Giustizia: gli Stati generali sul carcere sono utili se i media dicono la verità di Riccardo Polidoro (Responsabile Osservatorio carcere dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 21 maggio 2015 Nel novembre scorso, su queste pagine, feci riferimento alle dichiarazioni del ministro della Giustizia in merito alla necessità di coordinare le molteplici figure istituzionali e non che si occupano del mondo penitenziario. Fu allora, infatti, che Andrea Orlando lanciò l'idea degli "Stati generali sull'esecuzione penale". A sei mesi di distanza, lo scorso 19 maggio, vi è stata la presentazione dell'iniziativa all'Istituto di Milano-Bollate. Si è scelto il luogo simbolo del carcere che funziona. La preferenza rispetto ad altri luoghi non è stata casuale, perché la manifestazione reca anche il simbolo di "Expo Milano 2015". Esposizione internazionale dove circa cento detenuti, ogni giorno, aiutano i visitatori e lo staff. Lo fanno con serietà ed entusiasmo, svolgendo, a turni, servizi tra logistica e accoglienza. Sono coinvolte persone che provengono da Paesi diversi, recluse negli istituti della Lombardia. Il 35 per cento è straniero, e la rappresentanza femminile si aggira intorno al 7-8 per cento. Sono dunque rispettate le percentuali dell'intera popolazione detenuta. Certo si potevano aprire i lavori in uno dei tanti istituti in cui i detenuti passano la loro giornata senza poter uscire dalle celle - laddove le stanze sarebbero destinate al solo pernottamento, dove alcuna attività trattamentale è svolta, dove per mancanza di risorse economiche e umane, e a volte di spazio vitale, l'unico obiettivo è la sicurezza. Sarebbe stato un momento di solidarietà verso persone che soffrono ingiuste e ingiustificate modalità di detenzione. Ma la scelta del ministero della Giustizia va, in linea di principio, condivisa. Avrebbe potuto e dovuto avere un fortissimo impatto mediatico, aprendo davvero la strada a quanto recita il sottotitolo dell'iniziativa: "Dignità, Diritti, Sicurezza - Sei mesi di idee per cambiare il carcere". Tutto questo, invece, non vi è stato. I principali quotidiani nazionali, il giorno dopo, non hanno nemmeno riportato la notizia, mentre grande spazio è stato dedicato all'introduzione di cinque nuovi reati, che prevedono fino a 15 anni di detenzione. Buio totale sugli "Stati Generali dell'esecuzione penale", mentre i neo-delitti, che si vanno ad aggiungere all'elenco più lungo d'Europa, hanno avuto grande rilevanza e consenso giornalistico. La volontà di un Governo di definire un nuovo modello di esecuzione penale, conforme alle norme nazionali e alle direttive europee e prima ancora al rispetto della dignità dell'individuo - bene di cui neanche lo Stato può disporre - non è una notizia. L'inaugurazione di questo percorso con la presenza dello stesso ministro, di importanti politici, di eccellenze dell'università, di tutta la dirigenza dell'Amministrazione penitenziaria, di rappresentanti dell'Avvocatura e della Magistratura, del meraviglioso mondo del Volontariato, non interessa i media. Neanche se, contestualmente, a pochi metri, cento detenuti lavorano all'Expo. Circostanza e concomitanza del tutto rara. Eppure, dal 1975, anno di entrata in vigore dell'Ordinamento penitenziario, che dopo 27 anni recepiva i principi costituzionali del 1948, non vi è stato alcun Governo che abbia manifestato così esplicitamente la volontà di restituire alla nostra esecuzione penale quanto dal Legislatore era stato previsto. Il percorso, dunque, si presenta difficile e certamente controcorrente. È più che mai necessario lavorare per una vera e propria rivoluzione culturale, che possa porre le basi del voluto e dovuto cambiamento. Ribadisco, dunque, quanto riferito lo scorso novembre. Se davvero le forze messe in campo con gli Stati generali vogliono avere una possibilità di successo, venga attuata la proposta dell'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere penali di una campagna d'informazione governativa sull'importanza del rispetto dei principi costituzionali e delle norme in materia di detenzione. L'Italia ha un Ordinamento e un Regolamento penitenziario tra i migliori d'Europa, che non hanno trovato concreta applicazione per mancanza di un reale impegno politico su temi troppo spesso in contrasto con il comune pensiero di cittadini disinformati e culturalmente non pronti a recepire principi di civiltà e legalità. Oggi, dopo 40 anni, l'impegno politico c'è e non bisogna perdere e disperdere quest'occasione. Sarà inutile, altrimenti, aver predisposto ben 18 tavoli di lavoro, aver coinvolto centinaia di persone sui principali argomenti relativi alla detenzione, molti dei quali trovano già un'indicazione normativa di esecuzione, da sempre non rispettata. E il "buio" di oggi, sarà, a fine anno, epoca in cui è prevista la fine dei lavori, ancora più fitto e deprimente e quanto elaborato non troverà, ancora una volta, concreta applicazione. Si dia inizio, dunque, agli Stati generali, ma si affronti immediatamente la battaglia culturale nelle scuole, nelle università e attraverso una campagna d'informazione governativa, che possa raggiungere l'opinione pubblica su temi sino ad oggi conosciuti in maniera distorta, sbagliata e semplicistica. Giustizia: "rimedi risarcitori", vale la data del ricorso e non la "attualità del pregiudizio" di Errico Novi Il Garantista, 21 maggio 2015 Vale la data del ricorso e non la "attualità" del pregiudizio, dice l'ultima sentenza: il decreto sulle celle sovraffollate ora sarà applicato sul serio. Stavolta i magistrati fanno prima del governo. E lo aiutano pure. Su una materia delicata e controversa: i risarcimenti ai detenuti ristretti in condizioni inumane. Non si capiva più se era possibile o no riconoscere effettivamente i famosi 8 euro ai carcerati. A quelli pigiati in celle sovraffollate, che poi sono molte, ma molte migliaia, e ai quali era rivolto il decreto dell'estate scorsa. Adesso il magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano Anna Ferrari, in servizio a Varese, sancisce con un'ordinanza che il decreto dell'estate scorsa è applicabile eccome. Che non c'è motivo di arrovellarsi attorno a quell'aggettivo, "attuale", contenuto nel provvedimento, sul quale erano nate infinite dispute tra i suoi colleghi. Con alcuni, per primi quelli dell'Ufficio di Alessandria, che avevano considerato il rebus irrisolvibile. Nel senso che nelle loro pronunce si era affermata l'impossibilità di accogliere le istanze di quei carcerati che al momento della sentenza non erano più accalcati come bestie nelle loro celle. Secondo quest'interpretazione, la condizione "disumana" deve sussistere ancora, al momento in cui si attribuisce il risarcimento al ricorrente, altrimenti il ricorrente stesso resta a mani vuote. La "attualità" del pregiudizio La dottoressa Ferrari corregge e supera tali perplessità in un'ordinanza emessa in seguito al ricorso di detenuto 29enne, S. D., straniero, recluso nel carcere di Busto Arsizio. Ed è la prima volta che, all'interno del Tribunale di Sorveglianza milanese, un ricorrente vede accolto questo tipo di domanda. Nella pronuncia dello scorso 14 maggio si afferma un principio semplice, e in fondo di evidente ragionevolezza: l'istanza può essere accolta se il carcerato si trovava in condizioni degradanti al momento di presentarla. E dunque, anche in un caso come quello in oggetto, in cui il pregiudizio non sussisteva più al momento di scrivere l'ordinanza. Semplice, chiaro, e ispirato al buonsenso. Anche perché il magistrato dell'ufficio di Varese si assume la responsabilità di armonizzare i diversi capisaldi giurisprudenziali in materia. Quello storico e decisivo intitolato a Torreggiani, da cui è partito tutto. Ma anche una più recente sentenza pronunciata sempre dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, "Mursic versus Croazia". Se la prima ha stabilito che un condannato deve avere a disposizione nella propria cella almeno 3 metri quadri, la seconda la ha leggermente corretta, nel senso che se si è sotto quella soglia minima ma si ha la possibilità di lavorare in carcere e di svolgere altre attività rieducative, il sovraffollamento non basta a determinare la violazione dei diritti umani. Il giudice Ferrari applica entrambi i principi. E per alcuni periodi citati nell'istanza, dà ragione al detenuto, mentre per altri in cui il ricorrente "è stato ristretto a regime aperto (cioè materialmente chiuso in cella solo nelle ore notturne, ndr) e ha frequentato un corso di teatro, pur se lo spazio disponibile risulta inferiore a 3 metri quadri, tale parametro è da considerarsi compensato". Il risarcimento non va dato per i giorni in cui la cella è "aperta" Il detenuto avrebbe dovuto scontare una condanna di 3 anni e 7 mesi, iniziata il 4 marzo 2013 e con termine fissato al 19 ottobre 2016. Alla fine dell'istruttoria, il giudice ha stabilito che S. D. "ha sofferto un pregiudizio in relazione alla detenzione subita in condizioni contrarie all'articolo 3 Cedu (Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ndr) per complessivi 240 giorni". Non per l'intero periodo oggetto del ricorso dunque, che andava dall'ingresso nel carcere di Busto Arsizio del 4 aprile 2013 fino alla data di presentazione della domanda, ovvero al 1° dicembre 2014, e che comprendeva oltre 600 giorni. Nel decreto "degli 8 euro", che ha introdotto nell'Ordinamento penitenziario l'articolo 35 ter, il risarcimento di 8 euro al giorno è previsto per quei detenuti che siano già usciti di galera. A coloro che sono ancora ristretti si applica un sconto di un giorno ogni 10 trascorsi in condizioni inumane. Il detenuto S. D. ha dunque ottenuto con la sentenza dell'ufficio di Sorveglianza di Varese uno sconto di 24 giorni. L'interpretazione autentica è in parte già scritta Grazie al giudice milanese il ministro della Giustizia Andrea Orlando potrebbe trovarsi già fatta una parte del lavoro. Sul decreto degli 8 euro, infatti, avrebbe dovuto emanare una norma di interpretazione autentica. Un chiarimento richiesto a gran voce dagli stessi colleghi del giudice Ferrari, anzi dal loro Coordinamento nazionale (Conams). Sia sulla questione della "attualità" del pregiudizio sofferto dal detenuto, sia sul altri dubbi interpretativi, come la modalità di calcolo della superficie delle celle, se si debba escludere da essa quella occupata dal mobilio, e così via. Il giudice di Milano si esprime anche riguardo a quest'ultimo aspetto e si rifa a una sentenza della Cassazione, la 5728 del 2014: "Il calcolo della superficie è stato effettuato escludendo i locali igienici e gli arredi fissi". Tutti questi dubbi erano finiti prima in interrogazioni parlamentari, ancora inevase, a firma di Roberto Giachetti (Pd) e Saverio Romano (Forza Italia). E poi, soprattutto, in una relazione inviata dai Radicali italiani al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, organismo che verifica l'applicazione, da parte dello Stato italiano, dei principi affermati con la sentenza Torreggiani. Considerato che finora tutte queste incertezze interpretative avevano consentito di accogliere solo l'1,2% dei ricorsi (dati dell'Unione Camere penali), l'Italia rischiava di vedersi inflitto un richiamo da Strasburgo. Con la sentenza di Varese un po' di incertezze dovrebbero essere state superate. Così come una parte delle difficoltà applicative segnalate dai radicali. E magari le istanze dei carcerati costretti a vivere come bestie si accumuleranno un po' meno sulle esauste scrivanie dei magistrati di sorveglianza. Giustizia: lavoro nelle carceri, gli Usa ora ci studiano di Luca Liverani Avvenire, 21 maggio 2015 Il reinserimento dei detenuti di Padova diventa un caso di scuola in Michigan. Un altro esempio di mode in Italy che fa scuola nel mondo. E non riguarda la cucina, la pelletteria ola meccanica di precisione. O almeno non solo. È il modello di rieducazione e reinserimento sociale in carcere che dagli anni 90 la Cooperativa Giotto sperimenta con successo al Due Palazzi di Padova, dove 140 detenuti condannati - anche per reati gravi - preparano dolci e premiatissimi panettoni, assemblano valigie per la Roncato, producono biciclette per la Esperia, digitalizzano documenti cartacei, rispondono alle chiamate di numeri verdi di ditte come Pastweb. Con un abbattimento verticale della recidiva che, senza lavoro in carcere, oscilla invece tra l'80 e il 90%. Un'eccellenza nell'economia civile diventata un "caso di studio" per il Fetzer Institute del Michigan, fondazione statunitense che da mezzo secolo si occupa di benessere psicofisico. Lo studio, in collaborazione col Centro studi enti ecclesiastici (Cesen) dell'Università Cattolica ha prodotto un volumetto della collana "2wel percorsi di secondo welfare" dal titolo "Lavoro e perdono dietro le sbarre". Lo studio è stato presentato ieri a Regina Coeli, presenti tra gli altri il capo del Dap Santi Consolo, l'ex ministro della Giustizia Paola Severino, il direttore del Csen e ordinario di diritto commerciale alla Cattolica, Andrea Penone. Con contributi importanti di esperienze internazionali, interessate alle buone pratiche della Cooperativa Giotto: come il magistrato brasiliano Luis Carlo Rezende E Santos, il professor Jurgen Hillmer dell'Università di Brema, lo sceriffo della contea di Cook (Chicago) Thomas Dan. All'iniziativa non ha fatto mancare il suo messaggio il presidente Sergio Mattarella: "1 positivi risultati raggiunti sul fronte del reinserimento sociale e del contrasto alla reiterazione dei reati testimoniano l'importanza della collaborazione tra impresa sociale e istituzione pubblica per favorire la ricostruzione dei rapporti familiari e la reintegrazione dei detenuti nel tessuto della comunità". Un saluto anche dall'arcivescovo Rino Fisichella che, citando il prossimo Giubileo della Misericordia, ha ricordato le visite di Giovanni XXlll, Paolo VI e Giovanni Paolo II a Regina Coeli. "Quello di Giotto è un caso con evidenti caratteristiche di esemplarità - scrive nell'introduzione dello studio il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick - cioè un'impresa sociale che interagisce con l'amministrazione pubblica, coniugando imprenditorialità e socialità con esiti rilevanti sul piano del recupero umano, dei rapporti familiari ricostituiti e della reintegrazione sociale dei detenuti". Che rieducare convenga, in temimi economici e di sicurezza sociale, lo conferma l'esperienza parallela delle Apac, comunità detentive brasiliane che con un progetto cristianamente ispirato hanno ridotto la recidiva dall'80 al 10%. E che il "pugno duro" non paghi lo stanno comprendendo anche negli Stati Uniti: se nel 2013 i detenuti italiani erano oltre 62mila (ora siamo sotto quota 55mila), cioè 104 ogni 100mila abitanti, in America erano 2 milioni e 227.500, ovvero 910 ogni 100 mila. "Senza contare i cinque milioni in libertà vigilata", spiega Thomas Dart. "Il nostro è un sistema iper-detentivo, in carcere ci sono le persone sbagliate e per troppo tempo. Numeri di cui vergognarsi e insostenibili anche economicamente- dice lo sceriffo della Contea di Cook - visto che un detenuto costa in media 143 dollari al giorno. Officina Giotto ha ospitato un nostro chef che insegna il mestiere ai detenuti ed è rimasto molto colpito dalla profonda trasformazione dei detenuti che lavorano al Due Palazzi. Dobbiamo replicare l'esperienza di Padova su scala più grande di quello che stiamo facendo. Cogliamo segnali che ci fanno sperare un cambiamento nel nostro Paese". "Il lavoro è il vero snodo del problema carcere. E di carcere bisogna parlare perché il silenzio non rimuove la questione - ha detto Paola Severino - mentre con fatica e tenacia in questi ultimi anni io e i ministri Cancellieri e Orlando siamo riusciti ad abbassare il sovraffollamento, in osservanza con le indicazioni europee, senza mettere in pericolo l'ordine pubblico, con misure strutturali e non emergenziali". E per rispondere a chi lamenta che il lavoro in carcere danneggerebbe chi è disoccupato fuori, Severino ricorda l'accordo con l'Anci "per far svolgere ai detenuti i lavori che nessuno fa più: la pulizia del verde urbano, degli scarichi, degli argini". Giustizia: la responsabilità dei magistrati arriva alla Corte costituzionale di Federico Tedeschini La Discussione, 21 maggio 2015 Come è noto, la Legge numero 117 del 13 aprile 1988 è stata di recente modificata con legge 27 febbraio 2015 n. 18 (in GU 4 marzo 2015), entrata in vigore il successivo giorno 19 marzo. Con quest'ultimo atto normativo non è stato introdotto il principio della responsabilità civile "diretta" dei magistrati, ma sono state rese più agevoli le condizioni per domandare allo Stato di risarcire direttamente i danni da "malagiustizia", potendo successivamente lo Stato stesso rivalersi nei confronti del magistrato a titolo di danno erariale. Il limite del risarcimento che lo Stato può chiedere è stato, a tal fine, innalzato fino alla metà dello stipendio percepito dal magistrato colpevole. Quest'ultimo atto normativo, dunque, altro non ha fatto che adeguare l'ordinamento italiano alle previsioni del Trattato di Lisbona e e della carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea: sarebbe infatti ben strano che il risarcimento per il danno ingiusto subito dai cittadini potesse rimanere limitato alla sola violazione delle regole del i rattato, escludendo invece le violazioni delle regole di diritto interno. Pochi ricordano infatti che il Parlamento è stato obbligato ad approvare la nuova legge, per limitare gli effetti di una condanna dell'Italia da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 24 novembre 2011 (in causa C-379/2010): una condanna che l'esito di ben due procedure di infrazione aperte, sull'argomento, dalla Commissione europea. Quest'ultima Legge - e c'era da aspettarselo - non è piaciuta ai magistrati, i quali hanno addirittura affermato attraverso la loro Associazione che questa riforma danneggerebbe i cittadini; in realtà è vero esattamente il contrario, visto che il primo danno che ognuno di noi riceve dalla negligenza del giudice - a qualunque ramo della giurisdizione egli appartenga -consiste proprio nella impossibilità (ovvero nella estrema difficoltà) di veder risarcite le conseguenze derivanti dal danno ingiusto inferto gli da una qualunque attività giudiziaria. In base alle nuove disposizioni il danno patrimoniale e non patrimoniale scaturente da un qualunque atto o provvedimento giudiziario emesso con dolo o colpa grave - ovvero in esito di un diniego di giustizia" - sarà risarcibile, senza necessità di previa autorizzazione ad esercitare la relativa azione da parte del Ministero della Giustizia. Occorre altresì ricordare come le autorizzazioni concesse da quel ministero fra il 1938 alla data odierna si contano sulle dita di una mano: il che avrebbe inevitabilmente comportato un ulteriore intervento da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, sotto numerosi e diversi profili. C'era così da aspettarsi che i giudici avrebbero, prima o poi, portato la questione all'attenzione della Corte Costituzionale invocando presunti contrasti fra le previsioni appena accennate e la nostra Carta fondamentale; quel che però sorprendere la velocità con cui la questione è stata portata all'attenzione di quella Corte; velocità sicuramente in contrasto con i tempi biblici che contraddistinguono e scansionano l'attività processuale nel suo complesso. Con Ordinanza del 12 maggio 2015 il tribunale di Verona ha investito la Corte Costituzionale di alcune questioni di legittimità della legge numero 18. L'ordinanza di dimissione proviene da un giudice civile chiamato a decidere di una opposizione a decreto ingiuntivo e in particolare a decidere sulla richiesta di concessione della provvisoria esecuzione. Il giudice rimettente ne ha tratto l'occasione per denunciare diversi profili di illegittimità costituzionale della nuova normativa, senza peraltro dedicare - almeno secondo me - la necessaria attenzione al profilo della rilevanza della questione come condizione per ricorrere in via incidentale a quella Corte. Le questioni formulate sono stati infatti rimesse al giudice costituzionale senza che pendesse alcun giudizio risarcitorio avente ad oggetto i fatti di causa e nonostante che un tale giudizio non possa ritenersi, allo stato attuale del giudizio neanche ipotizzabile. È evidente che tale profilo comporterà diversi problemi sul piano dell'ammissibilità poiché le norme impugnate non troveranno mai applicazione dinnanzi al giudice rimettente. Tale episodio segnala però il disagio e l'allarme che la legge in questione va progressivamente diffondendo fra ì magistrati, che usano così del loro potere di riflessione per risolvere - più che un problema giuridico rispetto al quale sono terzi - i loro personali problemi. Senza dunque entrare nel merito degli specifici profili di costituzionalità sollevati dal tribunale di Verona, ci auguriamo che la Corte Costituzionale, nel momento in cui pronuncerà la propria sentenza, voglia tenere nella debita considerazione l'ipotesi che questo singolare episodio di rimessione venga valutato innanzitutto alla luce della propria costante giurisprudenza in materia di ammissibilità della questione ai fini del decidere. Sul contenuto, invece, dell'ordinanza ci proponiamo di ritornare nei prossimi giorni. Giustizia: Mario Barbuto, l'uomo che è riuscito a riformare i tribunali, a costo zero di Maurizio Tortorella Tempi, 21 maggio 2015 Da Presidente del Tribunale di Torino, ha avuto a cuore il suo lavoro e si vergognava di dover pronunciare sentenze su procedimenti antichi, iniziati decenni prima. S'è messo in testa di cambiare il sistema. Con una regoletta facile: "prima le cause vecchie, poi quelle nuove". Domanda semplice: se voi foste il presidente di un tribunale civile italiano, uno tra i tanti che ogni giorno affogano nei processi, che cosa fareste? Come provereste a venirne fuori? Per esempio: da quale causa partireste? Dalla più vecchia o dalla più recente? Lo so, sembra la più stupida delle domande. Invece non lo è, per nulla. Perché è proprio da questa domanda che, 14 anni fa, partì la "grande marcia" di Mario Barbuto. Nato a Taranto 72 anni fa, Barbuto ne ha passati quasi nove (dal gennaio 2001 al settembre 2009) da presidente del Tribunale di Torino, poi altri quattro come presidente della Corte d'appello in quella stessa città. E dato che il lavoro gli stava a cuore e si vergognava di dover pronunciare sentenze su procedimenti antichi, iniziati decenni prima, s'è messo in testa di riformare il sistema. Con una regoletta facile: "Prima le cause vecchie, poi le nuove". Risultati? Nei primi cinque anni, a Torino, l'arretrato si è ridotto del 26 per cento. E senza spendere un euro in più. L'idea successiva è stata "targare" le cause per anno: un colore diverso per ogni fascicolo, in modo che fosse facile individuarne l'età e più agevole stabilirne la gerarchia temporale di trattamento. Direte voi: banale! In realtà è stato più rivoluzionario che tagliare la testa a mille giudici ignavi. A Torino, oggi, il 94 per cento dei processi dura meno di tre anni. La media è di 424 giorni, contro i 1.260 della media nazionale: quel tribunale è al settimo posto per la brevità delle cause, nonché l'unico tra i grandi a comparire in testa alla classifica italiana. Qualche altro presidente di tribunale, tra quelli più intellettualmente onesti, ha capito che l'idea era giusta e ripetibile. A Marsala, per esempio, da qualche anno Gioacchino Natoli (prima di diventare presidente di Corte d'appello a Palermo, un mese fa) ha adottato il "modello Barbuto". E oggi quel tribunale, che con una pianta organica di 25 magistrati può dirsi di dimensioni medio-piccole, detiene il record meridionale di velocità: una media di 461 giorni a processo, e solo il 5,7 per cento del totale supera i tre anni di durata. Al confronto, Palermo è lentissima: 800 giorni. Agrigento è a 795, Trapani a 755. Negli anni, da buon magistrato-manager, Barbuto ha condensato la sua esperienza in un decalogo della buona amministrazione giudiziaria. Ancora una volta, nulla di sconvolgentemente geniale, né di bizzarro: tra le regole codificate c'è l'obbligo di una rilevazione semestrale per catalogare le cause ancora pendenti e "isolare" le più vecchie, che devono essere sottoposte ad accelerazione in base a un lavoro che coinvolga tutto l'ufficio giudiziario e gli stessi avvocati. Saggezza, l'amministrazione del buon padre di famiglia. E senza spendere un euro in più. Dal maggio 2014, l'ex presidente del tribunale di Torino è a capo del Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, e la sua nomina è stata probabilmente una delle poche mosse azzeccate del Guardasigilli, Andrea Orlando. Nel frattempo, Barbuto è stato celebrato dalla Banca mondiale e perfino dall'ambasciatore americano in Italia, John R. Phillips, che parlando in più di un convegno sulla giustizia di lui ha detto, stupito: "Ha applicato tecniche manageriali che potrebbero essere applicate con successo in tutta Italia. Perché non lo fate?". Invece gli italiani, in stragrande maggioranza, ignorano il lavoro e i meriti di questo magistrato schivo, timido, che detesta apparire. La speranza è che l'elefantiaca struttura burocratica del ministero della Giustizia gli lasci spazio di manovra e gli consenta di combinare qualcosa di buono, anche lì. Auguri. Giustizia: corruzione, il Csm non boccia più la legge di Dino Martirano Il Corriere della Sera, 21 maggio 2015 Il Consiglio superiore della magistratura corregge il tiro e dà atto al Parlamento di aver imboccato la strada giusta per combattere la corruzione anche se - è il monito dell'organo di autogoverno della magistratura - si può fare decisamente di più. Il voto del plenum di Palazzo di Marescialli arriva sul filo di lana, poche ore prima che la Camera proceda alle votazioni finali sulla legge anticorruzione (il ddl Grasso integrato dal testo del governo) che forse stasera terminerà un lungo e travagliato iter parlamentare col suo bagaglio ingombrante: ripristino del reato di falso in bilancio, sconti ai "pentiti" che collaborano, pene più severe per i reati contro la Pubblica amministrazione, licenziamenti dei corrotti più facili, più poter all'Anac di Cantone, etc. In meno di cinque giorni quella che sembrava una tempesta sprigionatasi dalla VI commissione del Csm (Riforme), presieduta dall'ex gip di Palermo Pier Giorgio Morosini, si è trasformata in una brezza marina. Il nuovo parere riveduto e corretto dallo stesso Morosini, e poi bocciato soltanto dai "laici" di centrodestra, non minimizza più sull'intervento del governo in materia di lotta alla corruzione e di prescrizione ("insufficiente e disorganico") ma, semmai, esalta il concetto di "inversione di tendenza" della politica. In realtà, venerdì scorso è arrivato nella cartella dell'ordine del giorno, vistato anche dal capo dello Stato in qualità di presidente del Csm, un parere tutto incentrato sulla vecchia proposta del governo (il ddl Renzi-Orlando del 30 agosto) poi in parte spolpata e fatta confluire nel ddl Grasso che, in commissione VI del Csm, era stato preso in considerazione solo in seconda battuta. Si è verificata dunque una sfasatura tra il parere del Csm e l'oggetto del giudizio che, nel frattempo, era cambiato in Parlamento. Ci è voluta la pazienza del vicepresidente Giovanni Legnini, in questi giorni in contatto con gli uffici del Quirinale, per raddrizzare una situazione che aveva irritato governo e maggioranza: "Il clima è cambiato con l'ulteriore proposta integrativa del relatore che chiarisce che le proposte in itinere contro la corruzione sono positive e costituiscono un'inversione di tendenza". Dunque i paragrafi sulla lotta alla corruzione e sulla prescrizione, che, solo venerdì, si presentavano con venature assai critiche, sono stati riscritti dal relatore Pier Giorgio Morosini: "Nessun ripensamento ma solo l'esigenza di eliminare certi tecnicismi". La riformulazione del parere è stata accolta favorevolmente dai consiglieri laici di maggioranza. L'avvocato Giuseppe Fanfani ha voluto sottolineare "il pensiero positivo che ispira questa e le altre riforme sulla giustizia dopo anni molto bui…". Per nulla convinti, invece, i "laici" di opposizione che reputano il ddl Grasso un intervento troppo giustizialista per non parlare poi, ha detto l'avvocato Elisabetta Casellati di Forza Italia, della maglie più stringenti per "l'imputato che sarebbe meglio chiamare presunto innocente". I togati hanno concordato sull'inversione di tendenza in materia di lotta alla corruzione però Antonello Ardituro (Area) ha voluto ricordare che la norma più efficace contro la corruzione dilagante è soprattutto una: "Il doppio binario. Applicare ai reati contro la Pubblica amministrazione le regole antimafia". Ma le nuove norme per il "raddoppio dei termini" per la contestazione penale in campo tributario rischiano di mandare al macero moltissimi atti, con un'evasione accertata, solo a Milano, di circa 4 miliardi. La denuncia arriva dal procuratore aggiunto del capoluogo lombardo, Francesco Greco, che parla di "condono gratuito". Giustizia: ddl su omicidio stradale, pene fino a 18 anni se ci sono più vittime e test forzati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2015 Via libera, ieri, della Commissione giustizia del Senato al Ddl che introduce nel codice penale il reato di omicidio stradale e lesioni. Dopo l'ok di palazzo Madama il testo è pronto per il voto definitivo dell'aula, dove potrebbe arrivare, secondo il relatore e capogruppo del Pd Giuseppe Cucca, entro la prima metà di giugno. Il testo licenziato prevede pene da 8 a 12 anni di carcere per chiunque causi la morte di una persona guidando in stato di ebrezza o sotto l'effetto di droghe. Nel testo introdotte anche l'aggravante che fa alzare la pena per chi fugge dopo aver investito la vittima e la previsione di una pena triplicata, con un tetto di 18 anni, in caso di omicidio plurimo. Pesante anche la pena accessoria del ritiro della patente: revocata per 15 anni in caso di omicidio, per 20 se la persona è stata fermata in passato per guida in stato di ebrezza, fino ad arrivare a 30 anni se il conducente ha avuto anche multe per eccesso di velocità. Carcere, da 7 a 10 anni, anche per chi a prescindere dallo stato di alterazione: superi del doppio la velocità consentita sia sulle strade urbane che extraurbane, attraversi con il rosso, circoli contromano o faccia inversione in prossimità di intersezioni, curve o dossi, o sorpassi un ‘altro mezzo dove c'è un attraversamento pedonale o la linea continua. La stessa "punizione" è indicata per chi causa la morte di una persona, conducendo barche o moto d'acqua a velocità pari o superiore alla norma in uno specchio d'acqua nel quale è vietata la navigazione. Per le lesioni colpose la reclusione va da 2 a 4 anni se provocate in stato di ebrezza alcolica o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, la pena scende da 9 mesi a due anni se si guida "solo" sotto l'effetto dell'alcol o si fanno le stesse manovre pericolose previste per l'omicidio stradale (eccesso di velocità, sorpassi ecc.). In tutte queste ipotesi la pena può essere aumentata fino al triplo, per un massimo di 7 anni, in caso di lesioni a più persone. Per le lesioni personali gravi la pena lievita da un terzo alla metà, mentre l'inasprimento è dalla metà a due terzi per lesioni gravissime. Il delitto di lesioni è punibile su querela se la malattia non dura più di 20 giorni e in assenza delle aggravanti previste dal codice penale (articolo 583). Un'altra novità riguarda il prelievo coattivo dei campioni biologici per chi, accusato di omicidio o di lesioni, si rifiuta di sottoporsi al test. La polizia giudiziaria può accompagnare forzatamente l'automobilista in ospedale per le verifiche, avvisando tempestivamente il difensore, che può assistere senza che l'esercizio del diritto di difesa pregiudichi le operazioni. Per il relatore Cucca, quello compiuto ieri è un passo importante per dare una risposta concreta ad un'esigenza sentita in modo trasversale dalle forze politiche ma, soprattutto, dall'opinione pubblica. Stessa soddisfazione è espressa dal sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri che sottolinea l'importanza di punire con la reclusione chi causa la morte di una persona facendo manovre azzardate. Giustizia: i giornalisti "no a sanzioni penali sulle intercettazioni" Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2015 Abusi e degenerazioni sulla pubblicazione di intercettazioni non sono mancati, ma non sarebbe "saggio" introdurre per legge divieti e sanzioni penali per il giornalista o pene pecuniarie per l'editore, ancorando la pubblicabilità alla sola rilevanza penale della notizia. La strada più corretta da seguire - e semmai da rafforzare - è quella di un maggior rigore sul piano della deontologia professionale e quindi della responsabilità. È questa, in estrema sintesi, la posizione espressa ieri dalla maggioranza dei direttori e dei giornalisti auditi dalla commissione Giustizia della Camera sul ddl delega proposto dal Governo per circoscrivere l'ambito di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche in funzione di una maggiore tutela della privacy di indagati e, soprattutto, di terzi estranei. "Non bisogna andare con l'accetta ma, semmai, con il bisturi" ha auspicato Anna Del Freo, vicepresidente della Fnsi, accogliendo l'invito del deputato Walter Verini ad elaborare suggerimenti più precisi, ma dopo aver messo in guardia dall'introdurre sanzioni come il carcere o pecuniarie perché, "considerato il difficile contesto economico, ci metterebbero nelle mani degli editori, che non hanno più neanche liquidità per farvi fronte e, quindi, inciderebbero sulla nostra indipendenza e darebbero il colpo di grazia ad alcune testate". Giorgio Mulè, direttore di Panorama, è stato l'unico a parlare di "imbarbarimento in atto", chiedendo divieti e sanzioni, penali e disciplinari. I suoi colleghi dell'Espresso, Luigi Vicinanza, e di Libero, Maurizio Belpietro, hanno rivendicato la pubblicabilità di qualsiasi atto non più segreto, purché di rilevanza sociale. Più sfumata la posizione di Mario Calabresi, direttore della Stampa, da cui è arrivato un forte richiamo alla deontologia del giornalista, oltre alla necessità di una migliore selezione delle notizie penalmente rilevanti da parte del magistrato, fermo restando, però, il diritto di pubblicare notizie prive di rilevanza penale, se di interesse pubblico. Dunque, "niente divieti" ha detto, dopo aver raccontato della "tonnellata" di intercettazioni piovute in redazione sull'inchiesta su Angelo Balducci, ma della scelta di pubblicare solo quelle attinenti l'indagine, pur sapendo che il giorno dopo sarebbe stato "sbeffeggiato" dai colleghi di altri giornali (come avvenne). "Non può essere il mercato a fare la selezione tra ciò che è pubblicabile e ciò che non lo è, privilegiando la quantità invece della qualità dell'informazione" ha convenuto Donatella Stasio del Sole 24 Ore, secondo cui per evitare degenerazioni occorre maggiore reattività sul piano deontologico, non divieti e sanzioni penali. Tanto più che il legislatore non può sostituirsi né alla valutazione del giornalista sulla rilevanza pubblica di una notizia né a quella del magistrato sulla rilevanza penale. D'accordo Giovanni Bianconi del Corriere della sera, che ha messo in guardia dalla proposta-Pignatone (formulata davanti alla commissione, la settimana scorsa) di pubblicare solo quanto risulta dal provvedimento, e non anche gli allegati. "Attenzione - ha detto - perché così si dà più potere ai magistrati, che possono inserire o meno gli atti in funzione della pubblicità che ad essi vogliono dare". "La proposta Pignatone non sarebbe una scelta saggia" ha insistito Marco Lillo (Fatto quotidiano), difendendo il sistema vigente, mentre Stefano Cappellini (Messaggero) ha sostenuto che i magistrati introducono "scientificamente" materiale irrilevante pur di "dare notorietà all'indagine" e ha chiesto di "stoppare alla fonte questo meccanismo". Claudio Tito (Repubblica) ha criticato un eventuale intervento legislativo perché il divieto di pubblicazione "interpella un principio democratico: il rischio che alcune notizie siano conosciute solo da una cerchia ristretta di persone". La responsabilità degli abusi è deontologica, ha aggiunto. Il presidente dell'Ordine Enzo Iacopino, dopo aver criticato "una politica che ritrova la sua unità solo sui giornalisti", ha detto: "Noi abbiamo la possibilità di sanzionare chi si trasforma in buca delle lettere, pubblicando atti privi di interesse pubblico". Responsabilità civile magistrati, processi indiziari ad alto rischio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2015 Tribunale di Treviso - Ordinanza 8 maggio 2015. Piovono rinvii alla Corte costituzionale per la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Qualche giorno prima dell'ordinanza del tribunale di Verona (12 maggio), il vicino tribunale di Treviso (l'8 maggio) ha, infatti, sospeso, rimettendo gli atti alla Consulta, un processo per illecita detenzione di tabacco lavorato all'estero, ritenendo che l'impostazione probatoria totalmente indiziaria lo esponesse al rischio di "errore nella valutazione dei fatti e della prove", sanzionato dalla nuova disciplina. Secondo il giudice Cristian Vettoruzzo, infatti, la previsione finisce "per incidere sul principio del libero convincimento del giudice che, per essere indipendente, deve essere libero di valutare le prove, senza temere conseguenze negative a seconda dell'esito del suo giudizio". Al contrario, la nuova disciplina "prevedendo come possibile fonte di responsabilità civile anche la valutazione dei fatti e delle prove, mina il cuore dell'attività giurisdizionale". "Per forze di cose, infatti, il giudice sarà portato, quale essere umano, ad assumere la decisione meno rischiosa che, nel processo penale, è quasi sempre identificabile nell'assoluzione dell'imputato". L'interpretazione del giudice - L'articolo 7 della legge 117/1988 - così come modificato dalla legge 18/2015 - dunque è la prima delle norme sospettate di incostituzionalità laddove non prevede che "non può dar luogo a responsabilità personale del singolo magistrato l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso". Diversamente, infatti, si finisce col cancellare il principio per cui "il giudice è soggetto soltanto alla legge". Non solo, ciò potrebbe condurre ad un "appiattimento" sul precedente giudiziario della Corte di cassazione e del giudice europeo, perdendo così quella capacità della giurisprudenza di merito di "cogliere le nuove esigenze ed aderire ai nuovi valori della vita, nella sua evoluzione". I vincoli europei - E se è vero, prosegue l'ordinanza, che la Cgue ha bocciato un regime di responsabilità che non tenga conto dell'errata interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove, ciò non vuol dire che alla responsabilità dello Stato debba poi seguire quella del singolo magistrato. Va infatti eliminato tale "parallelismo" prevedendo una clausola di salvaguardia che escluda in quest'ambito le responsabilità dei giudici. La formula "travisamento del fatto e delle prove", utilizzata dalla norma, infatti, "si presta, come tale, da un lato, a trasformare l'azione di responsabilità in un'impropria azione di impugnazione dei provvedimenti sfavorevoli divenuti definitivi, dall'altro lato, a consentire un' indagine surrettizia circa l'interpretazione dei fatti, la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche o l'attività valutativa del giudice, con un sostanziale sindacato sul merito dell'attività giurisdizionale con conseguente vulnus all'indipendenza del magistrato". Filtro e trattenuta - Riguardo l'abrogazione del filtro per le domande di risarcimento, poi, "un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt, da 101 a 113 della Costituzione". Ed il filtro è tanto più necessario potendosi verificare, in alcune ipotesi, che l'azione di responsabilità venga esercitata mentre "l'affare penda davanti al giudice accusato di illecito civile". Infine, sarebbe incostituzionale anche la trattenuta per rate mensili di un terzo dello stipendio netto del magistrato considerato che per gli altri dipendenti pubblici vale la regola del quinto. Tenuità anche per i reati fiscali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2015 Corte di cassazione -Terza sezione penale - Ordinanza 20 maggio 2015 n. 21014. La nuova legge sulla tenuità del fatto si dovrebbe applicare anche ai reati tributari appena sopra soglia. Ma dovranno essere le Sezioni unite penali a chiarirlo. Come pure dovranno accertare se la nuova causa di non punibilità può essere fatta valere per la prima volta in Cassazione e con quali modalità e se la stessa Cassazione può esprimere un giudizio di meritevolezza. Sono questi i contenuti della ordinanza n. 21014 della Terza sezione penale depositata ieri. La pronuncia prende in esame alcuni dei nodi applicativi posti dal decreto legislativo n. 28 del 2015 che ha introdotto nel Codice penale (articolo 131 bis) una nuova causa di non punibilità per i reati con pena detentiva fino a 5 anni quando per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa va considerata di rilevanza limitata. Necessaria però anche la non abitualità del comportamento. L'ordinanza si è trovata davanti alla richiesta di applicazione, per la prima volta, in Cassazione della novità nell'ambito di un procedimento che aveva visto sanzionare un imprenditore per il reato di omesso versamento Iva in una situazione in cui la difesa aveva tentato di fare valere la carta delle difficoltà economiche in cui si era trovata l'azienda. La Cassazione, tra i punti affrontati, mette anche quello dell'applicabilità del nuovo istituto a quei reati, come quelli tributari ed edilizi, che prevedono una determinata soglia di punibilità. Il parere, di tipo solo orientativo, perché comunque anche su questo si sollecita l'intervento delle Sezioni unite, è per l'inclusione dei reati tributari nel perimetro di applicabilità, tenuto conto del fatto che, se la soglia non viene superata ci si trova di fronte a un "non reato", mentre se il limite viene superato, allora bisognerà procedere a una valutazione dell'offesa rispetto al livello di superamento della soglia. "Si pensi - osserva la Cassazione - ad un superamento della soglia per poche migliaia di euro, non apparendo plausibile il mancato accesso all'istituto in relazione alla necessità di dovere valutare nella sua interezza l'entità complessiva dell'evasione o del mancato versamento del tributo". La Corte, per il resto, si sofferma a lungo sulla possibilità di applicare per la prima volta nel giudizio di legittimità la non punibilità per tenuità del fatto. Se sì in quale modo, attraverso la formulazione da parte della difesa di motivi aggiuntivi di memorie oppure oralmente in fase di discussione? E ancora: la Cassazione potrà anche intervenire d'ufficio per valutare l'ammissibilità, davanti a un ricorso che sia manifestamente infondato? In caso di risposta positiva alle due domande andrà ancora valutato se rientra nei poteri della Cassazione stessa effettuare la valutazione di meritevolezza (che dovrà in ogni caso tenere presenti anche i precedenti giudiziari dell'imputato, non solo però quelli sfociati in sentenze definitive e l'indole degli stessi) e se questo giudizio dovrà essere espresso attraverso un annullamento con rinvio della sentenza impugnata oppure con un annullamento senza rinvio. Tutte questioni sulle quali dovranno pronunciarsi le Sezioni Unite. La Cassazione non può condurre indagini sul divieto di doppio giudizio Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2015 La Corte di cassazione non può pronunciarsi sul ne bis idem. Un giudizio di questa natura infatti comporta delle valutazioni di merito precluse alla Corte. Lo sottolinea la sentenza n. 20887 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte precisa che due sono le principali e più dirette conseguenze della irrevocabilità della sentenza: una negativa, ed è il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando uan persona è stata in relazione ad esso già condannata o prosciolta: la seconda è la forza esecutiva della decisione. Su queste basi agisce il divieto dell'articolo 649 del Codice di procedura penale, che impedisce la celebrazione di un nuovo processo per lo stesso fatto che sia già stato oggetto di una decisione irrevocabile. Secondo la sentenza è quindi evidente che, prima di potere dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio, è necessario il soddisfacimento di entrambi i requisiti. Ma allora, soprattutto per accertare l'esistenza del primo dei requisiti stessi, quello sul "medesimo fatto", serve lo svolgimento di un'indagine al di fuori delle possibilità di accertamento consentite alla Cassazione. La Corte sceglie in questo modo un orientamento più severo: ne esiste un altro in Cassazione che ritiene che la violazione del divieto di doppio giudizio rappresenta un errore di natura procedurale, tale da permettere anche al giudice di legittimità un'indagine di fatto. La medesima sentenza prende poi posizione per negare che si possa continuare ad applicare la confisca nella stessa proporzione quando il debito erariale è in corso di pagamento rateale. Avvocati: risarcimento per la difesa "pregiudizievole" anche se condivisa col cliente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 maggio 2015 n. 10289 La responsabilità dell'avvocato per la strategia pregiudizievole degli interessi difensivi non viene meno, e neppure è ridimensionata, dal fatto di essere stata ispirata dalla volontà del cliente. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 20 maggio 2015 n. 10289 , respingendo il ricorso di un legale. La vicenda - La cliente aveva chiamato in giudizio l'avvocato per "negligente condotta professionale", chiedendo il risarcimento del danno, perché in una causa per mancata messa in opera e mancato collaudo di una lavatrice industriale promosso contro il produttore, aveva inutilmente chiamato in causa il terzo trasportatore nonostante il diritto da tutelare fosse "prevedibilmente" prescritto. Ed, infatti, l'eccezione di prescrizione venne puntualmente sollevata ed accolta. In appello, la Corte perugina condannò l'avvocato a pagare alla cliente una somma pari a quella che ella aveva dovuto sborsare alla ditta autotrasportatrice a titolo di rimborso spese (5mila euro). Nel ricorso, l'avvocato sostiene che la chiamata in causa era stata "concordata con la cliente e da questa approvata". E che: "In mancanza della prova dell'omessa informazione alla cliente, il rischio di una prevedibile eccezione di prescrizione del diritto formulata dovrebbe imputarsi alla sola cliente, con esclusione di qualsiasi colpa del professionista". La motivazione - Di altro avviso la Suprema corte secondo cui "la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'articolo 1176, secondo comma, codice civile". "Tale violazione - prosegue la sentenza, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è né esclusa né ridotta per la circostanza che l'adozione di tali mezzi sia stata sollecitata dal cliente stesso, essendo compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale". Peraltro, conclude la Corte, l'avvocato è tenuto, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, "ad assolvere non solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione dello stesso ed essendo tenuto, tra l'altro, a sconsigliare il cliente dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole". Lettere: Orlando si fa bello con i Radicali di Dimitri Buffa L'Opinione, 21 maggio 2015 Gli ingredienti della messinscena pseudo-buonista sono semplici: si convocano "gli stati generali delle carceri", dizione slogan che in realtà ricorda la rivoluzione francese con le successive decapitazioni, in un penitenziario modello come quello di Bollate, praticamente l'unico in tutta Italia, si invitano Marco Pannella, Rita Bernardini e i Radicali che sono gli unici che in Italia fanno qualcosa per i detenuti, si invitano anche eminenti sociologi, garanti per i detenuti e un po' di parterre vip tipo Dario Fo, e così il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si rifà a modo suo un po' della verginità persa negli ultimi tempi. In materia di giustizia e dintorni. Tra decreti che promettono, ma non erogano, 8 euro al giorno ai detenuti che abbiano subìto la carcerazione in spazi angusti, meno di tre metri quadrati anche se non si è ancora capito se va considerato o meno lo scarno mobilio di una cella, narrazioni fantasiose di miglioramento delle condizioni delle patrie galere ed espedienti burocratici da usare in Europa per evitare entro un mese una nuova, possibile condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu). In Italia le cose funzionano così: massima ipocrisia buonista e minime concessioni sostanziali. Ancora non si è riuscito a risolvere il nodo della Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale in toto, per l'equiparazione penale delle droghe leggere a quelle pesanti, con diecimila persone che attendono un incidente di esecuzione per il ricalcolo della pena e che però se non potranno permettersi un avvocato aspetteranno in carcere fino alla fine della pena dichiarata incostituzionale, e già il ministro ha messo in piedi la campagna di primavera per ripulirsi, a prezzi modici, la coscienza politica. Tanto l'amnistia e l'indulto non si faranno mai e i Radicali vengono strumentalizzati per queste occasioni come fiore all'occhiello di un vestito che però è sporco e lacerato. Nelle carceri si continua a morire ed a suicidarsi, anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, semplicemente perché sono una discarica sociale. Sia per i detenuti sia per i lavoratori che vi operano. Ci si attacca ai tre metri quadrati della sentenza Torreggiani di oltre due anni orsono, fu infatti emessa dalla Cedu l'8 gennaio del 2013, ma non si dice che quello è il criterio del minimo sindacale. Quando quelli dell'Onu sono venuti a monitorare le nostre luride galere, la prima cosa che è saltata loro agli occhi è che lo spazio in cui si cucina e si lavano i piatti è lo stesso in cui tre o quattro, ma anche sei o sette persone, sono costrette ogni giorno ad orinare ed a defecare. Cucina con vista sulla tazza del cesso. Quando la tazza c'è. In un carcere non può esistere in Italia un bagno separato dalla cucina e anche le tazze, come si accennava, non abbondano (non parliamo dei bidet), perché tutto è ancora sul modello punitivo che sta nei nomi stessi dei penitenziari italiani: Ucciardone, le Mantellate, Regina Coeli, Poggioreale. Strutture medioevali e concetti mentali di punizione con la galera a tutti i costi e per tutti. Concetti peraltro alimentati quotidianamente da telegiornali, talk-show, giornali e programmi di pseudo-approfondimento. Che usano la cronaca nera per fare audience. Come i fumetti del terrore della nostra gioventù. Un vero inferno. In compenso, poi, ci si accontenta di una passerella ogni due o tre anni in un carcere modello tipo Bollate come lavacro di questa vergogna nazionale. Convegni dove tutti fanno finta di credere che questo sarà un passo in avanti per un futuro radioso. Mentre ancora da noi la gente in carcerazione preventiva è costretta e lo sarà ancora per un pezzo ad aspettare il proprio processo (e nel 40 per cento dei casi la propria assoluzione), gettata in questo inferno di sangue e merda che neanche Dante, Averroè ed Aristotele messi insieme avrebbero mai potuto immaginare o descrivere. Fossi stato nei Radicali mi sarei rifiutato di prendere parte a questa messinscena. Ma posso sempre sbagliarmi. Lettere: sugli eco-reati un passo avanti, un passo decisivo di Vittorio Cogliati Dezza (Presidente di Legambiente) Il Manifesto, 21 maggio 2015 Finalmente! Ci sono voluti 21 anni dalla richiesta che Legambiente avanzò con la prima edizione del Rapporto Ecomafie nel 1994. Ieri ho provato la stessa soddisfazione del 13 giugno 2011. Quella sera festeggiavamo la vittoria ai referendum contro il nucleare e per l'acqua bene comune: un incubo dissolveva e una speranza si consolidava. Oggi si dissolve l'incubo che inquinatori e mafie possano spargere distruzione e morte impunemente, e si apre la speranza di salvaguardare la salute degli italiani. Tutto è risolto, allora? Ovviamente no, ma è insensato non riconoscere che è stato fatto un grande passo in avanti, anche per l'Europa a cui l'Italia dà una indicazione inequivocabile di cosa occorre fare. C'è un punto incontrovertibile: sono nati cinque nuovi reati, disastro ed inquinamento ambientale, traffico di materiale radioattivo, omessa bonifica, impedimento del controllo. Fino ad oggi i magistrati, tranne che per il traffico illecito di rifiuti, dovevano arrampicarsi sugli specchi ed appoggiarsi ad altre fattispecie di reato, come il lancio di oggetto pericoloso o disastro innominato. Con efficacia molto discutibile, visto l'esito di tanti processi finiti nel nulla, dall'Eternit a Bussi e alla Marlane, solo per parlare degli ultimi sei mesi. È una legge perfetta? Ovviamente no, ma quale legge lo è! Pensare che una legge con le sue tecnicalità possa risolvere i problemi sociali e culturali che stanno alla radice della distruzione dell'ambiente e dei danni alla salute delle persone, è un'illusione ed un errore. Ciò che conta sono i processi sociali che si mettono in campo, le sensibilità che si sollecitano, l'attenzione sociale che (come è successo per l'abusivismo ed i condoni) crea sostegno all'opera di magistratura e corpi di polizia, che ci garantisce il successo di una legge. E questo Legambiente ha fatto in questi lunghi anni, creando le condizioni perché la politica prendesse atto che gli eco-reati sono un problema rilevante, da risolvere. Sostenere, come fa Gianfranco Amendola, che la legge approvata è ispirata da Confindustria è una boutade poco digeribile, per altro offensiva nei confronti dei tre parlamentari che l'hanno promossa: Realacci (PD), Pellegrino (Sel), Micillo (M5S). Una boutade per il semplice fatto che Confindustria, in accordo con qualche forza politica trasversale, ha fatto di tutto per insabbiarla prima, rallentarla poi, ed infine depotenziarla. Senza riuscirci! Ma soprattutto non è una legge di compromesso, questa è una legge schierata, senza se e senza ma, e sta da una parte sola: colpisce chi inquina. Certo l'applicazione concreta ci dirà quali formulazioni sono ancora imprecise, cosa c'è da migliorare. Ma non dimentichiamoci che in questo Parlamento, come dimostra la trappola tentata con l'air gun, i nemici della legge sono tanti e cercheranno di recuperare spazio per il libero gioco delle mani sporche con norme veicolate in altri disegni di legge. Occorrerà vigilare. Oggi, intanto festeggiamo insieme ad una buona legge, anche una vittoria della democrazia. In anni di decreti legge e voti di fiducia, in anni di delegittimazione dei corpi intermedi, ieri si è realizzato un bel capitolo di democrazia parlamentare e sociale. Una pressione costante dell'ambientalismo che ha posto con insistenza il problema. Tre disegni di legge di iniziativa parlamentare, a cui l'allora ministro dell'ambiente Andrea Orlando, dà sponda e gambe, per arrivare ad un ddl unico. Un passaggio a grande maggioranza alla Camera. Un iter lungo e faticoso al Senato, che comunque riesce a migliorare la legge. Una coalizione di 25 associazioni, guidate da Libera e Legambiente, che ha tenuto sotto pressione il Parlamento nell'ultimo miglio, riuscendo ad aggirare la trappola dell'air gun (che ci auguriamo venga immediatamente recuperato in altra misura legislativa), un rapido passaggio alla Camera ed un impegno dei ministri Galletti e Orlando e del premier Renzi, che viene rispettato e prima della sospensione dei lavori del Senato per le elezioni regionali, la legge è approvata! Oggi è un bel giorno ed abbiamo uno strumento in più per far rispettare i diritti del popolo inquinato. Calbria: Sappe; i mezzi per il trasporto dei detenuti sono vecchi, processi a rischio Ansa, 21 maggio 2015 "È davvero grave la situazione dei mezzi della polizia penitenziaria in Calabria, tant'è che si rischia di far saltare anche i processi. Infatti, la maggior parte degli automezzi che dovrebbero trasportare i detenuti nelle aule di giustizia, ovvero in ospedale in caso di visite e da un carcere all'altro dell'Italia hanno ormai fatto anche 500 mila chilometri". Lo affermano, in una nota, Giovanni Battista Durante e Damiano Bellucci, segretario generale aggiunto e segretario nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. "A Rossano, per esempio - aggiungono - il nucleo traduzioni e piantonamento dispone di un mezzo Ducato Maxi, a fronte di quattro mezzi Ducato e Iveco assegnati per le traduzioni dei circa 170 detenuti media sicurezza. Non c'è nessun mezzo protetto, a fronte dei tre assegnati, attualmente tutti fermi per ripristino funzionale o fuori uso, nonostante la presenza di circa centro detenuti appartenenti ai circuiti alta sicurezza, tra i quali anche terroristici islamici, per i cui spostamenti le attuali disposizioni prevedono l'uso specifico di mezzi blindati. Non c'è nessuna autovettura, su quattro assegnate: sono tutte ferme per tagliando completo e varie anomalie. Ne deriva che di 12 mezzi assegnati complessivamente, il nucleo di Rossano può fare affidamento, per i servizi di piantonamento e traduzione dei circa 300 detenuti, per il momento, su un solo mezzo Ducato per il quale, tra le altre cose, quando avrà percorso altri mille chilometri, bisognerà provvedere al tagliando completo. Ma, più in generale, si evidenzia che il parco automezzi attivo al nucleo di Rossano si compone di mezzi messi su strada in periodi che vanno dal 1991 al 2003 e con percorrenze medie di molto superiori ai 400 mila chilometri. Gli unici mezzi blindati che alla data odierna sono in fermo in autoparco, ad esempio, hanno percorso oltre 500 mila chilometri, essendo alcuni stati messi su strada nel 1995 e, di conseguenza, richiedono continua manutenzione, anche di carrozzeria, essendo soggetti ad infiltrazione di acqua piovana". Non è migliore la situazione negli altri istituti. A Vibo Valentia, per esempio, sembra che in base a delle recenti disposizioni regionali dell'amministrazione penitenziaria, non solo non potranno essere più riparati quelli in avaria ma, addirittura, pare sia stato disposto il ritiro dei mezzi che si trovano in officina. Per far fronte alle incombenze quotidiane il Nucleo di Vibo Valentia deve continuamente chiedere l'assegnazione giornaliera dei singoli mezzi occorrenti; mezzi che vengono inviati da Nuclei di altre città e che, peraltro, vengono resi disponibili solo il giorno prima della programmazione della traduzione, con il concreto pericolo che qualche traduzione possa non essere effettuata. Tale situazione, inoltre, appare essere contraria ai principi di economicità, oltre che di efficienza dell'Amministrazione, con possibili ed eventuali responsabilità per danno erariale, considerato che questa organizzazione sembra raddoppiare i costi stessi (costi di missione, di carburante, eccessivo consumo dei pochi mezzi sovraccarichi di lavoro, senza considerare lo stress accumulato dal personale per i logoranti turni di lavoro), quando, in realtà, probabilmente, con gli stessi soldi si sarebbero potuti riparare i mezzi in avaria dell'autoparco di Vibo Valentia. Attualmente, dei 9 mezzi assegnati, solo uno funziona. Sembra, tra l'altro, che vi sia disponibilità, da tempo, per la concessione, gratuita, di un automezzo dal parco automobili dei beni confiscati ma, ad oggi, pare che per problemi burocratici l'autovettura non sia stata assegnata e, quindi, il servizio posta detenuti deve essere effettuato con un mezzo della polizia penitenziaria". "Siamo, quindi, molto preoccupati - concludono Durante e Bellucci - per la sicurezza del personale e, per tale ragione, proprio ieri abbiamo scritto al Ministro ed ai vertici del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria affinché si possa al più presto provvedere alla riparazione e alla sostituzione dei mezzi". Sicilia: il blindato Crocetta che snobba le vittime di mafia di Errico Novi Il Garantista, 21 maggio 2015 Rosario Crocetta è un governatore blindato. Da tutti i punti di vista, davvero. Ha avuto una giustificata eco il bando indetto dal governatore della Sicilia per il noleggio di cinque berline corazzate. "Sono uno dei politici più a rischio attentati in tutto il Paese", dichiarò esattamente un anno fa il presidente. Che decise di stanziare un milione e 440mila euro per cinque vetture blindate da prendere in affitto. Tre per gli spostamenti sull'Isola, una per quella volta ogni tanto in cui doveva muoversi nella Capitale e un'altra ancora dislocata in un garage a Bruxelles. Più precisamente, nei pressi del leggendario ufficio di rappresentanza della Regione Sicilia presso l'Unione europea. Sempre in vista di quelle ancora più rare incursioni del numero uno di Palazzo dei Normanni presso le sedi comunitarie. Dal bando ultramilionario alla piccola pratica quotidiana. Illustrabile con un esempio a caso, quello di Giuseppe Schirru, imprenditore palermitano del ramo sanitario. Un signore di cui ci si è già occupati su queste colonne a proposito di una causa per tassi usurai vinta contro una banca che ben si è guardata dal restituirgli i 40mila euro di interessi non dovuti. Bene, Schirru e la sua Emyr sanitaria si sono trovati in grosse difficoltà per i debiti insostenibili (e moltiplicati in modo parossistico) ma anche per i tentativi di infiltrazione mafiosa. In particolare, per la controversa "proposta di ristrutturazione aziendale" avanzata a Schirru da Franco Dolce, condannato con l'accusa di essere il boss di Termini Imerese e citato dal pentito Nino "Manuzza" Giuffé, oltre che nei pizzini di Bernardo Provenzano. Il temerario imprenditore dopo aver sfidato le grandi banche affronta pure il socio. Sul quale grava un'interdittiva antimafia che gli pregiudica l'ingresso in società di capitali. Schirru provvede ad assumerlo con regolare contratto di lavoro. Dopo qualche mese va dai carabinieri di Termini Imerese e denuncia i tentativi di Dolce di prendere il controllo dell'azienda. Dopodiché, dichiarata guerra agli istituti di credito e pure a un partner condannato per mafia, Schirru che fa? Pensa di rivolgersi al paladino dell'antimafia per eccellenza, Rosario Crocetta appunto. E qui viene il difficile. L'ostacolo che si rivela più duro di una causa per interessi usurai: la segreteria di Crocetta. Si va dalla responsabile dell'ufficio, che infligge a Schirru ammonimenti del tipo "devo trovare il momento opportuno per parlare del suo caso al Presidente"; a una più spiccia funzionaria che mette l'imprenditore alle strette con un "ma lei vuole un aiuto economico o un appoggio morale?". Naturalmente non arrivano né l'uno né l'altro. Anche perché al pur tenace Schirru, che nel frattempo ha chiuso l'azienda "per timori di rappresaglie dopo la denuncia ai carabinieri", rispondono che una volta il governatore è stato impegnatissimo col Bilancio, un'altra è sfinito dall'ultimo viaggio a Bruxelles, un'altra ancora ha persone da ricevere. Niente, l'antimafia non è un Paese per lupi solitari. "Di sicuro un imprenditore che cerca di sottrarsi alle cosche viene lasciato solo. Non trova ascolto né presso la stampa locale né da parte delle istituzioni". E sbatte contro un'amara realtà: l'antimafia è un sistema chiuso, un circuito delimitato, che non consente l'accesso agli sconosciuti. E a blindare in modo definitivo il sistema provvede l'irraggiungibile Crocetta. Che evidentemente ha una particolare attenzione per i sistemi di difesa. Giustificati se si tratta di sventare le minacce della mafia. Forse meno quando si tratta delle sue vittime. Viterbo: detenuto di quarant'anni tenta d'impiccarsi in isolamento, salvato dagli agenti viterbonews24.it, 21 maggio 2015 Detenuto tenta di impiccarsi in cella, salvato in extremis dagli agenti di polizia penitenziaria. È accaduto martedì scorso nel carcere di Mammagialla. L'uomo, 40 anni, italiano, era in cella di isolamento per motivi disciplinari. L'altra sera, ha strappato un asciugamano a strisce e ha costruito un cappio, ci ha infilato il collo, ha assicurato l'altra estremità alle sbarre e si è lasciato cadere. Il cappio gli si è stretto intorno al collo è stata per soffocarlo quando sono intervenuti degli agenti di polizia penitenziaria, che gli hanno salvato la vita. "Ringrazio i colleghi che hanno dimostrato capacità e prontezza - ha commentato Danilo Primi, delegato regionale della Ugl polizia penitenziaria, che pur lavorando in condizioni di estremo disagio e nella più totale precarietà, riescono comunque a garantire la sicurezza all'interno del carcere e, come è avvenuto l'altra sera, a salvare vite umane". Caserta: Sappe; detenuto accoltellato dal compagno di cella nel carcere di Arienzo Il Mattino, 21 maggio 2015 Forse un regolamento di conti alla base dell'aggressione avvenuta nel carcere di Arienzo. Protagonisti del fatto due detenuti. La denuncia arriva dal Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria, che sottolinea come la tensione nelle carceri italiane e campane rimanga alta e costante. "Non sappiamo se il pretesto del furioso pestaggio tra due detenuti italiani avvenuto nella casa circondariale di Arienzo è tra i più futili, ossia l'incapacità di convivere - seppur tra le sbarre - con persone diverse - spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. O forse le ragioni sono da ricercare in screzi di vita penitenziaria o in sgarbi avvenuti fuori dal carcere. Fatto sta che un detenuto condannato con reati comuni, armato di un coltello rudimentale, approfittando del fatto di essere a "Regime penitenziario aperto" e in custodia attenuata ha colpito al volto un compagno di detenzione eludendo la sorveglianza ed occultando l'arma rudimentale". "Il Personale di Polizia Penitenziaria - prosegue - insospettito dalla calca dei detenuti, è tempestivamente intervenuto evitando il peggio e provvedendo alle prime cure del caso per il detenuto gravemente ferito al volto al quale sono stati posti cinque punti di sutura presso l'infermeria del carcere". mentre è stato rinvenuto il rudimentale coltello ben occultato alla base di un lavabo. L'arma artigianale è stata posto sotto sequestro ed è stata ricavata da un ferro del fornelletto in dotazione ai detenuti per prepararsi i pasti". Lucca: candidature a Garante dei detenuti, pubblicato sul sito internet del Comune loschermo.it, 21 maggio 2015 È stato pubblicato sul sito internet del Comune di Lucca (comune.lucca.it) l'avviso per la ricezione delle candidature degli aspiranti che vorranno ricoprire il ruolo di Garante dei Detenuti del Comune di Lucca. Tale figura è stata istituita a seguito di una specifica delibera del Consiglio Comunale (n. 14 del 24/03/2015) con la quale è stato appositamente modificato lo Statuto Comunale. La giunta municipale, con apposita delibera del dicembre 2014, aveva dato avvio al percorso per istituire la figura del Garante dei Detenuti scopo di permettere la partecipazione alla vita civile e di migliorare le condizioni di vita delle persone private della libertà personale. Tutto ciò si muove nella direzione di dare, ad esempio, la possibilità di istruzione e formazione ai detenuti al fine di un reinserimento nel mondo del lavoro a fine pena. Un atto che esprime la volontà di garantire le dignità di tutte quelle persone che per un momento della loro vita si trovano limitate nelle proprie libertà. Il Garante dovrà promuovere una cultura dell'umanizzazione della pena anche mediante iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani fondamentali, operando di intesa con le altre istituzioni pubbliche per la fruizione di tutti i diritti delle persone detenute e limitate nelle libertà personale. Potranno presentare la propria candidatura tutti i soggetti che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età. Le candidature dovranno pervenire al Protocollo del Comune di Lucca entro e non oltre le ore 13 di lunedì 22 giugno 2015 corredate da lettera di presentazione contenente le motivazioni a sostegno della candidatura e un curriculum vitae indicante l'esperienza nel campo della tutela dei diritti umani, delle scienze giuridiche e sociali, nonché le capacità di esercitare efficacemente le funzioni richieste. Le domande dovranno essere consegnate a mano inviate con raccomandata A/R al Protocollo Generale del Comune di Lucca in via S.Giustina n.6 (lunedì, mercoledì e venerdì dalle ore 8.45 alle 13.15; martedì e giovedì dalle ore 8.45 alle 17.15), oppure via PEC all'indirizzo comune.lucca@postacert.toscana.it. In tutti i casi si richiede di indicare sulla busta o nell'oggetto della PEC che si tratta della candidatura alla nomina del Garante dei Detenuti. Secondo quanto previsto dallo Statuto Comunale (art.15) il Garante dei diritti dei Detenuti viene eletto - a scrutinio segreto - dal Consiglio Comunale, dura in carica 3 anni ed è rieleggibile per una sola volta. Salerno: Radicali; in carcere il voto è negato, un altro attentato ai diritti dei detenuti blastingnews.com, 21 maggio 2015 Donato Salzano invia una lettera alle istituzioni coinvolte. Obiettivo, il diritto di voto nei penitenziari salernitani. Il 31 maggio si avvicina e per le elezioni Regionali in Campania si ripropone un antico problema mai completamente risolto a livello nazionale, oltre che locale. Parliamo di diritto di voto dietro le sbarre, che nella storia repubblicana è stato esercitato - nella migliore delle ipotesi - dal 10% dei ristretti il più delle volte per inadempienze burocratico-amministrative, più volte denunciate negli anni dai Radicali. A Salerno, dove è attiva l'associazione "Maurizio Provenza" che si è già schierata apertamente con Vincenzo De Luca, è in corso una lotta affinché il diritto di voto nelle carceri salernitane sia garantito. A darle voce e corpo, come di consueto, il segretario dei radicali di Salerno, Donato Salzano che quest'oggi ha diramato un comunicato stampa contenente, tra l'altro, una lettera aperta che ha inviato praticamente a tutti i soggetti istituzionali o comunque toccati dalla questione. Tra questi, lo stesso De Luca oltre che il prefetto Vicario di Salerno e i sindaci locali, il provveditore regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, cappellani penitenziari (compreso Don Franco Esposito di Poggioreale) l'arcivescovo di Salerno e i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza. Nel comunicato, oltre a evocare l'incontro tra Andrea Orlando e i Radicali nelle persone di Marco Pannella e Rita Bernardini, voluto dal ministro della Giustizia, si fa riferimento "all'ennesimo attentato ai diritti civili e politici dei detenuti", per via delle lungaggini delle procedure amministrative che, troppo spesso, non consentono ai ristretti di votare. Il riferimento è a quelle svariate migliaia di detenuti che, pur avendo ancora diritto all'elettorato attivo (come quelli in attesa di giudizio) sono di fatto impossibilitati ad esercitarlo. Donato Salzano e Radicali Salerno, dunque, chiedono agli enti preposti di attivarsi affinché siano rispettate la legge 299/2000 e la Risoluzione prima firma Bernardini numero 8/00126 del 2012. Rispettivamente, tali testi prevedono, mediante sinergie con i locali Uffici Elettorali, il recapito delle tessere elettorali ai detenuti che ne sono sprovvisti o, al loro posto, documenti sostitutivi firmati dai rispettivi sindaci; previsto dalla Risoluzione, invece, l'impegno dei direttori delle carceri di dare pubblicità e visibilità al voto, alle modalità e ai candidati in lizza con le varie liste, affinché tutti i ristretti possano scegliere se esercitare o meno il loro diritto per poi comunicarlo per iscritto mediante apposita dichiarazione ai direttori. Tutte procedure da svolgere in tempi stretti e che chiamano in causa diverse istituzioni ma che sono propedeutiche all'allestimento dei seggi nelle carceri ed è per questo che Radicali Salerno chiede a tutti i destinatari della lettera aperta, di attivarsi per rendere quanto più celeri le pratiche da sbrigare. Una vicenda che riguarda ulteriori violazioni della legalità dietro le sbarre, che si aggiungono a quelle già denunciate da un'associazione attiva soprattutto sul fronte della malasanità in carcere e dei "trattamenti inumani e degradanti" ma anche nella vicenda della chiusura degli Opg e relativi sviluppi, anch'essi evocati nel comunicato odierno dove si critica, inoltre, la scelta di Orlando di convocare a Bollate - definito carcere "norvegese" - e non nelle disastrate carceri del Sud, gli Stati Generali delle Carceri. Bari: Cosp; chiudere sezione femminile carcere, è in precarie condizioni igienico-sanitarie Ansa, 21 maggio 2015 Il sindacato Cosp (Coordinamento sindacale penitenziario) ha chiesto alle autorità del dipartimento di chiudere con disposizione urgente la sezione femminile del carcere di Bari per le precarie condizioni igienico-sanitarie. La richiesta, si legge in una nota, è stata avanzata dal segretario generale del Cosp, Domenico Mastrulli. Alcune celle, scrive Mastrulli, hanno ancora in dotazione il vaso alla turca, altre invece sono sprovviste anche di quello, mentre sui ballatoi delle finestre a farla da padroni sarebbero i piccioni con le loro covate. La situazione, aggiunge Mastrulli, è stata segnalata alla magistratura di sorveglianza e l'Autorità garante regionale avrebbe indicato la inidoneità della struttura. Attualmente le detenute sono sette, la sezione in media non ospiterebbe più di 10 recluse e di conseguenza il Cosp chiede di chiudere la sezione trasferendo le detenute nel più idoneo carcere di Trani, ad una cinquantina di chilometri da Bari. Pistoia: la città di Monsummano più pulita e ordinata grazie al lavoro dei carcerati di Ariana Fisicaro La Nazione, 21 maggio 2015 Monsummano più pulita ed ordinata, come? Mettendo a lavoro i detenuti del carcere di Pistoia. È l'idea questa, seguita e portata avanti dall'assessore al sociale Simona De Caro e dal consigliere comunale del Pd Maurizio Venier, che pare avere già incontrato il consenso all'unanimità anche dell'opposizione durante le sedute delle commissioni apposite e che sabato 23 sarà deliberata durante i lavori del consiglio comunale, che si terrà alle 10 all'Osteria del Pellegrino. Una specie di programma di riabilitazione alla vita sociale ed all'inclusione lavorativa per i detenuti a fine pena o in semilibertà ispirata al modello americano e che a Monsummano trova la sua prima sperimentazione in provincia. "L'idea, che abbiamo sviluppato con l'assessore De Caro - spiega Venier - grazie anche alla collaborazione degli uffici comunali è venuta fuori grazie al prezioso contributo di Luca Simoni, sindaco di Porto Azzurro all'Isola D'Elba. Vedendo infatti come i detenuti venivano riabilitati nella società aiutando a mantenere ordinata e pulita la città abbiamo così pensato di esportare l'idea". Non c'è voluto molto ad incontrare l'appoggio del direttore della casa circondariale di Pistoia Tazio Bianchi e del responsabile dell'area educativa del carcere, con i quali l'amministrazione monsummanese ha lavorato ad un progetto che prevede regole specifiche. "Innanzitutto - continua Venier - ci saranno regole precise a cui attenersi. A scegliere i detenuti da reinserire sarà direttamente il carcere in base a loro parametri precisi. A differenza della realtà di Porto Azzurro invece, per la convenzione con Monsummano non sarà prevista remunerazione a coloro che presteranno servizio, dunque, come volontari. Non abbiamo ritenuto opportuno pagare dei detenuti in questo particolare momento di crisi lavorativa e fare così torto a molti cittadini. Inoltre questo progetto è er loro un aiuto per essere reinseriti nel tessuto sociale e lavorativo. Le uniche spese che il comune sosterrà, davvero minime, riguarderanno il pagamento del pasto, dell'assicurazione Inail e del viaggio da Pistoia a Monsummano e ritorno". Messina: la raccolta differenziata sbarca in carcere, i detenuti coinvolti nel progetto strettoweb.it, 21 maggio 2015 Si è svolto ieri il primo incontro formativo ai detenuti del carcere di Gazzi a Messina sui temi della raccolta differenziata e del riciclo degli scarti. L'incontro, organizzato dal Direttore Calogero Tessitore, assieme al Sindaco di Messina Renato Accorinti e al Liquidatore di Messinambiente, Alessio Ciacci, ha visto partecipare alcune decine di detenuti, coinvolti, da alcune settimane dall'avvio della raccolta differenziata nel carcere. Dal 4 Aprile scorso, infatti, all'interno del carcere sono stati collocati i cassoni della raccolta differenziata che hanno permesso ai detenuti e ai dipendenti della struttura detentiva di separare i loro scarti ed ogni settimana Messinambiente effettua la raccolta. In un mese sono state raccolte oltre 4 tonnellate di carta e cartone ed oltre 2 di plastica. Sei tonnellate di materiale che non è andato dunque ad occupare discariche ma che è stato avviato a seconda vita con un notevole beneficio ambientale ed economico. Con il supporto del Responsabile della Raccolta differenziata di Messinambiente, Cesare Corrieri, è stato illustrata al pubblico presente l'importanza del riciclo dei materiali ed il loro destino. I detenuti hanno partecipato attivamente, condividendo gli sforzi fin qui fatti per aumentare la raccolta differenziata e per programmare ulteriori miglioramenti. Tra alcune settimane, quando il sistema sarà entrato definitivamente a regime sarà organizzata anche una presentazione nella struttura dei risultati aperta alla stampa. "Sono convinto della bontà dell'iniziativa - afferma il Direttore Tessitore - Siamo partiti pian piano ma ci stiamo continuamente migliorando. Lo dimostra la partecipazione convinta degli ospiti che con le loro domande ed interventi hanno cercato di dare spunti importanti per migliorare continuamente il servizio". "Dal carcere un esempio importante per il resto della città, un grande passo di civiltà, nel rispetto delle regole. È stato un incontro importante quello svolto a Gazzi - dichiara il Sindaco Accorinti - Un ulteriore importante tassello per continuare a costruire una città migliore. Un percorso che vuole coinvolgere tutti, nessuno escluso, nel cambiamento per aumentare la consapevolezza e la responsabilità collettiva e migliorare i nostri comportamenti e la sostenibilità ambientale. La pulizia dell'ambiente ci rende anche più puliti dentro". "Messinambiente - dichiara Ciacci - è sempre più impegnata nel cercare di costruire percorsi di informazione e sensibilizzazione. Tutti i cittadini devono conoscere le filiere dei materiali per come vengono riciclati. Sul nostro sito internet abbiamo pubblicato tutte le aziende che si occupano del riciclo. Grazie al Carcere di Gazzi per la grande ospitalità e per il contributo importante ad aumentare la raccolta differenziata, solo in questo modo, unendo le forze, questa città può incrementare i propri livelli di sostenibilità". Nelle prossime settimane sarà anche formalizzato un accordo tra Comune, Messinambiente ed il Carcere per l'utilizzo in lavori socialmente utili del lavoro di alcuni detenuti. Opera (Mi): storia di un ergastolano e di come il teatro lo ha "liberato" di Chiara Rizzo Tempi, 21 maggio 2015 Ieri e oggi, 21 maggio, l'Auditorium Gaber ospita per la prima volta uno spettacolo eccezionale soprattutto per gli attori che lo interpretano: i detenuti del carcere di alta sicurezza di Opera. In un'occasione quasi unica, la città potrà incontrare 13 persone che, per lo più, stanno scontando il carcere a vita (con loro sul palco ci sarà anche un solo ex detenuto, uscito solo la settimana scorsa) e scoprire che dietro le sbarre ci sono anche storie di passioni e riscatti difficili da immaginare. Anche il titolo, in effetti, è quanto di più lontano si potrebbe immaginare per uno spettacolo creato e realizzato in carcere: "L'amore vincerà. Concert show per la pace nel mondo". È diretto da Isabella Biffi, in arte Isabeau, che ha già portato in scena con i detenuti di Opera altri quattro spettacoli (questo progetto rieducativo si autosostiene proprio grazie al prezzo dei biglietti pagati dal pubblico che, ad Opera o in teatri esterni, ha assistito alle rappresentazioni), tra cui Siddharta, composto dai detenuti e dalla regista sul libro di Herman Hesse. Nel 2013 una compagnia di Broadway ha acquistato i diritti proprio di Siddharta, dopo averlo visto ad Opera, e nel 2016 attori professionisti lo riproporranno sui palcoscenici statunitensi. La peculiarità dello spettacolo di mercoledì e giovedì è prima di tutto, come dice Biffi, "che l'arte sta permettendo ad alcuni detenuti di compiere la propria rivoluzione umana". "La mia medicina". Francesco Squillaci, 45 anni, di Catania, è uno dei detenuti del 41 bis. Un "fine pena mai", come si definirebbe nel linguaggio carcerario. "Un uomo radicalmente diverso", secondo la regista Biffi e il direttore di Opera, Giacinto Siciliano. "Io credo che il carcere di Opera ci abbia salvati, a me e ad altri compagni ergastolani" dice lui a tempi.it. Squillaci è in carcere da 23 anni: "Sono arrivato ad Opera nel settembre del 2005, dopo altri 13 anni di carcere in Sicilia. Nel febbraio 2008 ho saputo di un casting per lo spettacolo di Isabeau. Ho fatto domanda e sono stato selezionato per il provino: su 40 persone, sono stato selezionato insieme ad altri nove. Quando ero ragazzo mi piaceva la musica, avevo fatto il deejay in alcune radio e in una famosa discoteca nella mia città. Ma trovarsi sul palco come attore di un musical è completamente diverso. In ogni caso, a me allora ancora non importava. In quel momento cercavo solo una scappatoia, nel senso che l'unica cosa che mi importava era ottenere qualche permesso per uscire. Volevo fregarli e invece col tempo ho scoperto una vera passione per il teatro. È stato rovesciato il mio modo di vedere le cose. Ora il teatro è la mia più grande passione, e sogno, un giorno, di recitare anche fuori dal carcere. Per me è stata una terapia, è stata una medicina per la mia anima. Come se io prima fossi stato un malato terminale, e all'improvviso qualcuno avesse trovato una cura per me". "Si può cambiare". Squillaci è stato membro di una sanguinosa cosca della Sicilia orientale: "Dopo l'arresto, nelle carceri siciliane non mi veniva data fiducia per riscattarmi. Ero costretto a vivere anzitutto con altre persone che avevano il mio stesso passato e con cui si parlava solo di nuovi progetti criminali. Non c'erano attività da svolgere. A Opera, invece, per la prima volta mi veniva data fiducia". Un giorno in particolare è accaduto un fatto: "Isa ci ha raccontato una sua esperienza personale. Ci diceva che "si può cambiare". Fino a quel momento io non ero stato un tipo facile. Mandavo a quel paese tutti. Per me non c'erano educatori, direttore, psicologi. Io mi sentivo "il più": o si facevano le cose come dicevo io, oppure mandavo tutti al diavolo. Intendiamoci, non credo nemmeno nel cambiamento radicale. Ma quel giorno, ascoltando la sincerità di Isa, mi sono detto: "Perché non darle fiducia? Magari è proprio così". "Ma che ti succede?". Prosegue Francesco: "Le prime persone ad accorgersi di quanto stavo cambiando, prima ancora di me stesso, sono stati i miei familiari. Prima, anche quando mia moglie veniva a trovarmi, di fatto continuavo ad essere un malandrino. Un mafioso di merda. E le parlavo sempre delle stesse cose, come quando ero fuori. Ad un certo punto ho cominciato a parlare di altro, tanto che un giorno lei mi ha chiesto, commossa e felice: "Ma che ti sta succedendo? Non ti riconosco più". È stato grazie a questa esperienza che ho finalmente tagliato il cordone con il mondo criminale". A scuola. Francesco ha avviato un percorso in cui, progressivamente, ha avuto anche modo di dare lui qualcosa al mondo esterno. "Da un po' di anni, lavoro anche nelle scuole, dove parlo di devianza e bullismo ai ragazzi che mi riempiono di domande. Mi chiedono che reati ho fatto, e poi quante persone ho ucciso. È difficile per me rispondere loro ogni volta. Eppure, man mano che mi conoscono, iniziano a prendere fiducia, si confrontano, mi chiedono consiglio sui cattivi rapporti che hanno con i genitori o gli insegnanti. E io continuo a ripetere: "Guardate che le guide sono importantissime, se non cresci in un ambiente sano e sei solo e fragile, sei fottuto. Io ho iniziato da piccolo proprio perché mi sentivo fragile". Libertà. "Sono uscito per la prima volta in permesso premio il 9 ottobre 2013, dopo 20 anni e 8 mesi. Non tutti abbiamo la stessa percezione della libertà. Conosco persone che sono uscite dopo 20 anni che hanno pianto, o che erano "intronate". Io non ho pianto, e non perché disprezzi il pianto, perché io un uomo che piange lo ritengo un uomo vero. Forse ero così felice, che in un istante ho sentito che non ero mai stato in carcere. La pesantezza di quell'esperienza è svanita vedendo mia moglie e i miei figli. Oggi però mi capita più spesso di piangere ad esempio quando finiamo gli spettacoli, e si avvicinano il direttore o altre persone e ci dicono "Non siete più quelli di una volta". Mi emoziono perché mi chiedo: "Ma è proprio vera questa cosa qui? È possibile che anche io sia cambiato?". Sono ergastolano, vivo nell'alta sicurezza. Non ho un fine pena e, se va bene, la mia prospettiva è un cambiamento di regime carcerario, tipo la "declassificazione". Dall'alta sorveglianza sembra che passerò al regime di media sicurezza, che mi permetterebbe di uscire dal carcere per lavorare di giorno e rientrare la sera. Non so, comunque sono molto fiducioso. Chissà, forse tra vent'anni qualcuno deciderà che l'ergastolo non è l'unica misura possibile per la gente come me, e che dopo così tanti anni di espiazione, si potrà ritornare nel mondo "civile"". Roma: Manconi (Pd) presenta libro "Abolire il carcere", intervengono Rodotà e Celestini Adnkronos, 21 maggio 2015 "La pena si mostra in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato". Lo sostiene Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, presentando stasera a Roma nella libreria Ibs Libraccio, in via Nazionale, "Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini", appena pubblicato da Chiarelettere. All'incontro partecipano il giurista Stefano Rodotà e l'attore Ascanio Celestini. "Primo: il carcere è inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati - spiega Manconi - Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente". Cambiare l'esecuzione della pena in Italia è, infatti, l'obiettivo di questo volume, scritto da Manconi insieme a Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Vi sono raccolti dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva messo dietro le sbarre. Gli autori, tuttavia, in questo quadro difficile prospettano una serie di soluzioni praticabili, proponendo dieci riforme possibili. Tutte a partire dall'idea che "il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio", come ricorda il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, autore della postfazione al volume. Torino: i detenuti giocano a rugby, così imparano il rispetto delle regole contattonews.it, 21 maggio 2015 Una partita di rugby diversa dalle altre; la differenza sostanziale sta nel fatto che gli atleti sono tutti detenuti del carcere di Torino. Sugli spalti, a fare il tifo, amici e familiari, e naturalmente gli agenti e i responsabili della struttura detentiva che mirano, attraverso lo sport, a creare nuovi percorsi di inclusione sociale con un obiettivo specifico. "Dare delle regole a chi le regole le ha perse per strada - spiega Walter Rista, ex azzurro di Rugby e responsabile dell'associazione che si occupa di insegnare questo sport ai detenuti - se questi ragazzi sono in carcere, qualche problema l'hanno creato". Il team è attivo dal 2010 e gioca in quarta divisione, però questi atleti non possono lasciare il carcere quindi tutte le partite le giocano "in casa". Resta comunque un modo valido per apprendere l'importanza della disciplina. "Le regole del rugby fanno bene - dice Albert, detenuto albanese - però se tu la sai una cosa quando sbagli, sbagli una volta ma la seconda volta non sbagli più". "Mi ha insegnato per prima cosa a essere educato - aggiunge Wissen tunisino, capitano del team - a mantenere la calma, perché prima ero più nervoso adesso invece no". Dalla sua fondazione sono 65 gli atleti detenuti che hanno avuto la possibilità di entrare in squadra e ad alcuni di essi quest'avventura ha letteralmente cambiato la vita. In 15, infatti, lasciata la prigione, hanno trovato ingaggi in squadre professionistiche sia in Italia che in Spagna. "Se noi diamo a tutti l'opportunità di capire che si può vivere anche senza delinquere - conclude Rista - forse abbiamo fatto del sociale". Immigrazione: "lasciamo i corpi in mare, tanto le indagini sono chiuse" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 21 maggio 2015 I corpi degli 800 immigrati possono rimanere nel fondo del mare, tanto sarebbe un'operazione inutile visto che le indagini sono concluse. È il concetto espresso dal magistrato di Catania e ciò ha scatenato una forte indignazione da parte delle associazioni umanitarie. "È un gesto barbarico che offende la memoria e la dignità delle persone!", affermano in maniera unanime le associazioni che si occupano di migranti per le parole pronunciate dal procuratore di Catania Giovanni Salvi. Parlando ai giornalisti, infatti, il capo della procura della cittadina siciliana ha affermato che gli oltre 800 corpi del naufragio del 19 aprile scorso, non verranno recuperati perché l'operazione è ormai inutile per le indagini, che si stanno avviando verso la fase conclusiva. E così le vittime di quella che è stata definita la più grande strage del Mediterraneo, dal dopoguerra a oggi, rimarranno in fondo al mare. "Se quelli fossero stati i corpi di cittadini europei probabilmente la decisione e le reazioni sarebbero state di altra natura - sottolinea Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana. Questo ci deve far riflettere profondamente. Un bel gesto ed atto di coraggio sarebbe quello di cambiare idea per ridare dignità a queste persone, morte in una maniera terribile e tra le quali, come sappiamo, c'erano anche tanti bambini". E aggiunge: "Siamo consapevoli delle difficoltà che comporta un'operazione come questa , ma ciò non può evitare un atto di grande umanità. Speriamo che le parole e la decisione del procuratore siano riviste, anche il premier Renzi si era impegnato a dare degna sepoltura a questi corpi. Ci attendiamo un gesto che vada in direzione contraria". Sdegno anche da parte di Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre: "È un fatto molto triste, questi corpi non devono essere recuperati per le indagini ma perché ci sono familiari che attendono di sapere che fine hanno fatto i loro cari". E sottolinea: "Noi continuiamo a ricevere chiamate ogni giorno di persone disperate, che non riescono a darsi pace e che hanno il diritto di sapere. Facciamo dunque appello alle autorità italiane e alla procura perché si proceda con il recupero e l'identificazione delle salme. Dobbiamo dare pace alle loro famiglie". Indignazione anche da parte dei salesiani del Centro Astalli: "Negare una degna sepoltura è contro ogni principio di umanità. Passeremo alla storia come una civiltà barbara che per motivi economici non seppellisce i morti". E aggiunge: "Ci sono più di 800 famiglie che non sanno se i loro cari sono vivi o morti, è un dovere recuperare quei corpi e per quanto possibile dare loro un nome. Lo dobbiamo fare, è una questione di civiltà. Chiediamo a coloro che in questo momento devono decidere della sorte di quei morti di provare a mettersi nei panni dei congiunti che aspettano di sapere. Proviamo a pensare se in fondo al mare ci fossero i nostri figli o i nostro fratelli".