Giustizia: Governo-Consulta, il Presidente Mattarella non vede lo scontro Il Manifesto, 24 maggio 2015 Il Presidente della Repubblica assicura: nessun tensione tra la Corte costituzionale e il governo. Ma il presidente Criscuolo replica agli attacchi del ministro Padoan. Dopo le critiche del ministro dell'Economia alla Corte costituzionale per la sentenza sulle pensioni, il presidente della Consulta sente il dovere di replicare. Mentre l'ex presidente dei giudici delle leggi, Sabino Cassese, irritualmente prende posizione per il governo e invita gli ex colleghi a "non ripetere l'errore e a valutare i conti nelle prossime decisioni che potrebbero avere un grande impatto sul bilancio dello stato, come quella sui contratti del pubblico impiego". Ma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, giudice costituzionale fino al momento di essere eletto - quattro mesi fa - al Quirinale, sostiene di non vedere "né scontri né tensioni fra il governo e la Corte costituzionale". Subito dopo l'intervista con la quale il ministro Padoan criticava i giudici della Consulta per non aver tenuto conto dell'impatto economico della sentenza sulle pensioni, più di un costituzionalista e tutte le opposizioni avevano segnalato la gravità del tentativo di condizionamento. "L'interlocutore della Consulta è il legislatore, ovvero il parlamento, non il governo. Questo a Padoan non sarebbe dovuto sfuggire", si leggeva in una nota di ieri de L'altra Europa con Tsipras. Mentre il capogruppo di Forza Italia alla camera Renato Brunetta aveva chiesto a Mattarella di intervenire per richiamare il governo. Mattarella ha invece scelto la giornata di ieri per spiegare, a margine delle celebrazioni per l'anniversario della strage di Capaci, che non c'è alcuno scontro in corso. "È comunque buona regola - ha aggiunto il presidente della Repubblica - mantenere tra gli organi costituzionali relazioni vicendevolmente rispettose, affinché ciascuno di essi possa svolgere serenamente la propria preziosa funzione". "Eravamo e siamo sereni", ha appunto detto in un'intervista a Repubblica il presidente della Corte costituzionale Alessandro Criscuolo. "Non ho nessuna ragione per coltivare una polemica con il ministro Padoan - ha aggiunto - ma dare per scontato che la Corte dovesse acquisire i dati prima di decidere sulle pensioni non risponde all'attuale disciplina che regola il funzionamento della Consulta". "Se il ministero dell'economia aveva a cuore i dati sulle pensioni poteva trasmetterli alla Corte", ha detto il presidente della Consulta, in maniera chiaramente polemica. E ha concluso avvertendo che il principio del pareggio di bilancio "è stato costituzionalizzato ma non spetta alla Corte garantirlo, bensì ad altri organi dello Stato. Se Criscuolo difende la decisione della Corte non nascondendo il suo voto, peraltro decisivo ai fini della sentenza, anche un altro giudice, Giuliano Amato, ha rotto la tradizionale segretezza della camera di consiglio spiegando di aver votato contro l'incostituzionalità del blocco delle rivalutazioni delle pensioni. Giustizia: il Presidente Mattarella, Falcone e i giovani "le sue idee, le vostre gambe" di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 24 maggio 2015 Il ricordo nell'aula del maxiprocesso. Il tweet di Renzi: io non dimentico. L'applauso è scattato forte quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato della mafia come "una zavorra" da eliminare. Dal Sud e dal resto d'Italia. Da ogni attività. Anche dallo sport. E, rivolto alla platea dell'aula bunker dell'Ucciardone affollata da giovani, ha dato un'altra mazzata alla corruzione, al malaffare e a quella che ha definito "la metastasi del calcioscommesse". Esplodeva di colori e di entusiasmo ieri mattina questo blindato anfiteatro collegato con sei piazze italiane in diretta Rai per commemorare il ventitreesimo anno dalla strage di Capaci. E Mattarella, con il presidente del Senato Pietro Grasso, per ricordare Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, ma anche Paolo Borsellino e gli agenti caduti con loro, è tornato per la prima volta nell'aula del maxiprocesso. La stessa dove nel 1992 era stato ascoltato come testimone al processo per gli omicidi politici. Testimone dell'agguato al fratello Piersanti, ucciso sotto casa nell'Epifania del 1980. Emozioni grandi. E grande determinazione nelle parole del capo dello Stato, applaudito anche dai ministri della Giustizia Andrea Orlando e dell'Istruzione Stefania Giannini: "La memoria di Falcone e di Borsellino comprende, per noi, la ribellione civile all'oppressione mafiosa... Ma batteremo la mafia, la elimineremo dal corpo sociale, incompatibile con la libertà e la democrazia". Poi rivolto ai giovani, assiepati sugli spalti, sopra le celle dei boss, parlando delle idee di Falcone e Borsellino: "Il ricordo non è solo memoria, ma impegno a proseguire sulla strada intrapresa. E quelle idee hanno bisogno delle vostre gambe". Attorniati dai bimbi che cantavano l'Inno di Mameli, anche Rosy Bindi, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, il capo della Direzione antimafia Franco Roberti, i massimi vertici delle forze di polizia, i presidenti dell'Assemblea siciliana Giovanni Ardizzone e della Regione Rosario Crocetta, tutti vicini a Maria e Anna Falcone, ad Alfredo Morvillo, ai magistrati del pool in prima fila. Una cerimonia incastonata in una giornata intensa. Con il ministro Angelino Alfano fermo sul tratto d'autostrada di Capaci confermando l'impegno per i magistrati in trincea, citando il pm più a rischio, Nino Di Matteo: "Per lui attiva la difesa del "bomb jammer". Con molto fair play un po' tutti hanno evitato riferimenti alle frizioni sulla nomina del procuratore capo Francesco Lo Voi, "bocciato" dal Tar Lazio. Polemiche soffocate per un giorno cominciato con un tweet di Matteo Renzi: i nomi dei caduti e un semplice "io non dimentico". Nel pomeriggio il corteo all'Albero Falcone e la sorpresa di un breve intervento di Ficarra e Picone. Piccola grande tessera di una catena di spettacoli che ha visto mobilitati migliaia di studenti con il ministero dell'Istruzione anche al Teatro Massimo per una pièce di Giulia Minoli, "Dieci storie proprio così", dieci storie per trasformare il dolore dei familiari delle vittime in un percorso formativo fra teatri, carceri e scuole. Giustizia: non scordare la morte di Falcone, ma nemmeno ostacoli che incontrò nella vita di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 maggio 2015 Fa bene a non dimenticare, Matteo Renzi. Ma sarebbe utile non limitarsi a coltivare la memoria del 23 maggio 1992, della strage e dell'icona dell'eroe antimafia costruita sui detriti dell'esplosione di Capaci. Sarebbe utile non dimenticare tutto ciò che è accaduto prima, a Giovanni Falcone: le sue inchieste e i suoi processi, gli ostacoli, gli sbarramenti e l'isolamento che dovette subire dalla politica e dalla stessa magistratura. Per esempio le indagini che non si fermarono alla manovalanza mafiosa ma seppero andare oltre, scoprendo intrecci tra i boss, le imprese e il potere (locale e non solo) che svelarono molte collusioni e una sorta di trattativa permanente tra Cosa nostra e pezzi di Stato, a garanzia di un lungo "quieto vivere". Quando entrò in quel campo minato - prima al fianco del giudice Chinnici e poi, dopo l'omicidio del suo capo, il primo realizzato col tritolo, insieme al cosiddetto "pool" - cominciarono a mettergli i bastoni tra le ruote, in ogni modo. Sarebbe opportuno non dimenticare certi auspici istituzionali affinché Falcone fosse riempito di "processetti", in modo da lasciare in pace l'economia siciliana; e in seguito i tentativi di boicottare il maxiprocesso nato dalle indagini antidroga e dalle dichiarazioni dei pentiti Buscetta e Contorno; e dopo le condanne in primo grado i tentativi di "aggiustare" tutto in Appello e poi in Cassazione, attraverso agganci con la politica e la magistratura. Sarebbe saggio ricordare che per impedire che ciò avvenisse, per salvaguardare i risultati del proprio lavoro, Falcone fu costretto ad andare via da Palermo, dopo che il Csm, nel suo costante intreccio d'interessi politico-giudiziari, scelse un altro candidato per la guida dell'ufficio istruzione; e poi il governo scelse un altro Alto commissario antimafia; e poi ancora i giudici scelsero un altro loro rappresentante per il Csm. E quando capì che i contrasti col procuratore erano diventati insanabili, colse la proposta del ministro Martelli, nel governo guidato dal democristiano Andreotti, per provare a scrivere nuove regole e nuove norme antimafia; diventando d'improvviso affidabile per chi prima lo considerava infido, e viceversa; tra i politici come tra i magistrati. Tutto questo ha dovuto affrontare e subire Giovanni Falcone, prima di morire lungo l'autostrada tra Palermo e Capaci. Con un attentato mafioso di cui ancora non conosciamo ogni retroscena. Sarebbe opportuno non dimenticare, infatti, che inizialmente Totò Riina aveva deliberato l'eliminazione del giudice a Roma, fuori da uno dei ristoranti che abitualmente frequentava. I killer erano già stati spediti nella Capitale, ma un giorno di primavera il "capo dei capi" li richiamò alla base: aveva trovato qualcosa di meglio, disse. Così i sicari tornarono a Palermo, e l'omicidio mafioso del magistrato nemico si trasformò in un attentato terroristico in grande stile, mai avvenuto prima con quelle dimensioni. Forse perché un'azione firmata da Cosa nostra, in quella fase di transizione politica, poteva tornare utile non solo a Cosa nostra, ma pure a qualcun altro. Che però non sappiamo chi sia. Il presidente della Repubblica conosce bene questa storia amara, anche per il coinvolgimento personale dovuto al piombo mafioso che ha ucciso suo fratello, un omicidio sul quale indagò anche Falcone. Il presidente del Consiglio è più giovane e meno coinvolto, e promette di non dimenticare. Bene. Tutta la storia, però, non solo la tragica fine celebrata ogni 23 maggio. Giustizia: Giovanni Falcone, un giudice che fece pendere la bilancia dalla parte giusta di Agnese Moro La Stampa, 24 maggio 2015 Come tanti italiani mi ricordo il giorno della uccisione del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, di Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo, tre dei sei uomini della scorta. Ero in Brianza, a casa di un'amica, e restammo per molto tempo davanti alla televisione, pietrificate e incredule. L'ho vissuto e seguito a sentirlo come un lutto personale, anche se non avevo mai incontrato nessuno di loro. Prima di quel momento non mi ero accorta che Giovanni Falcone, che come tanti ammiravo e del quale seguivo dai giornali le tormentate vicende professionali, fosse così importante nella mia vita. Faceva parte di coloro - e non sono mai molti - sui quali sai di poter contare, come cittadino e come membro della famiglia umana, perché la bilancia seguiti a pendere dalla parte del bene. Ha affrontato prove davvero difficili, circondato dall'ostilità attiva e maldicente del suo stesso ambiente, che avrebbe dovuto sostenerlo in una battaglia - quella contro la mafia - che si presumeva dovesse essere impegno comune. Mi accora ancora e sempre pensare alla vita di sacrifici e di segregazione che Falcone ha vissuto, con i suoi affetti più cari. È con gioia, rispetto e commozione profonda che diversi anni fa ho letto il libro predisposto dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone che raccoglie molti suoi scritti e interventi, ripubblicato molto opportunamente nel 2010 dalla Bur con il titolo "La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia". Lo consiglio a tutti. Non ci troverete niente di retorico o di altisonante, ma ci troverete una persona intelligente e lungimirante. Che capisce non solo la mafia come è stata, ma anche come si attrezza per essere e come sta diventando. Mi ha colpito tanto il tecnicismo dei suoi ragionamenti, la profonda conoscenza di ciò di cui sta parlando - dal modo di ragionare della mafia, ai percorsi dei soldi, al nuovo significato del "pizzo" come mezzo per impadronirsi di imprese sane - che presuppone tanto, ma tanto, ma tanto lavoro. Con altrettanta intelligenza e dedizione. Senso del limite, umorismo, profonda passione umana e civile. Spero che Giovanni Falcone non venga mai dimenticato. Ma non come un "santino", oggetto di vuota retorica. Spero invece che rimanga sempre uomo tra gli uomini, per incoraggiarci, rimproverarci e spronarci. Giustizia: la Corte di Cassazione "rischia il carcere chi denigra e offende su Facebook" di Lavinia Di Gianvito Corriere della Sera, 24 maggio 2015 La Suprema Corte ha stabilito che per le offese sui social la competenza non è del giudice di pace ma del tribunale, dove il reato è punito con la reclusione fino a tre anni. La Cassazione ha deciso: rischia il carcere chi denigra e offende su Facebook. All'origine della sentenza, la burrascosa separazione di una coppia, in particolare gli insulti postati sul social network dall'ex marito nei confronti dell'ex moglie. Ne è nato un processo per diffamazione con rimpallo tra giudice di pace e tribunale: una questione non di poco conto per gli attaccabrighe del web, perché mentre il primo applica soltanto sanzioni pecuniarie, l'altro può anche infliggere il carcere. Per la precisione, nel caso di diffamazione aggravata, la reclusione da sei mesi a tre anni. Il processo all'inizio era stato incardinato davanti al giudice di pace di Roma, che ha dichiarato la sua incompetenza ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità e quindi di competenza del tribunale. Ma qui il collegio ha accolto le argomentazioni dell'avvocato dell'ex marito, Gianluca Arrighi, stabilendo che Fb non può essere paragonato a un blog o a un quotidiano online, visionabile da chiunque sulla rete, e che pertanto la competenza è del giudice di pace. Gli atti, di conseguenza, sono stati trasmessi alla Corte Suprema per la risoluzione del conflitto. Gli ermellini, dopo una lunga camera di consiglio, hanno invece deciso, in via definitiva, che la diffamazione su Facebook deve essere considerata aggravata dal mezzo della pubblicità e che pertanto la pena da applicare può essere il carcere. "È una sentenza che non condivido - commenta Arrighi - ma che ovviamente rispetto. Rimane il dubbio che nei processi per reati commessi su internet sfuggano ancora, talvolta, le reali dinamiche della rete. Soltanto quando leggeremo le motivazioni sapremo qual è stato il percorso logico giuridico seguito dalla Cassazione". Giustizia: internet crea nuove disuguaglianze, servono regole per evitare il far west di Daniele Manca Corriere della Sera, 24 maggio 2015 Giovanni Pitruzzella è arrivato all'Antitrust nel novembre del 2011, nel pieno della crisi finanziaria che ha rischiato di far affondare il nostro Paese. Ma guidare oggi, a quasi quattro anni di distanza, l'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, non è certamente un impegno più tranquillo. Solo la calma dello studioso che gli deriva da una lunga carriera come docente di Diritto Costituzionale e in queste vesti consulente di istituzioni e governi (Ciampi) nonché del Quirinale (tra i saggi nominati da Giorgio Napolitano), gli ha permesso di tenere i nervi saldi. E questo anche quando a essere coinvolti nelle sue indagini ci sono colossi che vanno dai giganti del web come Tripadvisor a Telecom e a importanti operatori del mondo televisivo come Sky e Mediaset: il riferimento è ovviamente alla recente apertura del procedimento sui diritti televisivi sul calcio. Presidente, che idea vi siete fatti su questo caso? "L'istruttoria, perché di questo si tratta, è ancora in corso. Ma vede, paradossalmente, intervenire in vicende come queste è più "semplice". Si tratta di verificare se alcuni soggetti abbiano raggiunto un accordo per restringere la concorrenza: un'ipotesi per così dire classica del diritto antitrust. Quello che mi preoccupa è un altro versante, più sottile, più difficile da comprendere". Più di Murdoch il super potente e di Mediaset? "Non è questione di misurare questa o quella grandezza delle aziende in gioco. Il terreno dei nuovi conflitti, quelli che caratterizzeranno il XXI secolo è un altro. E i rischi che provengono dalla digitalizzazione sono ben più ampi". Che c'entra la digitalizzazione, è il futuro... "Di Internet, noi abbiamo generalmente una visione romantica. Per carità, anche corretta: fa crescere le opportunità, permette una connessione ampia tra zone geografiche, segmenti culturali, comunità diverse...". Esatto. Anche il potere dei consumatori si è accresciuto. "Certo. Ma, come Autorità, dobbiamo anche guardare l'altra faccia della medaglia. Non si deve dimenticare che si sono create nuove diseguaglianze, Internet ha distrutto lavoro (pensi solo alla robotica), intere attività economiche sono scomparse. Le agenzie di viaggio, per esempio: ormai siamo abituati a comprare biglietti aerei, soggiorni senza alcun intermediario". L'effetto benefico per i consumatori su prezzi e comodità è però evidente, dovreste essere contenti. "Lo siamo, ma non deve sfuggire ai cittadini che parallelamente a quella semplicità nell'acquisto di un biglietto aereo, è andato affermandosi un potere e una forza del tutto nuova: i giganti economici del web che operano in regime di quasi monopolio. Cosa che rischia di bloccare il cuore di quello che è stato Internet e cioè l'innovazione". A chi si riferisce? "I nomi li conoscono tutti: Google, Amazon, Facebook, Apple e gli altri giganti del web. In molti casi, il loro reddito è pari al prodotto interno lordo di un Paese di medie dimensioni, tanto per avere un termine di paragone". Questo è sempre accaduto, anche in passato e tuttora esistono le grandi società, grandi gruppi. "In questi casi c'è qualcosa di più. Si è creata quella che definiamo "economia di cattura". Usando determinati servizi noi forniamo importanti informazioni che ci riguardano come consumatori e che quelle società utilizzano per capire i nostri gusti, le nostre abitudini e quindi fornirci sempre più prodotti. Che è vero ci rendono la vita più facile ma al tempo stesso sono questi giganti che decidono cosa offrirci". E allora? "E allora si limita la nostra libertà di scelta. Capisco che il gioco è più sottile, ma proprio per questo più pericoloso". Non lo dica a noi giornalisti che quella concorrenza la sentiamo sulla nostra pelle. "Quello dell'editoria è un caso di scuola. Appropriandosi dei contenuti che vengono offerti gratuitamente ai cittadini, si fa passare il concetto che quei contenuti non siano stati prodotti con dei costi. Ci si abitua a considerare l'informazione attendibile qualcosa di gratuito. Questo significa mettere fuori mercato gli editori, vale per la carta stampata come per la tv. A lungo andare, come faranno a sopravvivere senza poter sostenere i costi?". Dobbiamo rassegnarci a una proprietà intellettuale che tra pirateria e usi spregiudicati avrà sempre meno valore? "No, tutt'altro. Dobbiamo evitare di cadere in un nuovo Far West. Servono regole anche per Internet". Qualcosa deve essere accaduto anche tra i colossi della rete. Facebook si è offerta di prendere i contenuti dei quotidiani, girando agli editori tutta la pubblicità a loro collegata. "Quello è un esempio che potrebbe avere anche aspetti virtuosi. Ma i rischi maggiori, come mi pare indichi chiaramente la decisione di Margrethe Vestager di aprire una procedura contro Google, arrivano su altri fronti". Ma che cosa può fare un'Autorità nazionale come la vostra contro un gigante come quello di Mountain View? "Intanto collaboriamo con la Ue. Non sottovaluti quanto deciso dalla Commissaria Europea. Nel caso specifico, il motore di ricerca Google è accusato, attraverso il suo servizio Google Shopping, di far uscire come primi risultati quelli legati ai suoi servizi. Tutt'altro che un vantaggio per i consumatori che si ritrovano un'offerta minata da interessi del motore di ricerca". Resta il fatto che è l'Europa ad aver avviato la procedura. "Sì, ma nel caso di Booking. com o di Tripadvisor abbiamo agito noi a livello nazionale in alcuni casi in accordo con altre Authority europee. E sempre a livello nazionale, andranno favoriti processi come quelli della creazione di un tavolo nazionale, per esempio tra editori e il motore di ricerca, affinché si trovino modalità per difendere la proprietà intellettuale". Giustizia: in carcere chi insulta su Facebook? Una follia… la libertà di parola è sacra di Luigi Mascheroni Il Giornale, 24 maggio 2015 Per la Cassazione le ingiurie sui social network vanno punite con la cella. Nessuna libertà è più preziosa della libertà di parola, da cui tutte le altre dipendono. E la cosa, sia detto per scacciare l'equivoco di antipatici interessi di categoria, non vale solo per i giornalisti, i quali di parole vivono, e spesso - ahinoi - con le parole uccidono. È tanto preziosa, oltre che delicata, la libertà di parola, che ogni volta che si considera reato una dichiarazione, un giudizio, persino il commento più duro e tranchant, persino un oltraggio, in particolare in questi tempi volgari e chiassosi, fa scattare nell'opinione pubblica la sorpresa, e nell'intellighenzia l'indignazione. È sempre difficile e rischioso separare uno sfogo di rabbia o una critica severissima da un'offesa o da un insulto. Ecco perché appare grave la decisione della Cassazione secondo la quale chi denigra qualcuno su Facebook rischia persino il carcere. Al di là del codice penale, è difficile secondo il senso comune accettare l'idea che qualcuno possa essere condannato alla reclusione, "da sei mesi a tre anni", per un "reato di parola". Anche al peggiore dei cretini, al peggiore dei misogini, al peggiore dei razzisti, a chiunque calpesti la dignità di una persona con le parole dovrebbe essere evitato il carcere. Lo si condanni pubblicamente, lo si obblighi a rettificare e a scusarsi, lo si contrasti con altre più convincenti parole. Nulla più. Persino Erri DeLuca, che non ha insultato ma istigato al sabotaggio, sarà trionfalmente, e giustamente, assolto. Eppure la Corte di Cassazione, sul caso del conflitto di competenza fra giudice di pace e tribunale, in merito al processo di diffamazione per gli insulti postati su Facebook da un ex marito nei confronti della ex moglie, ha deciso per la competenza del tribunale, essendo ritenuta quella manifestata sui social network una forma di "diffamazione aggravata", con - ecco il punto - la conseguente possibilità di applicazione della detenzione in carcere, e non solo sanzioni pecuniarie. Insomma, insultare o diffamare qualcuno su Facebook in Italia potrà costare la cella. Intanto negli Usa, nel momento in cui il nuovo account Twitter del presidente Barack Obama viene investito da migliaia di messaggi "disgustosi e offensivi" - una pioggia di insulti razziali -la reazione è di segno completamente opposto. Obama ha reagito con un candido: "È la libertà". E per il suo portavoce Josh Earnest "gli attacchi razziali sono il frutto del fatto che l'America è una società aperta". Per molto, ma molto meno, la nostra Laura Boldrini, che è molto, molto meno del presidente degli Stati Uniti, inviò la polizia postale a casa di chi aveva attentato alla sua dignità di donna postando foto volgari su Facebook. Una reazione che, nel piccolo, dà l'idea non solo della diversa statura politica di Obama e della Boldrini. Ma anche della distanza sul metro della libertà di parola tra gli Stati Uniti e l'Italia. Giustizia: Abdel e le nuove accuse "nessun volo per Tunisi, lì non ci sono mai stato" di Piero Colaprico La Repubblica, 24 maggio 2015 Milano, il giovane marocchino arrestato per la strage del Bardo davanti ai giudici smentisce la versione dell'intelligence tunisina. "No, signor giudice, io non sono mai stato in Tunisia". Questa, secondo indiscrezioni, la frase fondamentale contenuta nel verbale d'udienza di venerdì. La frase è stata registrata nel carcere di San Vittore. Quando, finalmente con un'interprete a fianco, Abdel Majid Touil, 22 anni, marocchino, arrestato su mandato internazionale, accusato di uno dei più feroci crimini terroristici non in zona di guerra (attacco al museo del Bardo, 18 marzo 2015), ha potuto rispondere alle domande di un magistrato italiano. C'è da fare un'importante premessa geopolitica che esula da Touil. Da tempo la Tunisia fa parte del circuito di Stati ritenuti "virtuosi " sulla giustizia, e che cioè hanno buoni standard di affidabilità. Quindi, le indagini tunisine - non solo su Touil - sono mediamente tenute in grande considerazione dai detective europei. In Italia per ora - il dato non è trascurabile - non è arrivata una carta ufficiale che riguardi Touil, a parte la foto e il numero del passaporto. Solo le informazioni raccolte a Tunisi da Repubblica parlano di "testimonianze che inguaiano Touil, accusato di aver fornito le armi" (fonte ministero degli Interni tunisino, che esclude l'errore). Nel complesso mondo delle ambasciate si sa però che l'attentato al Museo del Bardo ha sconvolto (com'è naturale e comprensibile) gli apparati tunisini: i quali sin dall'inizio hanno puntato (e puntano) sulla "pista esterna" al loro Stato come matrice dell'attacco. Viceversa, nel mondo globale delle investigazioni, molti 007 occidentali sono convinti dell'estrema pericolosità dei terroristi internazionali tunisini. C'è un punto di svolta: quando nel 2013 è stato ucciso a pistolettate Chokri Belaid, avvocato, laico, moderno, futuro candidato alle elezioni, è tornata in auge una "cellula italiana", quella del salafita Sami Essid Ben Khemais, arrestato con 4 complici dalla Digos e dal sostituto Stefano Dambruoso nell'aprile 2001. Detenuti prima in Italia, poi in Tunisia, liberati nel 2011, sotto la "primavera araba", gli "italiani" sono tornati nelle strade e proprio Ben Khemais è stato inquadrato insieme con un imam latitante, che inneggiava all'omicidio politico di Chokri Belaid. Mentre uno dei suoi, Aoudi Mohammed Ben Belgacem, secondo fonti di intelligence, era connesso all'agguato. Tutti tunisini. Torniamo all'oggi. Venerdì, assistito dall'avvocato Silvia Fiorentino, il marocchino Touil, ha ripercorso davanti al giudice Pietro Caccialanza della quinta corte d'appello, competente per le estradizioni, la lunga strada che l'ha portato da dove abitava con il padre malato, e cioè dalla zona di Beni Mellal (detto per inciso, la stessa dove è nata Ruby Rubacuori, al secolo Karima Eh Mahroug) alla Libia. "Ora vi dico come sono arrivato in Italia, non ho preso il volo per Tunisi, là non ci sono stato", ha spiegato il giovane, che non conosce l'italiano, e che provava studiarlo nella scuola di Trezzano sul Naviglio dov'era certamente il 16 e il 19 marzo, stessi giorni dell'attacco islamista. La sua è una smentita secca alle ricostruzioni dell'intelligence tunisina. Ed è una difesa a tutto campo di chi sembra - il suo alibi sarà ovviamente controllato al microscopio e lui lo sa - non avere niente da nascondere su come sia riuscito a salire sul barcone di 15 metri con oltre 600 migranti, restando nel Mediterraneo agitato sino al 17 febbraio, quando - dopo i soccorsi della nave "Orione" - ha messo piede sul suolo italiano. Da qui, a meno di clamorosi colpi di scena, sembra ormai assodato che non si sia più mosso, restando immancabilmente tra la casa rossa di via Pitagora a Gaggiano, Trezzano e Milano: "Sempre senza un euro, nemmeno per le sigarette", come ricordano le compagne della scuola di alfabetizzazione. I dettagli del suo viaggio restano ovviamente segreti, anche per non inquinare le eventuali prove (a carico o a discarico): Touil, chiuso ora in una cella di alta sicurezza nel carcere di Opera, lo stesso di Totò Riina, continua a proclamarsi innocente. Giustizia: ma la Tunisia insiste "nessuno scambio di persona, riconosciuto da 2 testimoni" di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 24 maggio 2015 Il governo nordafricano conferma l'identità del 22enne arrestato in Italia. L'unica cosa certa è che Touil è l'uomo al quale i servizi segreti tunisini davano la caccia. Nessuno scambio di persona, nessun errore di identità secondo gli inquirenti. Eppure, a cinque giorni dall'arresto del 22enne marocchino accusato di aver partecipato all'attentato al museo del Bardo di Tunisi, i misteri sono più delle certezze. A partire dal ruolo che Touil avrebbe avuto nella "preparazione", più che nell'esecuzione dell'attentato. Da Tunisi il ministro dell'Interno conferma che il giovane arrestato a Gaggiano, nel Milanese, è effettivamente quell'Abdel Majid Touil che avrebbe avuto contatti con gli attentatori entrati in azione il 18 marzo. Ma quel giorno Touil era a casa della madre, come hanno chiarito anche le indagini italiane. Tuttavia, secondo Tunisi, il 22enne sarebbe stato indicato "con certezza" da altri due arrestati: gli investigatori nordafricani hanno evidenziato la presenza di due "marocchini" alle fasi preparatorie dell'attentato. Uno per l'intelligence tunisina, è appunto Touil, l'altro - la cui identità è mantenuta segreta - "risulta tuttora ricercato in ambito internazionale". Non è chiaro se sia una persona con la quale il 22enne possa avere mantenuto contatti durante la sua permanenza in Italia (il 15 febbraio Touil è sbarcato a Porto Empedocle, in Sicilia). Le prime indagini effettuate dagli investigatori della Digos, diretti da Bruno Megale (appena nominato questore di Caltanissetta) e dal capo della sezione antiterrorismo Cristina Villa, hanno escluso che Touil abbia avuto contatti durante gli ultimi dieci giorni prima dell'arresto con altri immigrati sospettati di radicalismo islamico. Il giovane ha detto di essere vittima di uno scambio di persona e di essere innocente. Gli inquirenti milanesi, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, sono riusciti a identificarlo anche sulla base del numero di passaporto inviato dalle autorità tunisine. Documento che il ragazzo ha utilizzato per arrivare in Tunisia e quindi per raggiungere la Libia, e del quale la madre Fatima ha poi denunciato lo smarrimento il 14 aprile ai carabinieri. Prima dell'attacco al Bardo, il commando di terroristi avrebbe fatto alcuni sopralluoghi. Due risalgono al 7 e al 9 marzo. Ma in quei giorni Touil doveva trovarsi già in Italia. Giustizia: ammazzarono il 17enne Davide Bifolco, ora processano suo padre e suo fratello di Mario Di Vito Il Garantista, 24 maggio 2015 I Carabinieri sostengono che il colpo di pistola partì per caso, ma la versione della famiglia del 17enne è diversa. È la storia di una notte balorda, e di un ragazzo di 17 anni morto sparato. La notte tra il 4 e il 5 settembre del 2014, intorno alle 2 e 30, in via Cinthia, nel quartiere Traiano, un motorino Honda Sh con a bordo tre persone non si ferma all'alt dei carabinieri. Ne nasce un inseguimento, che va avanti fino a Fuorigrotta, quando dalla pistola di servizio di un agente parte un colpo. Il motorino cade: uno de tre a bordo riesce a scappare, un altro viene ammanettato, il terzo rimane a terra in una pozza di sangue. Si chiamava Davide Bifolco, il 29 settembre sarebbe diventato maggiorenne. Dalle foto sembrava un ragazzo come decine di migliaia di altri: lo sguardo sveglio, i capelli rasati di lato, gli occhiali da sole. La classica espressione di chi non è ancora un adulto ma non è più nemmeno un bambino. Alla diffusione della notizia della sua morte seguono manifestazioni e rabbia generica contro le forze dell'ordine. La politica, va da sé, si divide tra chi dice che "bisogna fermarsi all'alt" e chi chiede giustizia per un ragazzo morto ammazzato. In mezzo, il solito circo di pregiudizi antimeridionalisti, cattiverie assortite verso Napoli e i napoletani, un clima di generico sospetto che si risolve nella domanda "perché tre ragazzi erano a spasso alle tre di notte?". Come se la risposta a questa domanda potesse essere un colpo di pistola e un ragazzino ammazzato. Si potrà dire qualsiasi cosa sulle regole e sul loro rispetto, ma chiunque a 17 anni ha combinato qualche guaio, chiunque sarebbe potuto stare su quel motorino. Quello che stupisce, di tutta questa storia, è infatti la mancanza della benché minima pietà della vittima, almeno da parte di parecchi osservatori interessati. Tutto il resto - dalla Legge Reale che consente parecchie cose agli uomini in divisa in caso di violazione di un posto di blocco fino a tutte le considerazioni e ai sociologismi -, tutto il resto viene dopo. Quando si parla di Davide Bifolco bisogna sempre ricordarsi che si sta parlando della morte di un ragazzino: in pochi, per quanto assurdo possa sembrare, riescono a fare questo distinguo, ma nessuno sarà mai in grado di giustificare davvero l'esplosione di un proiettile contro un 17enne. Comunque, sui fatti della notte tra il 4 e il 5 settembre, ci sono due versioni, divergenti nei punti fondamentali, laddove la storia della morte di Davide può assumere un peso o un altro, nella narrazione della mala polizia. Questa la versione dei carabinieri: quella notte il Nucleo Radiomobile aveva segnalato a tutte le unità la presenza di un latitante a bordo di un motorino, che si aggirava per le strade di Napoli. Quando una pattuglia ha fatto cenno ai tre ragazzi di fermarsi, questi non hanno obbedito e sono scappati. Nella fuga, però, avrebbero urtato un'aiuola e sono caduti. Uno dei carabinieri, a questo punto, avrebbe preso a inseguire il presunto latitante, che però si sarebbe come volatilizzato nel nulla. Un altro carabiniere, con l'arma di ordinanza senza sicura nella sua mano destra, sarebbe invece sceso dall'auto di servizio per bloccare gli altri due passeggeri dello scooter. Così, nel tentativo di fermarne uno - Salvatore Triunfo, 18 anni, piccoli precedenti, l'agente sarebbe inciampato e dalla sua pistola sarebbe partito, per puro caso, un colpo che si è andato a conficcare nel torace di Bifolco che si stava alzando da terra. La traiettoria del proiettile, dunque, è andata dall'alto verso il basso. Perché la pistola era senza sicura? Perché lo consente il regolamento, dice il suo avvocato difensore. La famiglia Bifolco, assistita da un veterano dei casi di mala polizia come l'avvocato Fabio Anselmo, ha però una versione diversa dell'accaduto. Una storia alternativa costruita grazie a delle indagini condotte per conto proprio, con sei testimoni a confermarla. In sostanza, sarebbe stata l'auto dei carabinieri a speronare il motorino, e poi l'agente avrebbe sparato volontariamente ad altezza d'uomo, trafiggendo in pieno il cuore di Davide. Il mistero che nei primi giorni ha tenuto banco riguardava l'identità della terza persona sul motorino: per i carabinieri si trattava del latitante Arturo Equabile, in realtà poi venne fuori che era Enzo Ambrosino, un ragazzo che qualche giorno dopo i fatti arrivò a dichiarare spontaneamente di trovarsi insieme a Bifolco e a Triunfo, quella notte. Perché i tre non si sono fermati all'alt dei carabinieri? Per paura. O meglio, perché il guidatore andava in giro senza patentino, perché erano in tre a bordo e perché il mezzo non era assicurato. Valeva la pena mettersi nei guai per questo? No, probabilmente no. Ma bisogna sempre ricordare che questa è una storia di ragazzini, e comunque la sanzione per il fatto di girare senza documenti non può essere un colpo di pistola. Un altro particolare: ancora Anselmo, attraverso le sue indagini, è entrato in possesso delle riprese fatte da alcune telecamere poste all'ingresso di una sala giochi vicina al luogo dell'inseguimento. Le immagini sono piuttosto eloquenti. Si vede il carabiniere entrare nel locale con la pistola salda in pugno e intimare a tutti i presenti di rimanere fermi con le mani in alto. Cosa vuol dire questo? "Il video dimostra lo stato psicologico in cui si trovava il carabiniere in quel momento", la risposta di Anselmo. A nove mesi dai fatti, il 3 giugno prossimo, a Napoli si svolgerà l'udienza preliminare per il carabiniere che sparò a Davide. L'ipotesi di reato è omicidio colposo aggravato dall'aver commesso il fatto con violazione dei doveri inerenti a un pubblico servizio. Con la consapevolezza che, comunque vada, si tratterà di un'odissea giudiziaria, il processo pare destinato almeno a cominciare. In parallelo a questo processo, però, esiste un'altra inchiesta, le cui indagini sono state chiuse appena qualche giorno fa. L'avviso di chiusura della procura di Napoli ha questi due destinatari: Bifolco Giovanni e Bifolco Tommaso, padre e fratello della vittima. I due sono stati invitati a nominare un avvocato. Perché? Perché, "in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso - recitano gli atti, in un luogo pubblico, più precisamente presso i locali e l'area esterna" dell'ospedale di Napoli, avrebbero offeso "l'onore e il prestigio" di alcuni carabinieri con frasi come "mi avete ammazzato il figlio buono", ma anche "vieni con me in una stanza e ti faccio vedere come ti ammazzo con le mie mani" e ancora, "siete carabinieri di merda, non siete nessuno, nel Rione Traiano comandiamo noi, vi prendete i soldi dalle piazze di spaccio, vi metto il cazzo in bocca a voi e le vostre famiglie", e in- fine: "riuscirò a sapere i vostri nomi e l'indirizzo di casa vostra per venirvi ad ammazzare, i vostri figli faranno la stessa fine di mio fratello che me lo avete ammazzato senza alcun motivo. Se vi vedo nuovamente nel Rione vi sparo in testa" e "so dove venirti a prenderti, ti ho riconosciuto, ti devo sparare in testa". Frasi pesanti, non c'è dubbio su questo, ma stiamo parlando di due uomini a cui hanno appena portato via quello che per l'uno rappresentava un figlio e per l'altro un fratello. Come si reagisce quando succede una cosa del genere? Qual è il comportamento da tenere? Come si fa a non cadere preda della rabbia e della disperazione? In più bisogna ricordare come fu la stessa famiglia Bifolco che, quando le proteste contro la polizia stavano salendo di tono, invitarono tutti quanti a non commettere violenze nel nome di Davide. Così, oltre al processo per la morte del ragazzo, bisognerà far fronte anche a quest'altra storia: quando al dolore si aggiunge altro dolore e la via d'uscita non esiste. Quando vuole, solo quando vuole, la giustizia sa essere implacabile. Intanto, i Bifolco hanno prudentemente nominato un loro portavoce, si tratta di Gianluca Muro, già vicepresidente dell'associazione intitolata a Davide, "Il dolore non si ferma". Questo il suo commento, raccolto dai giornali locali lo scorso marzo, quando le indagini si chiusero con l'ipotesi dell'omicidio colposo: "La giustizia sta facendo il suo corso, e ci fa piacere che man mano la magistratura stia ricostruendo la dinamica di ciò che accadde quella notte, stabilendo le responsabilità, anche se il percorso è ancora lungo. Vogliamo soltanto che si faccia chiarezza sulla morte di un ragazzo che aveva la sola colpa di essere per strada alle tre del mattino". E tutto è finito nel lampo di uno sparo, tra le strade di un quartiere di Napoli, in una notte di fine estate. Lettere: Paese che vai, galera che trovi di Susanna Ripamonti (Direttore di Carte Bollate) Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2015 Paese che vai, galera che trovi. In questo numero di carte Bollate, il dossier centrale è dedicato a un'inchiesta sulle carceri nel mondo, fatta con i materiali che avevamo a disposizione essendo reclusi, e dunque non avendo accesso a internet, telefoni e archivi: abbiamo intervistato i nostri compagni stranieri o quelli di noi che hanno fatto un po' di turismo carcerario nelle galere di altri Paesi. le informazioni che riportiamo sono quindi parziali, ma di prima mano, perché si basano sulla diretta esperienza di chi, quelle prigioni le ha vissute e per esperienza diretta può raccontarle. In Spagna ad esempio, le carceri non sono un modello invidiabile, ma l'affettività dei detenuti è tutelata e ne kit di ingresso, tra le dotazioni date ai detenuti ci sono anche i preservativi, perché sono ammessi i colloqui intimi con mogli e fidanzate. Avvengono in una stanza uguale alla camera di un hotel, con un letto matrimoniale, due comodini e un bagno e possono durare fino a due ore e mezza. Questi incontri ravvicinati non sono concessi invece in Inghilterra, dove in compenso è tutto molto efficiente, a partire dalla sanità e dove in cella, una volta condannati in modo definitivo, si può tenere quasi tutto, play station compresa. Un vero inferno invece le carceri del Sud del mondo, dove la regola è pagare, per ottenere anche i servizi essenziali. Un materasso lercio è un privilegio per pochi, gli altri dormono ammassati per terra. Idem in Marocco e in Pakistan, mentre la situazione è leggermente più tollerabile in Albania, grazie all'indulto che ha svuotato le carceri. Dappertutto però, in questi Paesi, vale la regola della mazzetta: se paghi tutto cambia e un poliziotto solerte ti procura cibo accettabile, spazio in cui vivere e addirittura un telefono cellulare, che naturalmente ha il suo prezzo. In Romania c'è una norma interessante: la pena viene ridotta se un detenuto lavora, in una misura corrispondente all'impegno profuso. Le immagini che illustrano il dossier sono di Valerio Bispuri, che ha visitato settantaquattro carceri di molti Paesi del Sudamerica, tra i più violenti e inospitali, scattando numerose fotografie raccolte poi nel libro Encerrados, presentato a marzo nella casa di reclusione di Bollate. Nell'editoriale, firmato dalla Redazione, carte Bollate dà il benvenuto ai visitatori di Jail Expo, rassegna di mostre, spettacoli, incontri che durerà per tutto il tempo della vera Expo, quella che si trova esattamente di fronte al carcere. Per tutta la durata di expo sarà possibile visitare il carcere ogni venerdì mattina, partecipare ad eventi e ai mercatini che si terranno ogni primo venerdì del mese. Un'occasione di incontro e di confronto con l'esterno importante, ma la redazione si chiede: "Riusciremo a far capire a chi entra qui dentro che Bollate non è il villaggio vacanze del paesaggio penitenziario italiano? Sapremo trasmettere la consapevolezza che questo è comunque un carcere, ovvero un luogo di privazione della libertà, di allontanamento forzato da tutti gli affetti, di limitazione della possibilità di muoversi, scegliere, decidere? Si tratterà di cercar di creare valore in ogni ambito di questa prova, non deludendo le aspettative di chi, da dentro, non vede l'ora di aprirsi ancora di più e di chi, da fuori, entrerà con stati d'animo di tutti i tipi, dalla compassione alla curiosità, non di rado morbosa, con l'atteggiamento, non sempre consapevole, di chi va allo zoo. Noi vorremmo che in qualunque modo e con qualunque pensiero o preconcetto gli esterni entreranno, ne uscissero con una visione, un punto di osservazione diverso, nuovo, avendo imparato a vedere le persone invece che i reati". Lettere: è un fottutissimo errore, con la morte di Yara io non c'entro Il Garantista, 24 maggio 2015 "Voglio giustizia per i genitori della ragazza, ma non posso pagare le colpe di chi l'ha uccisa". Lotterò fino alla fine contro questo fottutissimo errore giudiziario". Torna ad alzare la voce Massimo Giuseppe Bossetti, che dal carcere ha scritto di suo pugno per spiegare la sua versione dei fatti a proposito dell'omicidio di Yara Gambirasio di cui è accusato. Nella lettera mostrata dalla trasmissione Quarto Grado il muratore di Mapello ha ringraziato i suoi legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini insieme a tutto "il team che non ho mai avuto l'occasione di conoscere di persona, eccetto il Signor Ezio Denti". "Volevo congratularmi almeno con lo scritto - scrive Bossetti - dicendovi grazie per tutto il grandissimo lavoro che state facendo, grazie per tutto il tempo che state dedicando su questo difficile, drammatico lavoro, privandovi quasi del tutto della vostra vita famigliare, volevo farvi notare che apprezzo moltissimo tutti ì vostri sforzi, talmente faticosi in questo terribile caso caduto ingiustamente nei miei confronti, e soprattutto per dire a tutti voi, che ho estremamente fiducia al 100% per il grandissimo, faticoso lavoro che state facendo". "Credetemi - prosegue l'uomo atteso dal processo in Corte d'assise il prossimo 3 luglio - state facendo un magnifico lavoro di squadra da parte mia e sono sicuro che prima o poi riuscite a ottenere una valida risposta e per mettere fine una volta per tutte su questa mia dannata detenzione". "Credetemi - continua - non so chi fosse Yara, non ho mai conosciuto Yara e non riesco a darvi una spiegazione perché io mi trovo in questo schifo, ma una cosa voglio farvi capire e lo griderò sempre da queste fottutissime sbarre e mura, che mi circondano, io in tutto questo non c'entro assolutamente niente, io sono del tutto estraneo a questo maledettissimo omicidio, io non avrei mai potuto commettere una cosa così talmente atroce, infamante nei miei confronti". "Assolutamente non è da me - insiste Bossetti nella lettera - la mia verità in tutto questo è sempre stata la mia più assoluta innocenza di sempre e non è un giorno che la grido ma da ben 313 giorni, e non intendo smettere. La mia coscienza è pulitissima, e sono stato incastrato da prove che per me ancora oggi sono altamente surreali e per questo vi chiedo gentilmente di non tralasciare proprio niente, perché anch'io chiedo giustizia come i genitori della povera Yara e dunque non è giusto pagare per qualcuno che in verità ha commesso questo tragico delitto, facendola franca". Bossetti si rivolge poi alla sua famiglia, e proclama ancora una volta la propria innocenza: "Soffro tantissimo, sto soffrendo perché tutto mi è stato portato via senza potermi rendere conto di niente e soprattutto soffro per tutta questa maledettissima lontananza da mia moglie Marita e i miei stupendi figli che tantissimo mi mancano, credetemi sto vivendo solo per loro e basta! Non sapete quanto mi mancano i miei amori, da morire mi mancano. So, avvocati e tutto il team, che è dura e faticosa anche per voi riuscire ad arrivare a un lieto fine, ma voglio incoraggiarvi, so che riuscirete ad arrivare alla verità, la mia verità perché ci tengo a farvi sapere che io sono molto fiducioso in tutti voi, e allora forza e coraggio come state facendo e come sempre avete fatto". "Anch'io - conclude Massimo Bossetti - chiedo Giustizia come i genitori della povera Yara e dunque non è giusto pagare per qualcuno che in verità ha commesso questo tragico delitto, facendola franca". Alessandria: Sappe; detenuto tenta il suicidio, il secondo caso in pochi giorni in Regione Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2015 A pochi giorni dal tentato suicidio di un detenuto nel carcere di Alba, un altro ristretto ha tentato di togliersi la vita da un Istituto di pena del Piemonte, anche in questo caso salvato in tempo dal personale della Polizia Penitenziaria. È accaduto ieri ad Alessandria e a darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Sabato pomeriggio verso le ore 15:10 circa, un detenuto appena giunto nel carcere S. Michele di Alessandria proveniente dal penitenziario di Torino, di origine Nordafricana, ha tentato il suicidio in cella legando una coperta alle sbarre e avvolgendola al collo. Tempestivo l'intervento di un Agente di Polizia Penitenziaria che gli ha salvato la vita al detenuto”, spiega il Segretario Generale del Sappe Donato Capece. “Ogni giorno nelle carceri piemontesi un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo. E, ogni settimana, un ristretto del Piemonte tenta il suicidio, salvato in tempo dal tempestivo intervento delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria. Nei dodici mesi del 2014, tanto per dare qualche numero, in Piemonte abbiamo contato 58 tentati suicidi, 423 episodi di autolesionismo, 183 colluttazioni e 31 ferimenti”. Aggiunge Vicente Santilli, segretario regionale Sappe del Piemonte: “Vercelli, Asti e Biella sono le tre prigioni con il maggior numero di episodi di autolesionismo quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo): 65, 65 e 62. È a Torino invece che ci sono stati più tentati suicidi sventati dai poliziotti, 17 seguito dai penitenziari di Ivrea (9), Asti e Biella (6). 43 le colluttazioni a Ivrea, 34 a Vercelli e 25 a Saluzzo. 8 i ferimenti al Lorusso-Cutugno di Torino. La situazione nelle carceri resta insomma sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato, in Piemonte, di oltre cinquecento venti unità: dai 4.155 del 30 aprile 2014 si è infatti passati agli attuali 3.631”. “Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio nelle carceri del Piemonte e dell’intero Paese con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici”, conclude il leader nazionale del Sappe, Capece. “Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri piemontesi e del Paese tutto”. Lecce: chef anche in carcere, a Borgo San Nicola il design sposa la cucina leccesette.it, 24 maggio 2015 Una cucina per la sezione maschile del Carcere di Lecce. La novità assoluta è il nuovo tassello del "Giardino radicale", progetto di design in carcere finanziato dalla Fondazione con il sud nella struttura leccese di Borgo San Nicola. Lontani da casa potranno preparare i pasti comuni per il giorni di festa e scambiarsi esperienze, anche a tavola. Per la popolazione detenuta si tratta di una novità assoluta, una sorta di chimera della quotidianità negata dalla detenzione. In quest'ottica è nato l'ultimo tassello di "Giardino Radicale", progetto di design partecipato all'interno della casa circondariale di Borgo San Nicola (Lecce). L'inaugurazione, oggi alle 13, con un simbolico pranzo di benvenuto insieme alle autorità della struttura, sarà l'occasione per presentare al pubblico il nuovo volto della sezione maschile interessata dal progetto. Grazie a "Gap, il territorio come galleria d'arte partecipata", finanziato da Fondazione con il Sud, nella casa circondariale leccese si è infatti avviata da oltre un anno la trasformazione dello spazio vitale di un'intera sezione del settore maschile R2, attraverso il coinvolgimento della popolazione detenuta, chiamata ad una rivoluzionaria appropriazione dello spazio detentivo. Nella prima fase del laboratorio di design, che si è tenuta nella primavera dello scorso anno, i circa 40 detenuti che hanno preso parte al progetto, ideato da Francesca Marconi, coordinatrice artistica di Gap, in collaborazione con la regista teatrale Paola Leone, che da anni lavora all'interno della struttura detentiva leccese, hanno lavorato al fianco dei designer Maurizio Buttazzo e Roberto Dell'Orco, ripensando gli spazi comuni, progettandoli e lavorando attivamente al loro restyling. Attraverso interventi murali, rivisitazione della pavimentazione e creazione di complementi di arredo: tavoli, sedute, librerie, sono nate così una "Sala comune", una "Barberia", la "Sala telefono" e la "Sala ginnastica". Nella sua seconda fase il progetto ha invece riguardato il rapporto con il cibo e quindi con la cucina, sia in senso materiale che astratto. La cucina è il luogo della socialità, dove si sta insieme e ci si racconta anche attraverso quei gesti quotidiani normalmente negati dalla reclusione. Attraverso la realizzazione di una cucina i detenuti della sezione r2 avranno la possibilità di preparare i pasti da consumare insieme nei giorni di festa. Una possibilità di socializzare e condividere ma anche di non riscoprire la gioia di profumi e ricordi. Non a caso, alla realizzazione delle cucine è stata affiancata anche la creazione di un ricettario video. Una raccolta di ricette che diventano il pretesto per ricordare e raccontare se stessi. "Il carcere come luogo di possibilità mancate, di mondi inesplorati, mondi immaginari che prendono vita e diventano abitabili nella vita concreta, questo è stato per me il lavoro sulle ricette. Un lavoro fatto insieme a circa 12 detenuti, ci siamo divertiti, abbiamo fatto il possibile per fare nel poco tempo a disposizione del nostro meglio, per cercare qualcosa di noi, dentro una cucina appena costruita ma le nostre tutte evocate, non ci importava far venire fuori la ricetta, ma ci importava venisse fuori qualcosa che ci appartenesse", spiega Paola Leone, che ha curato la raccolta di racconti legati a un ricettario personale insieme al fotografo Yacine Benseddik. "Qualcosa che ci appartenesse prima della situazione in cui i protagonisti di questi video sono adesso. Qualcosa prima della detenzione, che durante questo periodo si è sfocata o assolutamente mantenuta intatta, qualcosa che appartenesse all'uomo in quanto tale, spogliato dal fare e abitato dall'essere. Ci siamo addentrati nei piccoli ricordi, nelle passioni che animavano le loro vite, è bastato questo perché si aprissero davanti ai nostri occhi degli scenari, ecco comparire un paio di pattini, l'amore per il canto, la fede, la cura, la passione calcistica ecc.". Il progetto Gap è un esteso laboratorio territoriale di sperimentazione e contaminazione dei linguaggi contemporanei dell'arte nel dialogo con il tessuto sociale e geografico di confine e si realizza attraverso il coinvolgimento della comunità come risorsa necessaria per la progettazione e creazione di servizi e sistemi fruibili da parte di persone con esigenze, abilità, culture e bisogni diversificati. I laboratori si concretizzano attraverso diverse azioni di riqualificazione del territorio e di risposta alla scarsa valorizzazione dei luoghi di aggregazione informale, in particolare degli spazi all'aperto, affidate alle associazioni Sud Est, Ramdom, Pepe Nero, di cui è capofila l'associazione Lua (Laboratorio Urbano Aperto). Gap è realizzato con il sostegno della Fondazione Con Il Sud Progetti Speciali e Innovativi 2010 e con il contributo della Regione Puglia. Augusta (Sr): progetto "Read and fly", i detenuti mettono in scena lo spettacolo "Effatà" siracusanews.it, 24 maggio 2015 Mentre all'interno dalla Casa di Reclusione di Augusta i detenuti continuano a provare i propri ruoli sul palco, è stata definita la data dello spettacolo dedicato ad Effatà, l'ultimo romanzo di Simona Lo Iacono, che si svolgerà sabato 13 giugno alle 18 all'interno del teatro del carcere. Qui gli 11 partecipanti del progetto "Read and fly" hanno prima letto, poi studiato la sceneggiatura e infine affrontato il palcoscenico, mettendo in scena la storia ideata dalla scrittrice e magistrato siracusana, dedicata a due bimbi sordomuti, uniti da un fil rouge che riconduce alla terribile storia dell'Olocausto. Lo spettacolo, gratuito e aperto al pubblico darà la possibilità a chi lo desideri di contribuire con un'offerta libera che servirà all'acquisto di giochi da giardino per allestire un'area verde a beneficio dei figli dei detenuti, che ne fruiranno durante le ore di colloquio. Il laboratorio teatrale è stato ideato da Michela Italia e si è svolto con la collaborazione di Domenica Passanisi e dell'educatrice Franca Nicolosi su sceneggiatura e narrazione di Simona Lo Iacono, e musiche del Maestro Salvino Strano. A mettere in scena Effatà: saranno i detenuti: Mirko Musumeci, Massimo Schiavone, Miodrag Arbutina, Francesco Bellingheri, Antonino Malfitano, Mirko Nigido, Carmelo Caggegi, Domenico Battaglia, Angelo Viglianesi, Spartak Osmenaj, Vito Salvatore Piacente. Per partecipare allo spettacolo è necessario prenotarsi entro il 6 giugno. I magistrati e gli avvocati che volessero partecipare sono invitati a indicare la qualifica professionale rivestita, così come gli spettatori che siano già stati ospiti del carcere in altre occasioni (teatrali, ricreative, ecc.) sono invitati a segnalare tale circostanza, per abbreviare le operazioni di autorizzazione e accertamento. Immigrazione: truffa sui rifugiati, due arresti a Napoli, indagato anche prete della Caritas di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 24 maggio 2015 Inchiesta a Napoli su alcune strutture di accoglienza che sottraevano milioni di finanziamenti. Due arresti. Soldi destinati ai migranti, incassati invece dai responsabili delle strutture che dovevano ospitarli. Milioni di euro stanziati per l'accoglienza dei profughi che i gestori di alcune onlus della Campania avrebbero utilizzato per acquistare appartamenti e società, ma anche biglietti per lo stadio e beni di lusso. Non solo loro. Perché nell'inchiesta avviata dalla Procura di Napoli, svelata ieri dagli arresti di due persone, è coinvolto anche padre Federico Vincenzo, responsabile della Caritas di Teggiano, in provincia di Salerno, che ospita ogni anno migliaia di extracomunitari. Accusato di peculato per essersi appropriato dei "pocket money", i buoni acquisto giornalieri da 2,50 euro che lo Stato concede ai richiedenti asilo. Filoni investigativi che adesso potrebbero riguardare l'intero sistema messo in piedi per assistere gli stranieri. La sede della Caritas è stata perquisita ieri dagli investigatori della Guardia di Finanza guidati dal colonnello Cesare Forte. La contestazione per il sacerdote parla, al momento, di un'appropriazione di 109 mila euro, ma l'esame dei documenti contabili riguarda la gestione dei fondi pubblici degli ultimi quattro anni. Circa 56 milioni di euro che la presidenza del Consiglio ha erogato attraverso la Regione Campania per l'assistenza di chi arriva in Italia a bordo dei barconi e rimane nelle strutture messe a disposizione dalle organizzazioni religiose e dagli enti locali in attesa di sapere se otterrà l'asilo politico: 35 euro al giorno ai gestori, oltre ai 2,50 euro per i piccoli acquisti che gli stranieri possono fare direttamente. Alfonso De Martino e Rosa Carnevale, responsabili della onlus "Un'ala di riserva" di Pozzuoli, sono stati arrestati su richiesta dei pubblici ministeri coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli mentre stavano per fuggire in Montenegro. Accusati di avere "attestato falsamente la presenza dei migranti nelle strutture destinate all'accoglienza e fornito ai migranti, quando effettivamente ospitati, una minima somma in contanti oltre alla saltuaria erogazione di vitto, alloggio e alla fornitura dei capi di abbigliamento strettamente indispensabili". Il denaro sarebbe stato invece utilizzato per comprare "un immobile a Milano (152.000 euro), una società di schede per ricariche telefoniche (733 mila euro), la gestione di un bar a Pozzuoli (15 mila euro), un immobile a Pozzuoli (100 mila euro), oltre a 130 mila euro in contanti e 345 mila euro bonificati grazie all'emissione di fatture per operazioni inesistenti, ma anche 37 biglietti per la partita Napoli-Chelsea di Champions League nel 2012 (5.720 euro) e migliaia di euro per forniture di frutti di mare". Il coinvolgimento della Caritas potrebbe portare a sviluppi inaspettati anche perché padre Vincenzo ospita nelle strutture altre due onlus e molti soldi sono stati erogati quando si è reso disponibile a sistemare i minori non accompagnati arrivati a migliaia nel nostro Paese. Ma le verifiche riguardano anche i rapporti con due funzionari della Protezione Civile e altri dipendenti della Regione che hanno gestito le pratiche per la convenzione e per la concessione delle autorizzazioni. Guinea: la famiglia di Roberto Berardi "non riconosciamo la nuova scadenza della pena" crimeblog.it, 24 maggio 2015 Durissime parole della famiglia Berardi contro la giustizia ed il governo della Guinea Equatoriale: "Stanno commettendo l'ennesimo abuso su Roberto, ora basta". Mentre in Guinea Equatoriale continua senza alcuna motivazione ed alcuna certezza sul futuro la lunga detenzione di Roberto Berardi in Italia la famiglia vive l'ennesimo dramma dell'ingiustizia subita da impotenti. La mancata liberazione dell'imprenditore italiano detenuto in Guinea Equatoriale ha infatti fatto crollare ogni speranza e chiuso ogni possibile spiraglio di potersi fidare della giustizia nguemista, che fino ad oggi ha dimostrato solo il suo lato più grottesco e vendicativo: non conteggiando i giorni di carcerazione preventiva nel computo della pena da scontare da Berardi, e riconoscendo implicitamente l'abuso commesso dalla polizia con un fermo protrattosi per ben 47 giorni al posto delle 72 ore riconosciute dalla legge come legittime, il tribunale di Bata ha commesso un errore marchiano che dimostra bene come la nuova data di fine pena, il 7 luglio 2015, sia solo un pretesto per prendere tempo. Roberto Berardi ha trascorso infatti i primi 47 giorni in stato di fermo di Polizia: dal 19 gennaio 2013 e per 23 giorni rinchiuso in una cella di isolamento del commissariato di Bata e, successivamente, agli arresti domiciliari, fino al 7 di marzo, giorno in cui è stato il Tribunale ad ordinarne l'arresto (e dal quale partirebbe il conteggio della pena). Non si spiega quindi come sia stato possibile aumentare di 50 giorni la stessa pena (dal 19 maggio al 7 luglio 2015): un errore marchiano di calcolo (3 giorni in più) che rende evidente la pretestuosità della decisione del Tribunale di non liberare Berardi. A questo si aggiunge, ha spiegato il suo legale Ponciano a Blogo, la totale violazione del codice di procedura penale adottato nel piccolo paese africano, che contrariamente a quanto affermato dai giudici martedì mattina, obbliga a conteggiare la carcerazione preventiva nel computo dei giorni di pena scontati. Queste tragiche novità nella vicenda di Roberto Berardi hanno persuaso la famiglia a prendere, per la prima volta, una chiara posizione sia contro la giustizia nguemista che contro il governo della Guinea Equatoriale, chiedendo l'immediata scarcerazione ed il rimpatrio del congiunto. La famiglia di Roberto Berardi, vista la mancata scarcerazione del proprio congiunto il 19 maggio scorso, come prevedeva la sentenza del Tribunale di Bata emessa il 16 luglio 2013, si rammarica di come l'autorità giudiziaria della Guinea Equatoriale utilizzi manifestatamente la procedura penale come arma per impedire il rilascio del nostro congiunto. Da martedì 19 maggio la famiglia Berardi considera ogni ora di carcere in più trascorsa da Roberto all'interno delle mura del penitenziario di Bata Central l'ennesimo abuso, commesso manifestatamente e in flagranza di reato e perpetrato a danno di Roberto da parte dell'autorità giudiziaria equatoguineana, da parte della polizia e dei militari e da parte del governo della Guinea Equatoriale. Questo abuso si unisce al regime detentivo di isolamento prolungato nel tempo, ben oltre i termini legalmente consentiti, al digiuno coatto cui spesso Roberto viene costretto dai suoi carcerieri, alle torture ed agli abusi subiti, alle condizioni inumane e degradanti nelle quali Roberto è costretto a vivere da oltre 2 anni e 4 mesi, al processo penale cui Roberto è stato sottoposto ed alla condanna pronunciata senza alcuna prova di colpevolezza concreta, al fermo di polizia prolungatosi anch'esso ben oltre i termini previsti dalla legge. La famiglia Berardi pertanto non riconosce la data del 7 luglio 2015 come legittima e chiede l'immediato rilascio del proprio familiare illegalmente detenuto; aggiunge inoltre che tale data è stata comunicata solo verbalmente al legale di Roberto Berardi ed alla delegazione italiana che martedì era a Bata per accoglierlo all'uscita dal carcere. Pertanto, considerati i precedenti, ritiene tale comunicazione l'ennesima presa in giro a danno del detenuto, della sua famiglia, del corpo diplomatico e del governo italiano. Per questi motivi chiediamo alle autorità della Guinea Equatoriale l'immediata scarcerazione di Roberto Berardi ed al governo italiano la predisposizione di ogni strumento, diplomatico, tecnico e giuridico, per il suo altrettanto immediato rientro in Italia. Messico: la guerra dei narcos punta alle urne di Geraldina Colotti Il Manifesto, 24 maggio 2015 Nel Michoacan, in Messico, uno scontro tra polizia federale e civili armati ha lasciato un saldo di 43 morti e un ferito grave. La zona è presidiata dall'esercito e dalle forze speciali della polizia federale nell'ambito delle operazioni contro un nuovo cartello criminale, i Jalisco Nueva Generacion (Cjng). Il Primo maggio, i narcos (che prendono il nome dall'omonimo stato, contiguo a quello in cui si è verificato lo scontro) hanno abbattuto un elicottero militare usando lanciarazzi. E anche in questa occasione è stato sequestrato un ingente quantitativo di armi pesanti. Un salto di qualità nell'inarrestabile escalation di violenza che scuote il paese. Secondo un nuovo rapporto dell'Istituto internazionale di studi strategici, dopo Siria e Iraq il Messico è il paese del mondo in cui muoiono più persone a causa di conflitti armati: 16.000 nel 2014. Solo nei primi mesi di quest'anno si sono registrati 8.845 omicidi, 340 sequestri e oltre 1.000 estorsioni. Durante i sei anni di presidenza di Felipe Calderon, gli omicidi sono stati circa 70.000. Con Enrique Peña Nieto, in meno di tre anni sono state assassinate 41.737 persone. Nei primi tre mesi del 2015, gli stati più violenti sono risultati quello di Messico, Guerrero, Chihuahua, Tamaulipas e Jalisco. Il 70% dei fatti di violenza si verifica nei dieci stati attraverso i quali passano le principali vie del narcotraffico dirette negli Usa. L'anno scorso, la corruzione è costata circa 22.479 milioni di dollari. Il Guerrero è balzato all'attenzione del mondo dopo il sequestro dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa. La carovana informativa dei movimenti per chiedere di non dimenticarli è ripartita per un giro in Sudamerica. Ed è di questi giorni la denuncia che uomini armati hanno rapito altre 15 persone. Dopo il Guerrero, il Chihuahua conta il più alto numero di omicidi di minorenni: 38 ogni 100.000 abitanti. Ciudad Juarez, che si trova in quello stato, è stata considerata per anni la più grande tomba del pianeta, cimitero di donne uccise. Di recente, è stata a lungo sui media la notizia del bambino di 6 anni, torturato e ucciso nel Chihuahua da alcuni adolescenti che "giocavano al sequestro". Secondo il Wall Street Journal, i Jalisco sono allenati da ex militari delle forze speciali Usa, e sarebbero dietro la nuova ondata di omicidi politici che sta precedendo le elezioni del 7 giugno. Già diversi candidati sindaci sono stati uccisi. Le cifre della violenza e della narco-politica si accompagnano agli indici della disuguaglianza crescente, a causa delle politiche neoliberiste incentivate da Peña Nieto. Secondo l'ultimo rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), circa il 10% dei messicani più ricchi detiene il 36% delle risorse effettive, mentre al 40% dei più poveri va solo il 12,5%. Solo il Cile supera il Messico in termini di concentrazione della ricchezza. Il Messico dedica solo l'8% del suo Prodotto interno lordo all'educazione e alla salute: "Quando un gruppo così grande di popolazione guadagna così poco dalla crescita economica - scrive l'Ocse - il tessuto sociale si lacera e la fiducia nelle istituzioni si sgretola". Ieri, molte città del Messico hanno organizzato marce per la giornata mondiale contro la Monsanto e la piaga del transgenico. E i lavoratori giornalieri, ancora in agitazione nonostante la repressione che li ha colpiti, aspettano il governo al varco della trattativa all'inizio di giugno. Degli 11 milioni di indigeni che abitano in Messico, l'80% si dedica al lavoro dei campi, senza contratto né salario conforme alle leggi del lavoro. Stati Uniti: a Cleveland assolto poliziotto che uccise due afroamericani disarmati di Francesco Semprini La Stampa, 24 maggio 2015 La decisione del giudice scatena le proteste. Le tensioni razziali tornano ad animare l'America, nel giorno in cui, ancora una volta, un poliziotto bianco viene prosciolto dopo aver ucciso due afroamericani durante un inseguimento. Un copione già visto in questimesi, in particolare dai fatti di Ferguson dello scorso agosto, ma che questa volta riguarda un episodio avvenuto nel 2012.MichaelBrelo sparò e uccise due afroamericani mentre erano al volante di un'auto a Cleveland, in Ohio. L'automobile dei due, Timothy Russell e Malissa Williams, fu raggiunta dopo un inseguimento di 35 chilometri e crivellata da 137 colpi di pistola, sparati da numerosi agenti. Brelo fece fuoco almeno quindici volte. Per questo è stato rinviato a giudizio con l'accusa di aggressione aggravata e omicidio colposo, accuse per le quali non è stato ritenuto colpevole. Il giudice ha spiegato che non avrebbe "sacrificato" Brelo senza prove. Subito sono scattate le proteste, con decine di persone nelle strade di Cleveland per manifestare contro la decisione del giudice e le pratiche "brutali" delle forze dell'ordine contro i neri. Per Brelo rimane in vigore la sospensione senza retribuzione, almeno sino a quando non saranno fatti altri accertamenti, in particolare quelli annunciati dal dipartimento di Giustizia. Il sindaco Frank G. Jackson spiega che "questa giornata segna un punto di demarcazione" per Cleveland, un altro, in realtà, dopo quello del 22 novembre 2014, quando il 12enne neroTamir Rice fu freddato da un agente mentre camminava in un parco con una pistola giocattolo. Venezuela: due leader dell'opposizione in carcere iniziano uno sciopero della fame Agi, 24 maggio 2015 Due leader in carcere dell'opposizione venezuelana, Leopoldo Lopez e Daniel Ceballos, hanno annunciato attraverso un video clandestino di aver iniziato uno sciopero della fame e hanno lanciato un appello a manifestare contro il governo chavista di Nicolas Maduro. Nelle stesse ore Lopez è stato punito perché trovato in possesso di un telefonino e Ceballos è stato trasferito in un carcere per delinquenti comuni a Guarico. Lopez, l'ex sindaco di Caracas rinchiuso dal febbraio 2014 nel carcere militare di Ramo Verde per il suo ruolo nelle proteste antigovernative dello scorso anno, è apparso in un video di quattro minuti girato in cella, fatto uscire clandestinamente e postato su YouTube. Nelle immagini annuncia lo sciopero della fame suo e dell'ex sindaco di San Cristobal, Ceballos, accusa Maduro di essere corrotto e incompetente e di aver fatto uccidere decine di persone durante le proteste del 2014, in cui ci furono 43 morti. Poi ha lanciato un appello per manifestazioni e cortei pacifici da tenere sabato prossimo, il 30 maggio, per chiedere il rilascio dei detenuti politici, la fine della repressione e una data certa per le elezioni legislative, che il governo ha promesso di tenere fra novembre e dicembre, con la presenza di osservatori internazionali.