Giustizia: il diritto penale piegato al consenso di Giovanni Fiandaca (Ordinario di Diritto penale all'Università di Palermo) Il Mattino, 22 maggio 2015 Il diritto penale è anche una risorsa politica e comunicativa. Non è, quindi, un caso che esso occupi così tanto spazio nel dibattito pubblico e nella scena mediatica. Dal canto loro, le forze politiche soggiacciono alla ricorrente tentazione di creare nuovi reati, o di modificare in senso più rigoristico reati preesistenti, non già in base alla ragionevole certezza (suffragata da studi empirici) che ciò serva davvero a scopi di prevenzione. Si accontentano di perseguire un consenso facile o a basso costo strumentalizzando politicamente, a loro vantaggio, i potenziali effetti psicosociali prodotti dalla forza comunicativa del diritto penale. Prospettare risposte punitive più rigorose - anche m forma di pubblico annuncio di nuove norme ancora da approvare - funge, infatti, da messaggio con funzione rispettiva: o di ansiolitico per un'opinione pubblica impaurita dalla criminalità comune; oppure, di mezzo volto a soddisfare l'indignazione collettiva e le pulsioni aggressive provocate dal fenomeno della corruzione e dalle altre forme di criminalità dei colletti bianchi. E, per intuibili sinergie, m questa strumentalizzazione politica della pena confluiscono oggi tendenze giustiziali ste e atteggiamenti populisti di varia matrice (di destra come di sinistra). Ma il diritto penale è una comoda risorsa politica anche per la magistratura; specie per una magistratura che, come quella italiana, ingaggia un persistente conflitto col potere politico. Non a caso, una pressante richiesta di strumenti repressivi nuovi e più incisivi continua a prevenire da quella parte della magistratura, Anm inclusa, che tende a drammatizzare il rischio-criminalità organizzata e il rischio-corruzione. Quale che sia l'effettiva entità di tali rischi (diagnosi e prognosi risultano, quasi sempre, più impressionistiche che basate su affidabili analisi empiriche), e aldilà della obiettiva esigenza di prevenirli, la valenza politica della richiesta di un penale più incisivo è questa: disporre di strumenti ancora più agguerriti per contrastare fenomeni criminali connessi all'attività politico-amministrativa comporta un accrescimento del potere di controllo e di intervento della magistratura penale, in chiave di contropotere antagonistico nei confronti del potere politico ufficiale (considerato anche nelle sue interazioni col mondo economico-imprenditoriale e con l'insieme dei ceti dirigenti). Ma non basta. La richiesta di un penale più efficace può funzionare da risorsa politica - e non è un paradosso - anche quando governo e parlamento rifiutano in tutto o in parte di avallarla; delusa nelle aspettative, la magistratura strumentalizza infatti la sua delusione riattivando il conflitto con la politica; e lo rinnova appunto contestandole di non voler fare sul serio contro l'illegalità diffusa e, dunque, addebitandole atteggiamenti di tolleranza se non di implicita collusione con i poteri criminali. Un'ennesima esemplificazione di un tale processo alla politica si è avuta di recente: si allude alle critiche dell'Anni e della Commissione Riforme del Csm alle modifiche normative m materia di corruzione e prescrizione, definite disorganiche e insufficienti. Ora, a prescindere dal merito tecnico di tali critiche, quel che ancora una volta emerge è la pretesa della magistratura di additare ai decisori politici i contenuti delle scelte di politica penale. Come se fosse una pretesa non solo legittima, ma scontata. È così? Forse, sul piano delle concrete dinamiche di potere che nell'ultimo ventennio hanno inciso - per dir così - sulla costituzione materiale del nostro paese. Diversamente stanno le cose, come dovrebbe apparire pacifico, se guardiamo all'impianto della Costituzione del 1948: a tenore della quale non spetta certo al potere giudiziario impartire direttive politiche generali in materia penale. Il discorso toma, così, sul ruolo politico che la magistratura di fatto esercita fuori dal disegno costituzionale. Prenderne atto, beninteso, non equivale ad emettere pregiudiziali e indiscriminate condanne delegittimatrici, sorrette da interessi partigiani. Nell'ottica dello studioso, il problema dello straripamento politico dei magistrati costituisce da tempo una oggettiva emergenza costituzionale, da affrontare perciò senza spirito di parte. E l'entrata in crisi del berlusconismo anti-giudici dovrebbe, d'ora in avanti, rappresentare una condizione favorevole a una discussione pubblica meno pregiudicata da contrapposte tifoserie. Una cosa è fuori discussione. Anche se a una buona parte dei magistrati forse (e per comprensibili ragioni) non piace, la tesi che attribuisce loro un ruolo politico costituisce una verità acquisita tra i politologi e gli altri scienziati sodali. A riprova, basti leggere un articolo ancora recente di Ilvo Diamanti, pubblicato peraltro su di un giornale non ostile nei confronti dei giudici (cfr. Repubblica del 13 aprile 2015), nel quale sono ben sintetizzati i fattori causali che hanno reso i magistrati attori politici di rilievo. Non ci sarebbe molto da aggiungere. Come pure è un incontestabile dato di fatto che questo esercizio di funzioni politiche rilevanti ha, a sua volta, agevolato il passaggio di non pochi esponenti del mondo giudiziario all'attività politica tout court, nelle vesti di parlamentari o di membri del governo o di sindaci e amministratori locali. Con quali conseguenze? Certo, il principio della divisione dei poteri ne esce tutt'altro che rafforzato. Anzi, nella percezione pubblica si assiste al diffondersi di identità ambivalenti o confusive, nel senso che il magistrato-politico esibisce un volto bifronte: agli occhi dei cittadini, anche da politico mantiene la sua immagine di magistrato; e questa fluidificazione di confini può, per altro verso, rafforzare nella gente l'impressione che il magistrato sia a suo modo anche un politico. Conseguenza: la distinzione di ruoli finisce con lo scolorare fin quasi a venir meno. Questa percezione pubblica confusiva giova alla credibilità del potere giudiziario come potere autonomo e indipendente? Verosimilmente, no. Ma l'accresciuta politicizzazione dei magistrati non sembra far bene neppure alla politica in sé considerata. E ciò sotto svariati aspetti, tra i quali sono tutt'altro che secondari quelli che hanno a che fare conia crescita dei sentimenti antipolitici e antipartitici. È abbastanza plausibile, come ha rilevato Romano Prodi nel suo recente libro-intervista (ed. Laterza), che metodi giudiziari à la Di Pietro abbiano acceso la miccia di un populismo destinato, successivamente, a proliferare m forme non solo più direttamente politiche, ma anche giudiziarie o politico-giudiziarie (rinvio in proposito a un mio saggio pubblicato nella rivista Criminalia del 2013). Complice, naturalmente, la potente azione di sostegno che una non piccola parte del sistema mediatico ha realizzato a favore di una giustizia penale rappresentata come istanza politicamente ed eticamente salvifica. Come rendere i persistenti intrecci tra giustizia e politica-antisistema? L'aspetto forse più problematico consiste nel fatto che si è andato diffondendo - e non soltanto in ambienti di sinistra o di orientamento antipolitico - un senso comune che giudica ormai cosa normale, o fenomeno ineluttabile l'impegno politico dei giudici. A maggior ragione, questo modo di vedere si è consolidato all'interno dell'universo giudiziario, in particolare nei settori di vocazione progressista. Sicché, anche se la politica riuscirà in futuro a recuperare un ruolo forte, non è detto che ne conseguirà automaticamente un ridimensionamento della tendenza dei magistrati a operare anche come attori politici. Sarebbe, nondimeno, auspicabile che l'esigenza di ridurre il coefficiente di (inevitabile) politicità della giurisdizione tornasse ad essere avvertito come un dovere costituzionalmente imposto. Solo che, quando parlano di Costituzione, non tutti i magistrati intendono oggi la stessa cosa. Che il pluralismo si sia spinto sino a questo punto, è un fatto che complica una realtà complessiva già abbastanza complicata. Giustizia: la "questione morale" esiste e brucia… è il populismo di Piero Sansonetti Il Garantista, 22 maggio 2015 Tutti sanno che i terroristi non vengono coi barconi, però gridano: "dobbiamo difenderci, bombardiamo i barconi". Sono scemi? Sì, ma nessuno glielo dice, invece gli battono le mani e gli danno i voti. Eccolo lì: un altro mostro innocente. Abdel Majid Touil, 22 anni, è solo un ragazzo marocchino che vive a Milano e studia, la sera, la nostra lingua. Non è il terrorista che ha fatto strage al museo di Tunisi e ha ucciso, tra gli altri, quattro italiani. Stavolta la nostra magistratura è innocente. Ha ricevuto la richiesta di arresto dai giudici tunisini e ci ha messo nemmeno quarantotto ore per accertare che Abdel ha l'alibi di ferro. Ora sta indagando ancora, per cercare di capire se non ci siano altri reati per i quali perseguirlo, e speriamo che faccia in fretta. La nostra magistratura è innocente, stavolta, la nostra politica e la nostra stampa no. Hanno fatto, in allegria, il solito gioco del linciaggio. E incredibile la faccia tosta con la quale la nostra politica e gran parte della nostra stampa il mercoledì gridano al mostro e chiedono di bombardare i barconi dei migranti, e il giovedì mattina, quando si scopre che era una bufala, invece di modificare le proprie dichiarazioni e di ritirare le proprie richieste, e magari di chiedere scusa, fanno finta di niente. Ieri ho avuto uno scontro, in Tv, con una parlamentare - per altro tra le meno esagitate sul tema immigrazione - che quando è risultata abbastanza chiara l'innocenza del giovane marocchino, ha detto: "Vabbè, sarà innocente per la strage, ma è un clandestino e quindi viola la legge. Perché non è stato espulso?". Che è come dire a uno accusato di uxoricidio: "d'accordo non hai ucciso tua moglie però giovedì sera hai lasciato in disordine la cucina". Si può anche scherzare su questo malcostume di stampa e politici (per esempio c'è Salvini che ormai quasi tutti i giorni chiede le dimissioni di Alfano, nemmeno lui sa perché...) ma non penso che sia giusto sottovalutare le enormi conseguenze di questi loro comportamenti. In questi giorni, per esempio, tutto è condizionato dalla campagna elettorale. Siccome è noto che a difendere gli immigrati si perdono voti e se invece si chiede il loro annientamento i voti si guadagnano, allora non si trova più un politico disponibile a ragionare con la propria testa. Chiunque - soprattutto a destra, ma non solo - prima di rilasciare una dichiarazione dà un occhio ai sondaggi. E i sondaggi dicono che una parte largamente maggioritaria dell'opinione pubblica vuole che sia innalzata una barriera contro la gente che sbarca in Italia fuggendo alle guerre e alla fame. E per di più ha una discreta paura del terrorismo. E allora i politici - e i giornali: non si sa chi sia quello che ha cominciato per primo - fanno la corsa a mischiare i problemi della difesa dal terrorismo coi problemi dell'accoglienza dell'emigrazione. È chiaro, a chiunque non abbia in sdegno l'idea di far funzionare il proprio cervello, che i due problemi sono distanti anni luce l'uno dall'altro. La prevenzione dal terrorismo la fanno i servizi segreti, che cercano di avere informazioni, di realizzare infiltrazioni, di monitorare i pericoli, di collegarsi ai servizi segreti stranieri. Opera difficilissima, specie in democrazia. E dai risultati incerti. E della quale, peraltro, noi profani - e cioè anche noi giornalisti e loro politici - capiamo pochissimo. Però non ci sembra vero poter dire: fermiamo i barconi, fermiamo i barconi, bombardiamoli! Ora si può discutere quanto si vuole sui problemi dell'immigrazione e ci possiamo dividere tra chi pensa - come il sottoscritto - che l'unica via sia quella di finanziare l'accoglienza e organizzare corridoi umanitari gestiti dallo Stato italiano sul Mediterraneo, e chi invece pensa che si debba contrastare l'arrivo degli scafi pieni di profughi. Ma in nessun caso si può pensare che il potente terrorismo arabo abbia bisogno dei barconi per arrivare in Italia. Tra l'altro c'è da dire che finora l'Italia, cioè il paese dei barconi, è uno dei pochi paesi europei a non esser stato colpito dal terrorismo. Lo scandalo degli scandali, sollevato soprattutto dalla Lega, è che il ragazzo del Marocco accusato di essere un terrorista era arrivato qui col barcone. Però, in ogni caso, l'attentato non è stato a Brescia ma a Tunisi. Quindi questo ragazzo sarebbe arrivato col barcone, poi avrebbe preso un aereo a Malpensa e sarebbe andato a Tunisi, avrebbe fatto l'attentato e poi avrebbe preso un aereo di ritorno. Dunque, anche in questo caso fantasioso, cosa c'entrano i barconi? Oppure vogliamo chiudere gli aeroporti? Dice: almeno cancelliamo Schengen! Già, ma Schengen non vale per la Tunisia. Insomma: idiozie. Idiozie pure. Che però non creano alcun danno a chi le pronuncia. Anzi, gli procurano voti e popolarità. Creano danni a chi cerca di darsi da fare per governare una situazione difficilissima come l'ondata migratoria e fuggiasca dall'Africa. E naturalmente creano danni ai profughi, e a tutti gli immigrati, perché alimentano una ventata di razzismo che sta travolgendo il nostro paese. (Quando sentite dire: "no, l'Italia non è un paese razzista", sentite semplicemente una frase fatta. Frase fatta e menzognera: l'Italia è sempre più un paese razzista, dove il peso sull'opinione pubblica della Lega è superiore a quello esercitato da Pd e Forza Italia e Ncd messi insieme). E allora si pone un grande problema. Secondo me si pone un vero e proprio problema morale. Io credo che oggi la questione morale esista, e non riguardi le tangenti e la corruzione (che sfiorano appena il mondo politico, e senza danni enormi per la comunità) ma sia il populismo. Cos'è il populismo? Si può definire in tanti modi. Io lo definisco per "sottrazione" Cioè, so cos'è che il populismo non è e non ha: non ha nessun valore, né di sinistra né di destra; non ha senso della comunità e dello Stato, cioè è privo del senso dell'interesse generale; non ha idee, non solo per pochezza culturale ma perché le idee "vincolano" le politiche, e dunque ostacolano la libertà di "vuotezza" del quale il populismo ha bisogno. Il "populismo" è la rinuncia a produrre pensiero e politica e l'attitudine a cavalcare la "pancia" dell'opinione pubblica, per assecondarla e trarne benefici politici. Io penso che il populismo sia la vera corruzione politica. Anche perché la corruzione finanziaria "ferisce" ma non uccide la politica e la democrazia. Il populismo uccide la politica e le idee. Se nei partiti nessuno ha il coraggio di aprire questa "questione morale", la politica italiana è destinata a morire. I flebili tentativi del Pd, e talvolta anche del centrodestra non leghista, di opporsi a Grillo e a Salvini sono destinati ad essere sconfitti. Sono troppo subalterni, impauriti, sottovoce. Il centrodestra e il centrosinistra possono salvarsi solo se aprono la questione morale del populismo. Certo devono fare un passo indietro: devono convincersi che per fondare la terza Repubblica c'è bisogno di recuperare molte idee e molte abitudini della prima Repubblica. Bisogna gridare che Craxi, Andreotti, De Mita e Berlinguer erano degli statisti. Salvini e Grillo - e molti altri in ogni schieramento politico - sono mercanti di voti, senza idee e senza morale. Giustizia: la battaglia Radicale per il diritto di voto dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Garantista, 22 maggio 2015 Donato Salzano, Segretario salernitano del partito di Pannella, sollecita le istituzioni a garantire l'esercizio dell'elettorato attivo al detenuti che ne hanno ancora diritto. Ritorna l'annoso problema sulla difficoltà dei detenuti di esercitare il diritto di voto. Il 31 maggio si avvicina e per le elezioni Regionali in Campania si ripropone questo antico problema mai completamente risolto a livello nazionale, oltre che locale. Il diritto di voto, dietro le sbarre, è sempre risultato difficile da applicare per via della burocrazia e i Radicali, ancora una volta, si stanno battendo affinché sia esercitato. In Campania, in vista delle elezioni, i Radicali di Salerno ha intrapreso una lotta per garantire il voto dei detenuti ristretti nelle carceri campane. Il segretario dei radicali campani, Donato Salzano, fa sapere di una lettera aperta inviata praticamente a tutti i soggetti istituzionali o comunque toccati dalla questione. Tra questi, lo stesso sindaco De Luca oltre che il prefetto Vicario di Salerno e i sindaci locali, il provveditore regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, cappellani penitenziari (compreso Don Franco Esposito di Poggioreale), l'arcivescovo di Salerno e i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza. Nel comunicato, oltre a evocare l'incontro tra Andrea Orlando e i Radicali nelle persone di Marco Pannella e Rita Bernardini, voluto dal ministro della Giustizia, si fa riferimento "all'ennesimo attentato ai diritti civili e politici dei detenuti", per via delle lungaggini delle procedure amministrative che, troppo spesso, non consentono ai ristretti di votare. Il riferimento è a quelle svariate migliaia di detenuti che, pur avendo ancora diritto all'elettorato attivo (come quelli in attesa di giudizio) sono di fatto impossibilitati ad esercitarlo. Donato Salzano e Radicali Salerno, dunque, chiedono agli enti preposti di attivarsi affinché siano rispettate la legge 299/2000 e la Risoluzione prima firma Bernardini numero 8/00126 del 2012. Rispettivamente, tali testi prevedono, mediante sinergie con i locali uffici elettorali, il recapito delle tessere elettorali ai detenuti che ne sono sprovvisti o, al loro posto, documenti sostitutivi firmati dai rispettivi sindaci; previsto dalla Risoluzione, invece, l'impegno dei direttori delle carceri di dare pubblicità e visibilità al voto, alle modalità e ai candidati in lizza con le varie liste, affinché tutti i ristretti possano scegliere se esercitare o meno il loro diritto per poi comunicarlo per iscritto mediante apposita dichiarazione ai direttori. Non è un caso che alle elezioni, in media, votano solo il 10 per cento dei detenuti perché esercitare il diritto di voto è, in sostanza, assai complesso: comprende una serie di passaggi burocratici che coinvolgono, oltre al detenuto elettore (che deve essere munito di tessera elettorale), il direttore dell'istituto di pena, il sindaco del luogo di residenza e il sindaco del luogo di detenzione. Tutte procedure da svolgere in tempi stretti e che chiamano in causa diverse istituzioni ma che sono propedeutiche all'allestimento dei seggi nelle carceri ed è per questo che Radicali Salerno chiede a tutti i destinatari della lettera aperta, di attivarsi per rendere quanto più celeri le pratiche da sbrigare. Una vicenda che riguarda ulteriori violazioni della legalità dietro le sbarre, che si aggiungono a quelle già denunciate da un'associazione attiva soprattutto sul fronte della malasanità in carcere e dei "trattamenti inumani e degradanti" ma anche nella vicenda della chiusura degli Opg e relativi sviluppi, anch'essi evocati nel comunicato odierno dove si critica, inoltre, la scelta di Orlando di convocare a Bollate - definito carcere "norvegese" - e non nelle disastrate carceri del Sud, gli Stati Generali delle carceri. Ma il diritto di voto per i detenuti, comunque sia, rimane inapplicato nei confronti di chi sta scontando una pena superiore ai 5 anni. Ma per i giudici europei è giusto. Con una sentenza definitiva del 2012, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la legge italiana che nega il diritto di voto a chi è stato condannato a una pena di oltre cinque anni non viola la convenzione europea dei diritti dell'uomo. La sentenza emessa da Strasburgo va in senso contrario a quella con cui il 18 gennaio del 2011 l'Italia era stata condannata per la violazione della libertà di voto dei detenuti. Secondo i giudici, che hanno accolto le tesi presentate dal governo italiano nel ricorso contro la prima sentenza, la legge italiana non impone, come invece era stato stabilito nella prima sentenza, una restrizione generalizzata, automatica e indiscriminata del diritto di voto dei detenuti. "La legge italiana, nel definire le circostanze in cui un individuo può essere privato del diritto di voto, mostra che l'applicazione di questa misura è legata alle circostanze particolari di ogni caso e che vengono presi in considerazione fattori come la gravità del reato commesso e la condotta del detenuto", viene sottolineato nella sentenza. Ma soprattutto i giudici europei hanno tenuto conto, nell'assolvere l'Italia, che una volta scontata la pena, l'ex detenuto, attraverso la norma che regola la riabilitazione, può riottenere il diritto di voto. Ma prima di allora no, la democrazia per l'interdetto può venire tranquillamente sospesa. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari aboliti per legge, ma perché sono ancora aperti? di Marcello Calvo Giornale d'Italia, 22 maggio 2015 Mancano le strutture chiamate a sostituirli, le Regioni non hanno soldi a sufficienza. Gli ospedali psichiatrici giudiziari, quelli che per decenni hanno rappresentato un'autentica vergogna di Stato, avrebbero dovuto chiudere i battenti lo scorso 31 marzo 2015. Per via di quella legge entrata definitivamente in vigore ormai da 2 mesi, che prometteva di far calare il sipario sugli ex manicomi criminali. Da quel momento in poi si sarebbe dovuto procedere alla dismissione progressiva dei vecchi ospedali (6 in Italia) per i malati di mente che si sono macchiati di un crimine. Con i pazienti ritenuti pericolosi e quindi non dimissibili - come spiega l'Espresso - da affidare alle Rems (Residenze per l'Esecuzione della Misura di Sicurezza Sanitaria), strutture di cura dalle dimensioni ridotte (massimo 20 ricoverati alla volta), completamente in carico alle Regioni. Mentre gli altri da "consegnare" nelle mani delle Asl e dei dipartimenti di salute mentale. Tant'è, le disposizioni sembrano essere state oltraggiate. Con la legge 81, che prevedeva che venissero interrotte le immissioni in ospedale psichiatrico, forse violata, Perché il più delle volte non c'è spazio nelle Rems, Ma non solo. A regnare è il menefreghismo più totale, anche da parte delle istituzioni. Che sul caso, latitano. Norme probabilmente disattese e polemiche messe a tacere, Anche grazie alla negligenza della stampa italiana per nulla appassionata a questa storiacela. Con decine e decine di persone (che hanno commesso un reato ma sono state prosciolte perché affette da disturbi) prigioniere in quello che un tempo rappresentava a tutti gli effetti un manicomio criminale, l'ospedale Castiglione dello Stiviere, in Lombardia. Struttura che assomiglierebbe a un vero e proprio lager e ora viene fatto passare per un Rems, Le condizioni sono infatti degradanti. La struttura, fatiscente. Muri scrostati dall'umidità e pieni di muffa, con i ristretti lasciati il più delle volte senza cure e costretti in condizioni disumane. Trattati - sostengono in tanti - come degli animali, condannati a scontare quello che in molti hanno definito un "ergastolo bianco". Perché la loro misura di sicurezza può essere anche prorogata illimitatamente visto che il più delle volte gli internati non possono offrire elementi concreti per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. Quando vi entrano, dunque, rischiano di non uscirvi più. Se non da morti. Lo scandalo continua, con i socialmente pericolosi "rifiutatì ‘ dai loro territori perché mancano le risorse. Cronaca di un fallimento annunciato. Nessuna inversione di rotta, tantomeno cambiamenti. Dovevano essere carceri e ospedali. Non si sono rivelati né l'uno e né l'altro. Soltanto schifezze che hanno negato a esseri umani, seppur' instabili mentalmente (non è il caso di tutti), la possibilità di curarsi. Con la tanto decantata "rieducazione" (ove possibile) che, ancora una volta, è andata a farsi benedire. Ecco la fotografia di una situazione paradossale, all'italiana. Inconcepibile per qualsiasi paese civile. Ma forse non è questo il caso. Giustizia: ok Camera all'anticorruzione, diventa legge il festival degli aumenti di pena di Errico Novi Il Garantista, 22 maggio 2015 Esulta Orlando, Grasso sfotte ("è arrivato Godot") ma ai grillini non basta. e alla, fine un deputato di Sel sbotta: "ma avete capito che sono anni di galera, non numeri?". Diventa legge con 280 voti la fiera delle pene innalzate. Prende definitivamente forma nell'Aula di Montecitorio un disegno di legge Anticorruzione fortemente voluto da Pietro Grasso, che chiosa con ironia "è arrivato Godot", a stento attenuato nelle sue asprezze maggiori dal guardasigilli Andrea Orlando, che pure lo festeggia, e ritenuto comunque timido dai Cinque Stelle. I quali vorrebbero alzare le pene anche per reati come il voto di scambio politico-mafioso, pure riformato da poco, e che vanno a battere contro l'esausta imprecazione di un deputato di Sel, Arcangelo Sannicandro: "Ma lo volete capire con non sono numeri, sono anni di carcere?". Boato di liberazione dell'emiciclo. Ecco i punti più significativi del provvedimento, che introduce, innanzitutto, una stretta sui delitti contro la Pa. Viene infatti visibilmente rafforzato il dispositivo normativo con 1'aumento delle pene per i principali reati contro la pubblica amministrazione: peculato (da 4 a 10 anni e 6 mesi), corruzione propria (da 6 a 10 anni) e impropria (da uno a 6 anni), induzione indebita (da 6 a 10 anni e 6 mesi). Quanto alla corruzione in atti giudiziari (da 6 a 12 anni nell'ipotesi base), la pena può salire fino a 20 nei casi più gravi. Restano invece invariate le sanzioni della concussione, che viene però estesa anche all' incaricato di pubblico servizio. La legge prevede sconti per i pentiti. Chi collabora potrà infatti godere di uno sconto di pena da un terzo a due terzi. L'attenuante per ravvedimento operoso è riconosciuta a chi si adopera efficacemente per evitare conseguenze ulteriori del delitto, per assicurare le prove e individuare i colpevoli o per il sequestro delle somme trasferite. A subire un sostanzioso inasprimento è anche il quadro sanzionato-rio del 416 bis: da 10 a 15 anni (oggi è dai 7 ai 12) la pena per chi partecipa a un'associazione mafiosa, da 12 a 18 anni (anziché 9-14) per chi la organizza o dirige. Se poi l'associazione mafiosa è armata, si può arrivare per i promotori anche fino a 26 anni di carcere. C'è poi la parte sul falso in bilancio, con le false comunicazioni sociali che tornano ad essere un delitto punito con il carcere. Se la società è quotata, chi commette il falso in bilancio rischia la reclusione da 3 a 8 anni; se non quotata, da uno a 5 anni. Si procede sempre d' ufficio, a meno che non si tratti di piccole società non soggetto al fallimento, per le quali vale una sanzione ridotta (da 6 mesi a 3 anni). Sanzione ridotta anche nel caso di fatti di lieve entità, mentre è prevista la non punibilità per gli illeciti di particolare tenuità. L'uso di intercettazioni è possibile solo nel falso in bilancio di società quotate. Quanto alla responsabilità amministrativa degli enti, raddoppiano le sanzioni pecuniarie (fino a 600 quote nel caso di società in borsa e a 400 per le non quotate). Il testo prevede poi la restituzione del maltolto. Nei reati più gravi contro la P.A., infatti, non si potrà più patteggiare se prima non si è integralmente restituito il prezzo o il profitto del reato. In caso di condanna, il colpevole è comunque sempre obbligato a pagare l'equivalente del profitto o quanto illecitamente percepito. La riparazione pecuniaria nei confronti dell'amministrazione lesa è condizione per accedere alla sospensione condizionale della pena. Giro di vite anche sulle pene accessorie, con licenziamento dei corrotti più facile. Per licenziare un dipendente pubblico corrotto basterà ora la condanna a 2 anni di carcere, mentre il divieto di contrattare con la Pa potrà arrivare fino a 5 anni. Aumenta il peso dell'Autorità nazionale anticorruzione, che dovrà essere informata dai pm ogniqualvolta si proceda per reati contro la Pa. All'Anac, inoltre, è attribuito il controllo sui contratti extra codice degli appalti (perché segretati per esempio o che esigono particolari misure di sicurezza). Giustizia: la nuova anticorruzione è legge, al via le maxi-sanzioni per i reati contro la Pa di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 "È arrivato Godot!". Cita Beckett, Piero Grasso, "felice" per l'approvazione definitiva della legge anticorruzione, che porterà il suo nome perché nasce dal suo primo, e unico, Ddl presentato a Palazzo Madama all'inizio della legislatura, prima di essere eletto presidente del Senato. Sia pure in una versione riveduta e corretta dal Parlamento e dal governo, quel testo ha tagliato ieri il traguardo in un'Aula poco affollata (i presenti erano poco più del numero legale), con 280 sì, 11 astenuti della Lega e 53 contrari, Forza Italia e (per motivi opposti) i 5 Stelle, che inutilmente hanno cercato di far passare qualche loro emendamento, ritenendo la legge "timida, senza coraggio, un'occasione persa". La risposta del premier Matteo Renzi non s'è fatta attendere, via Facebook: "Chi urlava onestà ha votato contro la legge che più di ogni altra contrasterà la corruzione". Da Facebook a Twitter, è stata una pioggia di post e cinguettii di governo e maggioranza. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando twitta che "da oggi l'Italia è più forte" dopo aver parlato, a Montecitorio, di "sconfitta di quanti scommettevano che non sarebbe stato raggiunto l'obiettivo". Stesso refrain da Renzi: "Anticorruzione e falso in bilancio sono legge. Quasi nessuno ci credeva. Noi sì. Questo paese lo cambiamo, costi quel che costi". Prima del voto, dal teatro di Vicenza, aveva anche sostenuto che "nel ddl anticorruzione ci sarà la sostanziale cancellazione della prescrizione". Cinguetta anche Angelino Alfano: "Restituzione del maltolto, pene più dure e certe: legge anticorruzione conferma nostro impegno nella lotta senza tregua ai corrotti", sebbene un altro cinguettio, di Alessandro Pagano, ha il sapore di un avvertimento: "Da oggi pene certe e aumentate per i corrotti. Contributo Ncd-Area popolare determinante. Ora il Senato modifichi prescrizione per evitare processi infiniti". È sulla prescrizione, infatti, che si spostano i riflettori: il ddl Ferranti approvato dalla Camera, e adesso a Palazzo Madama, aveva infatti quasi raddoppiato i termini per i reati di corruzione (come annunciato da Renzi), portandoli a 18 anni (21 se si considerano le sospensioni di fase) ma Ncd ha ottenuto l'impegno di Orlando di rivedere al ribasso quel risultato subito dopo l'approvazione della legge Grasso, che aumenta le pene dei reati di corruzione aumentando così, indirettamente, anche il termine di base per il calcolo della loro prescrizione. "La norma dovrà essere coordinata con il ddl sulla prescrizione al Senato - incalza il viceministro Enrico Costa dell'Ncd - la cui funzione non va svilita ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, del diritto di difendersi provando e della presunzione di innocenza". Della prescrizione ha parlato anche il presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, auspicando "una riforma complessiva e una norma ad hoc per i reati di corruzione" ma precisando anche di considerare "congruo" un termine di 15-18 anni, decorso il quale "punire un soggetto non ha più senso". Quanto alla legge anticorruzione, la definisce "quanto di meglio possibile". Ma la legge Grasso - che reintroduce il reato di falso in bilancio, aumenta i minimi e i massimi delle pene di quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (tranne corruzione fra privati e traffico di influenze illecite), prevede "sconti" della pena per chi collabora, inasprisce le sanzioni per i reati di mafia, esclude il patteggiamento per i reati più gravi di corruzione se prima non si restituisce integralmente il "maltolto", introduce un giro di vite sulle pene accessorie e dà più poteri all'Anac - è apprezzata anche dall'Anm. "Si è intrapresa la via giusta, che va proseguita" dice Rodolfo Sabelli, pur rammaricandosi di quanto resta fuori: un più ampio accesso alle intercettazioni, specie ambientali; la possibilità del ritardato sequestro per consentire la continuazione delle investigazioni; un più incisivo intervento sul traffico di influenze e sulla corruzione privata. Sabelli auspica che ora "si proceda con un approccio strutturale su materie di sicuro rilievo, come la prescrizione". L'iter parlamentare del ddl Grasso è stato rallentato, prima, dai contrasti con il Pdl, poi dall'uscita di Fi dalla maggioranza e, a seguire, dal cambio di governo, dagli annunci di Renzi non seguiti da testi e dalle richieste dell'Esecutivo al Parlamento di aspettare comunque le sue proposte, varate però solo ad agosto e materializzatesi a gennaio sotto forma di emendamenti. Approvato ad aprile, il ddl ha avuto uno sprint alla Camera, dove il governo lo ha blindato per evitare un ritorno al Senato dove i numeri della maggioranza (visti i mal di pancia di Ncd) sono ballerini. "L'inversione di rotta è netta - dice la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferrandi (Pd) -. Direi che d'ora in poi corrotti e corruttori non avranno più alcuna speranza di impunità". Giustizia: Migliucci (Ucpi); una mossa politica, le mazzette si combattono fuori dalle aule di Francesco Grignetti La Stampa, 22 maggio 2015 "Scusate, ma la legge Severino approvata pochi anni orsono, non aveva già innalzato le pene per i reati di corruzione? E vi sembra che sia cambiato qualcosa? Direi proprio di no. Eccovi la prova solare che l'innalzamento delle pene risponde a esigenze della politica, la cosiddetta risposta esemplare, ad alto effetto simbolico, ma che nella realtà non serve a niente. Piuttosto pensiamo a Cesare Beccaria: le pene siano miti, ma effettive". L'avvocato Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti italiani, con avviato studio legale a Bolzano, scuote la testa. Di questa nuova legge pensa tutto il male possibile. Perché tanta contrarietà, avvocato? È un fatto che la corruzione sia uno scandalo italiano e che in carcere non finisca nessuno. "Guardi, il problema sono i processi. Si facciano e in tempi rapidi. Ma non illudiamo nessuno che pure con pene altissime cambierà qualcosa. Se davvero si vuole battere la corruzione, occorre un deciso salto di mentalità. Servono norme chiare, limpide ed efficaci. Occorre la rotazione dei dirigenti e la trasparenza della Pubblica amministrazione. Tutte cose, peraltro, previste dalla legge Severino nella sua parte migliore, che è quella dedicata alla prevenzione". Si pensa che una pena alta funzionerà da deterrente. Così come la misura della restituzione obbligatoria del maltolto per accedere al patteggiamento. "Se è per questo, anziché il patteggiamento sarà sufficiente chiedere il rito abbreviato, e si otterrà ugualmente lo sconto di un terzo della pena e senza la fatidica restituzione. Ma ritorno a quanto dicevo: si vuole battere la corruzione in Italia? Si elimini l'enorme margine di discrezionalità dei burocrati. Il codice degli appalti sembra fatto apposta per costringere a dover chiedere una cortesia, per quanto è complicato e oscuro". Si allungano i tempi di prescrizione. Su questo punto avete già sollevato aspre obiezioni. Perché? "Innanzitutto perché è una mistificazione dire che l'Europa ci chiedeva di allungare la prescrizione. Al contrario, ci chiedevano di accelerare i processi. E di farli. Il tema è questo, dunque. Non un allungamento abnorme, addirittura oltre i 20 anni, per un processo che diventa infinito". Torna il reato di falso in bilancio. Contrari anche a questo? "Certo: c'è il rischio, in assenza di una tassatività certa della norma, che con un perito quel bilancio sia reato, e che con un altro perito lo stesso bilancio sia regolare. Vedo gravi pericoli all'orizzonte: che i pubblici ministeri possano turbare il mercato con le loro indagini - peraltro rese molto invasive dalla possibilità di intercettazione - anche senza imputati, ma già in fase preliminare". La legge introduce la figura del pentito di corruzione. "Qui occorre fare un discorso di fondo. Come si è visto in altri ambiti, penso alla criminalità organizzata, i collaboratori di giustizia sono stati utili. Ma le attenzioni vanno moltiplicate. Perché è facile la tentazione dello scaricabarile. E figure secondarie potrebbero essere tentate dallo scaricare tutto sul politico o sul dirigente in vista, magari quello più allettante dal punto di vista mediatico, le loro responsabilità". Giustizia: Cantone (Anac); adesso serve una riforma complessiva della prescrizione Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 "Serve una riforma complessiva della prescrizione e una norma ad hoc per i reati di corruzione". Lo ha detto il presidente dell'Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone nel corso di un forum all'Ansa. "I termini attuali sono inadeguati. La scelta è politica ma tornare a un regime vicino a quello precedente la ex Cirielli, sui 15-17 anni credo sia congruo: oltre avrebbe poco senso". "Sulla prescrizione ritengo sia assolutamente utile un termine complessivo oltre il quale l'accertamento di reato non ha più senso, perché cambiano le condizioni e il soggetto", ha detto Cantone. "Credo - ha spiegato - sia indispensabile un intervento complessivo sulla prescrizione e credo sia giusto un allungamento. E serve una norma ad hoc per la corruzione: per tutti i reati di corruzione. È indispensabile perché i termini attuali di prescrizioni sono inadeguati. Quale sia il termine, questa è una scelta politica. Ma ritengo che tornare a un regime non molto lontano da quello previsto prima della cosiddetta ex Cirielli, intorno ai 15 anni, sia congruo: in quest'ambito, punire dopo 18 anni un soggetto che ha commesso reato tanto tempo prima, non ha più senso". "Abbiamo assoluta necessità di fare promozione della cultura della legalità nel Paese: è un presupposto fondamentale. Bisogna far capire ai ragazzi che la corruzione non è un danno solo per le imprese ma per il loro futuro. Per troppo tempo è stato sottovalutato il cancro della corruzione. Non è vero che giovani sono disinteressati a questo tema, vanno solo motivati", ha detto il presidente dell'Autorità Anticorruzione. "Credo che il ddl anticorruzione, che mi auguro sia approvato entro questa settimana, sia quanto di meglio possibile", ha detto il presidente Anticorruzione. "Nessuna norma ha effetto salvifico - ha aggiunto - e non credo nemmeno che le critiche della magistratura siano critiche distruttive: ci sono cose che possono essere migliorate". Giustizia: la scorciatoia di pene più alte per allungare la prescrizione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 "Un fatto storico", "un'inversione di tendenza, sia pure da migliorare", "un primo passo": così, Pd, centristi e Lega, commentavano l'approvazione della legge Severino, il 30 ottobre del 2012 (460 sì, 76 no, 13 astensioni). E così, con parole e toni analoghi, dopo due anni e sette mesi è stata commentata ieri l'approvazione della legge Grasso (280 sì, 53 no, 11 astenuti). Valga per tutti il tweet del ministro Orlando: "Da oggi l'Italia è più forte". Un'enfasi giustificata soprattutto per aver recuperato in corsa il troppo tempo perduto. Ma se le nuove norme finalmente approvate contribuiranno a rendere più incisiva la repressione penale della corruzione, un po' di memoria storica dovrebbe suggerire a tutti - a cominciare da governi e maggioranze di turno - un'enfasi minore, tanto più rispetto a provvedimenti che, per la loro genesi, spesso hanno il fiato corto. La lotta alla corruzione si compone di numerosi tasselli, uno dei quali è la repressione penale. Le relative norme, dunque, vanno valutate in base alla loro efficacia. Nel 2012, dopo i duri sacrifici chiesti agli italiani per l'incombere della crisi economica, la legge Severino rappresentò - pur con le sue gravi lacune - un segnale positivo perché rompeva l'immobilismo dei vent'anni precedenti. Come tale fu apprezzato dalla comunità internazionale, a prescindere dalla sua reale efficacia, soprattutto sul fronte della repressione penale, su cui Ue, Ocse, Consiglio d'Europa ci tallonavano da tempo immemorabile (e così hanno continuato a fare anche dopo la legge). Il "rischio" concreto, infatti, era che le nuove norme non scalfissero la prospettiva di una sostanziale impunità dei corrotti (nonostante il fiorire di inchieste) e che perciò la prassi di tangenti e mazzette continuasse indisturbata, riportando le lancette al punto di partenza. Com'è puntualmente avvenuto. La legge Grasso prende il nome dal presidente del Senato Piero Grasso che presentò il ddl anticorruzione all'inizio di questa legislatura, proprio per colmare le lacune della legge Severino. Su quel testo si sono poi innestate le proposte del governo Renzi, ma solo in seguito al clamore di alcune inchieste giudiziarie (Expo', Mose, Mafia capitale). Nel suo discorso di insediamento, infatti, il premier non accennò neppure al tema della corruzione (né a quello della prescrizione), vuoi per sottovalutazione vuoi per problemi di convivenza politica, nella maggioranza, con il Nuovo Centrodestra, nonché di "buon vicinato" con l'opposizione di Silvio Berlusconi, chiamato a scrivere le riforme istituzionali. Di qui la mancanza di una politica condivisa, e strategica, sulla repressione penale della corruzione. Preso in contropiede dalle grandi inchieste giudiziarie, il governo ha dovuto cambiare passo, cercando mediazioni non sempre facili nella maggioranza e in Parlamento. Il provvedimento approvato ieri contiene indubbiamente misure utili. Dall'introduzione del reato di falso in bilancio agli sconti di pena per chi collabora. Più discutibili gli aumenti di pena a pioggia per i reati contro la pubblica amministrazione (salvo alcuni, come l'induzione, che la legge Severino aveva declassato rispetto alla concussione), non perché non meritino sanzioni severe anche di quelle introdotte nel 2012, ma perché, come nel 2012, gli aumenti sono solo un modo indiretto per risolvere il problema della prescrizione, evitando una riforma strutturale e radicale. Gli organismi internazionali non ci hanno mai chiesto di aumentare le pene dei reati di corruzione; hanno invece sempre insistito sulla modifica della prescrizione, considerata la specificità di quei reati, che spesso si scoprono dopo anni da quando sono stati commessi. Richiamo inascoltato dai governi che si sono succeduti dal 2005, quando i termini furono dimezzati dalla legge ex Cirielli. Certo, alzare le pene fa guadagnare qualche anno ed è meglio di niente. Ma una riforma strutturale della prescrizione avrebbe inciso sulla prospettiva di impunità dei corrotti ben più di aumenti di pena che, se i processi non arrivano a sentenza definitiva, restano sulla carta. Ma né Forza Italia né Ncd ci sentono da questo orecchio, per cui la riforma della prescrizione ora al Senato, pur allungando i termini, rischia di essere un "vorrei ma non posso" sia perché non affronta il problema in radice sia, soprattutto, perché non tiene adeguatamente conto della specificità dei reati di corruzione, soprattutto se ci sarà la marcia indietro promessa da Orlando all'Ncd. Al congresso di Magistratura democratica, il ministro, a chi accusava il governo di "populismo penale" e di non avere "un disegno organico di riforma", rispose che non avrebbe mai voluto fare una riforma organica in una legislatura come questa "in cui convergono forze politiche molto diverse". Il massimo che si può fare, aggiunse, "è razionalizzare". Non sarebbe poco, in effetti. Il banco di prova sarà proprio la prescrizione. Giustizia: sul falso in bilancio addio alle "soglie" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 Falso in bilancio con sanzioni fino a 8 anni. Almeno nelle società quotate. E fino a 5 nelle non quotate. Cancellazione delle soglie di rilevanza penale, estensione dell'area dei delitti con cancellazione delle ipotesi di contravvenzione. Forme di attenuazione delle misure o forme di non punibilità nei casi meno gravi. Sanzioni pecuniarie più pesanti a carico delle società che hanno tratto un beneficio dal delitto. Procedibilità d'ufficio. La legge approvata ieri dal Senato rappresenta senza dubbio una svolta in termini di contrasto a quello che è forse il reato simbolo della criminalità dei colletti bianchi. La risposta più severa (carcere da un minimo di 3 a un massimo di 8 anni) arriva sul versante delle quotate alle quali sono peraltro equiparate: • le società emittenti strumenti finanziari per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell'Unione europea; • le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione italiano; • le società che controllano società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell'Unione europea; • le società che fanno appello al pubblico risparmio o che comunque lo gestiscono. Tra quotate e non quotate la fattispecie presenta elementi comuni: identiche sono le figure che possono essere chiamate a rispondere del reato (amministratori, direttori generali, dirigenti addetti alla predisposizione delle scritture contabili, sindaci e liquidatori); è eliminato il riferimento all'omissione di "informazioni" sostituito da quello all'omissione di "fatti materiali rilevanti" (la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene); è introdotto l'elemento oggettivo della "concreta" idoneità dell'azione od omissione a indurre altri in errore. Il riferimento dei nuovi articoli 2621 e 2622 del Codice civile alle modalità del falso, al fatto, cioè, che debba essere "concretamente idoneo a indurre altri in errore", lascia un margine ampio di discrezionalità al giudice, la cui valutazione non è più collegata a un dato fisso e quantitativo per determinare la condotta penalmente rilevante nel caso singolo. Assai articolata è la disciplina introdotta per le non quotate. La pena base è compresa tra 1 e 5 anni, limite che da una parte rende impossibile, sul piano investigativo, l'utilizzo delle intercettazioni, e permette di applicare la nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto, dove il giudice, nella valutazione sulla concessione, dovrà tenere presente in maniera particolare l'entità del danno provocato alla società, ai soci e ai creditori. Fuori dall'area della non punibilità assoluta, e sempre per le società non quotate, c'è però uno spazio che la legge lascia a disposizione per l'applicazione di pene ridotte, da 6 mesi a 3 anni. Bisogna però che i fatti siano "di lieve entità" con riferimento alla natura e alle dimensioni della società e alle modalità ed effetti della condotta. Ancora, se il reato è stato commesso sui conti di una società al di sotto dei limiti previsti dalla legge fallimentare (le società con un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a 300mila euro; che hanno realizzato, negli ultimi tre esercizi, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a 200mila euro; che hanno un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500mila euro) la pena da applicare è sempre quella ridotta per i fatti di lieve entità e il reato è perseguibile a querela. Alla fine, quindi, in presenza di condotte concretamente idonee a indurre in errore nelle comunicazioni sociali relative a società non quotate, si potranno verificare tre ipotesi: a) l'applicazione della pena della reclusione da 1 a 5 anni; b) l'applicazione della pena da 6 mesi a 3 anni se, in presenza delle citate condotte, i fatti sono di lieve entità, tenuto conto di una serie di elementi oppure per le società di minori proporzioni (con perseguibilità a querela); c) la non punibilità per particolare tenuità in base alla valutazione del giudice, prevalentemente incentrata sull'entità del danno. Giustizia: una svolta necessaria ma a rischio di incertezza di Salvatore Padula Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 Il nuovo assetto del reato di false comunicazioni sociali rappresenta una svolta di grande impatto rispetto all'approccio "leggero" che era stato introdotto (con grandi polemiche) nel 2002. Ma la vera scommessa della riforma non si gioca né sul superamento delle soglie di punibilità, né nel rilevante inasprimento delle sanzioni. La vera scommessa, quella che misurerà il successo della riforma approvata ieri, sarà la sua capacità di rendere chiaro che cosa possa essere configurato come falso in bilancio. Su questo aspetto il testo della nuova legge lascia aperto qualche interrogativo. Il sistema cambia alle radici. Oltre all'abolizione delle soglie di punibilità, arrivano pene più pesanti sia per le società quotate sia per le non quotate, mitigate solo in parte dalla possibilità di applicare le nuove regole della non punibilità per tenuità del fatto. In aggiunta a ciò, in tutti i casi si passa per tutti alla procedibilità d'ufficio (tranne che per le piccolissime società), ora prevista solo per le società quotate. Naturalmente, serve realismo. È chiaro a tutti che il sistema in vigore dal 2002 aveva fatto il suo tempo e andava superato. L'esistenza di fatto di una "zona franca" del falso in bilancio, dovuta alle soglie, non è più sostenibile, soprattutto quando, come accade ora, si cerca di dare un segnale forte anche sul fronte degli "altri" reati economici, quelli contro la pubblica amministrazione, pure riformati dal Ddl approvato ieri. La riforma, tutto sommato, parte da qui: con l'azzeramento di quelle soglie di punibilità che finivano inevitabilmente per trasmettere l'idea di impunità, specie per i soggetti più forti, le società di grandi dimensioni. La scelta di rinuncia alle soglie di punibilità comporta però qualche rischio che forse andrebbe meglio vagliato. Rischia cioè di offrire margini più ampi di interpretazione da parte dei giudici. È vero, e ne va dato atto al ministro della Giustizia, che durante i lavori parlamentari il testo del Ddl è stato via via migliorato, accogliendo le richieste di maggiore chiarezza degli operatori. Per esempio, è scomparso ogni riferimento alle "valutazioni", che erano previste nel testo del 2002. Gli errori e le imprecisioni nelle valutazioni saranno quindi esclusi dall'area del "penalmente rilevante". Ma ciò non impedisce di rilevare le potenziali criticità che il nuovo sistema porta con sé. Molti operatori già si interrogano su che cosa succederà a livello concreto, quando tra pochi mesi i giudici si troveranno ad applicare norme che non brillano in termini di tassatività. Insomma, il difetto di fondo della riforma, che è stato corretto ma non del tutto eliminato durante l'iter parlamentare, è che il nuovo assetto delle false comunicazioni sociali non va esattamente nella direzione di offrire certezze agli operatori. Il che, lo sappiamo, rappresenta un problema non indifferente per imprese, amministratori e professionisti. Come più volte è stato detto, nella formulazione della norma, probabilmente sarebbe stata preferibile una maggiore chiarezza finalizzata a indicare con più precisione ciò che è rilevante ai fini penali e ciò che non lo è. Quali sono, per esempio, i "fatti materiali" rilevanti; quali le comunicazioni. Alla fine, sarà il giudice a dover accertare questi elementi, esercitando ampi margini di discrezionalità e interpretazione. Giustizia: Abdel Majid Touil, 22enne marocchino, un altro "mostro innocente" di Errico Novi Il Garantista, 22 maggio 2015 "Lui stragista? Ma se non aveva neanche i soldi per le sigarette", dicono i vicini. E i registri di scuola lo scagionano. E va bene. Se si lascia prendere la mano uno come Matteo Salvini ci sarà pure da capirlo. Ci campa, su presunti mostri con la faccia smarrita di Abdel Majid Touil, il 22enne marocchino fermato con l'accusa di concorso nella strage del Bardo. "Ora basta, è arrivato il momento di prevenire il pericolo terrorismo", proclama mentre i pm di Milano già hanno accertato l'alibi di ferro del ragazzo. Che il 18 marzo non era a Tunisi, si trovava a casa sua in Italia, nell'hinterland milanese. Ma figurarsi se il capo dei lumbard prova a informarsi, prima di parlare. Rincara la dose: "Lì in Tunisia si sta spargendo la voce che stiamo svuotando le loro galere". E dalli al marocchino stragista. Fin qui nulla di sorprendente. Un po' di allarme scatta alle parole del presidente del Consiglio, che a proposito di Abdel chiama in causa la psicanalisi: "Vorrei stenderlo sul lettino e fargli raccontare che cosa ha fatto da piccolo...". Non li ferma più nessuno. Neppure l'evidenza. Perché la storia dei registri e dei quaderni di classe, che proverebbero come il giovane non si sia mosso dalla Lombardia prima, durante e dopo l'attacco jihadista al Museo del Bardo di Tunisi (sferrato il 18 marzo), circola già da mercoledì. Difficilissimo ipotizzare che Touil si sia messo su un aereo senza essere identificato, abbia dato una mano ai terroristi e sia rientrato la sera stessa, magari, per essere regolarmernte al suo posto in classe. Lì, nella scuola per alfabetizzazione di stranieri di Trezzano sul Naviglio, confermano non solo che il 16 e il 19 Abdel c'era, ma anche che "non aveva neppure i soldi per le sigarette", come dice una compagna di studi, con icastica sfrontatezza. E come si permettono queste persone di mettere in dubbio una condanna (mediatica) già passata in giudicato? Come si permettono i vicini di casa, lì a Gaggiano, di fornirgli un ulteriore alibi, del tipo "guardate che da febbraio, da quand'era arrivato qui, non se n'è mai andato, è sempre stato a casa con la madre o a scuola"? Ecco, nonostante l'evidenza sia inopinatamente sbattuta in faccia ai Salvini e ai Renzi, il ministro dell'Interno Angelino Alfano si presenta a sua volta nell'aula di Montecitorio con aria trionfante: "Questo è un successo delle forze dell'ordine?", attacca nella sua informativa. Ma quale sarebbe il successo? Aver fermato un 22enne che, come poi ammetterà lo stesso Capo del Viminale, non ha opposto resistenza alcuna agli accertamenti ordinati dai pm di Milano? Che dopo il suo arrivo a Porto Empedocle a bordo di un barcone era stato respinto come clandestino senza però ricevere particolari attenzioni dalle forze dell'ordine? E che in ogni caso, a lume di buonsenso, non si è mosso dalla provincia di Milano, nei giorni della strage a Tunisi? Prosegue Alfano: "L'identificazione di Touil prova l'efficacia degli strumenti di riconoscimento degli stranieri in nostro possesso. E non si tratta di un caso isolato: abbiamo all' attivo 33 espulsioni nei primi tre mesi del 2015 di persone sospettate di legami con terrorismo islamico". E se sono tutte terroriste come lo sarebbe il povero Abdel, le notizie che dà il ministro non sono rassicuranti. Peschiamo gente a caso, gli appiccichiamo l'etichetta di jihadista addosso e ci sentiamo soddisfatti. Senza la benché minima remora o cautela nei confronti di individui che potrebbero non aver fatto nulla. E anzi, nel caso di Touil è abbastanza chiaro che non ha avuto un ruolo neppure nella fase preparatoria dell'assalto terrorista. Come invece continua a sostenere l'autorità giudiziaria tunisina. Che arriva a definirlo "un trafficante d'armi". Addirittura. Sostengono, a Tunisi, che Abdel il 18 marzo era lì, sul luogo della strage. Che si sarebbe visto in piazza Pasteur con i due terroristi uccisi poi dalle forze speciali al museo, cioè Yassine Laabidi e Jabeur Khachnaoui, e con un tale Othmane. Insieme con questi tre stragisti Touil si sarebbe diretto verso il Bardo. Ecco, l'Italia, o almeno alcuni suoi leader politici, hanno già sposato questa versione. Credono pure alla presenza di Abdel a una riunione preliminare, quella in cui avrebbe portato dalla Libia alla Tunisia i kalashnikov usati nell'assalto jihadista. Ricostruzioni date per buone e sufficienti a evocare avanzate dell'Isis come urgenze psicanalitiche, nonostante a Gag-giano dicano che da febbraio il 22enne del Marocco si sia sempre visto in giro per il paese. Possibile che un clandestino squattrinato e senza sigarette abbia fatto la spola in aereo tra il Nordafrica e la Lombardia, senza essere notato, dopo essere stato salvato da un naufragio nel Canale di Sicilia poche settimane prima? "L'operazione richiede attenta valutazione per dire qualcosa di conclusivo", chiarisce almeno il ministro Alfano. Prova ad arricchire la ricostruzione: "Touil non era considerato pericoloso o a rischio di terrorismo né dalla polizia tunisina né da quella italiana. Solo dopo la strage del Bardo assume il profilo di terrorista". Solo a quel punto i nostri Servizi "ne inseriscono il nome tra i sospettati, mentre il tribunale tunisino emette mandato di arresto". Nella migliore delle ipotesi è uno scambio di persona. Sulla base del quale, tanto per non perdere tempo, abbiamo creato un nuovo mostro. Giustizia: Antigone; comunque Abdel non può essere estradato in Paese con pena di morte Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2015 È scoppiato in queste ore il caso del marocchino arrestato a Milano perché potrebbe essere coinvolto nelle vicende tragiche degli attentati in Tunisia. "Sul fatto che il giovane sia o meno coinvolto in questo fatto lo capiremo, una cosa tuttavia è certa, non può essere estradato in quel paese perché li vige la pena di morte" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. A vietarlo è il codice di procedura penale dopo la pronuncia della Corte Costituzionale di quasi vent'anni fa nel caso Pietro Venezia, patrocinato e seguito da Antigone con l'avvocato Arturo Salerni. Pietro Venezia si era rifugiato in Italia a seguito di un omicidio commesso in Florida, con il governo statunitense che ne aveva chiesto l'estradizione, concessa dall'allora Ministero di Grazia e Giustizia. Antigone impugnò quella richiesta fino alla Corte Costituzionale che, con la sentenza 223/1996, stabilì l'impossibilità di estradare una persona verso paesi che hanno la pena di morte. "Questa Corte ha già affermato - si legge nella sentenza - che il concorso, da parte dello Stato italiano, all'esecuzione di pene "che in nessuna ipotesi, e per nessun tipo di reati, potrebbero essere inflitte in Italia nel tempo di pace" è di per sé lesivo della Costituzione (sentenza n. 54 del 1979)". Anche all'epoca, tuttavia, il motivo del contendere erano le garanzie, da parte dello Stato che aveva richiesto l'estradizione, al che la pena capitale non venisse applicata. Un'eventualità su cui la Corte fu netta. "Tale soluzione offre, in astratto, il vantaggio di una politica flessibile da parte dello Stato richiesto, e consente adattamenti, nel tempo, in base a considerazioni di politica criminale; ma nel nostro ordinamento, in cui il divieto della pena di morte è sancito dalla Costituzione, la formula delle "sufficienti assicurazioni" - ai fini della concessione dell'estradizione per fatti in ordine ai quali è stabilita la pena capitale dalla legge dello Stato estero - non è costituzionalmente ammissibile. Perché il divieto contenuto nell'art. 27, quarto comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti - primo fra tutti il bene essenziale della vita - impongono una garanzia assoluta". Con queste motivazioni l'estradizione di Pietro Venezia fu negata e lo stesso fu processato e condannato da un tribunale italiano. "Anche nel caso del marocchino dunque non vale alcuna rassicurazione da parte delle autorità di Tunisi. Quello che vale - conclude Gonnella - è solo l'abrogazione della pena capitale". Giudice unico a tutela della vittima di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 Sentenza della Corte Ue - Quarta sezione - 21 maggio 2015. Via libera alle azioni per risarcimento danni contro una pluralità di convenuti dinanzi a un unico giudice. Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue, chiamata ad occuparsi della concentrazione di competenze in caso di pluralità di convenuti, nella sentenza CDC depositata ieri (C-352/13) che, a vantaggio della vittima, permette l'azione dinanzi a un unico giudice malgrado le aziende che hanno commesso la violazione delle regole sulla concorrenza abbiano sede in diversi Stati membri. A sollevare il quesito pregiudiziale a Lussemburgo è stato il Tribunale di Dortmund (Germania) al quale si era rivolta la società belga CDC, specializzata nel recupero crediti, che aveva agito per conto di 71 imprese contro un gruppo di aziende con sede in Stati membri diversi dalla Germania le quali, violando le regole di concorrenza Ue, avevano causato un danno da illecito. Prima di decidere, i giudici tedeschi hanno chiesto alla Corte di giustizia alcuni chiarimenti sul regolamento n. 44/2001 sulla competenza giurisdizionale, l'esecuzione e il riconoscimento delle decisioni in materia civile e commerciale (sostituito dal n. 1215/2012). Nei casi di illeciti civili dolosi o colposi, l'articolo 6 del regolamento consente di agire dinanzi al giudice in cui uno solo dei convenuti è domiciliato allargando così la competenza anche verso gli altri autori dell'illecito. Una concentrazione ammessa a patto che esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione e una decisione unica, anche per evitare pronunce confliggenti e la pendenza di procedimenti paralleli. Poco importa - osserva la Corte - che le aziende convenute abbiano partecipato all'intesa anticoncorrenziale in tempi e luoghi diversi perché l'infrazione, accertata dalla Commissione, è stata unica. Né impedisce l'attribuzione al giudice del domicilio di uno dei convenuti il fatto che l'azienda di recupero crediti ricorrente abbia rinunciato ad agire proprio nei confronti dell'unica società che aveva sede nello Stato del giudice adito. È vero che l'articolo 6 non può essere utilizzato in modo artificioso, per derogare al titolo generale di giurisdizione, ma il fine elusivo va dimostrato con indizi concludenti che "consentano di giungere alla conclusione che l'attore abbia creato o mantenuto artificiosamente le condizioni di applicazione di tale disposizione". Se manca la prova di una collusione tra le parti, l'azione dinanzi a un unico giudice è consentita. Per quanto riguarda l'individuazione del giudice competente, poiché il regolamento, nel caso di illeciti civili, attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto o può avvenire, ogni vittima può ricorrere al tribunale del luogo in cui si è conclusa definitivamente l'intesa anticoncorrenziale o al giudice del luogo in cui è stato adottato un accordo specifico e "identificabile di per sé solo come l'evento causale del danno asserito". Possibile anche scegliere il giudice della propria sede sociale, luogo in cui si concretizza il danno. Non è da escludere, poi, l'operatività delle clausole attributive di competenza presenti nei contratti di fornitura. Ma questo solo se le vittime dell'intesa anticoncorrenziale abbiano manifestato il proprio consenso e la clausole si riferiscano alle controversie sulla responsabilità derivante da un'infrazione al diritto della concorrenza. Illegittima l'esclusione dalla gara per reati pregressi e modesti di Giovanni La Banca Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 Tar Marche, sezione 1, sentenza 8 maggio 2015, n. 362. Nel caso in cui nel disciplinare di gara non siano contemplati specifici motivi di esclusione concernenti talune pregresse condanne penali a carico dei partecipanti, la mancata dichiarazione dell'esistenza di condanne vetuste e di scarso rilievo non costituisce circostanza che assume valore autonomo ai fini dell'annullamento dell'aggiudicazione definitiva della gara. In tale ipotesi, infatti, non è configurabile una condotta omissiva fraudolenta da parte del soggetto, volta a nascondere circostanze rilevanti ai fini della gara, trattandosi, al contrario, di mera dimenticanza commessa in assoluta buona fede, non equiparabile al falso, bensì dovuta all'irregolarità o all'incompletezza documentale fornita dalla stessa stazione appaltante. Omessa dichiarazione dei precedenti penali L'articolo 38, comma 2 del Dlgs 163/2006 impone, a pena di esclusione, la dichiarazione sulla sussistenza di pregresse condanne subite dai rappresentanti legali delle società partecipanti. Si tratta, in via generale, di dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante, in quanto attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa. Non si evidenziano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all'Amministrazione la valutazione circa la gravità o meno del reato, che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova. L'esclusione del concorrente per incompleta o omessa dichiarazione dei precedenti penali sussiste anche se per il reato commesso si sono verificate le condizioni per l'estinzione ove i relativi presupposti, pur operando ope legis, non siano stati già accertati con una pronuncia del giudice dell'esecuzione su istanza dell'interessato. E in tale prospettiva, è irrilevante la circostanza secondo cui il reato di cui risulta l'omessa dichiarazione sia stato dichiarato estinto, ove il relativo provvedimento sia stato emesso dal giudice penale dopo la scadenza del termine per la presentazione della domanda di partecipazione, che segna inderogabilmente il momento nel quale i requisiti di ammissione devono essere posseduti. Ciò a testimonianza dell'inderogabilità di tale principio normativo. È indubbio, infatti, che sussiste un preciso obbligo da parte del concorrente di denunciare tali pregiudizi penali: e tale circostanza omissiva ha una sua precisa valenza in ordine alla sussistenza della verifica dei requisiti di che trattasi, nel senso che di per sé costituisce violazione degli obblighi imposti dalle norme sopra indicate sì da rendere meritevole l'applicazione della sanzione della esclusione dalla gara del concorrente. Di tal ché, ove il bando di gara non si limiti a richiedere una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione ex articolo 38 del Dlgs 163 del 2006, ma prescriva la dichiarazione di tutte le condanne penali, è legittimo l'annullamento in autotutela dell'aggiudicazione motivato con riferimento al fatto che l'aggiudicataria ha omesso di dichiarare una sentenza penale di condanna. Rilevanza del reato e dichiarazione inconsapevolmente incompleta L'obbligo di dichiarare tutte le condanne, nessuna esclusa, affinché l'amministrazione possa poi compiere autonome valutazioni di rilevanza, deve ritenersi attenuato qualora la condanna subita dal soggetto aggiudicatario della gara attenga a un reato ben modesto, sia stata punita con pena assai moderata e risulti risalente a epoca remota. Conseguentemente, appare inequivocabilmente plausibile che il soggettivo convincimento di non gravità, o addirittura la dimenticanza, non debba essere considerato abnorme o ingiustificabile. Di talché si esclude che da tale omissione dichiarativa possa farsi discendere il convincimento, per l'amministrazione, che trattasi di una rilevante condotta fraudolenta tale da legittimare, ex se, l'annullamento dell'aggiudicazione definitiva della gara. Proprio la natura della condanna riportata e non dichiarata è sintomatica della buona fede della parte, che non si può dire abbia posto in essere una falsa dichiarazione, ma semmai una dichiarazione inconsapevolmente incompleta, qualora si consideri, per esempio, che una condanna penale risalga a molteplici anni addietro, magari per un reato che non incide sui requisiti morali del soggetto condannato. In tal caso, ben potrebbe essere considerata, alla luce delle norme e dell'assenza di un'apposita comminatoria della lex specialis, oltre che dell'id quod plerumque accidit, non meritevole di menzione alcuna al momento della compilazione delle dichiarazioni sostitutive per la partecipazione alla gara ( solo a titolo esemplificativo, si richiama un caso in cui vi era stata una condanna penale per un omicidio colposo, passata in giudicato trentadue anni fa e riguardante una fattispecie del tutto avulsa da un contesto anche minimamente collegato al regime dell'evidenza pubblica ). Sembra abbandonarsi la concezione maggiormente attenta al dato formale nonché all'esigenza di garantire un controllo consapevole da parte della stazione appaltante a favore di una soluzione che riflette un'impostazione "sostanzialista", volta a tutelare più il bene giuridico salvaguardato dalla norma (l'individuazione di soggetti in possesso dei prescritti requisiti di partecipazione) che il vizio formale. In un'ottica di massimo favor partecipationis, implicante la svalutazione dei vizi meramente formali, dunque, deve ammettersi la deroga de qua rispetto alla norma generale che impone l'esclusione per la violazione della norma di cui all'art. 38 del d.lgs. 163/2006. Ne consegue che l'omessa dichiarazione di alcune condanne penali può essere sanzionata con l'esclusione dalla gara solo in presenza di un obbligo stringente imposto dal bando, mentre, in caso contrario, il concorrente può ritenersi esonerato dal dichiarare l'esistenza di condanne per infrazioni penalmente rilevanti, ma di lieve entità. Concreta valutazione e sufficiente motivazione Assume rilievo l'obbligo che si incardina in capo alla P.A. di svolgere una concreta valutazione in punto di gravità dei reati, non integrando, viceversa, una sufficiente motivazione del provvedimento di esclusione, il mero riferimento all'astratta incidenza che detti reati possono avere sulla moralità del professionista. Quando si deve valutare l'affidabilità o la moralità professionale di un soggetto non può prescindersi anche dalla considerazione della sua professionalità per come nel tempo si è manifestata. I margini di insindacabilità, attribuiti all'esercizio del potere discrezionale di valutazione in merito a una condanna penale, non consentono al pubblico committente di prescindere dal dare contezza di avere effettuato la suddetta disamina e dal rendere conoscibili gli elementi posti alla base dell'eventuale definitiva determinazione espulsiva. La stazione appaltante è, nello specifico, chiamata a valutare e motivare come, e in che termini, l'omessa dichiarazione di una vetusta condanna penale, per fatti assai modesti, possa imporre o comunque legittimare la statuizione revocatoria. Deve, pertanto, escludersi che quest'ultima possa limitarsi ad applicare un mero automatismo, senza corredare la decisione adottata di un puntuale supplemento motivazionale. Pertanto deve valutarsi in concreto il significato della condanna vetusta riportata a carico del soggetto aggiudicatario, e la discrezionalità valutativa dell'amministrazione, sul punto, deve rendere conto del perché tale condanna andasse a incidere sulla moralità personale del soggetto ed eventualmente motivare perché fosse da ritenere tale da impedire la prosecuzione del rapporto negoziale/concessorio intrattenuto. La Sovrintendenza non salva la casa sull'albero di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 Corte di cassazione - Sentenza 21029/2015 È abusiva la casa di 70 metri quadrati costruita, sull' albero senza autorizzazione , in una zona sottoposta a vincolo ambientale. La Corte di cassazione, con la sentenza 21029 depositata ieri, respinge il ricorso di Marcello dell'Utri e conferma la condanna. L'ex senatore aveva realizzato nella Villa di Torno sul lago di Como la "bird watching" su un albero a scopo contemplativo. Secondo il ricorrente il manufatto doveva essere considerato al pari di una pertinenza, non aveva un negativo impatto sull'ambiente con il quale si armonizzava perfettamente, ed era rimovibile. Tra le carte giocate della difesa per escludere la punibilità, c'era anche il parere favorevole Soprintendenza riguardo alla compatibilità. Diverso il punto di vista della Suprema corte. La casa sull'albero, in legno, era su due piani più torretta, grande circa 70 metri quadrati con un volume di 180 metri cubi. La struttura, che raggiungeva un'altezza di 3,69, copertura compresa, era fissata a terra con "plinti di cemento in cui erano annegati i pilastri di legno che la sostenevano, le saette di sostegno della struttura a sbalzo erano fissate al fusto dell'albero con profili metallici". La descrizione tecnica della casa, secondo i giudici di merito ai quali la Cassazione si allinea, è sufficiente per affermare l'impatto sul paesaggio ed escludere la tesi della facile rimovibilità. Un manufatto decisamente sovradimensionato rispetto all'uso meramente contemplativo per il quale era stato realizzato. Non è utile neppure il via libera ottenuto in via preliminare dalla Sovrintendenza propedeutico ad una sanatoria poi disapplicata. L'ok, relativo a un piano inziale diverso da quello realizzato, non sarebbe stato comunque utile per escludere la punibilità. La Cassazione ricorda, infatti, che il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso eseguito in una zona vincolata non esclude la punibilità di un'azione che si configura come reato di pericolo. Per l'illecito non serve, infatti, un effettivo pregiudizio per l'ambiente dal momento che le sole condotte penalmente non rilevanti sono quelle che " a occhio" non sono idonee a compromettere i valori protetti. A questo proposito la Suprema corte sottolinea che in nome della rilevanza costituzionale del paesaggio, si giustifica la funzione anticipata di tutela affidata al diritto penale. Per il ricorrente non c'è neppure l'errore scusabile come dimostrato dalla "pacifica prosecuzione dei lavori nonostante fosse stato emesso un ordine di sospensione". Dimostrazione dell'esistenza "di una pregressa intenzione diretta a realizzare l'evento vietato". Persa anche l'occasione di ottenere la sospensione condizionale della pena, condizionata in base alla sentenza d'appello alla demolizione dell'opera entro 90 giorni. Azione riparatoria non più possibile perché la villa era stata venduta. Osservazioni degli avvocati rispetto alle conclusioni del Pm Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2015 Impugnazioni civili - Ricorso per cassazione - Procedimento - Discussione - Conclusioni del P.M. - Osservazioni scritte sulle stesse - Deposito in cancelleria - Inammissibilità - Ragioni. Nel giudizio di cassazione, la facoltà delle parti di presentare in sede di discussione, ai sensi dell'articolo 379, IV comma, cod. proc. civ., brevi osservazioni per iscritto, per replicare alle conclusioni assunte dal P.M. in udienza, può essere esercitata soltanto dal difensore che abbia preso parte all'udienza ed in occasione della stessa onde consentire alle altre parti di averne conoscenza, sicché il loro successivo deposito in cancelleria, quantunque con la dizione "note scritte ex articolo 379 cod. proc. civ.", deve ritenersi inammissibile. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 aprile 2015 n. 8000. Impugnazioni civili - Ricorso per cassazione - Procedimento - Discussione - Successive osservazioni scritte - Disciplina "ex" articolo 379, IV comma, cod. proc. civ. - Contenuto precettivo - Presentazione, dagli avvocati delle parti, di memorie - Ammissibilità - Esclusione. Nell'udienza di discussione dinanzi alla Corte di Cassazione, le brevi osservazioni per iscritto sulle conclusioni del P.M., che gli avvocati delle parti possono presentare nella stessa udienza ai sensi dell'articolo 379 cod. proc. civ. , non possono assumere il contenuto di vere e proprie memorie; queste, se prodotte, quantunque qualificate dalle parti interessate "note di replica", debbono essere considerate inammissibili, perché non tempestivamente depositate ai sensi dell'articolo 378 cod. proc. civ. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 24 febbraio 2005 n. 3815. Impugnazioni civili - Ricorso per cassazione - Procedimento - Discussione - A seguito di ordinanza ex articolo 375, secondo comma, cod. proc. civ. - Parti a cui siano state notificate le conclusioni scritte del P.G. ai sensi dell'articolo 375, comma terzo - Omesso deposito di memorie ex articolo378 cod. proc. civ. - Successive osservazioni scritte - Disciplina ex articolo 379, IV comma, cod. proc. civ. - Contenuto precettivo - Presentazione, da parte degli avvocati delle parti, di documenti scritti di considerevole lunghezza - Ammissibilità - Esclusione. In tema di pubblica udienza nel giudizio di cassazione, disposta - ai sensi dell'articolo 375, comma secondo, cod. proc. civ. - con ordinanza, a seguito del mancato ricorso di qualcuna delle ipotesi di cui al primo comma, gli avvocati delle parti, ai quali siano state notificate le conclusioni del pubblico ministero, ai sensi del terzo comma dell'articolo 375, cit ., che non abbiano esercitato la facoltà di presentare memorie in cancelleria, ai sensi dell'articolo 378 cod. proc. civ. , non oltre cinque giorni prima dell'udienza, possono, nella stessa udienza, presentare, ai sensi dell'articolo 379, IV comma, cod. proc. civ., solo "brevi osservazioni" scritte sulle conclusioni del pubblico ministero, allo scopo di consentire loro un consapevole e compiuto esercizio del diritto di replica nel corso della discussione orale, in ottemperanza al principio del contraddittorio, ma non articolate e complesse memorie che, se depositate, devono essere dichiarate inammissibili. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 15 maggio 2003 n. 7570. Impugnazioni civili - Ricorso per cassazione - Procedimento - Discussione - Scritti difensivi consegnati dalle parti al cancelliere prima dell'udienza - Ammissibilità - Esclusione - Ragioni. Nel giudizio di cassazione, non sono ammissibili scritti difensivi consegnati dalle parti al cancelliere nel giorno fissato per l'udienza e prima dell'inizio della stessa, denominati "note di udienza", non potendo essere né equiparati a memorie di parte ex articolo 378 cod. proc. civ., perché depositati oltre il termine previsto da quest'ultima norma, né assimilati alle osservazioni sulle conclusioni del P.G., di cui all'ultimo comma dell'articolo 379 cod. proc. civ., in quanto consegnati prima della chiamata della causa e, quindi, precedenti all'esposizione delle conclusioni del p.g. • Corte di cassazione, sezione V, ordinanza 21 dicembre 2001 n. 27964. Lettere: considerazioni su Area Penale Esterna e Fondo Unico Giustizia (Fug) di Anna Muschitiello Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2015 Il 19 maggio u.s. presso la casa di reclusione di Milano Bollate sono stati inaugurati gli stati generali dell'esecuzione penale ed è stato presentato il piano di riforma del sistema dell'esecuzione della pena da parte del Ministro della Giustizia Orlando. Le intenzioni sembrano buone, ma dopo tante parole, il personale che oggi è impegnato nell'esecuzione penale esterna si aspetta anche i fatti, perché è di questi giorni la notizia che il Ministro della Giustizia ha firmato il decreto di variazione di bilancio con il quale vengono assegnate risorse del Fondo unico giustizia (Fug), per complessivi 30,53 mln di euro, per il finanziamento di prioritari interventi strategici dell'amministrazione giudiziaria e penitenziaria e ancora una volta debbono constatare che il nostro Governo è affetto da strabismo. Sempre il Ministro Orlando sostiene di voler attuare una inversione di tendenza addirittura storica in tema di esecuzione della pena perché "il carcere è stato spesso utilizzato per dare risposte a fenomeni sociali senza che ciò abbia prodotto un reale effetto sulla sicurezza dei cittadini" e proprio per questo sta puntato strategicamente sull'ampliamento e il potenziamento delle pene e delle misure alternative al carcere, queste si più efficaci dal punto di vista dei risultati; solo qualche mese fa prometteva di stanziare 5 milioni di euro su questo settore. Ora nel momento in cui si destinano concretamente tali risorse ci troviamo di fronte allo stanziamento di appena 0,5 mln all'esecuzione penale esterna sul totale di 30,53 mln e ben 3 mln per il miglioramento delle strutture penitenziari, 2,5 per l'ammodernamento degli automezzi destinati al trasporto dei detenuti, nonché 2 mln per garantire lo svolgimento delle missioni nazionali del personale del Corpo di polizia penitenziaria. Gli Uffici di esecuzione penale esterna con appena 1000 operatori in tutta Italia hanno in carico più di 32mila soggetti e, a seguito delle nuove normative, quale quella sulla messa alla prova, vedono aumentare, di giorno in giorno in modo esponenziale il numero di persone da seguire, sparsi su tutto il territorio, per altro senza macchine, senza rimborsi delle spese per i viaggi, con il contratto bloccato da ben 6 anni. Solo in Lombardia sono state fatte ben 2900 richieste di messa alla prova di adulti, dall'entrata in vigore della legge n.67/14 nell'aprile 2014 ad oggi e ad occuparsene sono solo un centinaio di assistenti sociali, che debbono sommare la presa in carico di questi soggetti a tutte le altre misure alternative. Basterebbe prendere in considerazione alcuni dati per comprendere cosa vuol dire in Europa concretamente gestire un'Area Penale Esterna: nel Regno Unito 200 mila soggetti in probation possono contare su 16 mila operatori. Servirebbe un programma per gestire le pene non detentive e una rivoluzione culturale per spostare l'attenzione dall'aspetto detentivo a quello non detentivo, in pratica assumere più assistenti sociali, cioè gli operatori che hanno di fatto in carico i soggetti in esecuzione penale esterna, invece l'ultimo concorso risale al 1998 e nel giro di 2/3 anni la maggioranza di essi andrà in pensione. Non basta aver creato con il regolamento di riorganizzazione del Ministero della Giustizia, approvato definitivamente il 18 maggio u.s. dal consiglio dei Ministri, un nuovo Dipartimento che unifica settore minorile ed esecuzione penale esterna, serve dargli gambe e risorse perché esso funzioni. Gli operatori degli Uepe gestiscono in Italia misure alternative sin dal 1975 (40 anni) anche con buoni risultati (19% di recidiva da parte dei soggetti affidati contro il 68% dei dimessi dal carcere) senza risorse e come fanalino di coda del settore penitenziario. Ora se si vuole veramente cambiare verso e raggiungere gli obiettivi che ci chiede l'Europa, spostando il braccio della bilancia verso le pene/misure alternative e riducendo il ricorso al carcere ad extrema ratio occorre guardare tutti nella stessa direzione. Emilia Romagna: la Garante regionale dei detenuti agli Stati generali sull'esecuzione pena Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2015 In Italia sta nascendo "una nuova idea di pena", e l'inaugurazione questa mattina a Milano degli Stati generali dell'esecuzione della pena è il primo passo di un "percorso virtuoso che porterà non solo a un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti ma anche a vantaggi per tutta la comunità". A sostenerlo Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che oggi nel capoluogo lombardo ha partecipato insieme ad altri Garanti regionali al taglio del nastro di un progetto semestrale, inaugurato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che attraverso 18 tavoli di lavoro tematici mira a "creare un diverso senso comune sul carcere e i carcerati". Per il primo incontro è stata scelta come sede l'istituto penitenziario di Bollate, "un carcere modello", spiega Bruno: lì, infatti, "viene assicurata l'attività trattamentale e il lavoro praticamente a tutti". Inoltre, "ci troviamo a pochi metri da Expo, dove sono impiegati 100 detenuti provenienti da questa struttura e da altre del territorio milanese". Un nuovo piano di riforme è "necessario, perché l'emergenza sovraffollamento è ormai superata in tutta Italia- sostiene la Garante-, ora bisogna pensare a cosa fare concretamente per garantire il lavoro ai ristretti e favorire il ricorso a misure alternative". Sarà importante, prosegue, "cambiare anche le convinzioni diffuse tra i cittadini sui detenuti, facendo capire come il recupero abbassa significativamente la recidiva, costituendo quindi una restituzione per tutti". Il ministro ha riportato tra le più recenti azioni positive la firma del protocollo tra Amministrazione penitenziaria e Regioni, per aumentare le attività interne al carcere, sottoscritto con 14 Regioni, e l'avvio del processo di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari: la Garante sottolinea come la Regione Emilia-Romagna sia stata tra le prime a sottoscrivere il protocollo e a realizzare positivamente il processo di superamento degli Opg con l'apertura di due Rems. Sondrio: la Casa Circondariale rinnova gli ambienti e si apre al territorio valtellinanews.it, 22 maggio 2015 Presentate le ristrutturazioni all'interno della Casa Circondariale del capoluogo per permettere alle persone detenute di svolgere laboratori formativi e spendibili una volta usciti. Ora si cerca qualche soggetto con cui collaborare. La vita di un detenuto non si può certo dire che sia piacevole ed agiata. Indipendentemente dalla pena che si deve scontare vivere rinchiusi in una cella per mesi o anni non è certo semplice. La Casa Circondariale di Sondrio, già da qualche tempo, ha iniziato un percorso per rendere la vita dei detenuti all'interno delle mura più formativa e costruttiva. Per questo, nella mattinata di giovedì 21 maggio, il direttore del carcere del capoluogo, Cosima Buccoliero, ha voluto presentare le attività di ristrutturazione degli ambienti utilizzati dai detenuti per alcune attività formative e costruttive. Grazie al supporto, economico e concreto, della Provincia di Sondrio, della Comunità Montana, del Comune e del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria (Prap), è stato possibile riqualificare due "spazi trattamentali" della struttura e metterli a disposizione delle persone che transiteranno in futuro nella Casa Circondariale, come spiegato dal Ragioniere del Carcere, Giuseppe De Felice, e dal rappresentante della Provincia, Tiziano Maffezzini. "All'interno della nostra struttura vi è una situazione confortevole e positiva - ha spiegato il direttore Buccoliero, ad oggi vi sono 24 persone detenute e non si evidenziano criticità. Anche per questo abbiamo voluto lavorare con alcuni attori del territorio per costruire insieme ed implementare risorse e progetti". "Quanto presentato oggi è un'ottima prassi di partecipazione attiva, dove la società civile e le istituzioni dimostrano di sapere lavorare insieme per raggiungere risultati positivi. Le persone detenute sono una risorsa e noi, anche grazie agli spazi che oggi presentiamo, vogliamo restituire alla società persone con competenze. Allestire dei laboratori all'interno della Casa Circondariale renderà le persone più consapevoli e responsabili" ha aggiunto Giovanna Longo, in rappresentanza del Prap. Dello stesso avviso anche Francesco Racchetti, fresco di rinnovo come Garante dei diritti delle persone detenute per il Comune di Sondrio. "Quello di oggi è un punto di arrivo ed un punto di partenza. Sono molto soddisfatto di quanto fatto perché lo spazio all'interno della Casa Circondariale era il problema principale. Questa riqualificazione non riguarda solo gli spazi fisici ma vuole anche creare nuove reti con l'esterno, pensando ad un laboratorio di competenze. L'esecuzione penale deve riguardare tutta la società". Ora la Direzione della Casa Circondariale di Sondrio guarda oltre, alla ricerca di enti, associazioni o imprenditori che abbiano voglia di fare rete e costruire insieme qualche progetto, partendo proprio dagli ambienti ristrutturati. "Stiamo cercando di avviare processi di "osmosi" tra carcere e territorio per poter così migliorare la vita delle persone detenute, attraverso attività spendibili una volta usciti dal Carcere" ha concluso il direttore Cosima Buccoliero. Già altri progetti, volti tutti nella stessa direzione, sono nella testa della Direzione. Migliorare le condizioni delle celle dei detenuti, ad oggi aventi servizi igienici vecchi e logori, la creazione di un'area verde all'interno dell'intercinta muraria, per rendere i colloqui tra i detenuti ed i loro più familiari più gradevoli, oltre che permettere la piantumazione di piante per la produzioni di piccoli ortaggi. Infine si sta mettendo a punto l'impianto elettrico della Casa per poter anche allestire, all'interno del ballatoio, un angolo lavanderia, con lavatrice ed asciugatrice, per permettere ai detenuti di lavare i propri panni in autonomia. La strada che la Casa Circondariale di Sondrio ha deciso di intraprendere è chiara. Le piccole dimensioni della struttura e la sensibilità della Direzione hanno fatto sì che le scelte fatte andassero tutte verso lo stesso obiettivo: riconoscere la dignità delle persone detenute. Grazie quanto fatto finora, con la collaborazione delle associazioni del territorio che già entrano in Carcere, e quanto programmato per il futuro, la strada per il rispetto vero, nonostante tutto, sembra esser tracciata. Cagliari: interrogazione di Pinna (Sc) sulle gravi problematiche dell'Ipm di Quartucciu Ansa, 22 maggio 2015 Il caso del carcere minorile di Quartucciu (Cagliari) finisce in Parlamento. Un'interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando è stata presentata dalla deputata di Scelta civica, Paola Pinna. "Razionalità, economicità, efficienza ed efficacia - spiega la parlamentare sarda - sono principi ben lontani dalla realtà dell'istituto penitenziario che presenta problematiche gravi sia sociali che economiche". Pinna evidenzia "le dimensioni spropositate, sia in termini di spazi sia in termini di personale, di una struttura che ospita appena sei minorenni". Secondo Pinna, inoltre, "la struttura, blindata e diffusa su un'area di più di 40 mila metri quadrati, e l'impianto dell'edificio, ormai datato, producono costi esorbitanti, più di mille euro al giorno per detenuto". Il ministro - riferisce la nota della parlamentare - si è impegnato a mantenere costante l'attenzione ai problemi segnalati sulla struttura di Quartucciu e ha annunciato la trasformazione del Dipartimento per la giustizia minorile in Dipartimento per le sanzioni di comunità la cui ambizione è "recuperare l'elemento individuale del soggetto nell'azione trattamentale". Pinna ha suggerito, nell'ambito della riforma organizzativa in corso, di tenere in considerazione sia le esigenze degli agenti di polizia penitenziaria sia quelle dei giovani detenuti. "Nella città di Cagliari - conclude la deputata - sono presenti diversi stabili dismessi che sarebbero perfetti per accogliere questi ragazzi, aiutandoli a creare delle relazioni positive all'interno del tessuto sociale". Verona: chiusura Opg; progetto per creare "pre-Rems" nell'ex casa di riposo di Albaredo di Paola Bosaro L'Arena, 22 maggio 2015 Bambini dell'asilo? Malati di Alzheimer? Profughi? Niente affatto. Ad Albaredo potrebbero arrivare i detenuti psichiatrici. Irrompe come un uragano, nel mezzo della campagna elettorale, l'ulti ma proposta di sistemazione dell'ex casa di riposo "Villa Grassi Perosini" presentata dalla cooperativa "Promozione e lavoro" di San Bonifacio. Alcune settimane fa, il Cda dell'Ipab albaretano ha ricevuto una richiesta di incontro dal presidente della coop, Giorgio Roveggia, per discutere del progetto di ristrutturazione del fabbricato e di creazione di un centro di recupero per pazienti psichiatrici, condannati a scontare una pena detentiva. Mentre a Nogara le minoranze continuano ad alzare le barricate contro il progetto della "Rems" (Residenza per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) all'ex ospedale "Stellini", Roveggia ha studiato il piano perla realizzazione di una sorta di "pre-Rems" ad Albaredo. Si tratterebbe, dunque, di una struttura transitoria per cercare di ovviare al ritardo della Regione nell' esecuzione del decreto legge che ha stabilito la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. L'ipotesi di progetto è stata studiata da "Promozione e lavoro" con Antonino Calogero, per decenni primario all'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Sti-viere (Mantova). Per l'ex casa di riposo, dismessa nel maggio del 2013 in seguito alla realizzazione della nuova Ca dei Nonni, si tratta dell'ennesima proposta di recupero, dopo quelle previste dall'ex presidente dell'Ipab Debora Marzotto, che avrebbe voluto un asilo, dall'attuale presidente Stefano Mattiolo, che propenderebbe per un centro per l'Alzheimer, e dalla Prefettura, che a fine settembre aveva ventilato perfino l'ipotesi di una residenza per accogliere i profughi sbarcati nel Sud Italia. In quest'ultimo caso, la sollevazione popolare non si è fatta attendere. Tanto che l'ex consigliere leghista David Marin è riuscito a raccogliere ben 900 firme di cittadini contrari ad ospitare richiedenti asilo nell'ex ricovero. Il centro "pre-Rems" di Alba-redo dovrebbe accoglierebbe 20 persone per 10 anni, con un'opzione per altri 10. L'iniziativa di Roveggia ricalca quella già prevista un anno e mezzo fa dallo stesso presidente della coop al "Tezon" di Veronella. La proposta di recupero dell'ex polveriera della Serenissima Repubblica non è però andata in porto perché la Regione ha preferito puntare su Nogara, Tuttavia, Roveggia è convinto che servirà una soluzione intermedia, in attesa del completamento della struttura nogarese, che potrebbe richiedere tre o quattro anni di lavoro. La replica di Mattiolo è perentoria: "Siamo in scadenza di mandato e non prenderemo una decisione così complessa non solo per il futuro dell'Ipab, ma anche per quello dell'intera comunità albaretana". "Non dobbiamo dimenticarci", sottolinea, "che Villa Grassi Perosini si trova in centro storico, di fronte alle scuole elementari. Questa è una scelta che va compiuta coinvolgendo la nuova amministrazione comunale". Spetterà, pertanto, a Roveggia convincere il futuro sindaco e la sua Giunta". Savona: Sappe; tubercolosi, proteste e un'evasione, la direzione del carcere nel mirino di Andrea Chiovelli ivg.it, 22 maggio 2015 Attacco del Sappe: "Due giorni fa rischiata la rivolta, colpa della direzione assente". Domani nuova protesta dei carcerati?. "Da quando c'è questa direzione abbiamo ottenuto la prima evasione e la prima rivolta". È una cannonata che ha destinatari ben precisi quella tirata da Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe: nel mirino finiscono il nuovo direttore e il nuovo comandante del carcere Sant'Agostino di Savona, "rei" di aver portato nell'istituto savonese una gestione definita "da rivedere". A dirlo, con forza, gli agenti aderenti al Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) due giorni dopo un episodio quantomeno preoccupante: martedì 60 detenuti si sono rifiutati di rientrare al termine delle ore d'aria, costringendo tre guardie carcerarie a più di due ore di trattative per convincerli a desistere. Il problema, dicono i poliziotti, è che questa è solo la punta dell'iceberg di un mondo, quello del Sant'Agostino, afflitto da mille criticità. "I problemi riguardano la gestione, da parte di una direzione assente che viene soltanto un giorno la settimana, e la sanità penitenziaria, perché qui dentro non si garantisce l'adeguata assistenza sanitaria ai detenuti - tuona Michele Lorenzo. E tutto questo si riverbera sul personale della polizia penitenziaria, che 24 ore su 24 deve gestire sia le problematiche interne di sicurezza sia le manifestazioni di protesta dei detenuti preoccupati". La nuova direzione, spiega Lorenzo, è presente in struttura solo per due ore la settimana. "Quello di Savona è un istituto che fino a ieri non ha mai destato problemi di ordine o sicurezza - ricorda - Tutto a un tratto, con questo modello organizzativo voluto sia dal direttore che dal comandante, entrambi in missione da Chiavari, stranamente abbiamo ottenuto la prima evasione, la prima rivolta e le preoccupazioni della polizia penitenziaria che si sente abbandonata da questa gestione". Che, accusa Lorenzo, è da rivedere: "Non si può lasciare la sicurezza in capo a un comandante che non sappiamo se c'è o non c'è. Si è lasciata gestire una protesta di 60 detenuti da 3 poliziotti penitenziari. Sono stati molto abili, perché ce l'hanno fatta da soli e dopo due ore e un quarto di trattative hanno fatto desistere i detenuti che sono rientrati nelle loro celle; però non è questo il modo giusto di gestire una protesta, è aberrante". Tre contro 60: se questi avessero voluto prendere le chiavi e andarsene in massa, allarga le braccia Lorenzo, sarebbe stato impossibile impedirglielo. E qualcuno, rincara il segretario del Sappe, è già evaso. Si tratta di un detenuto sospettato di aver contratto la tubercolosi, che è stato portato in ospedale e lì lasciato senza piantonamento: in 3 minuti, racconta Lorenzo, si è allontanato. Ma è in generale il modo in cui si affrontano i casi di malattia che non funziona: "Non si dà una esatta valutazione alle patologie infettive. Non bisogna aspettare 30 giorni per intervenire, si deve intervenire subito, questo lo dice l'ordinamento penitenziario: il detenuto deve essere monitorato, curato ed eventualmente spostato in ambienti adeguati alla sua cura. Ma Savona non ha spazi per isolare i detenuti: per poterlo fare dobbiamo aumentare i detenuti nelle altre celle, oggi ne abbiamo una abitata da 11 detenuti con letti a castello a 3 piani". Ma le accuse sono molteplici, e riguardano anche il rischio a cui vengono esposti gli agenti. "Quelli che non indossano la divisa, nel caso di malattie infettive stranamente si defilano", accusa Lorenzo, che parla di dirigenti che evitano il contatto con i malati ma non usano altrettanta cautela per le guardie. "La cosa strana è che acquistano le mascherine di protezione P3 ma non vengono date al personale perché costano troppo e si potrebbero consumare. Ma che logica ha questo discorso?". I poliziotti sono un fiume in piena, e sotto accusa finiscono anche l'attività rieducativa del detenuto che, sostengono, "passa attraverso il lavoro. E qua a Savona questo non avviene". Tant'è, spiegano, che a Cairo Montenotte per alcuni lavori vengono inviati i carcerati di Alessandria perché la direzione del Sant'Agostino non vuole inviare quelli savonesi. Un malumore che appartiene anche ai detenuti: tant'è che, nei corridori del carcere, si vocifera di una nuova protesta domani. Mille problemi, legati alle scelte più che al denaro (come nel caso della protesta: "gli agenti sarebbero sufficienti se fossero ben gestiti", spiegano). E per questo anche il milione di euro in arrivo è giudicato inutile: "Non so a chi serviranno, non all'istituto di Savona - attacca Lorenzo - È un convento, più di questo qui non si può fare. Non capiamo il progetto, e il milione di euro a mio avviso non può servire a niente se non dare un po' di bianco o ad aggiustare nuovamente gli uffici di direttore e comandante che sono già stati ampiamente rivisitati. C'è bisogno di un carcere nuovo a Savona, dobbiamo avere il coraggio di dire che questo carcere non serve e che dobbiamo iniziare a costruirne uno nuovo. Savona non lo vuole? Il Comune lo rifiuta? Facciamolo in Valbormida, o in una zona dove hanno effettivamente voglia di vivere in uno stato civile e sociale. Savona, mi dispiace, ma non è di questa idea". Padova: senza dimora rubò petto di pollo al supermercato, assolto per "lievità del reato" di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 22 maggio 2015 Rumeno scagionato dopo un colpo al supermercato del valore di 11 euro. Applicata per la prima volta la nuova legge. Ruba un petto di pollo al supermercato e viene assolto. Prima applicazione a Padova della nuova legge che prevede la non punibilità per particolare tenuità del fatto (sia un furto o un reato finanziario). Si è svolto ieri il processo che vedeva imputato Lucian Hutanu, un rumeno di 56 anni senza fissa dimora, accusato dal pubblico ministero Benedetto Roberti di furto all'interno del supermercato In's di Padova di una confezione di petti di pollo del valore di 11,65 euro. Il cibo era esposto nel banco frigorifero e il 14 settembre del 2012 lo straniero, probabilmente preso dai morsi della fame, ha nascosto la confezione sotto il giaccone ed è uscito dal supermercato senza pagare. Ma è stato bloccato e denunciato. L'avvocato difensore Giuseppe Pavan ha chiesto l'assoluzione la lieve entità del fatto, come del resto l'aveva chiesta il pubblico ministero. Al giudice Stefano Canestrari non è rimasto che sentenziare il non luogo a procedere per la lieve entità del furto. L'extrema ratio della norma è di delimitare l'intervento penale ai casi necessari, liberando i tribunali da troppe cause inutili. Il decreto legislativo in questione è il numero 28/2015, in vigore dal 2 aprile scorso, che cambia il codice dei reati grazie all'introduzione di un nuovo articolo, il 131 bis, che prevede l'esclusione da punibilità dei reati sanzionati fino a 5 anni di reclusione, considerati per l'appunto di particolare tenuità. Perché un fatto possa essere identificato di particolare tenuità, vengono poste due condizioni: la prima è che l'offesa venga considerata di scarsa gravità, come è stato in questo processo per il furto dei petti di pollo. Ma deve configurarsi la non abitualità della condotta dell'imputato. Ossia non ci deve trovare di fronte a ladri incalliti che rubano abitualmente. Nella sua condotta il ladro non deve aver agito con crudeltà, né aver usato sevizie. Per quanto riguarda la consuetudine del comportamento, si ritiene abituale un soggetto che venga considerato un delinquente professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole. Il legislatore ha introdotto delle modifiche riguardanti l'iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti considerati tenui. Facile pensare che la nuova norma - che ha già trovato diverse applicazioni in Veneto - verrà applicata spesso anche nel tribunale di Padova, dove non sono pochi i processi incardinati per reati lievi, soprattutto per quanto riguarda proprio i furti nei negozi d'abbigliamento e nei supermercati. Per chi commette furti non ingenti la scappatoia quindi c'è. Milano: carcere di Bollate, quelli che... guardano Expo da dietro le sbarre di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 22 maggio 2015 Quando la maggior parte dei milanesi ancora aveva solo una vaghissima idea di che cosa fosse Expo, e soprattutto di dove fosse, loro erano molto più informati. L'hanno visto o intravisto crescere. Chi non riusciva a vedere, si faceva raccontare. Quella cosa enorme che andava crescendo, quel frastuono, quell'andirivieni frenetico. Però questi cittadini milanesi così informati, coinvolti, incuriositi, sono quelli che Expo non potranno visitarlo mai. Sono i detenuti del carcere di Bollate, affacciato sul recinto dell'esposizione: pochi metri di distanza, giusto lo spazio di un parcheggio. Un parcheggio dove molti lavoratori di Expo lasciano l'auto, si infilano le scarpe da cantiere e l'elmetto di plastica, e voltano le spalle a questa struttura modello, "istituto a custodia attenuata per detenuti comuni", fiore all'occhiello dell'edilizia penitenziaria italiana. Ecco, che cos'è Expo visto con gli occhi di un vicino recluso? "Io mi ricordo - racconta Gaetano, un signore di mezza età che lavora nel giornale "Carte Bollate" - che la nostra prima reazione agli inizi del cantiere è stata di fastidio. Sentivamo quel frastuono giorno e notte, respiravamo quella nuvola di polvere. Poi è subentrata la curiosità. E anche, diciamolo, la speranza di fare in tempo a vederlo. Molto difficile, almeno per me. È come avere il mare a cento metri, sentirlo, e non poterci andare". Qualcuno vede dalla finestra. Pochi, dei reparti maschili, e un po' di sguincio. Dal femminile, invece, Expo è proprio in faccia: "Io lo vedo dalla mia cella, al terzo piano - dice Debora - Ci siamo sempre chieste quanto sarebbe durato. E poi, una volta finito, si spengono e luci e che cosa resta?". Lei e la sua amica Marianna sperano: "Che Expo porti un po' di lavoro per quando usciremo". Bollate è un carcere particolare, molto avanzato. Pieno di attività e di iniziative, dove praticamente tutti i detenuti hanno qualcosa da fare. Che sia un lavoro nell'orto, nel vivaio, nella falegnameria, nella stalla dei cavalli, nei laboratori, o nelle decine di cooperative che producono di tutto, o nelle biblioteche, sale musica, palestre, uffici, giornali. È quindi un carcere fondato sulla partecipazione, sul darsi da fare, un carcere molto aperto che vive di relazioni col mondo esterno. Si capisce che la curiosità per quella cosa enorme là fuori, di cui parlano tv e giornali, è forte. Qualcuno ci lavora: ogni giorno 35 di loro (86 compresi quelli di San Vittore, Monza e Opera) escono dal carcere accompagnati dagli agenti e vanno a lavorare dentro Expo. Vengono retribuiti, fanno 6 ore al giorno, con un giorno di riposo alla settimana. Svolgono più che altro lavori di accoglienza e danno indicazioni ai visitatori. Chi ci è stato, racconta ciò che ha visto. Come dice Gaetano, un po' filosofo: "Ci si racconta, perché il carcere è racconto". Ma non il racconto di un passato, di una vita diversa da non dimenticare. Il racconto di qualcosa che pulsa adesso proprio lì, che sarà magari brutto o bellissimo, qualcosa che è il presente. "Lo viviamo di riflesso, questo Expo, come una festa e un fastidio. Come un intruso, ma anche come una speranza da poter verificare prima che scadano i sei mesi". A uno di loro la visione di quell'andirivieni di camion e operai ha ispirato una poesia. Titolo "Lazzarone", autore Paolo Agrati, che ha anche vinto un premio ed è stato pubblicato: "Ogni mattina, quando mi affacciavo alla finestra di casa, vedevo una lunga coda di camion e auto: uomini e donne che andavano a lavorare, quel lavoro che non ho mai voluto fare ed è per questo che andavo a rubare. Ho deriso il lavoratore, che non è diventato un rapinatore. E oggi, quando mi affaccio a questa finestra, ho nostalgia di quel lavoro sempre rifiutato... Penso al coraggio mancato, alla coda che non ho afferrato". I racconti sono anche dei semiliberi. Domenico ora è libero, e collabora con la cooperativa Nuove Strade (legatoria, restauro libri, cartotecnica): "Ma dal 14 luglio 2014 al 23 aprile 2015 ero detenuto qui a Bollate e uscivo ogni giorno per andare ad accudire mia figlia. Uscivo alle 6,30 quando non c'era la navetta, e a piedi attraversavo tutta l'area Expo per andare alla stazione ferroviaria, c'era una scorciatoia che poi hanno chiuso. Eravamo in 200. Vedevo i lavori andare a rilento, e mi chiedevo come avrebbero fatto. Dentro in carcere poi se ne parlava. Adesso da libero ho visto Expo: beh, pensavo meglio, anche questo Albero della Vita tanto decantato non mi convince". Forse l'Expo raccontato e immaginato è più bello. Daniel, un ragazzo romeno che ora in carcere sta imparando il mestiere di dog-sitter: "Ogni racconto da fuori qui ti fa creare un mondo, e noi ce l'abbiamo di Expo. Mi pare una cosa di forte impatto per il messaggio che trasmette: la terra, il cibo, la coltivazione. Anche noi siamo un po' così, abbiamo l'orto, il vivaio, il frutteto. Siamo un po' Expo anche noi, e cerchiamo di fare iniziative per portarlo dentro". Che ci sono, infatti: si chiamano "Jail Expo". Per tutta la durata dell'esposizione, ogni primo venerdì del mese, il carcere si apre ai visitatori con una serie di mostre d'arte in collaborazione con gli studenti di Brera, e un mercatino di cibi e oggetti prodotti dalle cooperative. Per entrare basta mandare in anticipo una mail di richiesta con gli estremi di un documento di identità. Matteo, ragazzo entusiasta, dice: "Io dalla finestra intravedo l'Albero della Vita. Mi sento parte di una cosa che non vedrò mai, ma con cui sono in contatto. È una parte di mondo che viene a trovarci". Milano: teatro-carcere; grande successo al "Gaber" per spettacolo dei detenuti di Opera Italpress, 22 maggio 2015 Circa 250 persone presenti ieri sera alla "prima" del concert-show per la pace nel mondo messo in scena dai detenuti del carcere di Opera all'Auditorium Gaber di Palazzo Pirelli. Questa sera lo spettacolo "L'amore vincerà", voluto dall'Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale della Lombardia e dalla Commissione Carceri, replicherà con inizio alle ore 20.30, aperto al pubblico ad ingresso gratuito. "Questa iniziativa -ha spiegato il Presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo, ieri sera presente tra il pubblico insieme a numerosi Consiglieri regionali - è straordinariamente paradigmatica di quello che noi vorremmo diventassero le Carceri, cioè non solo un luogo di espiazione, ma soprattutto luogo e occasione per ritrovare se stessi come persone e nel rapporto con la società. L'arte e il teatro si confermano pertanto ancora una volta come strumento formidabile per contribuire al recupero delle persone, ma hanno anche un forte valore sociale e civile: infatti le strutture penitenziarie che non offrono una proposta rieducativa hanno una percentuale elevatissima di recidiva, mentre chi riesce a ritrovare se stesso, una volta uscito dal carcere poi non delinque più". L'opera in scena al Gaber di Palazzo Pirelli, diretta da Isabella Biffi, rientra in un progetto culturale di rieducazione attivato già 7 anni fa e che ha già avuto anche l'opportunità di far calcare ai detenuti il palcoscenico del Teatro Arcimboldi. "Alla luce del grande successo di pubblico che questo spettacolo ha fatto registrare a Milano, come Commissione Carceri ora ci adopereremo per portarlo in scena in tutte le realtà provinciali della Lombardia - ha annunciato il Presidente della Commissione Carceri Fabio Fanetti - Quando mi sono avvicinato per la prima volta a questo progetto ho provato delle emozioni rare: attraverso questo lavoro le persone sono davvero in grado di trasformarsi e rinascere, di far emergere bontà e amore che, per motivi diversi, erano venuti meno o erano stati sopraffatti da altri sentimenti". Roma: nel carcere di Rebibbia detenuti commossi davanti alla Madonna di Fatima radiovaticana.va, 22 maggio 2015 Si è conclusa ieri pomeriggio la visita della Madonna Pellegrina di Fatima, ai detenuti della Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso di Roma. Per tre giorni gli ospiti del carcere hanno avuto la possibilità di pregare e di rivivere le emozioni provate in occasione della recente visita di Papa Francesco. L'impossibilità degli ospiti di Rebibbia di recarsi a Fatima ha fatto sì che la Madonna si facesse "pellegrina" tra coloro che abitualmente la pregano o per i tanti curiosi che hanno sentito solo parlare di Lei. Per la prima volta, la statua è stata portata in visita ai detenuti della Casa circondariale Nuovo Complesso, assistiti dal Cappellano don Roberto Guernieri. L'iniziativa è stata promossa dell'Apostolato Mondiale di Fatima, l'Associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Iniziativa provvidenziale perché giunta alla vigilia del Giubileo della Misericordia, secondo mons. Giovanni D'Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, che ha presieduto la messa del pomeriggio. "Ha un grande significato di preparazione, secondo me. Tutte le carceri, come gli ospedali e altri luoghi di prova, di sofferenza, di pena, sono luoghi dove la misericordia si tocca con le mani. E in preparazione all'Anno Santo della Misericordia il passaggio della Madonna può essere un viatico, una preparazione molto importante, che fa sentire tutti quanti protagonisti di una nuova stagione, nella quale il perdono e la rinascita si ottiene tramite la Mamma Celeste". Secondo il cappellano, don Roberto Guernieri, è stato un evento, quello del pellegrinaggio della Vergine, in continuità con la visita di Papa Francesco a Rebibbia: "Sembra proprio che Papa Francesco abbia preparato questa visita, quando è venuto qui. Questi nostri fratelli, che sono qui in carcere, hanno aspettato questi tre giorni in un modo veramente particolare. Tutti abbiamo bisogno della intercessione, della protezione della Vergine Maria, ma certamente nei momenti più difficili, più disperati, più tristi della giornata, della sera, quando c'è la malinconia del fatto di non avere nessuno vicino e quando tutte le luci si spengono e, soprattutto, quando non sanno e sappiamo dove sbattere la testa, ci sono certamente dei punti di riferimento spirituali che rimangono e che accendono ancora la voglia di andare avanti, come questa presenza particolare, che durerà per parecchio tempo sicuramente". L'emozione della tre giorni nella testimonianza di Antonella Viali, responsabile dell'Apostolato Mondiale di Fatima per l'Italia Centrale: "Le emozioni provate sono state tantissime. Per esempio, ho trovato le mamme con i bambini piccoli. Mi sembrava, non so, di fare quasi una passeggiata a Piazza Navona, perché è un carcere meraviglioso. È tenuto benissimo, custodito bene. C'erano giardini, aiuole, bambini che correvano e che facevano il picnic. Una cosa bellissima. Poi, ho visto che questa Madonna è stata seguita con tanta gioia, con tanta devozione. C'era gente che piangeva, che sorrideva. A me piace portare questa Madonnina proprio in questi luoghi, per dare appunto questa gioia, questa speranza". Il messaggio della Madonna di Fatima, il suo invito a pregare e a chiedere perdono è risuonato oggi nel carcere di Rebibbia. Ed eventi come questi aiutano a ritrovare la giusta strada. Ne è convinto Fabio, uno degli ospiti: "È stata una esperienza bellissima. È un'emozione bellissima partecipare a questa celebrazione ed anche prepararla. Per me, infatti, e per i nostri compagni, la fede è molto importante: ci aiuta ad andare avanti nei momenti difficili. In questo luogo, molti di noi si sono avvicinati di più alla fede. E preparare questo evento, insieme agli altri volontari, è stata un'emozione veramente grande, soprattutto vedere i compagni, che vengono qui a Messa, per vedere la Madonna di Fatima. Abbiamo avuto tanti eventi qui ed è venuto anche il Santo Padre, il Giovedì Santo, ed io sono stato uno dei fortunati a cui ha lavato i piedi. È una chiusura, quindi, molto bella questa della Madonna". Firenze: la musica come racconto di vita, due nuovi cd per "16 Sbarre" Dire, 22 maggio 2015 La musica come strumento di liberazione e di informazione. La musica per raccontare storie, emozioni, rabbia e speranze. Molti i motivi per ascoltarla e molti altri si potrebbero trovare. "16 Sbarre", etichetta musicale indipendente, ce ne offre un altro dai mille spunti di riflessione. Quella prodotta, infatti, è musica che nasce dietro le sbarre, lavori scritti e cantati dai ragazzi del Carcere Minorile di Firenze e dai detenuti del Carcere di Sollicciano e dell'Istituto "M. Gozzini" di Firenze. Dopo l'esperienza di "Senza Ali", un CD di musica rap realizzato nel 2013 proprio con i ragazzi del Carcere Minorile di Firenze, arrivano, oggi, due nuovi lavori - "Punto di raccolta" e "Tutto d'un Fiato" -, frutto di un percorso svolto, tra il 2014 e il 2015, grazie al finanziamento della Regione Toscana, in collaborazione con Asl 10 di Firenze. A presentare i due nuovi CD è C.A.T. Cooperativa Sociale. La cooperativa lavora in carcere dal 2007, con un laboratorio di musica hip hop che punta ad aiutare le persone detenute a ripensare la propria storia ed esprimere emozioni e speranze in forma artistica, a crescere divertendosi. "Punto di raccolta" e "Tutto d'un Fiato" sono il prodotto di un laboratorio di musica rap che, in alcuni casi, ha visto mischiare in maniera originale e creativa le rime, simbolo della cultura hip hop, con tappeti musicali e parti vocali appartenenti prettamente al mondo del rock. "La musica - si legge nella nota ufficiale di presentazione, è un ottimo strumento per esprimere sé stessi e i propri sentimenti, per rielaborare le propria storia e raccontarla a chi del carcere conosce solo quello che scrivono i giornali, cioè che è abitato da delinquenti pericolosi che è meglio tenere rinchiusi. Invece in carcere stanno persone come noi, con storie difficili alle spalle, con tanta voglia di riscatto e grandi potenzialità che vanno valorizzate. La musica stimola la creatività, accresce l'autostima e sviluppa la progettualità, in luogo dove è facile perdersi e lasciarsi andare, ma può anche aiutare chi sta fuori, con un linguaggio semplice e piacevole, a capire cosa c'è dietro quel muro, e a cambiare la propria rappresentazione del carcere e dei detenuti". Le due crew True Black Dogs e Blocco 2/R si raccontano attraverso "Punto Di Raccolta", un disco dal sapore classico, rap adulto e crudo adatto a chi vuole andare oltre gli artisti del mainstream, ma senza rinunciare alle tematiche e alle sonorità alle quali questa genere musicale ci ha abituati. Un album che, all'ascolto, risulta aggressivo e rabbioso, pensieri e riflessioni personali, spaccati di vita vera raccontati in rima. Le produzioni sono curate da un team di base a Firenze di cui fanno parte: Puppet (Tullo Soldja), Charlie Dakilo, Arge (Numa Crew), A.n.d. (Menti Criminali) e un ospite di eccezione come il romano Sick Luke. Bologna: concerto del coro Papageno del carcere della Dozza telesanterno.com, 22 maggio 2015 Il prossimo appuntamento sarà sabato 4 luglio 2015, quando dalle ore 15 il carcere aprirà le porte alla cittadinanza per permettere al Coro di svolgere il suo "concerto pubblico". È stata una mattinata di emozioni e speranze quella alla Casa Circondariale "Dozza" di Bologna, dove il Coro Papageno si è esibito nella "Chiesa Nuova" del penitenziario, di fronte a oltre cento detenuti invitati per l'occasione ad assistere al concerto dei loro compagni. Papageno, infatti, è il coro di detenute e detenuti creato nel 2011 all'interno del carcere su idea di Claudio Abbado, e oggi sostenuto grazie all'Associazione Mozart14, che ha ereditato i progetti sociali del maestro. "Impossibile spiegare tutte le emozioni di questa giornata - racconta il maestro del Coro, Michele Napolitano, al termine del concerto - rappresenta un momento di verifica del lavoro fatto ma anche una festa dopo i lunghi studi svolti durante tutto l'anno. Ogni voce dà il suo apporto al coro e soltanto grazie all'unione di ognuna di queste voci si crea il bellissimo mosaico dove ogni corista rappresenta una piccola ma fondamentale tessera. Fare musica, con professionisti e non, ha già di per sé un suo valore profondo, ma farla dentro un carcere le permette di assumere significati altissimi. Penso che si tratti di un'esperienza coinvolgente sia per i detenuti che per i volontari che partecipano. Un progetto come questo è un dono prezioso per l'intera città: sarebbe bello e auspicabile se in ogni carcere si costituisse un coro sulle orme del Papageno di Bologna". Il prossimo appuntamento sarà sabato 4 luglio 2015, quando dalle ore 15 il carcere aprirà le porte alla cittadinanza per permettere al Coro di svolgere il suo "concerto pubblico". La vendita dei biglietti sarà attivata dal mese di giugno e il ricavato contribuirà a sostenere le attività di Papageno. Stati Uniti: la pena di morte da abolire e i dubbi sull'iniezione letale di Domenico Letizia Il Garantista, 22 maggio 2015 Il dibattito sulla pena di morte negli Stati Uniti d'America è incentrato attorno all'iniezione letale e al protocollo che regola tale iniezione. L'iniezione letale ha guadagnato popolarità alla fine del ventesimo secolo; una nuova forma di esecuzione che soppianta altre tipologie come l'impiccagione, la fucilazione, la decapitazione e la elettrocuzione. Tale metodologia è la più utilizzata negli Stati Uniti d'America. L'iniezione letale fu proposta per la prima volta il 17 gennaio 1888 dal medico di New York, Giulio Monte Bleyer. L'11 maggio 1977, un medico dell'Oklahoma, Jay Chapman, propone una nuova tipologia di esecuzione per iniezione: il Protocollo Chapman. Una iniezione composta da tre farmaci che attraverso una flebo salina viene somministrata al prigioniero per via endovenosa. Il dibattito politico attorno a tale tipologia di esecuzione si accentua nel gennaio 2008, quando lo stesso padre del Protocollo, il dottor Jay Chapman, rende noto che il cocktail dei tre farmaci, utilizzato per trent'anni di seguito in diversi penitenziari della federazione statunitense, non ha sempre funzionato come da protocollo, condannando i detenuti ad una dolorosa e lenta agonia prima della morte. La questione allora divise la Corte Suprema degli Stati Uniti che fu chiamata a decidere sul futuro della pena capitale nel continente, interrogandosi sulla sofferenza pragmaticamente causata nell'elaborare e presentare leggi che pongono fine alla vita degli esseri umani. Il protocollo Chapman deve essere eseguito utilizzando delle precise procedure di esecuzione. Nel corso degli ultimi anni è stato spesso sottolineato che tali procedure di somministrazione che richiedono competenze specifiche, il personale carcerario non le possiede. L'iniezione si svolge somministrando prima un anestetico che fa perdere i sensi al condannato, poi un paralizzante per l'organismo e infine il farmaco che provoca la morte, fermando il cuore. Un errore nell'eseguire l'iniezione basta per trasformare l'esecuzione istantanea in una lenta agonia. Nuove polemiche sono state sollevate dall'opinione pubblica americana e mondiale a fine aprile di quest'anno, quando il dottor Jay Chapman ha dichiarato al giornale inglese The Guardian di nutrire forti dubbi sulla opportunità della pena di morte. "Ci sono stati episodi di cattiva condotta da parte della polizia o della pubblica accusa e test del Dna che hanno dimostrato l'innocenza di condannati dopo la condanna", ha dichiarato Chapman. Il medico pensava che l'iniezione sarebbe stata un metodo di esecuzione più umano: "in quell'epoca avevamo metodi più umani per l'eutanasia sugli animali che per le esecuzioni, con l'idea di usare i farmaci sembrava aver trovato un'alternativa decisamente migliore. Questo non era il mio campo e non era il mio scopo nella vita. Ho visto comportamenti impropri di chi gestisce i processi". In ultima analisi, le preoccupazioni circa gli errori giudiziari e le problematiche legate all'eseguimento delle iniezioni hanno reintrodotto forti scrupoli tra la popolazione sulla pena di morte. L'attuale dibattito pubblico è l'ideale per rendere operative le proposte politiche di organizzazioni non governative come "Nessuno Tocchi Caino", l'Utahns for Alternatives to the Death Penalty e l'organizzazione "Reprieve", che da sempre denunciano la brutalità e l'inefficacia di tutte le esecuzioni capitali. Stati Uniti: lo spray urticante è "strumento di tortura", ma in Italia gli agenti lo chiedono di Damiano Aliprandi Il Garantista, 22 maggio 2015 Nelle prigioni americane vengono commessi abusi e violenze su detenuti malati di mente. È questa la denuncia contenuta nel rapporto dell'inchiesta condotta da Human Right Watch in decine di carceri locali e statali dove sono stati denunciate pratiche scioccanti, come quella di tenere i detenuti legati a sedie e letti per giorni, usando contro di loro taser e agenti chimici tossici. In uno dei casi denunciati nel rapporto, si riporta che le guardie carcerarie di una prigione della California hanno spruzzato per circa 40 volte spray urticante contro un detenuto e poi hanno lanciato quattro bombolette di gas urticante nella sua cella dopo che l'uomo, che sosteneva di essere il "creatore", si rifiutava di lasciarla. "Le prigioni possono essere un luogo pericolo, rischioso e persino mortale per uomini e donne con problemi di salute mentale", afferma Jamie Fellner, autrice del rapporto di Hrw che pubblica sul suo sito anche un video. L'autrice del dossier scioccante spiega: "La forza viene usata contro questi prigionieri anche quanto, a causa della loro malattia, non sono in grado di obbedire agli ordini dati". Molto spesso, dunque, basterebbe saper gestire le situazioni. Cosa che, purtroppo, non sempre succede. Nel rapporto di 127 pagine pubblicato da Hrw il 12 maggio scorso - arricchito da un video che mostra chiaramente le violenze gratuite subite dai detenuti - ci sono le testimonianze di oltre 125 persone tra agenti di custodia - attuali ed ex, psichiatri e avvocati dei prigionieri e il racconto di tantissime storie di abusi. Secondo la denuncia di Hrw molti detenuti hanno subito violenti percosse che hanno provocato la rottura di mascelle, nasi e costole. Ma non solo: ustioni di secondo grado, lesioni di organi interni e contusioni profonde. In alcuni casi, spiega Jamie Fellner, "la forza usata contro di loro ha portato anche alla morte del detenuto". È il caso del 35enne Christopher Lopez, affetto da "disordine schizofrenico di tipo bipolare", che alle 3 e 30 del mattino del 17 marzo del 2013, è stato trovato privo di sensi nella sua cella in una prigione del Colorado. Invece di mandarlo in infermeria per un controllo, come dovrebbe essere da prassi, gli agenti lo hanno ammanettato e legato ad una sedia. Poche ore più tardi lo hanno "liberato" e lasciato solo dentro un'altra cella, nonostante mostrasse chiari segni di crisi. Intorno alle nove del mattino il giovane è deceduto per iponatremia, un disturbo del sangue curabile con ausili medici. Ma così non è stato. "Era chiaro ed evidente a tutte le guardie, ma nessuno alzò un dito per aiutarlo", afferma David Lane l'avvocato della famiglia di Lopez. "Gli agenti di custodia non sono preparati a lavorare con detenuti con problemi mentali, non sanno come disinnescare situazioni esplosive cercando di convincerli ad obbedire agli ordini: troppo spesso, l'uso della forza è l'unica cosa che conoscono e che quindi usano", conclude Fellner. Nel frattempo, in Italia, la polizia penitenziaria reclama l'utilizzo dello spray urticante da utilizzare contro i detenuti che creano problemi. È la richiesta che il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, sollecita al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e ai vertici dell'amministrazione penitenziaria dopo l'aggressione da parte di un detenuto di due agenti del carcere di Villa Stanazzo, a Lanciano. Nella notte tra sabato e domenica scorsi, un detenuto ha tentato di impiccarsi con un asciugamano, ma è stato fermato da due agenti, un assistente capo e un sovrintendente di polizia, aggrediti poi a calci e pugni dallo stesso detenuto. Uno dei due ha dovuto ricorrere alle cure del medico. "Per prima cosa voglio esprimere la vicinanza e solidarietà del sindacato ai colleghi aggrediti", dichiara il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ma è comunque assurdo che il carcere di Lanciano da più di tre anni sia senza un direttore titolare e che il reparto di polizia penitenziaria sia carente di 30 unità senza alcuna integrazione". Il Sappe rinnova, pertanto al ministro Orlando e ai vertici dell'amministrazione centrale la richiesta "di dotare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray antiaggressione già assegnato, in fase sperimentale, a polizia e carabinieri. Sono decine e decine le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall'inizio dell'anno. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli agenti che lavorano in carcere?". Giuseppe Ninu, segretario regionale, evidenzia come "nel 2014 nelle carceri abruzzesi si sono contati il suicidio di detenuto, 89 atti di autolesionismo, 17 tentati suicidi sventati in tempo dalla polizia penitenziaria, 67 colluttazioni e 30 ferimenti. E nel carcere di Lanciano si sono contati 8 episodi di colluttazione, 2 ferimenti e 4 colluttazioni". "A poco serve un calo parziale dei detenuti se non si promuovono riforme strutturali nel sistema penitenziario e nell'esecuzione della pena nazionale - continua Capece - come ad esempio l'espulsione dei detenuti stranieri, specie quelli che si rendono protagonisti di eventi critici e di violenza durante la detenzione, o circuiti penitenziari differenziati per i soggetti con evidenti problemi psichiatrici". Ma alla luce di quanto è emerso negli Usa, l'utilizzo dello spray urticante è davvero la soluzione, oppure un'ulteriore aggravante? Pakistan: cinque impiccagioni nelle ultime 24 ore Ansa, 22 maggio 2015 Cinque condannati a morte per omicidio sono stati impiccati nelle ultime 24 ore in diverse prigioni del Pakistan. Lo riportano i media locali. In particolare, stamane all'alba sono saliti al patibolo tre uomini nei penitenziari di Gujranwala, Faisalabad e Multan. Per oggi erano previste altre esecuzioni, ma sono state sospese da ricorsi giudiziari. Ieri, invece, il boia è entrato in azione sempre a Faisalabad e in un'altra prigione della provincia sud occidentale del Baluchistan. Da dicembre, quando il presidente Nawaz Sharif ha sospeso la moratoria sulle esecuzioni dopo la strage alla scuola militare di Peshawar, sono stati impiccati oltre 100 detenuti che si trovavano nel braccio della morte. Siria: è mistero su sorte dei detenuti del carcere di Palmira dopo arrivo Stato islamico Nova, 22 maggio 2015 È un mistero quale sia stata la sorte dei detenuti presenti nel carcere di Palmira, nella provincia di Homs, dopo l'arrivo dello Stato islamico. Il centro di detenzione del regime siriano di Bashar al Assad era considerato uno dei peggiori del paese e ospitava detenuti politici, in buona parte dei Fratelli musulmani e degli altri gruppi islamici, e anche stranieri. Tra questi la stampa libanese sostiene che vi fossero 27 personalità libanesi portate in Siria durante la guerra civile degli anni ottanta e rinchiusi al suo interno da 35 anni. Tra questi c'erano anche 5 cristiani. Lo Stato islamico sostiene di aver liberato tutti i detenuti presenti nel carcere al loro arrivo "così come abbiamo fatto col carcere di Ramadi", ponendo un'analogia tra la conquista di Palmira e quella della città irachena. Il Coordinamento dell'opposizione siriana invece sostiene che il carcere era stato evacuato dalle forze del regime siriano prima dell'arrivo dei jihadisti, liberando solo pochi detenuti e trasferendo gli altri in altri centri di detenzione. L'emittente libanese "Lbc" invece sostiene che centinaia di detenuto siano stati liberati dallo Stato islamico, compresi i 27 libanesi anche se il presidente del comitato dei libanesi dispersi in Siria, Wadad Halwani sostiene che sia ancora presto per confermare questa notizia. Anche l'emittente "Sky News Arabia" cita una fonte del ministero dell'Interno di Beirut secondo la quale i 27 detenuti libanesi sarebbero stati effettivamente liberati e sarebbero sulla strada per raggiungere la Turchia. Il carcere di Palmira è stato aperto nel 1966 ed era sotto la responsabilità dei servizi segreti siriani. È diventato il carcere più famoso del regime che ospitava i suoi oppositori e che per gli osservatori era anche usato come centro di torture. Svizzera: il Consiglio federale riconosce "nessuna radicalizzazione islamica in carcere" cdt.ch, 22 maggio 2015 Lo afferma il Governo, che è anche sicuro che "gli imam non diffondono messaggi radicali". Non ci sono indizi di una radicalizzazione violenta dei musulmani nelle carceri svizzere. Sono le conclusioni a cui è giunto il Consiglio federale in base a informazioni provenienti dai penitenziari e da diversi uffici federali. Salvo singoli casi, non vi sono tracce di fondamentalismo, scrive oggi il governo in risposta ad un'interpellanza del consigliere nazionale Peter Keller (Udc/Nw). In presenza di questi episodi, intervengono gli organi di polizia di Cantone e Confederazione. Il Consiglio federale è anche sicuro che gli imam non possano diffondere messaggi radicali. Non si può vietare l'accesso alle carceri di religiosi, ma grazie alle strutture relativamente piccole è difficile che vi sia un indottrinamento estremista incontrollato. Keller si diceva preoccupato del fatto che gli autori di diversi attentati in Europa si siano radicalizzati durante una permanenza in prigione. Alla domanda sulla percentuale di musulmani nelle carceri elvetiche, il governo non ha dato risposta a causa di statistiche lacunose. Slovacchia: migliaia di detenuti andranno ai domiciliari grazie al tracciamento elettronico buongiornoslovacchia.sk, 22 maggio 2015 Dopo l'approvazione di un emendamento apposito da parte del Parlamento, i condannati a pene detentive in Slovacchia avranno maggiori possibilità di essere rilasciati dal carcere per scontare il resto della pena agli arresti domiciliari. A loro favore non ci sarà infatti non solo l'istituto della libertà condizionale, oggi usata pochissimo, ma anche l'utilizzo di cavigliere elettroniche che daranno la possibilità alle autorità giudiziarie dall'inizio dell'anno prossimo di conoscere la posizione dei condannati in qualunque momento. La proposta per l'utilizzo delle cavigliere dovrà essere iniziata dal capo della struttura detentiva dove i condannati stanno scontando la loro pena. Questo dovrebbe impedire l'accumularsi di migliaia di richieste senza i dovuti e fondati presupposti. Ai tribunali distrettuali toccherà dare conferma della pena alternativa. Uno degli obiettivi principali dell'introduzione delle cavigliere è ridurre il numero dei detenuti nelle sovraffollate carceri slovacche, ma anche di ridurre i costi della carcerazione. Un detenuto costa 14 mila euro all'anno, munirlo di cavigliera potrebbe costare un terzo. Si stima che potranno essere 2.000 i detenuti che beneficeranno di tale norma in una prima fase. Dal prossimo anno un finanziamento da fondi europei permetterà di portare il progetto alla piena funzionalità.