La rabbia che conduce in carcere, la rabbia per rimanere umani. Parlano i detenuti di Giorgia Gay Redattore Sociale, 23 maggio 2015 Il messaggio lanciato ieri dai detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti. Carmelo Musumeci: "In 24 anni di carcere una rabbia costruttiva mi ha permesso di rimanere umano". Sofiane: "La rabbia mi ha accompagnato per tutta la vita". È la rabbia, che spesso, porta una vita a deviare. Ed è ancora la rabbia, troppo spesso, che accompagna i detenuti durante la carcerazione. Ma è possibile superare questo sentimento per vivere una pena diversa, riflessiva, capace di dare davvero un senso alla carcerazione. È questo il messaggio lanciato oggi dai detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti che ha organizzato nel carcere di Padova la giornata di studi "La rabbia e la pazienza". "Conosco bene la rabbia. In 24 anni di carcere una rabbia costruttiva mi ha permesso di rimanere umano. È la rabbia di un condannato dalla società a essere cattivo e colpevole per sempre" ha detto Carmelo Musumeci, condannato all'ergastolo. "È difficile avere pazienza quando leggi sul tuo certificato "Fine pena anno 9999" oppure "Fine pena mai" - ha aggiunto. Non è facile avere pazienza quando sei trasferito da un carcere all'altro, sempre lontano da casa. O quando vedi che il tuo compagno di cella si impicca perché amava troppo la vita da non riuscire a vederla appassire qui dentro". C'è una rabbia che ti fa abbassare la testa e una rabbia che te la fa alzare, "che ti dà la forza di cercare di cambiare te stesso e il mondo che ti circonda" ha detto ancora Musumeci, che ora è un po' meno arrabbiato perché "dopo 24 anni finalmente è arrivato il primo permesso e ho potuto vedere i miei due figli, che ho lasciato bambini e ho ritrovato adulti". La rabbia, troppo spesso, è la molla che porta una vita a deviare, come ha raccontato Sofiane: "Sono cresciuto in quartiere malfamato di Tunisi, ero sempre arrabbiato, non accettavo di subire le prepotenze e così ho iniziato a essere io il prevaricatore. Il coltellino è diventato il mio angelo custode, mi piaceva che la gente avesse paura di me. La rabbia mi ha accompagnato per tutta la vita". Oggi Sofiane ammette di essere ancora arrabbiato: "Provo rabbia per una società che sa piangere per un animale maltrattato ma che quando si parla di un detenuto si gira dall'altra parte". "Nella mia vita non ho mai avuto la forza di fermarmi - ha raccontato Lorenzo. Ho commesso più volte lo stesso reato, rapina, e più volte sono stato in carcere. Ogni volta la gravità del mio reato aumentava, finché non ho avuto una condanna a 30 anni di carcere. Oggi che ho 39 anni ho già passato in cella la metà della mia vita". "Ho sempre fatto carcerazioni molto rabbiose - ha raccontato ancora Lorenzo, mentre oggi vivo una carcerazione diversa. E questo, paradossalmente, mi fa arrabbiare ancora di più, perché penso a come poteva essere la mia vita se avessi potuto sperimentare prima questo tipo di carcerazione. Probabilmente non avrei questa condanna così pesante sulle mie spalle. Oggi io ho il coraggio di ammettere le mie responsabilità, ma credo che anche altri dovrebbero assumersi le proprie rispetto al nostro sistema carcerario". Stati generali sul carcere, "non ascoltata la voce dei detenuti" di Giorgia Gay Redattore Sociale, 23 maggio 2015 Giornata di studi "La rabbia e la pazienza" organizzata oggi nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Favero (Ristretti Orizzonti): "Credo che dovrebbe essere l'occasione per unire chi la pena la vive e chi la deve ripensare". Musumeci. "Chi conosce il carcere meglio dei detenuti?". "Credo che gli Stati generali per la riforma del codice penale dovrebbero unire chi la pena la vive e chi la deve ripensare. Per ora non è stato così. Durante l'apertura la parola ‘detenutò non è nemmeno mai stata pronunciata". Così Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, durante la giornata di studi "La rabbia e la pazienza" organizzata oggi nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Favero non ha nascosto la propria amarezza per il mancato coinvolgimento, al momento, della popolazione detenuta che più di ogni altro conosce la realtà carceraria. Un'amarezza condivisa dall'intera redazione di Ristretti Orizzonti ed espressa per bocca di Carmelo Musumeci, condannato all'ergastolo. "Sono un po' arrabbiato - ha detto citando il tema dell'incontro odierno - perché i detenuti non sono stati coinvolti. Credo che noi al contrario dovremmo avere un ruolo attivo: chi meglio di noi può indicare cosa funziona e cosa no? Chi meglio di noi può aiutare a portare la legalità in carcere?". Lucia Annibali: "non provo rabbia, lui dovrà convivere con il male che ha fatto" di Giorgia Gay Redattore Sociale, 23 maggio 2015 A Padova, nel corso della giornata di studi di Ristretti Orizzonti, la giovane avvocatessa sfigurata dall'acido racconta: "Reagire con forza e senza rabbia è forse la migliore forma di rivincita". Favero: "Vorrei un carcere meno rabbioso e più riflessivo". La rabbia è dentro le vite di ognuno, ma per chi ha passato il limite della legalità e vive l'esperienza del carcere è spesso il filo conduttore di tutta un'esistenza. Quando invece si è alla fine della pena arriva l'impazienza, che vorrebbe far "recuperare il tempo perso" e rischia di bruciare tutto. Di questo si è parlato oggi nel corso della giornata di studi "La rabbia e la pazienza" organizzata da Ristretti Orizzonti a Padova, nella casa di reclusione Due Palazzi. "Il carcere anziché farti ragionare e riflettere ti rende rabbioso - ha detto la direttrice di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero. Io invece vorrei un carcere non rabbioso, ma riflessivo. Il tempo perso non si recupera e se si esce con l'obiettivo di provare a farlo lo stesso la vita diventa un disastro"". Di rabbia ha parlato anche Lucia Annibali, avvocatessa di Pesaro sfigurata dall'acido che le è stato tirato in faccia: "Non provo rabbia verso chi mi ha fatto del male, la rabbia non è mai costruttiva - ha detto. Ho sempre cercato di lavorare su sentimenti positivi. Reagire con forza e senza rabbia è forse la migliore forma di rivincita". E ha aggiunto: "Provo anche un po' di pena per la condizione umana di una persona che non prova dispiacere per ciò che ha fatto. E, sì, un po' di frustrazione". L'impegno di Lucia, oggi, è di spiegare "come ci si sente nei miei panni" e far capire che "questi gesti hanno ripercussioni non solo su chi li subisce, ma anche su chi li compie: lui dovrà convivere per sempre con il male che mi ha fatto e forse questo è anche peggio di dover vivere con i segni sul mio viso". Nel corso della giornata di studi è intervenuto anche Massimo Cirri, conduttore radiofonico a Radio2 con Caterpillar e psicologo nei servizi pubblici di salute mentale: "Credo sia possibile coniugare la rabbia e la pazienza - ha detto. Avere la pazienza di ascoltare la rabbia degli altri può far capire di più anche della propria. Può far capire che siamo tutti uguali, anche chi ha commesso un grandissimo errore e si trova qui dentro". È possibile cambiare il carcere per cambiare la società? "Siamo una delle poche società che non ha manicomi - ha riflettuto Cirri. Penso che pian piano potremo arrivare anche a fare a meno del carcere". Per Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio3 e ideatore di Fahrenheit, "la rabbia, la speranza e la paura hanno fatto la storia. Ma oggi la rabbia sta diventando un elemento distruttivo del contesto sociale". Mentre Stefano Tomelleri, professore di Sociologia dei fenomeni collettivi all'Università di Bergamo, ha sottolineato: "Del risentimento abbiamo fatto una politica pericolosa che fomenta l'odio". Giustizia: l'Onu approva le "Mandela Rules", per degli standard minimi nelle prigioni www.onuitalia.com, 23 maggio 2015 Sono state chiamate le "Mandela Rules", in omaggio a Nelson Mandela, uno dei più famosi detenuti politici dei nostri tempi. Trattamento dei detenuti con disabilità, le sanzioni disciplinari e l'isolamento penitenziario, il sistema sanitario intramurario, le relazioni con l'esterno e le garanzie giurisdizionali: questi i settori in cui, grazie a uno sforzo dell'Italia a Vienna, una nuova risoluzione realizza importanti progressi rispetto alla precedente disciplina. La risoluzione sui nuovi Standard Minimi per il trattamento penitenziario del detenuti è stata adottata dalla Commissione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale. Il testo, fortemente sostenuto dall'Italia, conclude un lungo negoziato avviato nel 2010, finalizzato all'aggiornamento degli Standard Minimi che risalivano al lontano 1955. È stata inoltre sancita, per la prima volta in un documento Onu, la stretta interrelazione che esiste tra le finalità rieducative della pena, il trattamento penitenziario e la riduzione della recidiva. In virtù del ruolo di primo piano avuto dal Sud Africa per il successo dell'iniziativa, gli Standard prenderanno ora il nome di "Mandela Rules". Si rende così omaggio alla figura di Mandela, detenuto politico per ben 27 anni sotto il regime dell'apartheid e se ne perpetua l'eredità. Occorrerà adesso fare in modo che i nuovi princìpi e le nuove regole trovino concreta applicazione in tutti i Paesi del mondo: l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga ed il Crimine (Unodc) ha già avviato programmi di assistenza tecnica. "Grazie anche all'impegno del nostro Paese è stato compiuto un significativo passo avanti nel riconoscimento e nella tutela dei diritti umani e della dignità dei detenuti", sottolinea sul suo sito web la Rappresentanza Permanente italiana presso le organizzazioni internazionali di Vienna. La particolare attenzione prestata dall'Italia, il Paese di Cesare Beccaria, al tema delle carceri nella cooperazione internazionale "riflette la nostra consapevolezza che il rispetto dei diritti dell'uomo e della dignità della persona, in qualsiasi circostanza, costituiscono valori imprescindibili della democrazia". Giustizia: le tassiste di Milano chiedono un registro con foto e dati degli stupratori di Sabrina Lupacchini Redattore Sociale, 23 maggio 2015 Lanciata su Change.org da un gruppo di tassiste di Milano, la petizione ha già raccolto oltre 12 mila firme: "Chi compie azioni del genere accetta anche la perdita del proprio diritto alla riservatezza. Del resto il senso di vergogna correlato allo stupro non è qualcosa che deve pagare solo la vittima". "È successo ancora una volta. È successo e non avrebbe dovuto. Una tassista a Roma, è stata aggredita, derubata e violentata. Una tassista, ma ancor prima una donna, che alle sette del mattino, quando ormai era giorno, ha trasportato sul suo taxi una persona all'apparenza come tante, fino a quando il cliente, un ragazzo dalla faccia pulita, si è trasformato in aggressore e stupratore". È questo l'incipit con il quale si apre la petizione diretta al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al prefetto di Roma Franco Gabrielli per la creazione di un "registro pubblico con nomi, foto e dati degli stupratori". A lanciare l'appello il 13 maggio 2015 sulla piattaforma Change.org è stato un gruppo di donne tassiste di Milano, un collettivo "nato dal basso, dalla strada" si legge nella descrizione, che ha deciso di mettersi insieme proprio a seguito all'aggressione subita dalla collega e di chiamarsi "Preferenziale Rosa". L'episodio a cui si riferiscono risale all'8 maggio 2015 quando a Roma una tassista è stata aggredita, derubata e violentata da un cliente che alle 7 di mattina l'aveva fermata in via Aurelia, davanti all'hotel Ergife con l'intento di farsi accompagnare verso Fiumicino, durante il tragitto l'uomo le ha fatto cambiare strada più volte fino a condurla in una stradina di Ponte Galeria, alla periferia della capitale dove è avvenuto l'abuso. L'aggressore ha un nome e un volto, si tratta di Simone Borgese, trentenne romano, arrestato il 10 maggio, che ha confessato sia la violenza sessuale che la rapina ai danni della tassista. Ogni giorno nelle strade di Milano si muovono oltre 500 autiste di taxi, quasi mille a Roma: "Siamo tassiste, come la vittima. E come lei, prima di tutto, siamo donne. Troviamo inaccettabile quanto accaduto". Per il collettivo "chi compie azioni del genere, violando e calpestando l'intimità delle proprie vittime, accetta implicitamente, nello stesso momento in cui agisce, anche la perdita del proprio diritto alla riservatezza" e un registro pubblico dei colpevoli è una proposta concreta. Certo, "può apparire eccessiva o lesiva del diritto di privacy", ma le ideatrici sono convinte che fra le altre cose può risultare anche un "ottimo deterrente". Ad oggi la petizione online ha coinvolto 13 mila sostenitori e l'obiettivo è quello di raggiungere 15 mila sottoscrizioni. Altri punti saldi dell'iniziativa, riferisce il gruppo "Preferenziale Rosa" che ha in previsione un incontro tra colleghe lunedì 25 maggio 2015, sono legati a richieste inerenti la sicurezza a lavoro: un vetro divisorio e telecamere di sorveglianza all'interno dei taxi e corsi di autodifesa dedicati alla categoria. Le promotrici credono fermamente che a consultare il sito con i volti e i dati degli stupratori, non saranno solo le tassiste, il registro rappresenterebbe secondo loro "una forma di tutela per tutte le donne. Uno strumento che consentirebbe di vedere oltre il faccino da bravo ragazzo, da persona ‘per benè, tipico degli ‘insospettabilì". Il gruppo è altresì convinto che chi compie una violenza deve assumersi le conseguenze della propria azione "è il reato che produce degrado, non il registro", spiegano. E aggiungono: "Del resto il senso di vergogna correlato allo stupro non è qualcosa che deve pagare solo la vittima". Giustizia: fin dove si può spingere un tribunale amministrativo? l'invasione dei Tar di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 maggio 2015 Separazione dei poteri, discrezionalità dei magistrati, procura di Palermo, il caso Lo Voi, Di Matteo e il ruolo del Csm. Chiacchierata con Giovanni Legnini. "Il problema è il perimetro, il problema è la discrezionalità". Sono le tredici e trenta, siamo a Roma, piazza Indipendenza, civico numero sei, sede del Consiglio superiore della magistratura, e il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ci riceve al primo piano di Palazzo dei Marescialli per provare a mettere a fuoco con il Foglio quali saranno le conseguenze della sentenza con cui il Tar del Lazio, giovedì scorso, ha annullato, per la gioia dei gazzettieri delle procure, la nomina di Francesco Lo Voi a procuratore di Palermo. La storia la conoscete tutti: due giorni fa il Tar ha accolto i ricorsi proposti dai procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e di Messina Guido Lo Forte, condannato il Csm a pagare le spese di giudizio per 3.000 euro complessivi, e ha ritenuto che il Csm avesse "l'onere della motivazione rafforzata" riguardo la scelta di Francesco Lo Voi a capo della procura di Palermo. La "delibera di nomina - ha scritto il Tar - non supera il vaglio di legittimità apparendo la motivazione del giudizio di prevalenza di Lo Voi non coerente rispetto agli indici di valutazione del parametro attitudinale". Il problema dunque è più che evidente: fino a dove può arrivare il potere di un tribunale amministrativo? Legnini dice che il Csm ricorrerà al Consiglio di stato, ovviamente, ma non lo farà solo nella forma dell'atto dovuto lo farà per rivendicare anche un principio preciso che Legnini sintetizza così: "Io ho rispetto per le decisioni del Tar, ci mancherebbe, ma credo che in questa fase storica sia importante che la giurisdizione presti particolare attenzione a un principio che credo sia vitale per tutti: salvaguardare le prerogative costituzionali di ciascuno e quindi il cuore del corretto esercizio della discrezionalità. E, a proposito di discrezionalità, una scelta assunta con ampia motivazione e con un voto largamente maggioritario, in modo trasparente da un organo come il Csm, va valutata sulla base delle prerogative e dei valori costituzionali. La scelta di un procuratore non può essere valutata come un atto amministrativo qualunque, e non lo dico io ma lo dice la Costituzione. Per questo abbiamo il dovere di difendere la scelta davanti al Consiglio di stato". Il tema del regime del Tar, se così si può definire, è diventato un problema ricorrente non solo per il Csm ma anche per il mondo della politica e dell'imprenditoria. E per questo è comprensibile che in molti oggi (non solo a Palazzo dei Marescialli) si augurino che il governo Renzi tiri fuori dal cassetto quella norma già inserita tempo fa in un decreto legge che delimitava le competenze del Tar, modificando il sistema per i ricorsi e abolendo la sentenza di sospensiva, per evitare di dare a questo soggetto giuridico un eccesso di potere. Succo del ragionamento di Legnini: il principio della separazione dei poteri di Montesquieu non vale solo tra diversi organi costituzionali, ma vale anche all'interno degli stessi organi costituzionali. Il Foglio prende spunto dall'argomento per ricordare a Legnini che a Palermo c'è un altro magistrato che ha scelto di ricorrere al Tar del Lazio per veder affermato, dice lui, "un suo diritto". Quel magistrato, erede di Antonio Ingroia a Palermo, è Antonino Di Matteo, che una volta escluso dalla nomina nell'Antimafia anche lui - tac - ha fatto ricorso al Tar. "Il dottor Di Matteo - dice Legnini - ha tutto il diritto di ricorrere ma anche qui la scelta, del Csm, è frutto di un'ampia e dettagliata motivazione, peraltro assunta con l'unanimità dei membri togati del Consiglio superiore". In questa fase della vita del Consiglio superiore della magistratura, l'unanimità dei membri togati del Csm è un tema che merita di essere approfondito, perché è ormai un fenomeno usuale che siano i membri laici, ovvero i non magistrati, ad avere spesso meno difficoltà dei togati a mettersi d'accordo tra loro e a prendere le decisioni importanti: è successo sia per le nomine di Palermo sia per quelle di Bari. "È vero", riconosce Legnini, "spesso, per le nomine, le scelte dei membri laici sono state decisive e credo che questo sia un fatto importante per il Csm. In questa fase quella componente ha un ruolo importante, di vero equilibrio e ciò aiuta a inverare l'intuizione dei costituenti nella composizione del Consiglio". Il passaggio successivo a questo ragionamento presupporrebbe un tentativo del Csm di dare meno peso al ruolo delle correnti anche nei suoi organi di rappresentanza e Legnini sembra essere d'accordo: "Stiamo già lavorando all'autoriforma del Consiglio e a giugno daremo un forte impulso a partire dalla riforma del testo unico per gli incarichi direttivi e del regolamento interno, nel segno dell'efficienza, della trasparenza e dell'autorevolezza del Consiglio e dell'ordine giudiziario". Il Foglio ricorda che il modo migliore, forse l'unico, per evitare che le correnti possano avere un peso nel Csm è la modalità del sorteggio. Legnini dice di non essere d'accordo, ma altri sistemi elettorali per attenuare il peso delle correnti sono possibili. A proposito dell'espressione dei pareri, Legnini rivendica tale prerogativa ma essa, ragiona il vicepresidente, deve essere esercitata in modo appropriato attenendosi alle ricadute, all'impatto delle riforme e non già alle diverse opzioni politiche riservate al Parlamento. "Il principio della separazione dei poteri deve valere per tutti. La magistratura e il suo autogoverno devono difendere fino in fondo i princìpi dell'autonomia e dell'indipendenza ma a ciò deve corrispondere il rispetto per le prerogative degli altri poteri". Giustizia: la prescrizione "lievita" ma ancora non decolla di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2015 La partita sull'anticorruzione ora si sposta al Senato, sulla riforma della prescrizione, da anni invocata anche dagli organismi internazionali per rendere più efficace la repressione penale delle tangenti, ma finora politicamente indigesta. Tuttavia, in attesa della riforma, alcuni reati contro la Pubblica amministrazione avranno qualche spicciolo di prescrizione in più, per effetto dell'aumento delle relative pene, previsto dalla legge Grasso approvata giovedì scorso. Con la sua entrata in vigore, la corruzione propria (articolo 319) si prescriverà in 12 anni, invece che in 10, la corruzione giudiziaria (quella più diffusa delle tre ipotesi previste dal Codice) in 15 anni anziché in 12 e mezzo, il peculato in 13 invece che in 12 e mezzo e l'induzione indebita (la vecchia concussione per induzione) guadagnerà tre anni rispetto ai 10 attuali. Così come aveva fatto il governo Monti con la legge Severino del 2012, il governo Renzi spenderà sicuramente questi modesti aumenti della prescrizione anche nelle sedi internazionali. Ma la "scorciatoia" di allungare i termini attraverso l'aumento delle pene lascia irrisolto il problema di una riforma strutturale della prescrizione, in generale e per alcuni reati in particolare, come quelli contro la Pa. Che restano spesso impuniti perché si scoprono molto tempo dopo essere stati commessi, sia per l'oggettiva difficoltà di portarli alla luce sia per la volontà di corrotti e corruttori di occultarli. Non a caso il maggior numero di prescrizioni scatta in primo grado e soprattutto in appello. Con la riforma ora all'esame del Senato, governo e maggioranza si sono fatti carico parzialmente della specificità dei reati di corruzione. La Camera ha infatti approvato un quasi raddoppio dei termini attuali, ma soltanto per la corruzione propria (18 anni invece dei 10 attuali) e per quella giudiziaria (22 invece di 12). Il risultato è frutto di una modifica dell'articolo 157 del Codice penale, che stabilisce che per questi reati, e per la corruzione impropria, il termine iniziale sia aumentato della metà. Aggiungendo a questa nuova base l'aumento di un quarto previsto dall'articolo 161 quando iniziano le indagini, si ottine il quasi raddoppio. Inspiegabilmente restano fuori dall'aumento della metà del termine iniziale reati gravi come l'induzione indebita e il peculato. Nel calcolo del termine massimo di prescrizione non si tiene conto delle sospensioni (che hanno varie cause). Perciò non vanno sommati i tre anni di sospensione previsti dal ddl di riforma dopo la condanna di primo grado (2 anni) e dopo l'appello (1 anno) e quindi è sbagliato sostenere che la corruzione propria si prescriverebbe in 21 anni, il "doppio" del termine vigente. Eppure l'argomento è stato usato da Ap-Ncd per pretendere (in cambio del sì alla legge anticorruzione) la promessa di una modifica del ddl Ferranti sulla prescrizione. Promessa assunta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Si va dunque verso una "rimodulazione" dei termini, al ribasso. Ncd propone di cancellare dall'articolo 157 l'aumento della metà e di spostarlo nell'articolo 161 al posto dell'aumento di un quarto per le interruzioni. Con il risultato - rimanendo alla corruzione propria - che la prescrizione scenderebbe da 18 anni e 3 mesi a 15 anni. Quale sarà il prodotto finale, si vedrà. Certo è che governo e maggioranza non hanno voluto seguire l'esempio francese di far decorrere i termini, per i delitti di più difficile emersione, da quando i magistrati li hanno scoperti e, quindi, sono in grado di attivarsi. Né hanno voluto seguire l'esempio di altri Paesi europei, dove la prescrizione si blocca dopo la condanna di primo grado, se non prima, con l'esercizio dell'azione penale (prevedendo come in Germania, sconti di pena se il processo si allunga troppo). Eppure, qualcosa di analogo c'è persino già in Italia: nel processo civile, dove spesso gli interessi in gioco sono molto rilevanti sul piano economico, sociale, umano, la prescrizione si blocca con l'attivazione del giudizio e fino alla sentenza definitiva. Giustizia: i reati prescritti a quota 120mila, sono dimezzati in 10 anni, 1.490 contro la Pa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2015 Quelli contro la Pubblica amministrazione sono 1.490. Le prescrizioni diminuiscono, ma restano sempre troppe. Quasi 120.000. E sul versante dei principali reati contro la pubblica amministrazione, sono in tutto 1.490. Un quadro complessivo, con focus su tutti reati contro la Pa, è stato fornito alla commissione Giustizia del Senato da parte della Direzione statistiche di via Arenula. Una base di partenza per affrontare poi, numeri alla mano, il progetto di riforma dei termini che ha già ricevuto il via libera della Camera, ma che sarà sicuramente modificato almeno sul versante della corruzione. A ribadirlo il viceministro della Giustizia, Enrico Costa, di Area Popolare: "i dati sono stati sollecitati dalla stessa commissione nell'ambito dell'iter istruttorio sul testo del provvedimento in tema di prescrizione dei reati. È necessario un approccio equilibrato che affronti la durata della prescrizione e la ragionevole durata dei processo". Nel decennio 2004- 2013 l'incidenza delle prescrizioni sul totale dei procedimenti definiti (che sono passati da 1.455.704 a 1.500.703) è passata dal 14,5% al 7,9%, con una diminuzione dalle 213.745 del 2004 alle 119.075 del 2013. Il report fornito nei giorni scorsi in commissione indica che nella fase di indagini preliminari, l'impatto della prescrizione nel 2013 è stato del 12,1 per cento. "Il trend storico di prescrizioni in questa fase - si legge nel documento - è in decrescita costante dal 2004 quando l'incidenza era del 25,7%". In primo grado il dato 2013 è del 5,4%, con variazioni meno significative nel tempo. In appello invece "si registra un tasso dell'11,7% nel 2004" che ha "toccato quota 21,5% nel 2013". In Cassazione, infine, tasso tendenzialmente stabile tra lo 0,4% e lo 0,8 per cento. Questo in termini generali. Ma significativo, tanto più in questo passaggio di messa a fuoco dei futuri interventi sulla prescrizione e della risposta da dare sul fronte della corruzione, sono i dati relativi ai reati contro la pubblica amministrazione. Nella tabella pubblicata un panorama generale sul primo grado, relativo all'ultimo anno disponibile, il 2012, con la somma delle prescrizioni che si attesta intorno a quota 1.500. Tuttavia, rispondendo a una domanda avanzata dalla stessa commissione Giustizia, il ministero restringe l'attenzione a 4 dei reati principali (corruzione per atto d'ufficio, articolo 318 del Codice penale; corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, articolo 319 bis; corruzione in atti giudiziari, articolo 319 ter e corruzione di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, articolo 321). Per questi 4 delitti le prescrizioni diminuiscono in valori assoluti mentre crescono in percentuale per effetto del rapporto con i procedimenti invece arrivati a definizione. Numeri alla mano, allora, le prescrizioni diminuiscono, da 142 nel 2010 a 132 nel 2012 con un tasso di incidenza che passa dall'8,4% al 10,5% dei definiti (che passano da 1.683 a 1.254). Su tutti i reati contro la Pa, il tasso di incidenza passa dal 9% del 2010 al 7% del 2012. Per la corruzione propria, quella per atto contrario ai doveri d'ufficio, l'incidenza è variata tra l"8,8% e l'8,6%, ma rispetto a un numero di procedimenti definiti passato da 889 a 662. La quota di processi per corruzione in atti giudiziari andati prescritti, è salita invece dal 5,9% all'11,9%, ma su un totale di definiti passato da 51 a 42: il documento riporta 3 prescrizioni nel 2010; 4 nel 2011 e 5 nel 2012. Nel triennio, la corruzione per atto d'ufficio ha visto salire le prescrizioni da 9 (l'8,8% dei 102 processi definiti) a 18 (22.8% su 79). Giustizia: perché così pochi?, gli anni di carcere per la corruzione arrivino a "quota 50" di Vincenzo Vitale Il Garantista, 23 maggio 2015 Fatta la riforma dei reati di corruzione e societari, mi sia lecito avanzare una proposta che può apparire provocatoria, anche se fino a un certo punto. Propongo dì stabilire - attraverso una conveniente e subitanea correzione alla neonata riforma - una pena edittale obbligatoria, vale a dire priva di un minimo e un massimo, di trent'anni per ogni reato di corruzione e di fissarne la prescrizione in cinquant'anni. Invece, il falso in bilancio, per le società quotate in borsa, potrà essere punito con quarant'anni di reclusione, per quelle non quotate con trentanove anni. Ma sia in un caso sia nell'altro, la prescrizione dei reati non scatterà prima dei sessant'anni. Pensate che Travaglio, Di Pietro, Caselli, Fabio Fazio, Gramellini, Santoro, Scalfari, il dottor Sabella e l'Associazione magistrati tutta potrebbero esserne soddisfatti? Forse sì, ma forse no: in effetti, si potrebbe fare meglio e di più. Allora, facciamo così, anche per evitare equivoci e sterili polemiche: si stabilisca una volta per tutte la pena edittale di cinquant'anni di reclusione, in modo fisso e non valutabile, per tutti tali reati e per i loro assimilati e se ne preveda la prescrizione in un secolo. Così potrà bastare? Me lo auguro. Certo, al meglio - come al peggio - non c'è limite, ma accontentiamoci di ciò che passa il convento... Tuttavia, una riflessione s'impone. C'è qualcuno che davvero creda che aumentare le pene previste per certi reati serva a limitarne la diffusione? C'è davvero qualcuno che abbia potuto osservare un tale fenomeno nell'ultimo secolo di storia? Se ci fosse, fermatelo prima che vada a sbattere, perché di sicuro ha le traveggole. In realtà, aumentare le pene previste dal codice penale serve a tre scopi fra loro complementari, ma che nulla hanno a che vedere con il diritto penale e con una seria ed avveduta politica criminale. Il primo scopo è soddisfare l'opinione pubblica meno avveduta, solleticando gli istinti primordiali alla vendetta ed al sangue che covano - il più delle volte silenziosi e pudicamente occultati - dentro ciascuno di noi. Il secondo scopo è consentire ai politici e ai governanti di fare "bella figura" davanti alla medesima opinione pubblica. Mi si permetta tuttavia, su questo punto, di notare una differenza di non poco conto fra i politici. C'è chi - come Renzi - trionfalisticamente, ma ingenuamente, canta vittoria sul malaffare; c'è invece chi - come il ministro della Giustizia Orlando - con maggiore capacità critica evita simili trionfalismi fuori luogo, consapevole dei limiti della riforma. Il terzo scopo è arginare e in parte soddisfare l'inestinguibile sete giustizialista di tanti commentatori, intellettuali, giornalisti, politici, permettendo loro di lodare il governo che ha saputo fare ciò che ha fatto. Ma se questi sono gli scopi della riforma, quali ne sono gli effetti? Il primo è che inevitabilmente il prezzo della corruzione e del falso in bilancio lieviterà di parecchio. Infatti, siccome si rischia di più, il corrompibile chiederà una tangente ben più elevata di prima, mentre l'altra parte sarà ben disposta a concederla, consapevole di quei rischi. Il secondo effetto è che i processi per tali reati potranno diventare quasi eterni, senza limiti, permettendo ai pubblici ministeri di indagare per anni ed anni e consentendo a Renzi di gridare gioiosamente che nessun processo potrà più concludersi per prescrizione. Il che è appunto una solenne assurdità, proprio perché - come dice ancora Renzi - "l'Italia è ormai la patria della legalità". E infatti ovvio anche per i bambini che la vera legalità non rende eterni i processi, sottraendoli alla prescrizione, ma, al contrario, rende brevi i processi, senza allungare la prescrizione. Insomma, la legalità giusta è l'esatto contrario di ciò che ha fatto il governo. Che farcene allora di una legalità che fa a pugni con la giustizia? Aumenterà forse il benessere sociale? La sicurezza dei cittadini? O forse garantirà la efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione? Ovviamente, nulla di tutto questo. Questa prodotta dal governo Renzi è solo una contraffazione della legalità, una sua sterile e raccapricciante controfigura. Non solo. Essa camuffa il vero e dolente problema che il governo non affronta: il pessimo funzionamento della macchina amministrativa, che costituisce la vera genesi del malaffare e della corruzione. Insomma, il governo crea la burocrazia e poi riforma i reati di corruzione in questo modo: tanto vale dire che esso prima produce la corruzione e poi finge di volerla debellare. E questo di cui abbiamo bisogno? Giustizia: crisi, eco-reati e falso in bilancio, quel senso di accerchiamento degli industriali di Rita Querzé Corriere della Sera, 23 maggio 2015 Da una parte il pregiudizio (del governo). O almeno quello che larga parte degli imprenditori ritiene tale. "Falso in bilancio, eco-reati. In pochi giorni sono state varate due norme basate sull'idea che noi imprenditori siamo soggetti da cui difendersi". Dall'altra l'orgoglio (degli imprenditori stessi). Che rivendicano: "In questo momento l'impresa dovrebbe essere considerata l'Opportunità. Il governo dovrebbe stringersi attorno alle sue imprese per permettere al Paese di agganciare la ripresa". È questo il sentire diffuso in molte territoriali di Confindustria in giro per l'Italia. Ma non ci sono solo le nuove norme su falso in bilancio ed eco-reati ad alzare la tensione. Due giorni fa, rispetto alla gestione del caso Ilva, il presidente Giorgio Squinzi ha parlato di "esproprio della magistratura". Il tutto avviene mentre i segnali di ripresa ci sono, sì. Ma tiepidi. Dati Istat diffusi ieri dicono che il fatturato dell'industria a marzo è aumentato dello 0,9%. Ma nello stesso tempo gli ordinativi hanno registrato una flessione, seppur minima, dello 0,3%. "In materia di eco-reati e falso in bilancio è come se il governo fosse prevenuto nei nostri confronti - dice tra gli altri Andrea Dell'Orto, presidente degli industriali di Monza e Brianza. Pochi sbagliano ma tutti pagano. E questo non è giusto". D'altra parte, è vero che il Jobs act è stato accolto in modo positivo. Ma le imprese sentono l'attesa rispetto ai posti in più che non si vedono. "Molte aziende stanno facendo ripartire gli investimenti. Per vedere anche le assunzioni, però, bisognerà aspettare almeno sei mesi" prevede Dell'Orto. Se la congiuntura migliora secondo le imprese per il momento è più merito di Draghi che di Renzi. Dell'iniezione di liquidità della Bce, del cambio euro-dollaro, del prezzo del petrolio che scende. "Ora tocca all'Italia fare la sua parte - incita il presidente di Confindustria Venezia, Matteo Zoppas. Da noi per un permesso a costruire servono 240 giorni. Nei Paesi a noi vicini ne bastano 15. Con questa zavorra non si può che fare l'elogio delle imprese che restano sui mercati internazionali". E le nuove regole su falso in bilancio ed eco-reati? "Sia chiaro: noi siamo sempre dalla parte della legalità e della trasparenza. Detto questo, attenzione a non aumentare il peso della burocrazia". "Le nuove norme sul falso in bilancio come quelle sugli eco-reati sembrano fatte apposta per mettere in difficoltà soprattutto i piccoli imprenditori che spesso sono costretti a caricarsi in prima persona di questi adempimenti" aggiunge Michelangelo Agrusti, presidente di Unindustria Pordenone. Al fondo di tutto resta sempre un timore: non reggere il ritmo della competizione internazionale. "Noi esportiamo l'80% della produzione - spiega Vittorio Borelli, presidente di Confindustria Ceramica, settore emiliano per eccellenza. Stiamo vedendo il treno della ripresa passarci davanti. Ma se non si interviene su fisco e burocrazia non avremo la forza di balzarci sopra". Giustizia: dall'Unione europea fuoco incrociato sull'Italia, 90 procedure di messa in mora di Luisa Leone Milano Finanza, 23 maggio 2015 È un vero fuoco incrociato quello che arriva da Bruxelles sotto forma di procedure di messa in mora. L'Italia ne ha collezionate 92 e alcuni dossier sono delicati, come l'energia, l'Ilva o le autostrade. Dalla normativa sulla "cattura di uccelli da utilizzare a scopo di richiami vivi" al caso Ilva di Taranto, dalla "formazione delle squadre di pallacanestro" ai debiti della Pa, dalla "protezione delle galline ovaiole" al terzo pacchetto energia, c'è davvero di tutto nelle oltre novanta procedure di infrazione avviate dall'Europa contro l'Italia. E si tratta solo della punta dell'iceberg di un continuo dialogo e scambio di vedute che va avanti sotto traccia, e su decine di altri dossier, nell'ambito del sistema Ue Pilot, ovvero la fase precedente all'avvio di qualsiasi messa in mora. Quest'ultima si può poi trasformare in un'infrazione vera e propria oppure concludersi dopo uno scambio di vedute tra il Paese e i commissari e magari la proposta di qualche aggiustamento da parte del governo nazionale sotto tiro. Al momento, tra i 92 dossier aperti da Bruxelles sull'Italia, solo sette sono allo stadio più avanzato di vera infrazione, con il rischio di deferimento alla Corte di Giustizia Europea e di salate sanzioni che essa comporta. Riassumendo al massimo, Roma è seriamente inguaiata con la Ue per l'emergenza rifiuti in Campania, per il ricorso alle discariche ma anche per questioni più prettamente economiche come "il mancato recupero degli aiuti concessi alle imprese che investono in municipalità colpite da disastri naturali", gli aiuti "in favore di imprese di servizi pubblici a prevalente capitale pubblico" , il mancato recupero di aiuti concessi "agli alberghi della regione Sardegna" o il non corretto recepimento delle norme contenute nel primo pacchetto ferroviario. A quest'ultima procedura d governo sta cercando di rispondere con un decreto legislativo all'attenzione del Parlamento, quello che contiene tra le altre cose anche la possibilità di introdurre una tassa sull'alta velocità ferroviaria. Insomma, anche nella fase più avanzata dei contenziosi tra Stato e Commissione i settori colpiti sono i più disparati e il fatto che, sul totale delle messe in mora, le infrazioni vere e proprie siano poche non basta certo a far dormire sonni tranquilli, perché questi processi sono lunghi e non a caso le infrazioni sono relative a procedure avviate più lontano nel tempo, tra il 2008 e il 2009. Peraltro, tra gli ultimi dossier aperti da Bruxelles, ce ne sono alcuni particolarmente pesanti come quello sui tempi di pagamento della pubblica amministrazione, oppure quello sul non corretto recepimento delle direttive efficienza energetica e terzo pacchetto energia. Una questione parecchio delicata quest'ultima, perché riguarda alcuni aspetti particolarmente importanti dell'organizzazione del comparto. Secondo Bruxelles, per esempio, la legislazione italiana esclude di fatto soggetti diversi da Terna dal ruolo di gestore di sistema di trasmissione in interconnessioni con altri Stati, senza contare che l'utilizzo del solo modello di separazione proprietaria farebbe della partecipata di Cdp l'unico gestore di rete certificabile ai sensi della normativa europea. Nel mirino, poi, anche la mancata attuazione di fatto del brand unbundling tra Enel Distribuzione ed Enel Energia; insomma, questioni che potrebbero davvero incidere sulla fisionomia del mercato italiano dell'energia. Infine, come accennato, prima della messa in mora vera e propria la Commissione e il governo possono confrontarsi sul terreno dell'Ue Pilot, con scambi di informazioni che nella maggior parte dei casi non sono pubblici, proprio perché non rappresentano un'azione formale da parte di Bruxelles. Ebbene, in questa terra di mezzo, secondo quanto risulta a Milano Finanza, giacciono al momento diverse questioni di un certo rilievo. Innanzitutto il dossier Uva di Taranto, non sul fronte ambientale, per il quale è già attiva una vera propria messa in mora, ma su quello del mercato e degli aiuti di Stato. L'impianto è stato infatti commissariato e sono in arrivo 400 milioni di finanziamenti, grazie alla concessione della garanzia statale, oltre che un probabile intervento della spa Salva imprese, il cui azionista principale sarà la Cdp, che dovrebbe essere chiamata ad affrontare come primo dossier proprio l'affitto del ramo d'azienda. E con gli occhi degli altri grandi produttori, a partire da Mittal, puntati sulle mosse di Bruxelles, è difficile che la Commissione possa fare sconti all'Italia. Un altro fonte caldissimo è poi quello dei trasporti. A novembre 2014 in un solo mese sono piovute su Roma richieste di informazioni per sette diversi dossier due per quanto riguarda i porti, due sugli aeroporti e tre relativi alle autostrade. Proprio il dossier sulle proroghe autostradali del gruppo Gavio, di Autovie Venete e Autobrennero, sembra essersi avviato a conclusione la scorsa settimana, quando con la Commissione sarebbe stata trovata un'intesa di sorta. Le richieste di prolungamento avanzate dall'Italia sono state di molto ridimensionate ma pare che alla fine, almeno questa volta, Roma l'abbia spuntata. Giustizia: strage del Bardo; Touil "io non ho fatto nulla… perché sono in carcere?" di Paolo Colonello La Stampa, 23 maggio 2015 Il 22enne marocchino accusato per la strage del Bardo: "Io, innocente". La Tunisia: estradatelo. Ma la posizione del giovane sembra alleggerirsi. "Non ho fatto nulla, sono innocente e non so nemmeno perché sono qui". Il 22enne Touil Abdelmajid è descritto dagli agenti di custodia e dal suo avvocato Silvia Fiorentino come un ragazzino spaurito caduto in una storia più grande di lui che rischia di diventare una trappola detentiva destinata a durare a lungo. Ieri, interrogato nel carcere di San Vittore prima di essere trasferito ad Opera dal giudice Caccialanza della Corte d'Appello per l'udienza di "identificazione", il marocchino accusato di essere uno degli attentatori della strage di marzo a Tunisi, ha rifiutato "l'offerta" di un'estradizione in Tunisia. La pena di morte Paese dove, per i reati che pendono sul suo capo, rischierebbe la pena di morte. Motivo per il quale, se anche venisse provata una parte delle accuse nei suoi confronti, l'Italia non potrebbe concedere comunque l'estradizione, formalmente richiesta ieri dalle autorità tunisine secondo le qualiTouil avrebbe fornito un "supporto logistico" al commando che compì la strage del 18 marzo (24 vittime). È chiaro che, rispetto alle prime ore dell'arresto, quando venne descritto come "organizzatore" ed "esecutore" dell'attacco al museo del Bardo, la posizione del giovane marocchino appare ora notevolmente alleggerita: il dubbio che Touil sia vittima di uno scambio di persona o, peggio, di un clamoroso errore giudiziario tunisino, è più che mai legittimo. Di sicuro, nei giorni durante, prima e dopo la strage di Tunisi, il ragazzo non si è mai mosso da Gaggiano e da Trezzano sul Naviglio, come hanno raccontato madre, amici, professori e compagni di classe e come è risultato dal registro delle presenze della scuola per stranieri da lui frequentata. Ciò nonostante, Touil continuerà a rimanere in carcere, almeno finché la magistratura tunisina, nei 40 giorni di tempo previsti, non invierà il materiale probatorio richiesto dall'Italia e, altrettanto, finché la procura di Milano e, da ieri, anche quella di Roma (competente sulla strage tunisina in cui morirono, tra gli altri, 4 italiani), non chiariranno la sua posizione. Accertando ad esempio i suoi spostamenti durante il viaggio durato circa tre settimane di avvicinamento all'Italia con un transito di due settimane in una zona pericolosamente sospetta come la Libia. Secondo la mamma Fatima, nessun mistero: semplicemente il figlio, non avendo un permesso di soggiorno, ha dovuto fare un lungo giro per entrare clandestinamente con uno dei barconi dei disperati che attraversano il Mediterraneo e partono appunto da quel paese. Saranno quindi le "drive pen" e le schede telefoniche del suo cellulare a rivelare se Touil abbia avuto strani contatti in questo percorso. È da escludere comunque che, arrivato in Italia (rischiando un naufragio, ipotesi che stride con la possibilità di arrivo di terroristi con i barconi) Abdelmajid sia potuto tornare a Tunisi non avendo documenti validi che gli consentissero spostamenti in aereo. Resta da chiarire il motivo per cui solo a metà aprile la madre denunciò la scomparsa del suo passaporto ai carabinieri di Trezzano: un comportamento comunque non consono a quello del genitore di un terrorista. Secondo l'avvocato di Touil "stanno emergendo elementi che portano a scagionare Touil dalle accuse". E che dunque, prima probabilmente di una decisione della Corte d'Appello, verrà chiesta la sua scarcerazione. Giustizia: caso Giuseppe Uva; il medico legale "la morte non è dovuta a lesioni" Ansa, 23 maggio 2015 Il medico legale Giuseppe Motta: "L'insufficienza cardiorespiratoria con conseguente edema polmonare che ha provocato la morte di Giuseppe Uva non è dovuta a lesioni, ma a una serie di altri fattori, tra cui una malformazione cardiaca, l'assunzione di alcol e i farmaci che gli furono somministrati". Il medico, che effettuò l'autopsia sul cadavere, è stato ascoltato come teste nel processo a Varese a carico di sei poliziotti e due carabinieri imputati per omicidio preterintenzionale e altri reati. Il giudice per le indagini preliminari di Varese, Stefano Sala aveva rinviato a giudizio i militari dell'artigiano di 43 anni morto all'ospedale di Circolo a Varese il 14 giugno 2008 dopo aver trascorso la notte in caserma. Il gup aveva respinto la richiesta del procuratore di Varese Felice Isnardi, che aveva chiesto per gli imputati il proscioglimento dall'accusa di omicidio preterintenzionale, e ha accolto le richieste dei familiari di Uva, che si erano costituiti parte civile. La notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 Giuseppe Uva fu fermato dalle forze dell'ordine in stato di ubriachezza mentre, secondo i carabinieri, stava spostando delle transenne in mezzo alla strada insieme a un amico. Uva fu portato in caserma, dove trascorse tre ore prima di essere ricoverato in ospedale alle 5,45 del mattino. Arrivò in reparto coperto di sangue e con diverse fratture alla colonna vertebrale. Uva morì poche ore dopo, alle 10,30. In caserma quella notte Alberto Biggiogero, l'amico di Uva, raccontò di aver sentito dei colpi forti e delle urla, secondo lui dovute a un pestaggio da parte delle forze dell'ordine. Lettere: c'era una volta la separazione dei poteri di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2015 Un fantasma si aggira per l'Italia. E a evocarlo, con spericolata baldanza, sono politici e tecnici. "In questi tempi di crisi, anche la vecchia separazione tra i poteri è diventata un lusso", scrive nel consueto bello stile il costituzionalista Michele Ainis sulle pagine del Corriere della Sera. "Serve maggior sensibilità politica nel potere giudiziario, serve maggior sensibilità giuridica nel potere politico", ragiona Ainis che in due righe scodella pure la soluzione: "Servono canali di comunicazione, strutture di collegamento". Il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, lo ascolta e prende la palla al balzo. Dice che la Consulta, quando ha bocciato la legge Fornero che bloccava l'indicizzazione delle pensioni, "non ha valutato il buco creato". E si dichiara "perplesso" perché i giudici sostengono "di non dover fare analisi economiche sulla conseguenza dei loro provvedimenti". Ma per Padoan bisogna essere ottimisti. Il futuro è radioso. La via per far meglio c'è. E sta tutta nel solco tracciato dall'aratro di Ainis: sta nel "dialogo tra organi dello Stato indipendenti", sta nella "condivisione " delle informazioni sui conti dello Stato con la "Corte". Poi, dopo l'aratro di Ainis, a difendere il solco interviene la spada del premier Matteo Renzi che con ragionevolezza (solo apparente) afferma: "La Corte ha fatto una sentenza, noi l'abbiamo rispettata, ora si tratta di lavorare insieme perché i segnali di ripresa che ci sono possano irrobustirsi e consolidarsi". Purtroppo però, a Costituzione vigente, la Consulta non deve lavorare assieme a nessuno. I giudici stanno lì esclusivamente per controllare il rispetto della Carta. Devono verificare cosa fa la politica che pure, in parte, li nomina. "Canali di comunicazione" o "strutture di collegamento" non sono ammessi. Ovviamente gli ermellini non devono mettere i bastoni tra le ruote al governo o al Parlamento per partito preso, ma nemmeno possono basare le loro decisioni sulla base delle convenienze dell'esecutivo pro-tempore. A meno che non si decida di dire che aveva ragione Silvio Berlusconi quando, da primo ministro, attaccava la Consulta accusandola di remare contro perché composta da "giudici di sinistra". O, peggio ancora, quando, anticipando coi fatti le tesi di Ainis, il leader del centrodestra partecipava, nel maggio del 2009, qualche settimana prima dell'udienza sul Lodo Alfano (la legge che sospendeva i processi nei suoi confronti), a una cena nell'abitazione privata dell'allora giudice della Corte, Luigi Mazzella, che per l'occasione aveva invitato pure un collega. Allora la cosa aveva suscitato scandalo. Un po' tutti avevano evocato Alexis de Tocqueville e il suo La democrazia in America, i principi della democrazia liberale e il diritto di tutti i cittadini di essere uguali davanti alla legge. Concetti evidentemente caduti in disuso. Oggi, invece, il dibattito sulla separazione dei poteri è aperto. Dimenticando che proprio la sentenza che ha sventato la rapina sulle pensioni lascia al legislatore la possibilità di battere molte altre strade. Se, per esempio, la pensione è "retribuzione differita" c'è da chiedersi, come fa da tempo il presidente dell'Inps Tito Boeri, se sia giusto trattare alla stessa maniera chi riceve una pensione in base ai contributi effettivamente versati e chi, invece, se la intasca in base alla media delle retribuzioni ricevute negli ultimi anni di lavoro. Perché, in fondo, per non farsi cassare le leggi e risparmiare non servono "canali di collegamento". Bastano un po' di preparazione e di buon senso. Calabria: Nicolò (Fi): approvata proposta legge su programmi reinserimento dei detenuti strill.it, 23 maggio 2015 "L'approvazione all'unanimità della proposta di legge a favore del reinserimento dei detenuti rappresenta un passaggio di natura socio-culturale che dà pieno rilievo al principio di rieducazione della pena cui ogni condanna deve tendere in un Paese che possa dirsi veramente democratico". È quanto afferma il capogruppo di Forza Italia Alessandro Nicolò proponente della proposta di legge, che ha ieri avuto il via libera in terza Commissione consiliare e che prevede interventi regionali a favore di detenuti e internati finalizzati al loro reinserimento nel contesto sociale e lavorativo. "Istruzione, formazione culturale e professionale, lavoro sono i tasselli fondanti di questo percorso - aggiunge Alessandro Nicolò - che se da una parte deve, nel rispetto della legge, riportare l'individuo alle sue responsabilità, dall'altra non può abbandonarlo a se stesso, al silenzio e all'isolamento delle carceri italiane che vivono una situazione di collasso e di emergenza che impone il decongestionamento degli istituti di pena quale priorità da conseguire. La civiltà di un popolo - aggiunge Nicolò - si misura anche dalla vivibilità delle carceri e dalla capacità di recuperare il reo integrandolo nella società e creando quelle condizioni di recupero culturale, fisico e psichico senza le quali non può immaginarsi un cammino di detenzione effettivo. E ciò promuovendo corsi di formazione professionali ed altre iniziative per l'avvio di attività di lavoro autonomo ed imprenditoriale Infatti, il carattere precipuo della legge è dato dal momento formativo come inizio del percorso di reinserimento socio-lavorativo; la formazione professionale è considerata in stretto rapporto con l'attività lavorativa in quanto entrambe parte integrante del trattamento penitenziario volto alla riabilitazione del detenuto in vista di una politica efficace di reinserimento dopo l'esperienza carceraria". Conclude Nicolò: "In questo modo, si raggiungono due obiettivi: ridurre il disagio sociale ed accrescerne la sicurezza. Modernizzare e riqualificare il sistema carceri in Italia che rispetto alle 40 mila persone che ne può contenere, si presenta in forte esubero ed in condizioni di invivibilità fa tutt'uno con la necessità di disegnare un percorso di detenzione alternativo a quello tradizionale, dove a trionfare non sia più l'immagine vendicativa dello Stato". Abruzzo: sul Garante dei detenuti la Regione rischia un corto circuito istituzionale cityrumors.it, 23 maggio 2015 Si torna a parlare della necessità dell'elezione del Garante dei detenuti per consentire anche in Abruzzo "il recupero e il reinserimento sociale di carcerati con problemi correlati alla tossicodipendenza, gli inserimenti per il lavoro all'esterno e il sostegno alle misure alternative alla detenzione carceraria". Maurizio Acerbo di Rifondazione Comunista e Vincenzo Di Nanna di Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi denunciano il mancato impegno, da parte della Regione, di attuare quanto prescritto da una sua stessa legge (art. 6 comma 5 L.R. n. 35 del 2011) che prevede l'elezione del Garante nei novanta giorni successivi all'insediamento. Nonostante i ripetuti proclami, questa violazione, secondo quanto scrivono in una nota Acerbo e Di Nanna, non consente di attuare il protocollo d'intesa che prevede l'istituzione di un tavolo tecnico tra Regione Abruzzo, Provveditorato Regionale e Tribunale di Sorveglianza, per la definizione delle procedure operative da realizzarsi con la partecipazione del Garante. "La denunziata violazione di Legge", si legge nella nota, "rischia dunque di generare un vero e proprio corto circuito istituzionale, tanto più che, nell'attesa dell'attuazione del citato protocollo, il Tribunale di Sorveglianza ha opportunamente e doverosamente rinviato le udienze per tutti quei condannati privi di attività di lavoro che hanno chiesto di poter aderire al programma di reinserimento previsto nel protocollo". Inoltre, proprio per richiamare l'attenzione su questa problematica, il radicale teramano Ariberto Grifoni sta conducendo da 13 giorni lo sciopero della fame, nella speranza che la Regione Abruzzo, tra le poche a non aver ancora nominato la figura del Garante, provveda a farlo al più presto. Alba (Cn): Sappe; detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato dalla Polizia penitenziaria targatocn.it, 23 maggio 2015 Il sindacato Sappe denuncia: "Negli ultimi dodici mesi del 2014, in quel carcere, si sono contati 3 tentati suicidi, 38 episodi di autolesionismo, 5 colluttazioni e 6 ferimenti". Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Alba, ma è stato salvato dal tempestivo intervento del poliziotto penitenziario di servizio. Protagonista, nella tarda serata di mercoledì scorso, un detenuto straniero che sconta una pena definitiva. "Il tentativo di impiccagione - non è stato per il tempestivo intervento del poliziotto penitenziario di servizio, attento e professionale. Auspichiamo che gli venga riconosciuta una ricompensa a livello ministeriale per avere salvato una vita umana in carcere. Ma l'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, informa che "alla data del 30 aprile scorso erano detenute ad Alba 118 persone. Negli ultimi dodici mesi del 2014, ad Alba, si sono contati 3 tentati suicidi, 38 episodi di autolesionismo, 5 colluttazioni e 6 ferimenti. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come ad Alba - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici". Capece denuncia infine che per il Sappe "la situazione nelle carceri resta sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato a livello nazionale dalle 53.498 persone oggi detenute rispetto alle 59.683 dello scorso anno (circa 6.000 in meno). Altro che la favola della vigilanza dinamica e l'autogestione delle carceri da parte dei detenuti come panacea ai mali penitenziari. Le idee e i progetti di chi santifica questa vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto non tengono conto della realtà delle carceri, che non sono collegi per educande, e rispondono alla solita logica discendente che scarica sui livelli più bassi di governance tutte le responsabilità. E ricadono sulle spalle di noi poliziotti, che stiamo 24 ore al giorno in prima linea nelle sezioni detentive. Intanto i poliziotti continuano a sventare suicidi, a gestire eventi critici come gli atti di autolesionismo, le aggressioni, le risse, a circolare su mezzi vecchi e fatiscenti". Sanremo (Im): Sappe; cade il cancello dell'ingresso dell'istituto, nessuna manutenzione. riviera24.it, 23 maggio 2015 Gravissimo episodio accaduto nella Casa Circondariale di Sanremo dove nella giornata di ieri è addirittura crollato il pesante cancello che è posto a difesa e a chiusura dell'istituto. Sono rimaste coinvolte, ovvero distrutte, alcune moto li parcheggiate ed un poliziotto penitenziario si è visto sfiorato dalla caduta del pesante cancello. È quanto riferisce il Sappe - il maggiore sindacato di categoria dei baschi azzurri - il quale lamenta, a sostegno della sicurezza ed incolumità del poliziotto e di conseguenza, dei detenuti, che i provvedimenti sino ad oggi adottati in merito sono nulli a fronte di tante parole e promesse della direzione. Ma come è concepibile che in una struttura dello Stato possa verificarsi questo scempio. Una tragedia sfiorata perché quel cancello è l'ingresso principale dell'istituto dove transitano decine di persone: avvocati, poliziotti penitenziari, famigliari dei detenuti, cittadini comuni. Oggi è andata bene perché sono rimaste distrutte solo alcune moto ed il collega si è salvato per miracolo, benché lievemente ferito. Ora attendiamo le consuete giustificazioni - apostrofa il Sappe - che per la Direzione, saranno "non è successo niente". Oggi Sanremo è allo sbando sia come gestione del penitenziario sia come sicurezza. Un istituto dove non c'è nemmeno il medico incaricato, così come prevede la legge 81/08, dove le garitte di controllo poste sul muro di cinta, presentano sporcizia dovuta dallo sterco dei gabbiani, postazioni di controllo senza alcuna tettoia o protezione da eventi atmosferici, dove non ci sono i sistemi di protezione individuali per le perquisizioni o per fronteggiare detenuti che si feriscono o casi di tubercolosi, situazioni ormai che si presentano giornalmente. Tutto questo è scandaloso - continua il segretario regionale Lorenzo - come Sappe ci meravigliamo, di fronte a quanto denunciato, che non ci siano stati interventi correttivi e che i politici rimangano silenti ed impassibili. Latina: il carcere scoppia, ci sono 65 detenuti oltre la capienza regolamentare corrieredilatina.it, 23 maggio 2015 In via Aspromonte i detenuti regolamentari previsti sono 76, i presenti 141 effettivi, mentre i detenuti tollerabili sono 136. Fns Cisl Lazio: aperta la questione relativa al rinnovo del contratto di lavoro fermo da oltre sei anni Sessantacinque detenuti in più, il doppio di quanto prevedrebbe la capienza regolamentare. Il sovraffollamento della casa circondariale di Latina non accenna a diminuire ed uno dei problemi della struttura di via Aspromonte comune anche ad altri carceri della Regione. A richiamare l'attenzione sull'argomento il segretario regionale della Cisl Fns Massimo Costantini. Secondo il dato del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere al 30.04.2015 n. 5.791 (515 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili) di cui 412 donne e 5.391 uomini. Latina risulta tra gli istituti che soffrono maggiormente il sovraffollamento insieme a Cassino con 34 detenuti in più, Civitavecchia con 111, Frosinone con 30, Rebibbia con 84, Regina Coeli con 219, Velletri che ne ha 108 in più e Viterbo con diciotto in più. A Latina i detenuti regolamentari previsti sono 76, i presenti 141 effettivi mentre i detenuti tollerabili sono 136. Commenta la Fns Cisl Lazio: "Apprezziamo l'iniziativa del Ministro Orlando, annunciata alcuni giorni fa durante la festa di fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, con cui verranno finanziati tutti gli istituti di pena per migliorare il benessere del personale. Di sicuro questi sono passi importanti e significativi. Rimane comunque ancora aperta per l'amministrazione penitenziaria la questione relativa al rinnovo del contratto di lavoro fermo da oltre sei anni ed anche il primo contratto della dirigenza penitenziaria. Il nostro auspicio è che il Ministro ora si faccio carico anche di queste problematiche". Verona: esperti a confronto "con le pene alternative 70% in meno di detenuti recidivi" L'Arena, 23 maggio 2015 "Chi usufruisce di pene alternative rispetto a quelle scontate in carcere ha il 70 per cento di possibilità in meno di tornare a delinquere". Parola di esperti. Affermazione di chi tutti i giorni ha a che fare con persone per le quali l'articolo 27 della Costituzione impone l'obbligo di recuperarli socialmente. E in via Tazzoli ci provano. "Non è solo una questione d'investimento sull'imputato ma anche sulla società" afferma la direttrice Francesca Paola Lucrezi, "con un risparmio di spesa molto alto in caso del recupero sociale di chi è finito nei guai con la giustizia. Non si dovrà più mantenerlo in cella e, soprattutto, avremo reso la società più sicura". E ancora: "Bisogna superare il concetto di pena retributiva altrimenti restiamo ancorati a schemi sterili che non portano alcun beneficio né alla società né allo stesso detenuto. La pena ha senso solo se è finalizzata al recupero di chi è stato condannato". E allora ecco la ricetta: "Bisogna capire come mettere a frutto la detenzione con una rete di contatti tali da rimettere in moto in modo che chi esce dal carcere non si trovi abbandonato a se stesso, finendo nelle braccia ancora della malavita. Così c'è solo l'abbruttimento della persona". Tanto più che l'applicazione delle misure alternative alla classica detenzione in carcere (come gli arresti domiciliari prima del fine pena o affidamento in prova ai servizi sociali) sta dando ottimi risultati. "La revoca di queste misure extra carcerarie", spiegano dagli uffici di via Tazzoli, "viaggia attorno solo al 5% ma non si tratta di provvedimenti presi a causa della commissione di reati da parte della persona coinvolta. La pena alternativa viene revocata solo perché non si sono rispettati i termini prescritti (orari, luoghi, tragitti) stabiliti una volta avviato il programma di recupero di chi è incappato nelle maglie della giustizia". Roma: bimbi "detenuti" nelle ville della mafia, confisca per l'emergenza abitativa La Repubblica, 23 maggio 2015 Diciassette bambini "carcerati", figli di donne recluse a Rebibbia, saranno ospitati in due strutture all'Eur sequestrate alla criminalità organizzata. L'assessore Danese: "Finalmente parte ‘Antimafia Capitale. Il Comune ha chiesto l'assegnazione di un palazzo di via dei Reti 27 destinato famiglie in difficoltà". Dalle sbarre a una casa "vera", dove poter stare insieme alle loro madri: due ville con giardino in zona Eur. È la possibilità offerta a 17 bambini "carcerati", figli di donne recluse a Rebibbia, da una delibera approvata lo scorso 8 maggio con cui la Giunta capitolina accetta, in comodato d'uso a titolo gratuito, alcuni immobili sequestrati alla criminalità organizzata, come anticipato da Repubblica. In particolare, si tratta di due villini in via Kenia all'Eur: una ospiterà una casa famiglia per le madri detenute di Rebibbia, un'altra sarà riservata, si legge nella delibera, a ragazzi "provenienti dal circuito penale minorile". "Finalmente parte Antimafia Capitale", commenta soddisfatta Francesca Danese, assessore alle Politiche sociali di Roma Capitale che, si ricorda nella delibera, "in una nota del 20 aprile 2015, ha manifestato interesse ad utilizzare gli immobili per la realizzazione di una casa famiglia per madri in difficoltà con figli e di una casa famiglia per minori provenienti dal circuito penale minorile". Sottolinea Danese: "Si restituiscono alla collettività beni che provengono da guadagni illeciti, in questo caso dalla criminalità organizzata. Ringrazio davvero il giudice Guglielmo Muntoni, perché con prontezza ha accolto la nostra richiesta". Muntoni è il magistrato a capo della sezione del Tribunale Ordinario di Roma per l'applicazione delle misure di prevenzione per la sicurezza e pubblica moralità la quale, spiega la delibera, "con Decreto del 27 febbraio 2014, nell'ambito del procedimento n. 29/2014 R. G. M. P., ha disposto, tra l'altro, anche il sequestro di due immobili, ubicati nel comune di Roma, Via Kenya (zona Eur)". Un procedimento di prevenzione "finalizzato a restituire alla collettività il patrimonio sottoposto a sequestro che sia stato accumulato con proventi illeciti". E proprio Roma Capitale, nel protocollo d'intesa sottoscritto il 10 marzo 2014 con Tribunale di Roma, Corte d'Appello di Roma, Procura della Repubblica di Roma, Regione Lazio, Unindustria, Confcommercio di Roma e Abi, "approvato con deliberazione di Giunta Capitolina n. 47 del 9 marzo 2014", "si è dichiarata disponibile - si legge nella delibera - tra l'altro, a valutare la possibilità di prendere in carico beni immobili - che non siano aziende - sin dalla fase del sequestro, per fini istituzionali ovvero per fini sociali". Nella delibera inoltre si dispone "di dare mandato al competente Dipartimento patrimonio, sviluppo e valorizzazione di attivare le procedure necessarie per l'immissione in possesso dei beni sopra descritti, previa verifica della legittimità urbanistica e della verifica catastale dei beni per l'utilizzo a cui gli stessi sono destinati", e "di individuare in tale sede gli oneri, e la relativa copertura necessaria al mantenimento in buono stato degli immobili acquisiti in comodato fino a quando i medesimi non saranno assegnati". Conclude Danese: "Ci sono passaggi da fare prima dell'utilizzo effettivo della struttura, però la cosa bella è che i 17 bambini che finora si trovano a Rebibbia, finalmente potranno uscire dal carcere". Non solo. "Il Comune di Roma ha chiesto l'assegnazione dello stabile confiscato alla mafia di via dei Reti 27: quattro piani per cinque unità abitative nello storico quartiere di San Lorenzo, 13 stanze con bagno indipendente, altri servizi comuni. Uno stabile che verrà destinato a famiglie in emergenza abitativa", ha aggiunto Danese, in merito alla delibera di Giunta approvata oggi, ringraziando il suo collega alla Legalità, Alfredo Sabella, e il lavoro del giudice Guglielmo Muntoni che segue la vicenda dei beni confiscati per conto della Procura. Castrovillari (Cs): Polo "Tra Sybaris e Laos" in carcere con progetto "Le mani in pasta" paese24.it, 23 maggio 2015 Anche il carcere può essere una seconda opportunità, diventando una palestra di valori. E lo sanno bene alla Casa circondariale di Castrovillari che ormai da un po' di tempo apre, non di rado, i suoi cancelli al mondo esterno perseguendo un complesso quanto gratificante percorso rieducativo. Il Polo Tecnico Professionale "Tra Sybaris e Laos" ha saputo intercettare questa capacità proponendo alla struttura penitenziaria un corso sulla preparazione della pizza ed un altro sulla lavorazione della ceramica. I corsi sono rientrati nel paniere formativo che il Polo porterà avanti sino a tutto il 2016, coinvolgendo scuole e partner esterni. Per quanto riguardo quello sulla ceramica, i prodotti realizzati dai detenuti saranno disponibili presso il Parco Archeologico di Francavilla. "Le mani in pasta", il corso di base sulla preparazione della pizza, il primo svolto nel carcere di Castrovillari, ha coinvolto una decina di giovani detenuti che seguendo gli esperti consigli del maestro Francesco Ricca, coadiuvato dalla docente di cucina, Rosetta Maiorana, si sono cimentati con la preparazione della pasta, il condimento e la cottura di una pizza. In virtù dei soddisfacenti risultati raggiunti gli speciali pizzaioli sono stati coinvolti in vera gara, un MasterChef della pizza che si è tenuto, ovviamente, in una sala della Casa Circondariale alla presenza della direttrice del carcere, Maria Luisa Mendicino; della responsabile Area Trattamentale, Maria Pia Barbaro; del presidente dell'Associazione Pizzerie Italiane, Francesco Matellicani; del presidente del Polo "Tra Sybaris e Laos", Maria Franca D'Amico (dirigente scolastico dell'Alberghiero di Castrovillari che ha una sua sezione nella scuola carceraria); del direttore del Polo "Tra Sybaris e Laos" Paolo Gallo; dell'assessore al Turismo del Comune di Francavilla, Luigi Cassano; delle volontarie esterne assegnate all'Area Trattamentale, Carmela Rosato, Filomena Ioele e Carmen Bevacqua e di altri docenti e operatori della scuola carceraria, delle guardie e di pochi altri invitati, vista la particolarità dell'appuntamento. Ogni pizza preparata dai giovani detenuti aveva il profumo della passione e della voglia di riscatto. Ma soprattutto di quella consapevolezza di saper fare qualcosa, di saper raggiungere un risultato sano, pulito, con impegno e dedizione. La gara, è stata avvincente, con una vera giuria che ogni qual volta una pizza veniva sfornata era pronta ad assaggiare e giudicare. Ogni detenuto ha inventato la pizza che poi ha realizzato: da quelle patriottiche: Sapori del Sud, Tricolore, Pugliese, Vulcano (per richiamare il Vesuvio, con salsiccia piccante ovviamente) alle "evergreen" Rustica, Del Contadino. Sino ad alcune più particolari, come la Zodiaco, la Panzetta, la 4 bis e la Dessert conclusiva con fragole e nutella. Al termine della gara sono state scelte le tre pizze migliori, ma giusto per dare un senso alla competizione, dove ogni detenuto ha ingaggiato, più che altro, una sfida con sé stesso, per dimostrare, anzi dimostrarsi, di poter realizzare qualcosa, che tra quelle quattro mura di prigionia, assume un significato considerevole. Per la cronaca le pizze Pugliese, Vulcano e Dessert sono salite sul podio. Così come sul podio sono saliti tutti i ragazzi detenuti che hanno partecipato, con la consapevolezza che al di là di quei cancelli c'è un mondo dove ancora potranno essere protagonisti in positivo. Milano: "Sigillo", i prodotti delle detenute in mostra al Fair & Ethical fashion show Redattore Sociale, 23 maggio 2015 T-shirt, felpe, cappellini, maglioni, tovaglie, borse realizzate in 16 carceri. Esposizione visitabile fino al 24 maggio negli spazi dell'ex Ansaldo a Milano. Tra i 32 stand della fiera sono numerosi gli espositori che propongono una moda legata a progetti sociali. È un marchio di qualità, ma ha un valore aggiunto: è anche solidale. "Sigillo" è infatti il marchio dei prodotti realizzati da una cinquantina di detenute in 16 carceri italiane. T-shirt, felpe, cappellini, maglioni, tovaglie, borse: "Il carcere ha stoffa da vendere", recita lo slogan che accompagna il marchio. "Il progetto è nato cinque anni fa da tre cooperative carcerarie, ora siamo quindici e abbiamo commesse importanti anche da grandi aziende", racconta Silvia Della Morte, presidente della cooperativa Alice che dà lavoro alle detenute di San Vittore e Bollate. L'ultimo ordine arrivato è stato quello di Conad: 400 mila braccialetti per la festa della donna. "Una sola cooperativa non ce l'avrebbe mai fatta. Insieme ci riusciamo", aggiunge Silvia. Le cooperative di Sigillo espongono i loro prodotti da oggi al Fair & Ethical fashion show, evento dedicato alla scoperta del volto etico e solidale della moda, visitabile fino al 24 maggio negli spazi dell'ex Ansaldo (entrata da via Bergognone 34). L'evento è organizzato da Equo Garantito, World fair trade organization insieme all'assessorato alle Politiche del lavoro del Comune di Milano. Tra i 32 stand della fiera sono numerosi gli espositori che propongono una moda legata a progetti sociali. Come Arte Fatto, onlus milanese presente in Marocco, Senegal e Afghanistan, oppure la Bottega delle arti e dei mestieri di Bologna che ha progetti di educazione al lavoro in Etiopia. C'è poi Sapia, piccola azienda colombiana, attiva sul mercato equo e solidale con oggetti prodotti con la buccia di banana, le foglie e la pasta di mais, il cotone o la lana. Sempre dalla Colombia, arriva Mas+Diseno con i suoi prodotti e accessori di moda confezionati in collaborazione con i gruppi indigeni. È possibile inoltre trovare gli eleganti e colorati capi di Zarif Design, fondata dall'ex profuga afgana Zolaykha, che oggi dà lavoro a 52 artigiani a Kabul. Oppure See me, che impiega donne vittime di violenza inserite in programmi di educazione in case rifugio dell'Amal association di Tunisi e della Keid association di Ankara. Al Fair & ethical fashion show c'è anche un ricco calendario di incontri. Segnaliamo, in particolare, il 23 maggio, alle ore 18 al vicino Cinema Mexico (via Savona 57) la premiere italiana di "The true cost", il docufilm di Andrew Morgan: un viaggio nei luoghi sconosciuti del mondo in cui produrre moda significa accettare costi umani e ambientali pesanti. Firenze: gli agenti di Sollicciano "troppi aperitivi e spettacolini, qui serve sicurezza" Redattore Sociale, 23 maggio 2015 Dura nota critica dei sindacati della polizia penitenziaria nei confronti della direttrice Giampiccolo: "Attenzione troppo sbilanciata verso apericena e notti bianche, mentre proseguono decessi e aggressioni". "L'attenzione del direttore è fortemente sbilanciata verso l'organizzazione di eventi come gli apericena, le notti bianche e spettacolini vari, eventi che si teme possano sottrarre al dirigente le risorse da poter dedicare alle esigenze lavorative dei propri uomini e donne in divisa". È quanto scrivono in una nota i sindacati degli agenti penitenziari del carcere fiorentino di Sollicciano, nello specifico le OO.SS. Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), Sinapp (sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria) e Ugl Polizia Penitenziaria. Una denuncia che arriva dopo undici mesi di direzione della dottoressa Giampiccolo. "Riteniamo - prosegue la nota - che certi sistemi di gestione, applicabili in istituti più piccoli, non sono altrettanto applicabili nell'istituto più grande della regione, che per le sue complessità e le annose problematiche meritava che l'impegno e l'attenzione del direttore fossero in primis rivolte verso queste ultime", tra cui "numerosi decessi di detenuti, molteplici aggressioni al personale". Pertanto, conclude la nota, "ribadiamo il nostro no ad un modello di gestione penitenziario che non abbia come priorità la sicurezza e la tutela dei diritti dei dipendenti senza le quali il trattamento rieducativo è solo utopia": Nuoro: il boss Leoluca Bagarella deve lasciare il carcere di Badu e Carros La Nuova Sardegna, 23 maggio 2015 Lo ha deciso il Tribunale di sorveglianza di Sassari. Le condizioni carcerarie alle quali è sottoposto il boss mafioso detenuto nel carcere di Nuoro sarebbero troppo dure. Leoluca Bagarella deve essere trasferito dal carcere di Badu e Carros in un altro carcere dove la struttura riservata ai detenuti con il duro regime del 41 bis sia vivibile. Questo in sintesi il parere dei giudici del tribunale di sorveglianza di Sassari che ha respinto il ricorso presentato dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) contro la decisione del tribunale di sorveglianza di Nuoro che aveva imposto il trasferimento del detenuto poiché non venivano rispettati i requisiti minimi per una carcerazione dignitosa. Le avvocatesse Antonella Cuccureddu e Fabiana Gubitoso, che assistono Leoluca Bagarella, mafioso di Corleone, cognato del boss dei boss Totò Riina, avevano presentato un articolato esposto sostenendo che la sua detenzione era ai limiti della sopportazione umana per quanto riguarda i controlli 24 ore su 24 dei suoi movimenti nella cella con le telecamere e l'assenza di protezione per la "turca", il water sistemato al centro della gabbia proprio accanto al letto. Leoluca Bagarella è ritenuto il responsabile di alcuni tra i più gravi fatti di sangue di Cosa Nostra, tra i quali la strage di Capaci avvenuta il 23 maggio nel 1992. Nell'attentato morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Oggi 23 maggio ricorre il ventitreesimo anniversario della strage di Capaci. Migranti "trattenuti" fino a 12 mesi, così si allontana l'abolizione dei Cie di Giovanni Augello Redattore Sociale, 23 maggio 2015 Lo schema del decreto accoglienza trasmesso al Parlamento prevede la permanenza estesa a un anno per esaminare i ricorsi sulle richieste di protezione respinte. L'analisi di Savio (Asgi) e del sen. Manconi. "Meno tutela giuridica". "Una forzatura". Si allontana l'ipotesi di abolizione dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie): se lo schema di decreto legislativo sull'attuazione delle direttive Ue su accoglienza dei richiedenti protezione internazionale trasmesso in questi giorni al Parlamento dal Viminale dovesse passare così com'è, non solo ci sarebbero "nuove motivazioni" per la sopravvivenza dei Cie, ma potrebbero anche essere riaperti quelli attualmente chiusi. A mettere in guardia da un ritorno al passato il parere di Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato e quello di Guido Savio, dell'associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi). A preoccupare è l'articolo 6 che regola il trattenimento nei Cie dei richiedenti protezione internazionale. Articolo che al primo comma chiarisce: "Il richiedente non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda" e che per Savio non introduce grosse novità. Il trattenimento previsto dallo schema, spiega Savio, "scatta sostanzialmente nelle stesse condizioni di oggi, con qualche miglioramento". Secondo quanto riporta la relazione illustrativa del decreto, potrebbe riguardare i "richiedenti che hanno commesso i reati gravi previsti dalla Convenzione di Ginevra, richiedenti che sono pericolosi per la sicurezza nazionale, per l'ordine pubblico o comunque per la pubblica sicurezza perché destinatari di una misura di prevenzione". Si aggiungono gli stranieri "già trattenuti in un Cie ai fini dell'esecuzione di un provvedimento di rimpatrio". In quest'ultimo caso, spiega il testo, il richiedente sarà trattenuto "quando si hanno fondati motivi per ritenere che la domanda sia strumentale e miri ad impedire l'esecuzione del provvedimento di espulsione". A tali casi si aggiunge l'ipotesi in cui il richiedente sia "considerato a rischio di fuga". Nuova la proposta dei 12 mesi, nonostante la possibilità di andare oltre i 3 mesi previsti dalla legge 161 del 30 ottobre 2014, in alcuni casi ci sia già. I dodici mesi riguardano la "durata massima del trattenimento ai fini dell'esame della domanda di protezione internazionale", spiega la relazione, che per il Viminale è un periodo di tempo "adeguato, tenuto conto dei tempi di esame della domanda da parte della Commissione e dei tempi dell'eventuale ricorso giurisdizionale". Per Savio, però, "vuol dire scoraggiare i ricorsi. Ha una funzione deflattiva della tutela giurisdizionale. In alcune sedi sono abbastanza veloci, ad esempio a Torino in cinque o sei mesi si conclude tutto, ma ci sono anche casi in cui si è arrivati a tre o quattro anni". Ad oggi, infatti, la possibilità di prolungare oltre i tre mesi la permanenza in un Cie, spiega Savio, non va oltre i 4 mesi. Ai novanta giorni, infatti, viene aggiunto un periodo di massimo di 30 giorni per valutare la domanda di protezione. Il prolungamento del trattenimento fino a 12 mesi, che per Savio potrebbe essere stato pensato per disincentivare gli abusi, tuttavia, rischia di penalizzare chi ha realmente bisogno di protezione. "I dodici mesi sono una novità finalizzata a disincentivare la tutela giurisdizionale. Serve a scoraggiare i ricorsi strumentali, quelli fatti proprio per guadagnare tempo sperando di uscire. Col rischio di stare dentro 12 mesi ci pensi due volte. Il problema dell'abuso c'è, è fisiologico, ma nel mucchio c'è anche una percentuale che potrebbe aver ragione". Per Manconi, la permanenza di 12 mesi andrebbe valutata attraverso il "criterio dell'efficacia". "Servono 12 mesi per rispondere al ricorso? Dodici mesi in un Cie equivalgono ad un trattenimento estremamente pesante. Sembra una sanzione piuttosto che una misura utile per aspettare la risposta delle commissioni. Bisogna accelerare i tempi dei ricorsi e delle domande, non protrarre all'infinito l'attesa". Secondo il senatore, però, a preoccupare non sono solo i 12 mesi. C'è anche l'ampliamento dei possibili destinatari della misura "attraverso l'indicazione di un criterio di pericolosità che formulerebbe il questore sulla base di alcuni indicatori che un tribunale dovrebbe confermare - spiega Manconi. Non bastavano forse le categorie già definite fino ad adesso? Si rischia che quella definizione di pericolosità sia affidata a valutazioni molto opinabili, discrezionali e scarsamente fondate. Queste perplessità mi indicono a dire che sarebbe meglio non introdurre questa nuova previsione". Dopo la chiusura di oltre la metà dei Cie esistenti sul territorio nazionale, attualmente sono cinque quelli ancora aperti: Torino, Roma, Bari, Trapani e Caltanissetta. L'aumento dei possibili destinatari della misura e il previsto prolungamento dei tempi di trattenimento, tuttavia, potrebbe cambiare nuovamente lo scenario. Stavolta in modo inaspettato. "La prospettiva di abolire i Cie, perché in primo luogo superflui, diventa più difficile - spiega Manconi. È come se il ministro dell'Interno e il governo avessero elaborato una nuova motivazione per la loro sopravvivenza che, però, cozza con quello che era la ragione istitutiva dei Cie, a partire dal nome, centri di identificazione ed espulsione, cosa diversa da luogo per richiedenti asilo. Ancora una volta c'è una forzatura giuridica rispetto alla fisionomia di questi centri". Questione Cie che arriva, secondo Savio, proprio negli anni dell'emergenza richiedenti. "L'affare Cie si sta sgonfiando da solo, è inutile, se ne sono convinti tutti - spiega Savio. Ma nel momento in cui c'è l'emergenza rifugiati, ecco che guarda caso il Cie ritorna utile non per le sue funzioni originarie, ma per trattenere il richiedente asilo che potrebbe non avere questo diritto. Diventa di nuovo uno strumento di controllo di una immigrazione che si presume irregolare anche se finalizzata alla domanda di asilo". E dall'allontanare la chiusura di ulteriori Cie alla riapertura di quelli già chiusi il passo è breve. "O questo decreto rimane una lettera morta - conclude Savio -, oppure, se vuoi tenere tutte queste persone, devi ripristinare i Cie che sono stati chiusi. Se il testo dovesse passare così o riaprono oppure finisce all'italiana, si urla e si strilla e basta". Richiedenti asilo nei Cie fino a 12 mesi. LasciateCIEntrare: "Stupefatti" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 23 maggio 2015 Il commento della portavoce della Campagna contro la detenzione amministrativa dei migranti, Gabriella Guido, all'ipotesi avanzata dallo schema del decreto accoglienza. "Così si torna indietro e si allontana la chiusura". "Stupefatti" dalla proposta di prolungare la permanenza nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, fino a 12 mesi per i richiedenti asilo. Così Gabriella Guido, portavoce della Campagna contro la detenzione amministrativa dei migranti "LasciateCIEntrare", su quanto chiede di introdurre lo schema di decreto legislativo in merito all'attuazione delle direttive europee su accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e del riconoscimento dello status trasmesso in questi giorni dal Viminale al Parlamento. Il testo, infatti, prevede un prolungamento dei tempi di permanenza nei Cie oltre quanto stabilito dalla legge 161 del 30 ottobre 2014 (massimo 90 giorni) per coloro che abbiano presentato ricorso contro un diniego della domanda di asilo. Un tempo che, secondo l'Asgi, andrebbe oltre quanto previsto anche dalle attuali normative che in alcuni casi prevedono un periodo di trattenimento superiore a 3 mesi. "Siamo stupefatti di quanto sta pensando di fare il ministero dell'Interno - spiega Guido -. I Cie sono luoghi privi della garanzia della tutela dei diritti umani. Sono diventati solo cinque e il tempo di trattenimento è passato da 18 mesi a tre mesi, con un alleggerimento di questi centri che molti prefetti hanno condiviso, proprio perché all'interno dei Cie la popolazione migrante è spesso trattenuta con provvedimenti illegittimi. Ipotizzare che dei richiedenti asilo, titolari di elementi che configurano una protezione da parte di un governo, possano entrare in questi centri è tornare indietro e soprattutto negare una realtà che è stata evidentemente dimostrata". Per Guido, ad aver innescato un possibile ritorno al passato è il "clima" politico di questi giorni, "come al solito di emergenzialità", spiega, "ma le risposte non possono essere date senza criteri di valutazione effettivi". E i dati sulle presenze nei Cie parlano chiaro. "Le stime fatte a febbraio 2015 da parte della Commissione per i diritti umani del Senato parlano di una popolazione di circa 280 migranti trattenuti nei Cie in tutta Italia e questo dimostra che i centri non servono al controllo e alla gestione dell'immigrazione irregolare". A preoccupare, però, non sono soltanto i tempi di trattenimento, quanto la realtà dei Cie che con questo decreto, se dovesse passare così com'è, potrebbero tornare in auge. "Chi è riuscito a vedere questi centri sa che sono subumani, militarizzati e totalmente inefficaci - spiega Guido -. Varrebbe la pena riflettere, invece, su dei processi di identificazione, tutela ed esame delle procedure di ammissione alla protezione di altro tipo, non continuando a pensare alla criminalizzazione del migrante. I Cie sono luoghi che simbolicamente e architettonicamente portano alla criminalizzazione di un essere umano. I Cie non possono assolutamente essere equiparati a dei centri dove possono stare i richiedenti asilo, anche se sono nella condizione di fare un ricorso". Le ipotesi contenute nello schema del decreto potrebbero allontanare la chiusura dei centri, quando invece le stesse strutture potrebbero essere convertite in centri di accoglienza. Come già accaduto in alcune parti d'Italia. "La chiusura si allontana se si dovesse accettare questo decreto - spiega Guido. I Cie di Gradisca e di Bologna sono stati trasformati in centri di accoglienza, perché mancano i posti letto. Sarebbe più logico che questi Cie venissero riconvertiti in centri di accoglienza, dove i migranti possono attendere le valutazioni delle commissioni. La detenzione amministrativa, inoltre, non dovrebbe passare attraverso ad una vera e propria limitazione della libertà personale ma per misure alternative, come l'obbligo di firma. Stiamo parlando di circa 300 persone su tutto il territorio nazionale non mi sembrano numeri apocalittici". Cie, ritardi e prassi illegittime: per i richiedenti asilo la giustizia è di serie B di Giovanni Augello Redattore Sociale, 23 maggio 2015 È una giustizia discrezionale e lenta quella che si occupa dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati a Roma. Lo evidenzia il rapporto "Chi fa la legge? Pubblica amministrazione e diritto d'asilo", realizzato da Asgi, Senza Confine e Laboratorio 53, con il sostegno di Open Society. Richiedenti asilo portati direttamente nel Cie senza la possibilità di fare richiesta d'asilo, ritardi ingiustificati nel rilascio dei permessi di soggiorno, sistematici rigetti nelle istanze di rilascio dei titoli di viaggio per gli stranieri titolari di protezione umanitaria o sussidiaria, diniego del rilascio del permesso di soggiorno a soggetti di fatto inespellibili e una generale carenza di motivazione dei provvedimenti della Questura. È una giustizia discrezionale, lenta e di serie B quella che si occupa dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati a Roma. Lo evidenzia il rapporto "Chi fa la legge? Pubblica amministrazione e diritto d'asilo", realizzato da Asgi, Senza Confine e Laboratorio 53, con il sostegno di Open Society e che sarà presentato questa sera alle 18 a Roma presso il nuovo Cinema Palazzo. L'analisi prende il via dal progetto del Centro operativo per il diritto d'asilo, che da ottobre 2013 ha monitorato regolarmente le procedure e le prassi delle pubbliche amministrazioni romane. In particolare tra ottobre 2013 e settembre 2014 le operatrici del Centro Operativo hanno assistito più di 90 persone, accompagnandole presso gli uffici pubblici competenti nel corso delle diverse fasi della procedura. Oltre agli accompagnamenti, le operatrici hanno anche partecipato, una volta a settimana, ad incontri con la dirigenza dell'ufficio immigrazione della Questura di Roma, per proporre soluzioni e rendere più rapida la risoluzione dei problemi riguardanti i singoli richiedenti asilo la cui pratica era sospesa o di particolare complessità. A essere analizzati, sono stati in particolare, i trattenimenti dei richiedenti asilo presso il Cie di Ponte Galeria, dove la maggior parte delle persone assistite dal Centro erano state rinvenute in mare dalle imbarcazioni della Marina Militare impegnate nell'operazione "Mare Nostrum" tra febbraio e maggio 2014. Rifugiati nei Cie, migranti espulsi ingiustamente dal Cara. "Molte di queste persone, richiedenti asilo di origine nigeriana, sono state condotte dopo lo sbarco in Sicilia, direttamente nel Cie di Ponte Galeria, senza che gli fosse consentito di formalizzare la propria domanda d'asilo; anzi, a tutte era stato in precedenza notificato un decreto di "respingimento differito", istituto della cui costituzionalità è lecito dubitare", si legge nel rapporto. Ma il rapporto denuncia anche "ingiustificati ritardi nella formalizzazione delle richieste di asilo, violazione del diritto al contraddittorio in sede di udienza di convalida e proroga del trattenimento, violazione del diritto alla difesa dei trattenuti, i cui legali di fiducia vengono ostacolati nello svolgimento delle più banali attività di difesa (in primis nella comunicazione con i propri assistiti), errata applicazione delle norme sulla competenza - del Giudice di Pace o del Tribunale - circa la convalida e proroga del trattenimento dei richiedenti asilo, convalida del trattenimento di richiedenti asilo minorenni". Proprio per questo il centro ha avviato 8 cause pilota presentate innanzi alla Corte di Cassazione tra la primavera e l'autunno del 2014. Tra gli episodi su cui si è pensato di intervenire quello dell'illegittima espulsione dal Cara di Castelnuovo di Porto di alcuni ospiti in seguito della partecipazione a proteste pacifiche "Nel giugno 2014 la Prefettura di Roma ha ingiustamente proceduto ad espellere dal Cara molti dei richiedenti asilo che riteneva avessero partecipato a proteste - spiega il rapporto. Ad ottobre sono stati iscritti due ricorsi presso il Tar Lazio al fine di sospendere ed infine annullare due provvedimenti prefettizi che indicavano in maniera del tutto generica i richiedenti asilo in oggetto come partecipanti a proteste e di conseguenza li escludevano dal sistema dell'accoglienza". Le prassi illegittime dello Sportello Profughi della Questura di Roma. L'analisi ha riguardato per 11 mesi anche il monitoraggio dell'Ufficio Immigrazione della Questura di Roma, dove avviene la maggior parte delle fasi della procedura per la domanda e il riconoscimento della protezione internazionale e di quelle successive a tale riconoscimento. "Il dato più rilevante riscontrato dalle operatrici del Centro operativo è quello dell'estrema discrezionalità con cui opera lo Sportello Profughi - spiega ancora il rapporto. Non esistono infatti prassi certe, durature nel tempo e attuate con la stessa modalità da tutti i funzionari dell'ufficio stesso". Fra le principali criticità: l'ingiustificato ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno; il sistematico rigetto delle istanze di rilascio del titolo di viaggio per stranieri ai titolari di protezione umanitaria e talvolta sussidiaria; il diniego del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in capo a soggetti "inespellibili" e in generale la carenza di motivazione dei provvedimenti della Questura. Anche in questo caso sono state avviate 5 azioni strategiche di tipo sperimentale innanzi al Tribunale Civile di Roma e innanzi al Tar Lazio. Moltissime sono state inoltre le azioni stragiudiziali portate avanti dal Centro Operativo nei confronti della Questura di Roma. Il difficile accesso alla giustizia per i richiedenti asilo. Il rapporto evidenzia, inoltre, che il consiglio dell'ordine degli Avvocati di Roma rigetta sistematicamente, da oltre due anni, le istanze dei richiedenti asilo a causa dell'asserita mancanza della certificazione consolare sui redditi nel paese d'origine anche se i richiedenti asilo non possono avere alcun contatto con le autorità consolari del proprio paese d'origine, cosi come del resto stabilito dalla normativa internazionale, europea e nazionale. "Un elevato numero di ricorsi è stato presentato dal Centro Operativo, attraverso i propri legali di riferimento, avverso il diniego reiterato dal giudice di primo grado dell'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato - spiega il rapporto. Lo stesso genere di problematica è stata riscontrata anche nell'ambito della giustizia penale. 3 ricorsi sono stati presentati, e sono stati vinti, innanzi al Tribunale Penale di Roma". "Basta discrezionalità, servono regole certe". "La discrezionalità delle pubbliche amministrazioni è un fenomeno al quale si può e si deve opporre un freno, pena l'incertezza della condizione giuridica della persona che non può contare su regole certe per quanto riguarda la sua posizione sul territorio, e di conseguenza il godimento dei diritti riconosciuti - conclude il rapporto. Approvare leggi e regolamenti chiari, aderenti alla realtà, e non "punitivi" nei confronti di cittadini che spesso hanno dovuto lasciare il loro paese a causa di guerre e persecuzioni, nonché per necessità economiche, è un dovere che può portare unicamente beneficio non solo al cittadino straniero, ma a tutta la collettività, incluse le stesse pubbliche amministrazioni". Droghe: oggi a Pisa la 15esima edizione di "Canapisa", street parade antiproibizionista di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 23 maggio 2015 Si terrà oggi a Pisa la 15esima edizione di Canapisa, la street parade antiproibizionista che ogni anno porta a manifestare in città a ritmo di musica migliaia di persone. L'edizione di quest'anno non è stata esente da polemiche politiche e prescrizioni da parte delle istituzioni. Anche a causa delle elezioni del prossimo fine settimana. Il 19 maggio mentre nel centro città venivano raccolte le firme contro la manifestazione, in parlamento il vicepresidente del senato, il forzista Maurizio Gasparri, presentava un'interrogazione al ministro dell'interno, Angelino Alfano, per chiedergli "le ragioni per cui sia stata autorizzata" ma anche "se sia a conoscenza di quali siano le generalità, quantomeno degli organizzatori e dei finanziatori della manifestazione, nonché, ove possibile, dei partecipanti, con particolare riguardo a quanti abbiano già riportato condanne per reati connessi all'uso o allo spaccio di sostanze stupefacenti". In pratica, una richiesta al Viminale di informarsi presso la Questura di Pisa su chi siano gli organizzatori e una velata richiesta di istituire posti di blocco per controllare i manifestanti. Proprio in Questura, giovedì, agli organizzatori sono state quest'anno imposte tutta una serie di prescrizioni: dalle variazioni di percorso al divieto di somministrazione, anche a titolo gratuito, di bevande alcoliche. "Come ogni anno, tutti e 7 i carri musicali regaleranno l'acqua, faremo una chill out e ci saranno due mezzi con operatori che si occupano della riduzione del danno visto che noi siamo antiproibizionisti su tutte le sostanze", commentano gli organizzatori. L'appuntamento è per le 16 nel piazzale della stazione con arrivo in un altro luogo simbolo, una piazza di fianco al carcere cittadino "don Bosco", in sostegno al 40% dei detenuti e alla metà degli stranieri finiti dietro le sbarre per reati connessi agli stupefacenti. Guinea Equatoriale: l'infermo di Roberto Berardi, da due anni recluso e torturato di Andrea Spinelli Barrile L'Espresso, 23 maggio 2015 L'imprenditore italiano doveva essere rilasciato in questi giorni dopo aver scontato 2 anni e 4 mesi. Ma dovrà attendere fino a luglio per riavere la libertà. Ed è solo l'ultimo sopruso che si aggiunge a una storia di violenze e ingiustizie. Un giornalista che sta collaborando con la sua famiglia ricostruisce qui la sua vicenda. Martedì 19 maggio sarebbe dovuta finire la pena detentiva di Roberto Berardi, un imprenditore di Latina detenuto nel carcere di Bata Central, in Guinea Equatoriale, piccolo ma ricchissimo paese dell'Africa subsahariana. Ciononostante Berardi, condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere in seguito ad una diatriba con il socio africano, il secondo vice-presidente Teodorin Nguema Obiang Mangue, 40enne figlio del presidente e dittatore Teodoro Obiang, non è stato liberato. Arrestato il 18 gennaio 2013 a Bata Roberto Berardi è stato inizialmente detenuto per 23 giorni in una putrida cella di isolamento nel commissariato della città africana, trasferito agli arresti domiciliari dal 24esimo giorno e infine in carcere, dietro ordine del Tribunale, dal 7 marzo 2013. Questa iniziale custodia cautelare, interamente eseguita in stato di fermo di Polizia -che secondo le leggi della Guinea Equatoriale può protrarsi al massimo per 72 ore- non è stato conteggiato dall'autorità giudiziaria nel computo dei giorni di pena sin qui scontati. Il risultato è che la piccola delegazione diplomatica inviata dall'ambasciata italiana a Yaoundè, in Camerun, composta dai consoli Roberto Semprini e Massimo Spano ha dovuto fare mesto ritorno a casa: secondo quanto comunicato, solo verbalmente, da un segretario della Cancelleria del Tribunale di Bata la pena di Berardi verrà considerata estinta solo il prossimo 7 luglio. Berardi è stato condannato per appropriazione indebita il 16 luglio 2013 a 2 anni e 4 mesi di carcere, 1,4 milioni di euro di risarcimento all'ex socio e la sua detenzione è stata caratterizzata da abusi e soprusi di ogni tipo: oltre al fermo di polizia protrattosi ben oltre i termini da quando è in carcere Berardi ha perso tra i 30 e i 40 chili, soffre di enfisema polmonare ed ha contratto la malaria, manifestatasi in modo particolarmente violento nelle ultime ore per via del carico di stress emotivo cui il connazionale è stato sottoposto, e la febbre tifoide. Questo quadro clinico estremamente precario è aggravato da condizioni detentive inumane e degradanti: Berardi è stato picchiato e torturato in almeno due occasioni certificate e verificate ed è costretto quotidianamente a subire le angherie dei suoi carcerieri, che sono militari e rispondono direttamente al suo ex-socio Teodorin Nguema. Il cibo spesso non viene consegnato e quando ciò accade spesso è vecchio o scaduto. Non riceve cure mediche adeguate - ha trascorso, in totale, appena 30 ore non continuative ricoverato nella clinica La Paz di Bata - e ha a disposizione solo qualche aspirina che utilizza per abbassare la febbre. Non riceve visite in carcere, il console quando lo incontra riesce a parlargli solo tramite un portone tenuto semi-aperto dai militari di guardia e mai nella sezione del carcere in cui si trova detenuto, ha trascorso la maggior parte della sua permanenza in isolamento e spesso privato di luce elettrica. All'ambasciatrice italiana Samuela Isopi, non senza forti prese di posizione, è stato permesso di incontrarlo in ambiente controllato. Secondo il legale equatoguineano di Berardi, Ponciano Mbomio Nvò, quello di martedì è l'ennesimo abuso commesso dalla giustizia nguemista: secondo il codice di procedura penale adottato dal piccolo paese africano infatti l'amministrazione giudiziaria è tenuta a prendere in considerazione anche i giorni trascorsi in custodia cautelare in stato di fermo. "Non riconosciamo in alcun modo la data del 7 luglio come fine pena legale per la detenzione di mio fratello: riteniamo ogni giorno di carcere in più un abuso commesso dalla giustizia e dal governo della Guinea Equatoriale. Per noi la condanna terminava il 19 maggio 2015 e non c'è ragione giuridica o umanitaria che non sia così. Roberto è il prigioniero personale del vice-presidente Teodorin" dice il fratello di Roberto Berardi, Stefano. A rendere oltremodo grottesca la vicenda della mancata scarcerazione c'è anche un'implicita ammissione dello stesso Tribunale sull'abuso subito da Berardi con il fermo prolungato perché, ha spiegato la Cancelleria alla delegazione italiana recatasi a Bata, lo stesso Tribunale non intende "rispondere degli abusi commessi dalla Polizia". I recenti eventi si inseriscono inoltre in un quadro giudiziario piuttosto controverso: Berardi è stato accusato dal suo ex-socio di aver distratto alcuni fondi dai conti correnti della società edile di cui erano titolari, la Eloba Construction SA, accuse mai dimostrate nelle carte processuali. A questo si unisce un patteggiamento, nel novembre scorso, dello stesso Teodorin Nguema negli Stati Uniti. Dalle carte del processo americano emerge infatti come i fondi di Eloba siano stati trasferiti in Nord America su conti correnti direttamente collegati all'ex-socio di Berardi, che quindi sembra essere stato il frodatore di se stesso. Il vice capo di Stato africano è inoltre rincorso da mesi da un mandato di cattura spiccato dalla magistratura francese per corruzione e riciclaggio internazionale. In tutto questo, da martedì la Farnesina non ha ancora contattato la famiglia Berardi per informarla della mancata scarcerazione del congiunto e per spiegare cosa sia andato storto. Lo stesso Roberto Berardi non è stato in alcun modo avvisato, apprendendo la notizia semplicemente attendendo il tramonto, privato della razione di cibo. E poi la notte. Amnesty International, che sulla vicenda di Berardi è attiva da tempo, come anche il Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato Luigi Manconi, in un comunicato stampa del 20 maggio ha invocato un intervento concreto del governo italiano, che nei fatti ad oggi ha fatto ben poco per tutelare la sicurezza e i diritti del connazionale detenuto in Guinea Equatoriale. Circa un mese fa il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva inviato una lettera alla famiglia nella quale assicurava ogni assistenza e tutela dell'incolumità di Berardi e lo stesso aveva fatto l'Alto commissario Ue Federica Mogherini. Il 5 maggio era stato il viceministro Lapo Pistelli, in Commissione Esteri alla Camera, a ribadire l'impegno della Farnesina già manifestato dal ministro. Tuttavia dell'"impegno profuso sin da subito" che il viceministro ha sommariamente descritto alla Commissione nei fatti non c'è alcuna traccia tangibile: Roberto Berardi, se mai uscirà dalla galera di Bata, lo dovrà unicamente a se stesso ed agli sforzi della sua famiglia, mai veramente assistita dal Ministero degli Esteri. Ucraina: Amnesty; nuove schiaccianti prove sulle torture e sulle uccisioni di prigionieri di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 maggio 2015 Amnesty International ha diffuso oggi nuove e schiaccianti prove sui crimini di guerra in corso in Ucraina, in particolare torture e uccisioni sommarie di prigionieri ad opera di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Oltre 30 ex detenuti hanno riferito di essere stati picchiati fino a spezzargli le ossa, torturati con la corrente elettrica, presi a calci, accoltellati, appesi al soffitto, privati del sonno per giorni e di cure mediche urgenti, minacciati di morte e sottoposti a finte esecuzioni. Dei 33 ex prigionieri intervistati da Amnesty International - tutti detenuti per vari periodi di tempo tra il luglio 2014 e l'aprile 2015 e incontrati tra marzo e maggio di quest'anno - 32 hanno descritto brutali pestaggi e altri gravi abusi commessi dai gruppi separatisti e dalle forze pro-Kiev. Amnesty International ha corroborato le testimonianze degli ex prigionieri con ulteriori prove, tra cui radiografie di ossa fratturate (vedi foto), cartelle cliniche, fotografie di bruciature e altre ferite, di cicatrici e di denti mancanti. Al momento dell'intervista, due di loro erano ancora in cura in ospedale. I torturatori appartengono ad ambo i lati del conflitto: 17 delle vittime sono state detenute dai separatisti, 16 dall'esercito, dalla polizia e dai servizi segreti di Kiev. Amnesty International ha inoltre ricostruito - sulla base di testimonianze oculari, cartelle cliniche, prove pubblicate sui social network e notizie di stampa - almeno tre casi recenti in cui i gruppi separatisti hanno passato sommariamente per le armi otto combattenti pro-Kiev. In un'intervista, il leader di un gruppo separatista ha apertamente ammesso di aver ucciso soldati ucraini, attribuendosi dunque un crimine di guerra. Alcune delle violenze peggiori vengono commesse in centri non ufficiali di detenzione, soprattutto nei primi giorni. I gruppi che agiscono al di fuori della catena di comando effettiva o ufficiale tendono ad avere comportamenti brutali e fuorilegge. La situazione dal lato separatista è particolarmente caotica: gruppi differenti trattengono prigionieri in almeno 12 diverse località. Quanto al lato pro-Kiev, uno dei racconti fatti da un ex prigioniero nelle mani della milizia nazionalista "Settore destro" è risultato estremamente sconvolgente. "Settore destro" ha preso decine di civili in ostaggio, li ha portati in un centro giovanile in disuso e qui li ha sottoposti a crudeli torture per poi estorcere ampie somme di denaro tanto ai detenuti quanto alle loro famiglie. Amnesty International ha segnalato la vicenda alle autorità ucraine senza ricevere alcuna risposta. Le ricerche di Amnesty International hanno verificato che entrambe le parti hanno arbitrariamente trattenuto civili che non avevano commesso alcun reato, per il mero fatto di aver espresso simpatia per la parte avversa o per organizzare scambi di prigionieri. Amnesty International sta chiedendo alle agenzie e agli esperti delle Nazioni Unite - tra cui il Sottocomitato per la prevenzione della tortura, i Gruppi di lavoro sulle detenzioni arbitrarie e sulle sparizioni forzate e il Relatore speciale sulla tortura - di svolgere una missione urgente in Ucraina per visitare tutti i centri di prigionia, compresi quelli non ufficiali, in cui si trovano persone detenute nel contesto del conflitto in corso. Gran Bretagna: con "Immigration Bill" di Cameron carcere per stranieri senza permesso di Leonardo Clausi Il Manifesto, 23 maggio 2015 L'immigrazione in Uk è in aumento più o meno costante da metà anni Novanta, e la tanto strombazzata crescitina dell'economia nazionale, costruita sulla flessibilizzazione selvaggia e sullo smantellamento del welfare, ha reso una volta di più il Paese quel che sotto molti aspetti è sempre stato: l'America di un'Europa oggi sovradimensionata e nelle tenaglie dell'austerity. C'è insomma poco da meravigliarsi se le ultime cifre dall'ufficio nazionale di statistica (Ons) parlano di 318mila ingressi in più per il 2014. Per la precisione, sono entrate nel Paese 641mila persone, appunto 318mila in più di quelle che ne sono uscite (ovvero il tasso migratorio netto). Si sale di 20mila dal quadrimestre precedente e appena sotto il picco massimo, raggiunto sotto al governo Labour del 2005. E non si tratta solamente dell'incremento degli ingressi dall'Ue (saliti a 42mila soprattutto grazie a quelli da Romania e Bulgaria, raddoppiati in un anno): sono aumentati anche gli ingressi di extracomunitari, a quota 67mila. Si stima inoltre che nel Paese l'accumulo di persone che sono rimaste nonostante la scadenza del visto e di cui s'ignora il domicilio sia di circa 300mila. Una stima: nessuno sa esattamente quanti siano. I Tories sono tradizionalmente anti-immigrazione, ovvio, anche se sanno riconoscere benissimo un flusso costante di manodopera a basso costo come un bene inestimabile. L'importante è che non se ne manifestino troppo i segni vicino a casa loro, o alla scuola dei figli. Ma il recente avvento dell'Ukip costringe Cameron ad una delle sue prodezze d'equilibrismo non solo riguardo sul referendum europeo, ma anche a proposito dell'immigrazione. Si ignora cosa abbia portato il premier a fidarsi di qualche geniale spin doctor che deve avergli detto che portare gli ingressi dei migranti sotto le 100mila unità annuali fosse un obiettivo spendibile già nella campagna elettorale del 2010. Per poi fargli addirittura insistere - recidivo e quindi diabolicum - con la stessa promessa in queste ultime elezioni, vinte quasi per sbaglio. Tuttavia l'immigrazione è pari a circa tre volte il minimo promesso da David Cameron, in un Paese dove certi obiettivi non si sbandierano con troppa facilità, pena la perdita irrevocabile di credibilità. E sì che doveva crederci pure lui, e molto: qualora non fosse riuscito in simile impresa, il premier aveva invitato gli elettori a "mandarlo a casa". Tanta largesse nel promettere impone di solito il famigerato rimedio peggiore del male. Per questo Cameron ha cercato di scrollarsi l'imbarazzo di dosso annunciando, sempre giovedì, una mirabolante controffensiva del governo contro la marea di "turisti sociali" che prima di lanciarsi all'arrembaggio delle isole britanniche studiano meticolosamente la procedura per meglio avvalersi di sanità, alloggi e di tutto il benefit system. Ora costoro, nelle parole del Premier, troveranno "la Gran Bretagna un posto meno piacevole per ingressi e lavoro illegale". Per questo ha promesso che il discorso della corona del prossimo mercoledì 27 conterrà un Immigration Bill volto al controllo dell'immigrazione clandestina e a introdurre il reato di lavoro illegale. I migranti autorizzati a stare ma che lavorano illegalmente potranno essere perseguiti secondo l'Immigration Act del 1971 e subire la condanna sommaria a sei mesi oltre che a una multa. Il Bill punirà anche coloro che lavorano dopo essere entrati illegalmente o sono rimasti oltre lo scadere del permesso di soggiorno. L'immigrazione resta una patata bollente. Ed è uno degli argomenti costati al Labour di Ed Miliband la recente sconfitta elettorale: l'imbarazzato silenzio rispetto al risentimento diffuso nel Paese per la crescente pressione migratoria, che ha abbassato i salari a messo la sanità pubblica sotto pressione, ha istigato il blocco storico della working class laburista tra le braccia dello xenofobo Farage. Dal canto loro, Cameron e il ministro dell'interno Theresa May, resteranno in balia del loro incontrollabile controllo: per uscire dal velleitarismo, alla nuova draconiana legislazione dovranno seguire la rinegoziazione bizantina dei trattati con un'Ue in gran parte fredda verso le esigenze di Londra, ma soprattutto una qualche piega favorevole nei flussi del mercato del lavoro europeo. Nepal: 20 detenuti morti nelle carceri crollate durante il sisma di Christopher Sharma asianews.it, 23 maggio 2015 Varie Ong denunciano "ancora oggi la presenza di persone chiuse in strutture danneggiate e pericolanti". Il 55% delle carceri è crollato e non potrà essere riutilizzato. Il governo non fornisce i dati ufficiali sul numero di carcerati morti durante il terremoto del 25 aprile. Le famiglie chiedono che sia garantita la sicurezza dei sopravvissuti e il trasferimento in altri luoghi. "Sono almeno 20 i prigionieri morti durante il sisma e più di 100 sono rimasti feriti. Ma non disponiamo dei dati ufficiali e temiamo che il numero sia molto più alto". È la denuncia di Sudip Pathak, attivista e membro della Commissione nazionale per i diritti umani del Nepal. Secondo fonti non ufficiali infatti, il violento terremoto che ha colpito il Paese il 25 aprile - e che ha superato le 8mila vittime accertate e 17mila feriti - ha distrutto o danneggiato più della metà delle prigioni nepalesi. Tra i 20 prigionieri morti nel crollo delle case detentive, almeno 16 si trovavano nel carcere centrale di Kathmandu. Ora i parenti delle vittime e attivisti chiedono al governo di garantire la sicurezza di chi è sopravvissuto. Pathak critica l'inefficienza del governo "nel garantire la sicurezza di coloro che si trovano sotto il suo controllo. Continuare a detenere i prigionieri in strutture vecchie, fatiscenti e danneggiate è un crimine di Stato. Il governo non è in grado di fornirci i dati esatti sulla capienza totale delle prigioni, il numero dei detenuti - distinto tra cittadini e stranieri - e dei feriti. Questo non è un governo democratico. Siamo riusciti a raccogliere le informazioni non ufficiali da varie organizzazioni non-governative, dato che lo Stato ha paura delle vittime". Bed Bahadur Karki, guardia carceraria della prigione centrale della capitale, conferma il numero di 16 vittime - tutte di nazionalità nepalese - ma non sa dare informazioni sulla situazione delle altre carceri. "Circa 200 persone erano presenti durante la scossa di terremoto. Tutti sono terrorizzati ma non abbiamo soluzioni alternative e non possiamo spostarli in un'altra area. I detenuti sono morti a causa del collasso dei vecchi edifici, quando le pareti si sono accartocciate su di loro", riferisce. Nira Tamang, vedova di Som Bahadur Tamang deceduto nella prigione centrale, ha ricevuto il corpo del marito defunto. La donna denuncia ad Asia News: "I crimini devono essere puniti ma il Paese non ha il diritto di uccidere le persone, costringendole a vivere in luoghi fatiscenti che possono crollare in ogni momento". "Mio marito - continua - sarebbe dovuto uscire dal carcere una settimana dopo. Ma è stato ucciso. Il governo deve pagare per tale crimine. Tutti i detenuti sopravvissuti soffrono di traumi psicologici, perché la polizia non gli consente di uscire all'aperto nemmeno quando la terra trema". Puskar Karki, Capo della Divisione investigativa della polizia a Kathmandu, si difende dalle accuse: "Noi ci occupiamo degli arrestati imputati di qualche crimine, ma dopo il trasferimento all'amministrazione penitenziaria non abbiamo più nulla a che fare con loro". Anche Surya Siwal, segretario del ministro degli Affari interni, non si assume la responsabilità di quanto accaduto: "Noi trattiamo in modo serio la questione, ma le conseguenze di simili disastri naturali sono al di là del nostro controllo. Stiamo fornendo le cure necessarie ai sopravvissuti e progettando dei posti più sicuri". Secondo i dati diffusi dal governo, il 55% delle case detentive nelle zone colpite dal terremoto non sono in condizioni di sicurezza e poche di queste potranno essere riutilizzate. Nel Paese ci sono circa 17.000 reclusi in 72 distretti del Paese. Durante il terremoto del 25 aprile il 90% degli edifici della capitale ha riportato seri danni strutturali e il governo nei giorni scorsi ha deciso di sospendere tutti i progetti di costruzioni approvati in precedenza perché "non soddisfano i criteri di pubblica sicurezza". Stati Uniti: detenuto malmenato un chiede maxi-risarcimento, licenziati due poliziotti direttanews.it, 23 maggio 2015 Negli Stati Uniti, due poliziotti sono stati licenziati per aver picchiato un detenuto ammanettato all'interno di una cella del Dipartimento di Las Cruces, New Mexico. Ripresi dalle telecamere, i due ora rischiano di ritrovarsi imputati a processo dato che il galeotto 47enne Ross Flynn è intenzionato a chiedere anche risarcimenti milionari alla città. L'uomo (in carcere da dicembre per aggressione armata e resistenza a pubblico ufficiale) nel pestaggio avrebbe riportato un trauma cranico, fratture alle costole e contusioni multiple. Nel video registrato dalle telecamere di sorveglianza, si può vedere come Flynn prenda a calci la grata della cella per richiamare l'attenzione di qualcuno. A quel punto, due agenti (Richard P. Garcia e Danny Salcido), senza alcuna ragione apparente, iniziano a malmenare l'uomo con spintoni e ginocchiate, scaraventandolo contro il muro e poi sul pavimento. Di seguito, le immagini dell'accaduto.