sezione I, sentenza 29 luglio 2014 n. 17191. Fallimento - Concordato preventivo - Revoca dell'ammissione - Presupposti - Atti di frode ai sensi dell'art. 173, I comma L.F. - Nozione - Atti non adeguatamente esposti in sede di proposta di concordato - Inclusione. Gli atti di frode, presupposto della revoca dell'ammissione al concordato preventivo ai sensi dell'art. 173, I comma L.F., non possono individuarsi solo negli atti in frode ai creditori, di cui agli artt. 64 e segg.L.F., ma è necessario che siano accertati dal commissario giudiziale e abbiano una valenza potenzialmente decettiva, per l'idoneità a pregiudicare il consenso informato dei creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, dovendo il giudice verificare, quale garante della regolarità della procedura, che vengano messi a disposizione dei creditori tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della proposta. Peraltro, nell'ambito dei fatti accertati dal commissario giudiziale rientrano, oltre ai fatti scoperti perché del tutto ignoti nella loro materialità, anche i fatti non adeguatamente e compiutamente esposti in sede di proposta di concordato e nei suoi allegati i quali, pertanto, possono dirsi accertati in quanto individuati nella loro completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori solo successivamente. •Corte di cassazione, sezione I, sentenza 18 aprile 2014 n. 9050. Fallimento - Concordato preventivo - Revoca dell'ammissione - Presupposti - Atti di frode ai sensi dell'art. 173, I comma, L.F. - Nozione - Emergenza degli atti dalle scritture contabili, sebbene taciuti nella domanda - Inclusione - Fondamento. Gli atti di frode non possono più essere individuati semplicemente negli atti in frode ai creditori, di cui agli artt. 64 e ss. L.F., ovvero comunque in comportamenti volontari idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio, ma esigono che la condotta del debitore fosse volta a occultare situazioni di fatto idonee a influire sul giudizio dei creditori, cioè situazioni che, da un lato, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dall'altro, siano state accertate dal commissario giudiziale, cioè da lui scoperte, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Ai fini della revoca dell'ammissione al concordato, rilevano solo gli atti non espressamente indicati nella proposta che abbiano una valenza decettiva tale da pregiudicare il consenso informato dei creditori ancorché annotati nelle scritture contabili, fermo restando, che, ai fini della revoca dell'ammissione, il silenzio del debitore nella proposta di concordato e nei suoi allegati e l'accertamento del commissario devono riguardare non una qualsiasi operazione risultante dalle scritture contabili, ma solo quelle suscettibili di assumere rilievo per soddisfacimento dei creditori in caso di fallimento ed in caso di concordato preventivo, come i pagamenti preferenziali nei sei mesi anteriori alla domanda di concordato. •Corte di cassazione, sezione I, sentenza 15 ottobre 2013 n. 23387. Fallimento - Concordato preventivo - Provvedimenti immediati - Dichiarazione di fallimento - Presupposto - Atti di disposizione del patrimonio idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento dei creditori - Enunciazione nella proposta di concordato - Natura frodatoria- Esclusione - Fondamento - Conseguenze. Secondo il procedimento disciplinato dall'art. 173 L.F. dopo la riforma attuata in virtù del d.lgs. n. 169/07, la nozione di atto in frode, che opera - ai sensi del I comma della disposizione fallimentare cit. - quale presupposto per detta revoca, esige - alla luce del criterio ermeneutico letterale, ex art. 12 disp. prel. Cod. Civ. - che la condotta del debitore sia stata volta a occultare situazioni di fatto idonee a influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state accertate dal commissario giudiziale, cioè da lui scoperte, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori; pertanto, nel concetto di "frode" non rientra qualunque comportamento volontario idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio e, quindi, risulta estraneo a tale qualificazione il comportamento del debitore che, già nel ricorso, abbia indicato gli atti di disposizione del patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di godimento a terzi e che, successivamente esaminati dal commissario giudiziale, siano ritenuti suscettibili di depauperare il detto patrimonio, così da scoraggiare l'acquisto degli immobili oggetto della cessione ai creditori, pregiudicando la fattibilità della proposta concordataria. •Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 giugno 2011 n. 13817. Il giudice merito interpreta richieste formulate con l'atto di intervento nel processo esecutivo di Michele Viesti Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 6 maggio 2015 n. 9011. È riservata al giudice del merito l'interpretazione delle richieste formulate con l'atto di intervento nel processo esecutivo. E, risolvendosi il suo giudizio in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità se motivato in maniera congrua e adeguata. È questo, in sintesi, uno dei principi affermati dalla terza sezione civile della Cassazione con la sentenza n. 9011 del 6 maggio scorso. La controversia - La Suprema corte nella fattispecie è investita dell'esame di una vicenda molto complessa. La controversia ha a oggetto infatti le contestazioni all'ordinanza conclusiva di un'espropriazione presso terzi di ingente valore, relativamente alla sussistenza, all'entità e al rango di collocazione dei crediti concorrenti azionati. La decisione - Dopo aver esaminato in dettaglio ogni rilievo mosso dalle parti, i giudici della Corte rigettano il ricorso principale e i due giudizi incidentali. La pronuncia però non esaurisce la sua portata al decisum: si segnala infatti per i due principi di diritto applicati, che costituiscono l'"architrave" del ragionamento seguito dagli stessi giudici, l'uno relativo all'interpretazione delle richieste formulate con l'atto di intervento nel processo esecutivo, l'altro inerente il soddisfacimento dei creditori chirografari nell'espropriazione presso terzi. I principi di diritto richiamati - La Cassazione ha innanzitutto osservato come nel giudizio de quo sia stato correttamente applicato il principio per cui anche l'interpretazione delle richieste formulate con l'atto di intervento nel processo esecutivo è operazione riservata al giudice di merito, il cui giudizio, trattandosi di un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità se congruamente e adeguatamente motivato, "avendo riguardo all'intero contesto dell'atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonché del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che intende perseguire". Di conseguenza qualora il creditore richiami a verbale, anche a mezzo di sostituto d'udienza, un ricorso per intervento senza insistere sugli accessori nel tasso qui espressamente indicato, il giudice dell'esecuzione interpreta correttamente la richiesta di partecipazione alla distribuzione come non più estesa a tali accessori. I giudici precisano poi l'altro principio giuridico in base al quale, anche dopo la novella del 2006, nell'espropriazione presso terzi i creditori chirografari che intervengono dopo l'udienza di comparizione indicata nell'atto di citazione, concorrono alla distribuzione della parte di somma che sopravanza dopo il soddisfacimento integrale dei creditori pignoranti, privilegiati e intervenuti tempestivamente. Lettere: il ministro elogia i volontari e dimentica magistrati e educatori di Angela Amarante fp.cgil.lombardia.it, 25 maggio 2015 C’è una certa insoddisfazione tra i lavoratori degli Uffici di esecuzione penale esterna. Agli Stati generali indetti due giorni fa a Milano dal ministro della Giustizia Andrea Orlando "è stato dato un quadro parziale dell’esecuzione penale", come sostiene Barbara Campagna, coordinatrice regionale Fp Cgil Lombardia per gli Uepe. "Assistenti sociali, magistrati, educatori non sono stati citati dal ministro - spiega la sindacalista - che ha posto invece l’accento sul volontariato. I volontari sono utili, ma non è un servizio strutturato nel tempo. Inoltre ci è stato reso noto che solo lo 0,5 % degli investimenti del governo andrà agli Uepe. Il resto verrà utilizzato per l’edilizia penitenziaria. Abbiamo fatto notare al ministro che i nostri uffici chiudono per mancanza di personale, e che proprio adesso che gli Uepe si occuperanno anche di esecuzione penale dei minori, servirebbero maggiori risorse". "E’ un grave errore non aver citato, oltre ai volontari e alla polizia penitenziaria, le altre figure professionali che garantiscono i servizi dell’esecuzione penale - commenta Calogero Lopresti, coordinatore lombardo Fp Cgil Polizia Penitenziaria. Lo stanziamento minimo consentito agli Uepe non aiuterà certo il reinserimento dei detenuti". Gli assistenti sociali diminuiscono sempre più per sopraggiunta età, non vengono sostituiti, sentono negata la loro professionalità. Campagna e Lopresti concordano nel sostenere che "occorre evitare di considerare che volontariato o polizia penitenziaria possano supplire, come ormai stanno facendo da anni, a carenze strutturali di personale, occorre che i tavoli tecnici diventino volano per organizzare una nuova amministrazione che riequilibri il sistema che dev'essere visto come globale, quindi interno ed esterno ai muri di cinta". Bologna: perquisito per droga si suicida buttandosi dalla finestra dell'abitazione Ansa, 25 maggio 2015 Erano probabilmente in tre gli agenti di polizia che, ieri pomeriggio, hanno perquisito per una vicenda di droga l'appartamento in via Casoni 2, nella periferia di Bologna, in cui viveva Akenouche Hocine, il 47enne algerino che si è buttato dalla finestra morendo sul colpo dopo un volo di 15 metri. Da quanto si apprende, due di loro avrebbero tenuto d'occhio i movimenti dello spacciatore nordafricano, mentre il terzo collega avrebbe vigilato sugli altri due inquilini, italiani, sentiti in serata dagli inquirenti. Il quarto agente sarebbe rimasto da solo in cortile e avrebbe recuperato i 45 ovuli di cocaina lanciati dalla finestra da Hocine, del peso totale di 16 grammi. Hocine aveva alle spalle precedenti specifici, alcuni di droga. Aveva avuto un permesso di soggiorno fino al 2011, poi era rimasto irregolare sul territorio. Nel 2012 aveva scontato una pena in carcere in Trentino per droga, mentre nel 2013 aveva ricevuto un decreto di espulsione dalla Questura di Bologna. Le indagini sono coordinate dal capo della Squadra Mobile, Lorenzo Bucossi. Napoli: "mio figlio sta morendo, non può restare in carcere a Poggioreale" di Alessandra De vita La Città di Salerno, 25 maggio 2015 Il disperato appello della madre di Giuseppe Danise, detenuto a Poggioreale. Non sempre ci si affranca dal proprio passato come nel caso di Giuseppe Danise che ha alle spalle una vita diffide che rischia di concludersi in carcere, a Poggioreale, dove sta scontando una pena per estorsione. Il 43enne è malato terminale. Cirrosi in stato avanzato, tumori estesi al fegato. Epatite C: questa la diagnosi (confermata da tre ospedali) aggravata da un virus Hiv in stato avanzato. Necessita di cure costanti oltre che di terapie adeguate che nel Padiglione San Paolo (che è poco più di un'infermeria) non può ricevere. Ali anni ha assistito all'esecuzione del padre, freddategli dinanzi agli occhi da colpi di arma da fuoco. "L'abbiamo perso 30 ani fa", spiega Antonio, il fratello, che si sta battendo insieme all'associazione radicale "Maurizio Provenza". "Non si è mai più ripreso. Per i primi 4 anni, dopo la morte di papa, non ha parlato. Mio padre, aveva commesso molti errori. Ha fatto cose che non doveva". Giuseppe era poco più che un bambino. "Mio fratello è un malato terminale - aggiunge - e rischia di morire in carcere. Non ha più albumina, può mancare all'improvviso perché ha dovuto interrompere la cura che faceva a casa e che potrebbe allungargli la vita. L'infermeria del carcere non è capace di gestire la sua situazione, lui ha bisogno dell'interferone e non solo; gli occorrono cure continue poiché ha le gambe in stato pietoso. Dovrebbe stare nel reparto di malattie infettive". Al San Paolo, più delle bustine di antidolorifici non possono dargli, in base a quanto racconta Antonio. In fase esecutiva della sentenza emessa nel 2013, è intervenuto l'avvocato Gerardo Di Filippo che è farlo uscire da Fuorni, facendogli ottenere un anno e due mesi di domiciliari il 12 febbraio del 2014. Scaduto l'anno, Giuseppe è tornato dietro le sbarre, stavolta quelle del carcere di Poggioreale. Gli hanno revocato i domiciliari, ma il fegato non guarisce da un giorno all'altro. Danise dovrebbe essere ricoverato all'ospedale Cotugno dove potrebbe ricevere cure e assistenza adeguate. Ma i tagli alla sanità hanno complicato tutto e allungato i tempi. Di Filippo ha presentato dunque istanza al Tribunale del Riesame che ha respinto i domiciliari. Ora, si attende la risposta del Tribunale di sorveglianza di Napoli che ha fissato la prima udienza a settembre, quando Giuseppe potrebbe essere già morto. Ultimo di 4 fratelli, Antonio lavora in una scuola come collaboratore scolastico; vive insieme alla madre, Maria. "Mio figlio - racconta - ha commesso molti errori ma non per questo merita di essere trattato come una bestia. Non sta bene, non è mai stato bene. Dai 12 ai 43 anni è stato in cura presso uno psichiatra, non c'è con la testa. Non pretendo che torni a casa ma almeno che venga curato e invece vivo nell'ansia continua di ricevere una brutta notizia. Ogni giorno che passa in carcere è un giorno di vita in meno, ha i buchi nelle gambe, è ridotto a pezzi, non lo vedono? So che non potrà mai guarire ma il Signore deve decidere della sua vita, non lo Stato ne la giustizia". Una vicenda che ha già sollevato diverse discussioni e polemiche. Maria Danise Giuseppe Roma: Fns-Cisl; il N.C. Penitenziario di Civitavecchia ha un nuovo Direttore ilfaroonline.it, 25 maggio 2015 Per la Fns Cisl Lazio auspichiamo che il neo direttore coinvolga di più le rappresentanze sindacali. "In settimana, nel Nuovo Complesso Penitenziario di Civitavecchia, arriverà il nuovo Direttore. La situazione che il neo direttore troverà ad affrontare è quello: legato all'apertura della sezione per l'accertamento delle infermità psichiche (osservazione psichiatrica) destinato alle detenute ai sensi dell'art. 112 del DPR 230/2000. Da quando è dato sapere saranno n. 4 i soggetti detenuti che dovranno essere presi in carico per un tempo previsto dalla legge penitenziaria che varia da un minimo di 30 giorni prorogabile secondo le esigenze patologiche e mediche della detenuta sottoposto all' Osservazione Psichiatrica. Situazione che la Fns Cisl ha segnalato tra l'altro già agli organi competenti affinché vi sia un numero adeguato di operatori sanitari per tali detenute sottoposte ad osservazione psichiatrica.- La grave carenza di Personale, soprattutto quello femminile, che in base alla pianta organica sancita dal Decreto del 27 giugno 2014, dovrebbe essere di n. 29 unità, ruolo agenti/assistenti, ma che allo stato attuale risultano essere, invece solo 17 unità, che coprono il servizio. Situazione che dovrebbe chiarirsi in data 28 c.m. visto che il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria del Lazio (Prap Lazio) ha convocato le rappresentanze regionali al fine di disquisire sulla modifica delle piante organiche degli istituti penitenziari del Lazio, compreso quindi quello del NC di Civitavecchia. Questi invece i dati che si troverà sul fronte dei detenuti al Nc Civitavecchia che attualmente sono presenti risultano essere 455 ( sovr.+ 111) rispetto ai detenuti regolamentare previsti 344 e quelli tollerabili previsti di 642. Per quanto concerne, invece, il dato della Regione Lazio, il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) riferisce che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere al 30/04/2015 n. 5.791( 515 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili) di cui 400 donne e 5.391 uomini Per la Fns Cisl Lazio auspichiamo che il neo direttore coinvolga di più le rappresentanze sindacali su questioni che sono state tralasciate e che si possa arrivare ad una modifica delle piante organiche, a livello regionale, tali da far giungere in detta sede di servizio adeguato personale di Polizia Penitenziaria". Il Segretario Generale Aggiunto Massimo Costantino Padova: risorgere dietro le sbarre di Hortensia Honorati interris.it, 25 maggio 2015 "In carcere sei costretto a fare i conti con la tua coscienza, qui la vita o la cambi in meglio o in peggio". Antonio sta scontando una pena per omicidio: a vent'anni una rissa tra ragazzi finita male lo ha portato dietro le sbarre. Ma non si è lasciato andare, non ha visto la sua esistenza svanire tra le celle di una prigione e ha trasformato la sua condanna in un'occasione di riscatto. L'occasione gli è stata offerta da Officina Giotto, la Cooperativa Sociale che ha fatto del lavoro la via maestra per restituire la speranza a chi ha sbagliato. Se, citando Dostoevskij, è vero che "il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni", quella di Padova potrebbe rassicurare il nostro Paese. Purtroppo non è proprio così, l'esempio dell'opera che Nicola Boscoletto - presidente dell'Associazione - sta portando avanti è, infatti, solo una delle poche eccezioni di un Paese condannato nel 2013 da Strasburgo per il dramma del sovraffollamento carcerario". Quella di Officina Giotto è dunque una rarità che dovrebbe diventare strutturale e sistematica in ogni penitenziario. Una realtà divenuta oggetto di studio all'Università Cattolica di Milano e un modello da seguire che non è sfuggito a Paesi come gli Stati Uniti, il Brasile e la Germania. "Dal punto di vista del lavoro abbiamo molto da imparare da voi" ha esclamato Luiz Carlos Rezende E Santos, magistrato di Belo Horizonte, in occasione di un convegno tenutosi il 20 maggio al Regina Coeli di Roma. "Quello che fate è semplicemente fantastico. Noi stiamo cercando di diffondere la vostra esperienza negli States" ha commentato invece lo sceriffo Dart di Chicago in un video messaggio. A Padova, dunque, si cerca di recuperare i detenuti attraverso il lavoro che diventa strumento per restituire loro la propria dimensione e dignità. Queste persone sono incoraggiate a coltivare un'immagine di sé che sia per loro soddisfacente, opposta a quella del criminale che hanno costruito nelle precedenti esperienze di vita. Solo nel 2014 hanno lavorato a Officine Giotto 175 dipendenti, di cui 140 detenuti, il 16% della popolazione dell'istituto penitenziario. Il 56% di essi doveva scontare pene dai 10 ai 30 anni, mentre il 16% erano ergastolani. Uno schiaffo a chi pensa di costruire la pace sociale aggiungendo dolore al dolore e non conosce i concetti di "pentimento" e "perdono". ". "Quando mi sono accorto cosa avevo fatto, ho sentito la morte dentro" racconta Francesco, finito in prigione per omicidio a 17 anni, che oggi al carcere Due Palazzi si occupa nel settore montaggio di biciclette. "Chiedimi nello specifico cosa è successo, cosa mi ha detto o quello che mi ha fatto arrabbiare e credimi che non te lo so dire - spiega -. Me ne sono reso conto quando tornavo a casa, col pensiero che avevo la fidanzata incinta, che mio padre non c'era e che ero il più grande dei fratelli. Ho distrutto tutto, non ho parole". Anche per lui a Padova il lavoro si è trasformato nella possibilità di ricominciare: "Quando viene commercializzato un prodotto che hai fatto tu e la gente che li acquista è contenta, beh sono soddisfazioni che non hanno prezzo. Quando vedi una persona che va in bicicletta è come se gliela spingessi tu". Sull'esperienza di Padova si è espressa anche Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti: "Occorre che le imprese vengano maggiormente a conoscenza di queste opportunità, e che siano dotate di tutti gli strumenti necessari per poter operare nelle carceri perlomeno senza patirne svantaggi". Ciò che spezza le catene dietro le sbarre di Padova è la fiducia data ai detenuti e l'occasione attraverso il lavoro di poter imparare a volersi bene, passaggio fondamentale e insostituibile se si vuole restituire alla società delle persone nuove e responsabili. "Esco la mattina dalla mia cella alle 8:30 e non sono un detenuto, ma un dipendente. Ho riavuto indietro la mia dignità - racconta un altro carcerato - e ora posso inviare dei soldi anche alla mia famiglia. Lo faccio per i miei bambini, per mettermi alla prova. Qui chi mi ha incontrato ha scoperto che dietro il mio reato c'è una persona". Siena: il carcere torna a fiorire, i ragazzi dell'Istituto Agrario risistemano le aree verdi di Cecilia Marzotti La Nazione, 25 maggio 2015 Oltre il muro e aldilà le sbarre del carcere di Santo Spirito. Qua ogni giorno si lavora per aiutare chi ha sbagliato a passare, una volta espiata la pena, l'antico fortilizio. I detenuti, che sanno di dover pagare per le loro colpe, si aprono al mondo esterno e il mondo esterno va loro incontro. Prova ne è l'innumerevole mole di contributi che arrivano nelle forme più svariate. "Tutto questo è possibile perché siamo davanti ad una piccola (e gestibile) realtà carceraria" come ebbe a dire a suo tempo un giudice di sorveglianza ed è anche fattibile grazie ad un direttore, alla polizia penitenziaria e alle capacità del personale che hanno in messo in campo le loro forze perseguendo un unico obiettivo: il reinserimento dei carcerati che non solo ricevono, ma danno anche. Alcuni mesi fa avevamo lasciato la casa di reclusione guardando i ragazzi dell'istituto agrario e alcuni detenuti rimettere a posto le aree verdi interne a Santo Spirito. Un progetto che aveva portato (e porta) gli studenti a mettere in pratica quanto imparato nel corso delle lezioni. Allora c'era una classe e oggi quando ci siamo tornati e abbiamo trovato la 3A con i loro insegnanti. Ad onor del vero è stato fatto davvero un gran bel lavoro. Ragazzi in gamba che frequentano una scuola che darà loro un futuro (e non lo scriviamo per piaggeria, non è nostra consuetudine decantare a caso) e loro ne sono consapevoli. Tutti, infatti, da Paolo Branconi a Tommaso Rabazzi, da Eva Battaglini ad Alberto Menicori e Banjamin Voltolini si dicono soddisfatti dell'esperienza. In maniche di maglietta, tuta e qualcuno in pantaloncini corti nonostante le bizzarrie del tempo zappano, piantano, realizzano piccoli orti e spazi per piante ornamentali. Tutto avviene sotto lo sguardo compiaciuto del direttore del carcere Sergio La Montagna, del preside dell'istituto agrario Tiziano Neri e della responsabile dell'area pedagogica Sabrina Falcone. Una collaborazione preziosa, come sottolinea lo stesso direttore della casa di reclusione che insieme alla Misericordia, alla Croce Rossa, agli "Amici delle biblioteche", alla Cappella universitaria, agli scout e al gruppo "Nasi e nasi" vengono portati avanti vari progetti. E poi come dimenticare il teatro, l'audiolibri per non vedenti e i vari doni che di volta, in volta, vengono fatti alla struttura carceraria? Primo fra tutti la Whirlpool che proprio recentemente ha regalato una lavatrice. I soldi sono pochi e le idee tante lo sanno il personale e i detenuti e così proprio questi ultimi non solo ricevono, ma si propongono anche consapevoli che il modo migliore per dire grazie è portare avanti progetti concreti. Questo è Santo Spirito: una piccola realtà carceraria dove obiettivi, progetti e idee partono da una sinergia sia interna, che esterna. Una bella esperienza che ha come obiettivo il reinserimento di quei sessanta detenuti oggi presenti nella struttura. Lucca: progetto Gruppo infioratori versiliesi che insegnerà l'antica arte a 25 carcerati Il Tirreno, 25 maggio 2015 Un incontro inedito tra il mondo del carcere e quello di un'arte antica che a Camaiore e in Versilia viene tramandata grazie al Gruppo infioratori versiliesi. Probabilmente il primo del genere, in assoluto: detenuti a lezione dagli infioratori che man mano costruiscono, insieme ai loro maestri, un tappeto di petali, si appassionano a questa arte, decidono di realizzare tra loro una competizione. E acquisendo la tecnica socializzano, si confrontano, si incontrano al di là delle differenze culturali e religiose, oltre la propria condizione di detenuti. È questo il significato del progetto, partito da poche settimane, che il Gruppo degli infioratori versiliesi sta portando avanti con 25 detenuti del carcere di Lucca. Iniziativa resa possibile grazie alla disponibilità dell'istituto di detenzione. "Il progetto - spiega Angelo Tabarrani per il gruppo infioratori - è stato accolto con entusiasmo. Inizialmente era stata data l'autorizzazione alla realizzazione di un solo tappeto. ma ora le opere che saranno realizzate sono due: i detenuti, contenti dell'iniziativa, hanno voluto fare una gara tra italiani e stranieri e hanno realizzato con la nostra supervisione due progetti che stiamo man mano ultimando". Il tappeto di fiori della "squadra" italiana si intitola "Ma la vita è uguale per tutti?". Quello della "squadra" straniera "Perderci tra storia e bellezza". Venerdì scorso a San Giorgio gli infioratori hanno avuto il secondo incontro con i detenuti. I lavori sono a buon punto e venerdì prossimo saranno terminati. "Al progetto - continua Tabarrani - collaborano gli studenti di quinta dell'istituto Stagio Stagi di Pietrasanta. L'iniziativa è stata resa possibile anche grazie al contributo della parrocchia di Camaiore, con don Damiano Pacini. Il miglior tappeto dei due sarà premiato e ci sarà una festa conclusiva nella chiesa del carcere il 12 di giugno, con associazioni e il vescovo di Lucca". Il penitenziario di Lucca vuole essere solo la prima tappa di un progetto più ambizioso: portare l'arte dei tappeti di fiori nel maggior numero di carceri italiane. "Per farlo - aggiunge Tabarrani - servono risorse - e la nostra associazione ha bisogno dell'aiuto di tutti per riuscire a portare avanti questo progetto". Che ha una importante valenza sociale come spiega lo stesso Tabarrani: "Le nostre tematiche non sono solo religiose - afferma - ma riguardano in generale l'umanità, la poesia, la storia, la musica. E usando questi linguaggi possiamo mettere d'accordo tutte le popolazioni. Sono linguaggi universali grazie ai quali superare ogni differenza di etnia o religione. Il nostro lavoro ha entusiasmato i detenuti che hanno dimostrato grande capacità e voglia di fare oltre che di incontrare un mondo diverso come quello degli infioratori. Anche per i ragazzi dell'associazione è una esperienza importante". Vercelli: la squadra di calcio dei detenuti è la più corretta "un esempio per tutto il Csi" di Filippo Simonetti La Stampa, 25 maggio 2015 Ormai è diventata quasi un'abitudine. Per il terzo anno consecutivo il Forrest, squadra di calcio amatoriale Csi formata dai detenuti del carcere di Vercelli, ha vinto la Coppa Disciplina. La consegna ufficiale è avvenuta ieri pomeriggio nel campo della casa circondariale. Il Forrest disputava il recupero della gara di campionato (organizzato dal Comitato di Novara) contro lo Schaeffler Momo. Il team, che durante l'anno è stato seguito da Mauro Sattin e Mirella Coppo, è stato selezionato tra oltre trenta società (suddivise nei tre gironi novaresi) come formazione più corretta: nell'arco dell'intera regalar season 2013-2014 sono stati quelli ad aver collezionato meno cartellini gialli e rossi. Presente alla cerimonia di consegna la dottoressa Valeria Climaco, capo area sezione educativa ed alcuni colleghi. La targa è stata ricevuta direttamente dal capitano del Forrest, Larbi. Il responsabile del Csi Novara Claudio Fontaneto, anch'egli presente ieri al campo del penitenziario cittadino, ha elogiato il Forrest che anche l'anno scorso ha saputo confermarsi reginetta del fair play. La compagine allenata dal duo Sattin-Coppo anche l'anno prossimo dovrebbe iscriversi al campionato Csi gestito dal Comitato di Novara. Richieste di asilo, tribunali intasati dai ricorsi dei migranti di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 25 maggio 2015 Si moltiplicano le pratiche di chi non ottiene asilo. Milano è passata dalle 20 al mese nel 2013 alle 100 di marzo. Pool specializzati a Torino e Catania. L'onda lunga degli sbarchi delle carrette del mare percorre lo Stivale e fa impennare il numero delle richieste di asilo politico. Più della metà viene respinta ma i ricorsi intasano i già ingolfati palazzi di giustizia. Corrono ai ripari i capi delle Procure che tra Milano, Torino e Catania organizzano gruppi di lavoro e dipartimenti per fronteggiare quella che sembra avere tutti i caratteri di un'emergenza. In media solo il 40 per cento di coloro che dichiarano di non potere rientrare nel proprio Paese perché rischiano di essere perseguitati per motivi di razza, religione, etnici o per le opinioni ottengono l'asilo politico dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Questo si traduce in un permesso di soggiorno che consente di rimanere sul territorio italiano per cinque anni. Gli altri possono sempre e comunque ottenere la "protezione sussidiaria", che dura tre anni ed è riservata a chi rischia una condanna a morte oppure di essere trattato in modo "inumano o degradante". Infine, c'è la protezione "umanitaria", che dura un anno, quando ci sono, appunto, motivi di carattere umanitario, come le catastrofi naturali o ambientali. Gli esclusi dovrebbero essere rimpatriati ma quasi sempre fanno ricorso, e per almeno due buoni motivi. Il primo è che il ricorso non di rado viene accolto; il secondo è che generalmente blocca la procedura di espulsione garantendo un buon periodo di permanenza in Italia grazie a una lunga teoria di procedimenti giudiziari. Si parte dal Tribunale e, nel caso che anche questo bocci la richiesta, si può andare in Corte d'appello e poi fino in Cassazione usufruendo in questo viaggio giudiziario anche del "gratuito patrocinio", l'assistenza legale garantita da avvocati pagati dall'erario. Da una ventina al mese che erano nel 2013, questi ricorsi a Milano sono decollati a 632 nel 2014 per arrivare ai 42 di gennaio scorso, ai 70 a febbraio fino ai 100 di marzo. E aumentano ancora: la previsione è che nel 2015 saranno 3.000 in Lombardia, duemila a Milano, il resto a Brescia. Nell'ufficio guidato da Edmondo Bruti Liberati, ad esaminarli è il settore affari civili affidato al pm Nicola Cerrato, che non di rado ha ribadito il "no" all'asilo. Per affrontare la situazione si è deciso di ricorrere ai Viceprocuratori onorari che, come in tutta Italia, anche a Milano smaltiscono centinaia e centinaia di cause ogni anno permettendo alla giustizia di andare avanti senza essere travolta definitivamente dai processi. Dopo aver partecipato a un corso di specializzazione organizzato alla Prefettura sulla normativa, i Vpo smaltiranno le pratiche per la miseria di 7/8 euro ciascuna. Da quando è cominciata la guerra in Siria, a Catania sbarcano i due terzi dei migranti che attraversano il Mediterraneo. "Abbiamo circa 3 mila procedimenti in carico che arrivano a una media di 800 ricorsi l'anno. Le udienze vengono fissate al 2016" spiega il procuratore della Repubblica Giovanni Salvi che ha organizzato un gruppo di lavoro in cui ruoteranno 6 sostituti guidati da un procuratore aggiunto. Stesso modello a Torino dove il procuratore Armando Spataro ha costituito un pool composto da due sostituti e da un procuratore aggiunto. "È una materia molto sensibile e impegnativa perché bisogna esaminare le ragioni dei richiedenti alla luce delle leggi e della giurisprudenza", spiega Spataro. Spesso ci si trova di fronte a domande simili l'una all'altra addirittura nei fatti, che vengono raccontati con gli stessi particolari, firmate da persone che arrivavano dalla stessa area di un Paese dove non ci sono particolari problemi. Il sospetto è che dietro tutto questo si nascondano organizzazioni internazionali che, approfittando delle tragedie che coinvolgono migliaia di persone perseguitate, forniscono una sorta di assistenza "chiavi in mano" che va dal viaggio alle pratiche per fare ottenere il permesso in Italia anche a chi non ne ha diritto. Orrore in Malaysia, scoperte almeno trenta fosse comuni di migranti Il Messaggero, 25 maggio 2015 All'altro capo del mondo il fenomeno di migranti via mare, su "carrette della speranza", si sta verificando con la stessa drammaticità di quello che avviene sulle acque del Mediterraneo. Collegato a questo è probabilmente anche l'orrore venuto alla luce al confine tra Malaysia e Tailandia: le autorità malaisiane hanno scoperto un gran numero di fosse comuni in 17 campi abbandonati da trafficanti di immigrati, campi dove passano migliaia di persone in fuga, soprattutto musulmani Rohingya provenienti dal Myanmar (l'ex-Birmania). La macabra scoperta segue una simile fatta dalle autorità tailandesi nelle scorse settimane. I trafficanti terrebbero ostaggio i migranti - che già pagano migliaia di dollari per il passaggio - in questi campi, nella speranza di ottenere un riscatto dalle loro famiglie. Migliaia di musulmani Rohingya e migranti dal Bangladesh sono arrivati sulle coste di Indonesia, Malaysia e Tailandia dal 10 maggio. Migliaia di altri sarebbero bloccati in mare. Dall'inizio di maggio, oltre 3mila persone sono arrivate sulle coste diMalaysia e Indonesia attraverso barconi di migranti. Molti di loro sono rifugiati della minoranza musulmana Rohingya, in fuga dal Myan-mar. I primi due paesi hanno annunciato di essere disposti a dare ospitalità a questi migranti, e ad altri che saranno tratti in salvo in mare. Il ministro dell'Interno malaisiano Zahid Hamidi, citato dal quotidiano locale in lingua inglese Star, ha detto che la polizia sta cercando di identificare con certezza "le fosse comuni ritrovate. Crediamo siano parte delle attività dei trafficanti di esseri umani". Il ministro non ha detto quanti corpi siano stati finora ritrovati. L'esponente del governo di Kuala Lumpur ha aggiunto di essere "scioccato dalla scoperta" e di ritenere che ci siano molti altri campi. "Sono in questa zona da tempo - ha spiegato -. Stiamo indagando ma pensiamo che queste attività siano iniziate almeno cinque anni fa". Da tempo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano il passaggio attraverso il confine tra Malaysia e Tailandia di immigrati clandestini, soprattutto Rohingya birmani perseguitati. Queste organizzazioni hanno denunciato l'uccisione a bastonate di molti migranti, mentre altri sarebbero stati schiavizzati per lavorare su navi da pesca. Secondo media locali, le fosse sono state trovate nello stato settentrionale del Perils. La zona confina con la provincia thailandese di Songkhla, dove almeno 33 cadaveri sono stati rinvenuti il mese scorso. Secondo il giornale malaisiano in lingua malese Utusan, la polizia avrebbe trovato 30 fosse contenenti centinaia di corpi nelle foreste attorno alle città di Padang Besar e Wang Kelian a Perils. Per Star, cento cadaveri erano in una singola fossa comune a Padang Besar. Da venerdì la polizia scientifica è sul posto, e la zona è stata isolata. Di questa tragedia ha parlato ieri anche il Papa che ha detto di seguire "conviva preoccupazione" e "dolore nel cuore" la vicenda. Brasile: rivolta nel carcere di Bahia, detenuti prendono in ostaggio familiari in visita Ansa, 25 maggio 2015 Almeno sette detenuti sono morti e altri cinque sono rimasti feriti nel corso di una rivolta scoppiata nel carcere di Feira de Santana, nello stato brasiliano di Bahia. I detenuti hanno anche preso in ostaggio alcuni loro familiari, tra cui donne e bambini, che erano in visita domenicale. La polizia ha sospeso in serata i negoziati per la liberazione degli ostaggi ed ha annunciato che riprenderanno lunedì mattina alle 7 locali, le 12 in Italia. Tra i detenuti uccisi, almeno uno è stato decapitato. Secondo le fonti ufficiali, la rivolta è scoppiata in seguito a scontri tra diverse fazioni di detenuti. I cinque feriti sono stati ricoverati in ospedale. Il comandante della polizia di Feira de Santana, colonnello Adelmario Xavier, ha detto che al momento la situazione all'interno del penitenziario "è calma". La polizia ha sospeso l'erogazione dell'acqua, ma non quella dell'energia elettrica. Il penitenziario di Feira de Santana ha una capacità di 644 detenuti, ma ne ospita 1.467. Cina: un giorno in carcere, la "lezione" anti-corruzione per gli alti burocrati del regime Agi, 25 maggio 2015 Un nutrito gruppo di alti burocrati cinesi con relative mogli ha trascorso un'intera giornata in carcere nelle scorse settimane a scopo educativo: il gruppo, una settantina di persone, non solo ha provato l'inquietudine della vita dietro le sbarre, ha anche incontrato ex colleghi condannati per corruzione in modo da evitare di cadere.... in tentazione. Lo ha racconto il giornale ufficiale cinese, China Daily. La giornata pedagogica si è svolta nella prigione di Shiyan, nella provincia dell'Hubei, ed è stata organizzata dalla Commissione Centrale di Ispezione e disciplina, il braccio anti-corruzione del Partito Comunista Cinese. Negli ultimi mesi, oltre a Shiyan, le autorità anticorruzione hanno portato in gita gli alti "papaveri" del regime anche in altre carceri per renderli edotti delle possibili conseguenze delle loro azioni. La Cina ha avviato una campagna anti-corruzione, dopo che a partire dalla fine del 2012 sono finiti sotto inchiesta centinaia di funzionari pubblici. Venezuela: sfida a Maduro dal carcere, il capo dell'opposizione in sciopero della fame di Filippo Fiorini La Stampa, 25 maggio 2015 Tre minuti e quaranta registrati nel segreto di una cella di un metro per due. Un video diffuso su Twitter poco dopo le 21 di sabato e condiviso 16mila volte in10 ore. Così Leopoldo Lopez, il radicale dell'opposizione venezuelana, è tornato a far sentire la sua voce dal carcere militare in cui è recluso da 15mesi per aver guidato le proteste che dall'anno scorso chiedono la fine del governo socialista di Nicolas Maduro. Le richieste "Primo, la liberazione dei prigionieri politici. Secondo, la fine delle persecuzioni e della censura. Terzo, che sia fissata la data delle elezioni legislative e che si svolgano in presenza di osservatori internazionali". Queste le richieste per cui Lopez e Daniel Ceballos, un ex sindaco come lui, a sua volta destituito e arrestato, hanno iniziato uno sciopero della fame, convocato le piazze ad esprimere pacificamente il loro dissenso e subìto immediati provvedimenti disciplinari. Il suo è un gesto coraggioso e disperato. Domenica, la coalizione che aggruppa l'opposizione ha celebrato le primarie. Il partito di Lopez è arrivato secondo ed è stata riconfermata la leadership del moderato di centrosinistra Enrique Capriles. Capriles punta a conquistare il parlamento e smantellare il sistema che Maduro ha chiamato ieri "l'avanguardia del mondo", ma che in realtà primeggia per il tassodi inflazione, che ha visto aumentare del 500% la criminalità e che obbliga i cittadini a lunghe code per comprare cibo e medicine. La repressione Lopez teme invece che il governo non abbia programmato le elezioni perché non intende farle o che, se rispetterà la data limite del dicembre 2015, voglia pilotarle. Giocando la partita in piazza, però, permette a Maduro di continuare ad accusarlo di voler fare un colpo di Stato e sfida una repressione durissima. Dall'inizio delle proteste sono morte 43 persone, 3400 sono state fermate, 31 sono ancora in carcere e 271 detenuti attendono lo status di "prigioniero politico". Tra loro ci sono studenti, professionisti e militari. Ines Gonzalez Arraga, ingegnere, è dentro per aver ingiuriato su Twitter un parlamentare morto Il dottor Angel Sarmiento è fuggito all'estero dopo aver riconosciuto il decesso di 8 pazienti a causa di una variante della malaria ed essere stato accusato di seminare il panico. Almeno tre direttori di altrettanti quotidiani nazionali non possono lasciare il Paese. Il 20 aprile, dopo 230 giorni in una cella sotterranea della polizia politica, il dirigente della destra studentesca, Lorent Saleh, ha tentato il suicidio. Nella sua stessa situazione, Rodolfo Gonzalez, ex militare e attivista, ci è riuscito il 13 marzo. Gran Bretagna: terrorista marocchino denuncia di aver subito maltrattamenti in carcere Nova, 25 maggio 2015 Il terrorista marocchino Younes Tssouli, noto con lo pseudonimo di Irhabi 007, ha denunciato di aver subito maltrattamenti in un carcere britannico. L'uomo, noto sulla stampa britannica come l'hacker jihadista più pericoloso al mondo, è stato espulso la scorsa settimana dal Regno Unito con l'accusa di terrorismo, per aver condotto attività di cyber-propaganda in favore di al Qaeda, e preso in consegna dalla polizia di Rabat. Nel corso di un interrogatorio ha rivelato di aver subito abusi e violenze sessuali durante la sua carcerazione nel Regno Unito. Arrestato nel 2007 per il suo supporto on line ad al Qaeda in Iraq doveva scontare una condanna di 16 anni di carcere. Le autorità di Rabat hanno predisposto una perizia medica per verificare la veridicità delle sue accuse.