Giustizia: Stati generali dell'esecuzione penale, la sfida di cambiare il "senso comune" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 L'obiettivo è ambizioso: riformare l'ordinamento penitenziario, per restituire senso e dignità costituzionale all'esecuzione della pena, attraverso "l'evoluzione del senso comune", quello secondo cui il carcere è l'unico antidoto alla paura e la segregazione la via obbligata per esorcizzarla. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando lancia la sfida all'inaugurazione degli Stati generali dell'esecuzione penale. E spiega il metodo di lavoro, mutuato dalla Francia: sei mesi di ampio e approfondito confronto attorno a 18 "tavoli tematici" (presieduti da nomi noti come Colombo, Ceretti, Bernardini, Patroni Griffi, Zevi, per citarne alcuni, e coordinati da Glauco Giostra), cui parteciperanno operatori, giuristi, intellettuali, società civile. "Non una kermesse ma una grande mobilitazione politica, sociale, culturale" dice nell'affollato teatro del carcere di Milano Bollate, unica realtà italiana interamente impostata sul rispetto dei principi costituzionali (che fra l'altro ha "occupato" 100 dei suoi detenuti all'Expo, a pochi metri dal carcere). Da lì - da quel penitenziario "modello", operoso, colorato, pieno di rose, in cui i detenuti si muovono come i "liberi" - è partito ieri il cammino che dovrebbe portare a sottoscrivere una sorta di "patto sociale di civiltà" per costruire un nuovo sistema di pene ma anche un Paese nuovo, auspica Orlando. Risolta l'emergenza sovraffollamento (dalla condanna della Corte di Strasburgo i detenuti sono scesi da 65.701 a 53.310, le misure alternative sono aumentate da 26.797 a 32.721, i detenuti in attesa di giudizio sono passati dal 40 al 17%), restano i problemi di sempre: vita in carcere, architettura carceraria, detenute madri con figli, affettività, lavoro, stranieri, istruzione, salute, giustizia riparativa ecc. Problemi irrisolti a causa di decenni di politiche che hanno oscillato tra "pietismo per la disumanità del carcere e paura inconscia della collettività", ha ricordato il guardasigilli, secondo cui "va ricostruito un principio di razionalità". Anche perché la politica della paura ha portato al risultato "paradossale" che "siamo il paese d'Europa con la recidiva più alta". Ma per cambiare rotta è fondamentale che cambi il senso degli italiani per il carcere. È la sfida principale degli Stati generali ed è "la prima volta che l'opinione pubblica viene coinvolta su un tema da sempre rimosso eppure tanto significativo per la civiltà di un Paese", osserva il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, apprezzando i toni "anti-demagogici" di Orlando e le sue "critiche alla politica della paura". Giustizia: il ministro Orlando "il carcere è anche il luogo dell'umanità" di Luca Fazio Il Manifesto, 20 maggio 2015 Sono cominciati ieri mattina nel carcere di Bollate gli "Stati Generali dell'esecuzione penale", sei mesi di dibattiti e confronti che serviranno a definire concretamente un nuovo modello di carcere e di pena in Italia. Per il ministro della Giustizia si tratta di un "patto di civiltà" che deve diventare patrimonio culturale di tutta la società. Al convegno inaugurale, tra gli altri, sono intervenuti anche Giuliano Pisapia, Valerio Onida, Luigi Ferrajoli, Marcelle Padovani e (con un messaggio) anche Giorgio Napolitano. Il convegno è laggiù in fondo. I corridoi del carcere di Bollate sono dipinti con i colori pastello e sono lunghissimi. A destra e a sinistra si intravedono le gabbie per i detenuti, i panni appesi alle grate. La polizia penitenziaria è gentile, c'è profumo di pulito e agitazione da grande evento. Ecco un "carcere modello", un'anomalia dicono tutti, pensare agli altri mette i brividi. Impossibile percorrere quei corridoi senza porsi una domanda: davvero basteranno sei mesi di "idee" per cambiare il carcere in Italia? Questo è l'obiettivo dichiarato degli "Stati generali dell'esecuzione penale", un inedito percorso di approfondimento con 18 "tavoli tematici" che in autunno dovrebbe tradursi concretamente, "sia a livello normativo che organizzativo", in nuove regole con cui riformare il sistema dell'esecuzione penale. Lo promette un ministro che per la prima volta ha coinvolto non solo gli "addetti ai lavori" ma anche il mondo della cultura, dell'economia, dello spettacolo e del volontariato per cercare di parlare all'opinione pubblica, troppe volte ostaggio della retorica della sicurezza e della "politica della paura". La parola chiave che segna un cambio di rotta è "umanità", come recita l'articolo 27 della Costituzione quando dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità; ed è lo stesso concetto espresso dal ministro della Giustizia Andrea Orlando in chiusura di una lunga mattinata dentro al carcere di Bollate (Milano): "Il carcere è anche il luogo dell'umanità". In sala, dopo un documentario, vengono lette le parole di Giorgio Napolitano. L'ex presidente ammette gli "innegabili progressi" fatti in seguito alla condanna della Corte europea dei diritti umani, ma lascia intendere che non basta: "Va perciò ribadito con la massima chiarezza e concretezza che non sono consentite pause e incertezze nell'azione da condurre su questo cruciale fronte di civiltà giudiziaria e di politica costituzionale per il rispetto della dignità della persona". Il lavoro è immane, le intenzioni del ministro della Giustizia sembrano sincere. "Questa iniziativa - commenta Marco Pannella - è un segnale di crescita e attenzione reciproca che era urgente". Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, con un saluto poco rituale, sottolinea la necessità di portare a casa qualche risultato, "perché quello che si vorrebbe fare non sempre coincide con ciò che è possibile fare". Se l'ordinamento giudiziario è in assoluto il migliore al mondo, dice Pisapia, "le carceri risultano essere le migliori del terzo mondo". Questa l'urgenza: "Bisogna avere coraggio di fare qualcosa di praticabile, bisogna superare la logica della sanzione carceraria". È il tema dell'alternativa alla detenzione, uno dei diciotto che verranno affrontati in quella che si annuncia come una consultazione lunga sei mesi. Il giurista e filosofo del diritto Luigi Ferrajoli parla di "impazzimento" del sistema penale (con 36 mila figure di reato) e mette l'accento su quello che dovrebbe essere il "primo obiettivo" di questo semestre di riflessioni: "Eliminare quella vergogna che è l'ergastolo". Del ministro Orlando colpiscono i toni pacati e le riflessioni "impopolari", considerando che nel senso comune (non solo dell'opinione pubblica) prevale lo sbrigativo concetto "buttiamo via la chiave". Il ministro, invece, chiede di far prevalere il senso di razionalità per coniugare il bisogno di sicurezza con un percorso di umanità per i detenuti. La complessità dell'argomento non permette incursioni nei dettagli della materia penale, ma Orlando indica due ricadute possibili a fine percorso: l'esercizio della delega sulla riforma del sistema penitenziario e "le misure alternative al carcere". Ma niente indulto, precisa a margine del convegno. Lo chiama "patto di civiltà", una necessità e un impegno che deve diventare patrimonio culturale sia dell'amministrazione carceraria che dalla magistratura. "Una pena civile vuol dire un paese più civile". Giustizia: il ministro Orlando "non vogliamo indulto, il governo ha un approccio diverso" Ilaria Solaini Avvenire, 20 maggio 2015 Le pene? "Preferiamo rimodellarle, piuttosto che cancellarle". L'indulto? "In passato ha portato a glissare sui problemi strutturali. Noi abbiamo un approccio diverso, il nostro percorso elimina l'allarme sociale". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha aperto ieri a Bollate, nel Milanese, gli Stati Generali sull'esecuzione penale, senza eludere gli interrogativi legati all'attualità. Sarà un confronto al quale fino a novembre parteciperanno tutti i protagonisti e i soggetti del settore, con l'obiettivo di arrivare ad avere "un Paese più civile". "L'Italia risulta il Paese che spende di più per esecuzione penale - ha spiegato il Guardasigilli - ma ha la recidiva più alta. Si tratta di un sistema non produttivo", motivo per cui l'investimento di risorse va ripensato e affiancato a una riforma complessiva del sistema carcerario che incominci con il "riempire due scatole". "La prima è l'esercizio della delega sulla riforma del sistema penitenziario con l'obiettivo di arrivare all'approvazione - ha proseguito il Guardasigilli - quando finirà il percorso degli Stati Generali". La seconda riguarda le misure alternative al carcere e su questo Orlando ha ricordato che "nel Consiglio dei ministri di ieri è stato vistato il regolamento organizzativo del ministero della Giustizia con la creazione di un Dipartimento che si occupa delle sanzioni di comunità. Bisogna lavorare per il riconoscimento delle sanzioni di comunità come altra forma di esecuzione della pena". Sei mesi di incontri, suddivisi in 18 tavoli tematici, per portare avanti questo percorso condiviso tra tutti i protagonisti del sistema carcerario, alla ricerca "dell'equilibrio tra sicurezza e dignità nel trattamento". E a chi ha sollevato la questione dell'indulto il Guardasigilli ha risposto che questo governo "affronta la questione del sovraffollamento, sviluppando delle pene alternative. Si evita di cancellare le pene che invece vengono rimodellate". Giustizia: ok amnistia e indulto, i problemi del sistema giudiziario italiano sono strutturali di Giovanni Mauro (Senatore) L'Opinione, 20 maggio 2015 Le nostre carceri e, più in generale, la non-amministrazione della giustizia costituiscono ormai la prima e principale questione sociale ed economica del nostro Paese. Per tale questione lo Stato italiano è condannato dalla giustizia europea, ogni anno e per centinaia di volte negli ultimi vent'anni, per violazione di diritti umani fondamentali. Il Consiglio d'Europa, che giudica il sistema italiano tra i peggiori del continente, il 17 ottobre 2009 ha approvato una risoluzione ultimatum nella quale si invita il nostro Stato ad esibire "risultati concreti o piano d'azione realistici" per risolvere le gravi carenze strutturali della giustizia, i cui ritardi causano violazioni ripetitive dei diritti umani e costituiscono una seria minaccia al principio dello Stato di diritto. In particolare le critiche di Strasburgo mettono in evidenza un grave ritardo nelle procedure che violano l'art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo (che prevede il diritto ad un processo equo) e nella mancata esecuzione di un migliaio di sentenze di risarcimento danni pronunciate contro il nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Con i Decreti del Presidente della Repubblica n. 75 e n. 394 (concessione di amnistia e concessione di indulto) del 1990 furono circa 13 mila i detenuti che uscirono dal carcere. Con la legge 207/2003 fu approvato un provvedimento di clemenza il cosiddetto "indultino" che concesse uno sconto di pena di due anni per chi avesse già trascorso in carcere almeno metà della pena. Nel 2006 il Parlamento approvò, con un'ampia maggioranza trasversale, la legge 241 che introdusse un provvedimento di indulto per i reati commessi fino al 2 maggio dello stesso anno. In particolare è stato concesso un indulto non superiore ai tre anni per le pene detentive e fino a 10.000 euro per le pene pecuniarie. Escludendo dal beneficio i reati in materia di terrorismo (compresa l'associazione eversiva), strage, banda armata, schiavitù, prostituzione minorile, pedo-pornografia, tratta di persone, violenza sessuale, sequestro di persona, riciclaggio, produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, usura e quelli concernenti la mafia. Il problema delle carceri, purtroppo, non è stato mai risolto, già nell'audizione del 2008 alla Camera dei Deputati l'allora Ministro Alfano fotografava in modo preciso la realtà delle carceri italiane sottolineando che il 50 per cento di esse dovrebbero essere chiuse perché vetuste, che 20 per cento è stato realizzato tra il 1200 e il 1500, mentre il restante 30 per cento è risalente alla fine dell'Ottocento. Secondo i dati del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) al 31 ottobre 2013, i detenuti reclusi sono 64.323 (compresi nel totale dei detenuti anche quelli in semilibertà) nei 205 istituti di pena italiani, a fronte di una capienza regolamentare di 47.668 posti. Un terzo, ossia 22.770 sono i detenuti non italiani (che rappresentano il 35,1% della popolazione carceraria). Minima è la componente femminile, il 4,3% del totale dei detenuti ovvero 2.821 donne (di cui 1.102 straniere). Al 30 giugno 2013, sono 52 i bambini sotto i 3 anni che vivono in carcere con le madri (51 detenute). Chi come me ha a cuore il problema della sicurezza sociale non può ritenere l'amnistia e l'indulto contraddittori con l'attenzione ai problemi di sicurezza. Investire sul recupero e sulla prevenzione è la vera politica per la sicurezza, una politica meno costosa socialmente, umanamente ed economicamente. Tenere una persona in carcere, nelle attuali condizioni miserevoli e spesso illegali, costa allo Stato circa 63.875 euro l'anno. Grave ed intollerabile è anche la situazione degli altri soggetti che "risiedono" nelle strutture carcerarie, gli operatori pubblici dell'amministrazione, per primi gli agenti della polizia penitenziaria. L'immensa gravità della realtà sociale che questi dati sull'amministrazione della giustizia ci dice che non è più morale, e soprattutto legale, subire inerti questa tragedia. In questo contesto, la concessione dell'amnistia e dell'indulto non è un atto di clemenza, ma innanzitutto un atto volto al ripristino della legalità e al buon governo dell'amministrazione della giustizia e del carcere, è una risposta a una situazione di emergenza che rischia di divenire irreversibile e di tramutarsi in catastrofe vera e propria. Occorre varare la più straordinaria, forte, ampia, decisa e rapida delle amnistie che la Repubblica italiana abbia conosciuto dalla sua nascita, per ridurre immediatamente di almeno un terzo il carico processuale dell'amministrazione della giustizia, affinché essa, liberata dai processi meno gravi, possa proficuamente impegnarsi a concludere quelli più gravi. È necessario un indulto, di almeno due anni, che possa sgravare di un terzo il carico umano che soffre - in tutte le sue componenti: i detenuti, il personale amministrativo e di custodia - la condizione disastrosa delle carceri. Con questo provvedimento i tribunali verrebbero sostanzialmente decongestionati dalla paralisi in cui sono precipitati e le carceri tornerebbero ad essere luoghi passabilmente vivibili per i detenuti e per tutti coloro che vivono e lavorano in quella realtà. Senza vita del diritto evapora qualsiasi diritto alla vita. L'amnistia e l'indulto sono gli unici strumenti tecnici a disposizione delle Istituzioni per interrompere e rendere possibile l'uscita dalla situazione di flagrante criminalità nella quale si trova lo Stato italiano. C'è l'obbligo di tutti, secondo le proprie funzioni e responsabilità - dal Capo dello Stato al Capo del Governo, dai parlamentari eletti dai cittadini - di affrontare e risolvere quella che senza alcun dubbio è la massima urgenza sociale della storia della Repubblica italiana. Con l'approvazione di questo disegno di legge per la concessione di amnistia e di indulto, per la difesa dello Stato di diritto e per la riforma della giustizia, il Senato della Repubblica potrà dire di aver fatto la sua parte. Disegno di legge Articolo 1 (Amnistia) 1. È concessa amnistia per tutti i reati commessi entro il 30 giugno 2015 per i quali è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero una pena pecuniaria, sola o congiunta a detta pena. Non si applicano le esclusioni di cui all'ultimo comma dell'articolo 151 del codice penale. 2. L'amnistia non si applica ai reati di cui all'articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. 3. L'amnistia non si applica qualora l'interessato faccia esplicita dichiarazione di non volerne usufruire. Articolo 2 (Indulto) 1. È concesso indulto per tutti i reati commessi entro il 30 giugno 2015 nella misura non superiore a due anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie sole o congiunte a pene detentive. Non si applicano le esclusioni di cui all'ultimo comma dell'articolo 151 del codice penale. 2. Il beneficio dell'indulto è revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente disegno di legge, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni. 3. L'indulto di cui al comma 1 non si applica nei casi già rientranti nell'ambito di applicazione della legge 31 luglio 2006, n. 241. Articolo 3 (Entrata in vigore) 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Giustizia: intervista a Gherardo Colombo; basta carcere, è tempo di "restorative justice" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Il carcere non serve. Anzi, è dannoso. Lo dice Gherardo Colombo, una vita spesa - prima - come magistrato e - poi - come "divulgatore" della legalità, in giro per l'Italia a parlare, spiegare. A dire "cose impopolari", insomma, su cui regna l'afasia politica: il carcere priva della dignità, educa all'obbedienza e non alla libertà responsabile, risponde al male con il male, non riabilita, aumenta la recidiva, riduce la sicurezza. La nostra giustizia è vendicativa, risponde alla sofferenza della vittima con la sofferenza del detenuto mentre la "restorative justice" si fa carico di riparare la vittima e di far assumere al condannato la piena responsabilità del suo gesto. Un percorso alternativo o congiunto al carcere, difficile ma sensato. Esiste in altri Paesi, con risultati positivi, e il ministro della Giustizia Andrea Orlando vuole che sia approfondito durante gli Stati generali sul carcere. Cominciamo dall'inutilità del carcere. Davvero lei pensa che non abbia alcuna funzione deterrente? Sono convinto che le regole si osservano non per paura ma per condivisione. In Italia non ci sono più di 500 omicidi all'anno non perché le persone hanno paura del carcere ma perché pensano che non sia una buona cosa ammazzare. Peraltro, l'effetto deterrente non funziona in tanti casi. Pensiamo ai tossicodipendenti, un terzo dei detenuti: il tossicodipendente deve scegliere tra rispetto delle regole e bisogno di soddisfare la propria dipendenza. Il comportamento dettato dalla dipendenza è incoercibile, perché dipende - appunto - dalla droga. Il tossicodipendente sa benissimo che se commette una rapina va in prigione, eppure, anche se ha già conosciuto il carcere, continua a delinquere. Ma pensiamo anche ai delitti passionali più gravi: sono condotte coercibili? Funziona la deterrenza? Tra l'altro, in tutti i casi la deterrenza funzionerebbe solo se il controllo fosse effettivo. E così non è. Basti pensare che il 90% dei furti è a carico di ignoti… Neanche per i reati economici serve la minaccia del carcere? È sbagliata la sanzione. Noi non sappiamo se corrotti e corruttori finiti in carcere con Mani pulite e oggi tornati agli onori della cronaca siano colpevoli oppure no, ma, se lo fossero, vorrebbe dire che nei loro confronti il carcere non ha funzionato come deterrente. Detto questo, credo che andrebbero individuate sanzioni "produttive", per impedire, ad esempio, l'utilizzo di quanto ricevuto indebitamente. Resta fermo che per marginalizzare la corruzione occorre un intervento culturale: finché la cittadinanza nel suo complesso è tutto sommato disponibile ad accettarla, sia dal lato passivo che attivo, finché nel comune sentire è tollerata come necessità, uscirne sarà impensabile, men che meno aumentando le pene. Uno degli argomenti più spesi politicamente è la "certezza della pena", declinata come "tolleranza zero" o "carcere chiuso buttando la chiave". Studi economici dimostrano invece che un carcere "aperto" - pena finalizzata al reinserimento sociale del detenuto - o comunque vivibile - rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali - riduce la recidiva e, di converso, aumenta la sicurezza collettiva. Perché un argomento così decisivo non fa breccia nell'opinione pubblica e in politiche penali conseguenti? Anche qui c'è un aspetto culturale molto forte. Il carcere è un tema che ha a che fare con la paura e con la paura non si ragiona: la senti e cerchi la via più immediata per rispondere. Inoltre, in Italia è diffusissima la convinzione secondo cui chi ha fatto del male deve subire il male. Una reazione che deriva da aspetti emotivi e da millenni di cultura egemone, omologa a questo pensiero. La politica non dovrebbe smarcarsi dall'emotività? In politica, le ragioni di calcolo sono molto forti. Negli Usa non c'è stato nessun candidato alla presidenza che abbia parlato male della pena di morte e se lo ha fatto ha perso le elezioni. La politica deve fare i conti con il sentire comune, anche se dovrebbe evitare di alimentarlo troppo, calcando la mano con pene più severe. Per migliorare la vivibilità basterebbe applicare leggi e regolamenti vigenti. Però non si fa. Perché? È vero: leggi, regolamenti, principi ci sono già. Però, anche qui, il problema è in primo luogo di cultura: se tutti siamo convinti che chi sta in carcere deve soffrire, chi in carcere ci lavora è contagiato. Affinché il carcere non sia custodiale ma finalizzato al recupero, sarebbe necessaria una conversione delle professionalità, diverse da quelle che ci sono. Il carcere costa 3 miliardi, quasi tutti spesi per mantenere la struttura (stipendi, manutenzione) mentre alle attività ricreative, culturali e formative dei detenuti non va quasi niente. Destinare le risorse in modo diverso è un problema perché, se tutto resta così com'è, i cittadini sono contenti. Anzi, vorrebbero addirittura che fosse peggio. Se la severità della sanzione detentiva riflette il disvalore sociale di condotte illegali, lei per quali reati conserverebbe il carcere? Il disvalore sociale dipende dal precetto, più che dalla sanzione, e dalla condivisione del precetto. Sulla corruzione si stanno aumentando le pene, in parte già aumentate nel 2012 con la legge Severino. È forse cambiato qualcosa dopo quella legge? È aumentata la percezione del disvalore della corruzione? Semmai, il problema è la comunicazione del precetto, che va spiegato. Io credo che, non in carcere ma da un'altra parte, debbano starci solo i più pericolosi, i detenuti più capaci di danneggiare gli altri, purché il pericolo sia attuale. La loro pericolosità, però, dovrebbe comportare la compressione dei soli diritti che contrastano con la tutela della sicurezza altrui. Se Tizio vuole ammazzare chiunque abbia i capelli rossi, sarebbe assurdo vietargli di incontrare la moglie con i capelli neri o privarlo delle condizioni minime di igiene e di spazio. Giustizia riparativa: le vittime possono accettare davvero che chi li ha "offesi", invece di pagare con il carcere, sia sottoposto a un percorso riabilitativo all'esterno? Non è così assurdo né raro. Recentemente, l'hanno fatto due madri, una di un carabiniere ucciso e l'altra del ragazzo che lo ha ucciso. Nell'università del Minnesota, il professor Mark Umbreit ha fatto una meta-ricerca sul grado di soddisfazione dei responsabili di un delitto e delle vittime a compiere il percorso riparativo nonché sul grado di soddisfazione di entrambi. La percentuale di gradimento è molto elevata, tra l'80 e il 90%. Il sistema di giustizia riparativa è applicato in vari Paesi, alternativamente o congiuntamente al carcere. Purtroppo noi siamo fermi a una cultura secondo cui l'unica soddisfazione della vittima è quella del suo desiderio di vendetta. Che non è proprio un sentimento positivo. La giustizia riparativa, invece, si preoccupa molto di più della vittima. È credibile un governo che lancia gli Stati generali sull'esecuzione penale ma ha paura di attuare la delega sulle pene alternative al carcere perché "impopolare"? Anche qui è una questione di cambiamenti culturali. Il percorso che ho indicato per incidere positivamente sulla giustizia penale non è né facile né breve ma se si accetta l'impostazione è necessario muoversi con coerenza. Quindi spero proprio che l'occasione sfumata non esercitando la delega possa essere realizzata con gli Stati generali. Giustizia: Comunità Giovanni XXIII; con misure alternative risparmio 500 milioni l'anno Adnkronos, 20 maggio 2015 La Comunità Giovanni XXIII chiede misure alternative al carcere. "Se consideriamo almeno 200 euro al giorno spesi per la detenzione tradizionale, con 10 mila posti disponibili in strutture alternative sin da subito in Italia, avremmo un risparmio di circa 500 milioni per le casse dello Stato. Nelle Cec la recidiva si abbassa dal 70% al 10%", sottolinea Giorgio Pieri del servizio carcere della comunità Papa Giovanni XXIII. "Ieri il ministro Orlando ha presentato gli Stati Generali del carcere: 18 commissioni per indagare i problemi del nostro sistema penitenziario e arrivare in autunno ad una proposta di riforma. Così come l'Unione Europea riconosce le Cec e il ruolo della Società Civile nella rieducazione del condannato, auspichiamo - dice Pieri - che anche il nostro governo voglia cogliere questa grande opportunità offerta al paese". L'Unione Europea promuove, con il programma Criminal Justice, il miglioramento delle conoscenze e lo scambio di buone pratiche in tema di misure cautelari e alternative alla detenzione. Al suo interno il progetto "Reducing prison population, advanced tools of justice in Europe" è portato avanti in Italia dalla comunità papa Giovanni XXIII. Sul tema, a Rimini, si tiene una tre giorni di incontri con i partner di sette paesi europei coinvolti. E giovedì prossimo, la visita alle Cec (Comunità educanti con i carcerati). Giustizia: l'elenco pubblico degli stupratori una mostruosità la gogna non serve a nessuno di Angela Azzaro Il Garantista, 20 maggio 2015 Sono contrarissima al registro pubblico degli stupratori, del quale si parla in questi giorni nel Palazzo e nei social network. Sta girando una raccolta firme a partire dal caso della tassista che ha subito violenza qualche settimana fa. Sono contraria per 10 ragioni. 1) perché ha la valenza non della giustizia, ma della vendetta. E la vendetta non risolve i problemi, ma rende la società - tutta - più violenta. 2) perché fare un registro marchia le persone a vita, negando loro la possibilità di cambiare. È la cancellazione di 2000 anni di storia in cui abbiamo creduto che l'umanità, l'uomo e la donna potessero cambiare. 3) perché veicola un'idea opposta a quella per cui mi sono sempre battuta e continuerò a farlo. L'idea cioè che gli uomini (intesi come sesso maschile) non sono cattivi per natura ma che alcuni loro comportamenti sbagliati o violenti o deprecabili siano il frutto di una cultura, identità, storia che possiamo e dobbiamo mettere in discussione. 4) perché nega che la sfida per il cambiamento passi attraverso la rivisitazione dei ruoli e del rapporto tra uomini e donne. 5) perché induce a pensare che i violentatori sono i mostri, gli estranei. Mentre è risaputo che la violenza sessuale avviene molto più spesso da parte di persone conosciute se non intime. E così facendo ancora una volta invece di aiutare a risolvere il problema, il registro dei mostri non fa altro che impedire di affrontarlo per come in realtà si pone, mettendo le donne ancora più a rischio. 6) perché più banalmente non serve a una mazza. Fatto il registro, le donne che fanno: se lo studiano a memoria? Vanno in giro con l'elenco dei volti? Oppure quando incontrano qualcuno consultano prima il registro? L'elenco serve a creare una gogna pubblica, una sorta di ghigliottina virtuale dove far saltare le teste. 7) perché i tassisti vogliono le pistole e le tassiste vogliono il registro. È cioè un'azione speculare alla vendetta personale, al far west, alla negazione dello stato di diritto. 8) perché spero che chi è autore di violenza venga inserito in percorsi di recupero e non sottoposto alla lapidazione. 9) perché sono di sinistra e credo che essere di sinistra significhi battersi per cambiare il mondo non per renderlo più schifoso. 10) perché sono femminista, e penso che il mondo si possa e debba cambiare. Nel novecento si sono fatti passi incredibili che non voglio in nessun modo mettere in discussione. Giustizia: sull'ambiente lo scudo di cinque nuovi reati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Un pacchetto di nuovi reati. Circostanze aggravanti e termini di prescrizione allungati, ma anche ravvedimento operoso; confisca anche come prevenzione, ma possibilità di estinzione delle contravvenzioni. Sanzioni a carico delle società quando il reato è stato commesso nell'interesse e pene accessorie. Il Senato ha approvato ieri la riforma dei reati ambientali con l'obiettivo di arrivare a un netto salto di qualità nella protezione di salute e beni naturali. Ampio il consenso sul testo (170 sì, 20 no e 21 astenuti). Tanto che le prime reazioni delle forze politiche sono tutte un tripudio alla riforma arrivata finalmente in porto, dopo che il nodo del divieto prima previsto e poi cancellato alla tecnica dell'air gun per le ispezioni in mare aveva provocato un allungamento dei tempi rendendo necessario un nuovo passaggio al Senato. Se il premier Matteo Renzi si gioca l'ennesimo tweet: "Provvedimenti attesi da decenni diventano leggi. Oggi (ieri, ndr) sui reati ambientali. È proprio #lavoltabuona", il ministro della Giustizia Andrea Orlando sottolinea come si tratti di una "giornata storica", visto che ora può godere della tutela della legge ciò che prima era affidato solo all'intervento della giurisprudenza. Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso, mette in evidenza come l'approvazione sia arrivata dopo anni di attesa. Esulta anche il modo dell'associazionismo ambientalista. Legambiente e Libera, ieri in piazza davanti a Montecitorio: "per noi oggi è una giornata storica: dopo 21 anni gli eco-reati entrano finalmente nel Codice penale: eco-giustizia è fatta. Da ora in poi gli eco-mafiosi e gli eco-criminali non la faranno più franca: grazie ad una norma come questa sarà possibile colpire con grande efficacia chi fino ad oggi ha inquinato l'ambiente in cui viviamo contando sull'impunità". Unica voce dissonante quella dei Verdi, che con il portavoce Angelo Bonelli, mettono nel mirino soprattutto la fisionomia del reato di disastro ambientale che potrebbe in realtà portare a una sostanziale impunità per le imprese che inquinano. Al di là degli slogan, "mai più Eternit" per esempio, la legge inserisce nel Codice penale un nuovo titolo, dedicato ai delitti contro l'ambiente, all'interno del quale sono previsti i nuovi reati di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, di traffico e abbandono di materiale radioattivo, di impedimento di controllo e di omessa bonifica. I primi due reati rappresentano i cardini del sistema con sanzioni che, per l'inquinamento, vanno da un minimo di 2 a un massimo di 6 anni, mentre per il disastro la reclusione è compresa in una forbice tra 5 e 15 anni. Specificate meglio anche le condotte rilevanti sul piano penale e i beni oggetto di tutela. Si interviene anche sulla prescrizione allungando i termini di pari passo con l'aggravarsi delle pene. Sciolto il nodo del ravvedimento operoso, che, in una prima e molto discussa versione, agiva come causa di non punibilità a favore di chi pur avendo commesso uno dei due reati, collaborava nella ricostruzione dei fatti e nell'individuazione dei colpevoli, mettendo in sicurezza i luoghi inquinati anche con bonifiche. Ora il ravvedimento resta nelle sue caratteristiche, ma non nelle sue conseguenza, visto che potrà dare luogo, sotto forma di attenuante, a riduzioni della pena da infliggere. Si prevede anche la confisca, anche per equivalente, del prodotto o profitto del reato (questo non solo per i delitti ora introdotti ma anche per il reato di traffico illecito di rifiuti già previsto dal Codice dell'ambiente). La confisca è esclusa, invece, nel caso in cui l'imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, all'attività di notifica e di ripristino dello stato dei luoghi. Per il reato di disastro ambientale, per quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e per l'ipotesi aggravata di associazione per delinquere è prevista anche la confisca come misura di prevenzione dei valori ingiustificati o sproporzionati rispetto al proprio reddito. Con la sentenza di condanna o con quella di patteggiamento, il giudice deve anche ordinare il recupero e, se tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, mettendo i costi a carico del condannato e delle persone giuridiche obbligate al pagamento delle pene pecuniarie in caso di insolvibilità del primo. Viene prevista anche la pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per chi commette i delitti di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico ed abbandono di materiale di alta radioattività, impedimento del controllo e traffico illecito di rifiuti. Giustizia: l'inquinamento è un reato grave, mai più una "Terra dei fuochi" di Marina Della Croce Il Manifesto, 20 maggio 2015 Le storiche battaglie ecologiste ottengono finalmente un po' di giustizia. La nuova normativa prevede pene severe anche per chi vìola la tutela della salute, per l'omissione dei controlli e il traffico di rifiuti radioattivi. Dopo vent'anni di battaglie, la legge sugli eco-reati ieri è stata finalmente approvata dall'aula del senato. Arrivata sull'orlo dell'approvazione per due volte, era sempre stata rinviata. Introduce quattro fattispecie di reati penali che, se fossero stati in vigore in precedenza, avrebbero impedito disastri come quelli dell'Ilva e dell'Eternit. Formalmente è di particolare importanza il fatto che si tratti di una legge parlamentare e non governativa. Quello di ieri nell'aula di palazzo Madama è stato il quarto passaggio parlamentare. Al senato infatti la legge era stata modificata positivamente con un emendamento che vietava le perforazioni esplosive, il cosiddetto air gun per cercare petrolio. Alla camera però l'emendamento positivo di Forza Italia era stato cancellato con lo stesso voto di Forza Italia, che poi al senato aveva riproposto l'emendamento positivo, confermando insomma un tipico gioco per tenere al palo il provvedimento. Di qui l'accusa rivolta ai forzisti dalle associazioni ambientaliste di essere "cannibali travestiti da vegani". Anche il Movimento 5 Stelle al senato aveva inizialmente presentato quattro emendamenti tesi a migliorare il provvedimento, in particolare sull'air gun (a differenza di Sel che, pur essendo contrarissima alla micidiale tecnica, aveva deciso di trasformare gli emendamenti in ordini del giorno proprio per evitare l'ulteriore allungamento dei tempi di approvazione). La questione è stata risolta dal pentastellato Luigi Di Maio, vicepresidente della camera, che ieri aveva escluso nuovi emendamenti, che infatti sono stati ritirati, pur se con qualche dissenso come quello della senatrice Serenella Fucsia. Gli ordini del giorno presentati dalla senatrice Loredana De Petris per Sel sono stati accolti con il parere favorevole del governo. Resta inevasa metà della problematica, che sarà proprio il governo a dover affrontare: la bonifica dei territori che sono stati inquinati. Contro la tecnica dell'air gun, difesa dal governo dietro le pesanti pressioni delle lobby petrolifere (il divieto introdotto nel provvedimento era stato infatti successivamente cancellato) i 5 Stelle hanno già depositato una nuova proposta di legge. Con l'approvazione del testo sugli eco-reati, dunque, i crimini contro l'ambiente non sono più contravvenzioni ma delitti. In base al provvedimento diventano reati l'inquinamento, il disastro ambientale, l'impedimento dei controlli, l'omessa bonifica, il traffico di materiale radioattivo. I tempi di prescrizione raddoppiano e le pene possono arrivare fino a 15 anni di reclusione. La soddisfazione unisce il ministro dell'ambiente Gianluca Galletti ai 5 Stelle, che sulle pagine Facebook dei gruppi di camera e senato hanno postato: "In questa legge ci siamo tutti noi: parlamentari, cittadini, associazioni, magistrati, collaboratori, tecnici, legislativi. Tutti quelli che hanno dato l'anima perché questo provvedimento potesse diventare il migliore possibile, ma principalmente potesse diventare realtà". Il ministro della giustizia Andrea Orlando sottolinea che "una vicenda come quella di Eternit con una legge come questa non sarà più possibile". "È una bella giornata per chi ama l'Italia, l'ambiente e il futuro - dichiara Ermete Realacci, presidente della commissione ambiente della camera - Siamo finalmente arrivati alla meta grazie ad un lavoro ampio e comune di tutto il parlamento e alla mobilitazione di 25 associazioni guidate da Legambiente e Libera". Un grazie alle associazioni anche dal leader di Sel e presidente della Puglia, la regione dell'Ilva, Nichi Vendola. E da parte sua il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza ringrazia il lavoro di Pd, M5S e Sel (il provvedimento nasce da un testo unificato a partire dalle proposte di Realacci, Salvatore Micillo dei 5 Stelle e Serena Pellegrino di Sel). "L'Italia da oggi è un Paese più civile", commenta il coordinatore di Libera Enrico Fontana. I rappresentanti delle associazioni ieri sera sono andati a brindare a piazza Navona, "antipasto della grande festa che Legambiente e Libera faranno il 30 giugno sera a Roma". Giustizia: riformare le intercettazioni? molto meglio sospenderle tutte per due anni di Piero Sansonetti Il Garantista, 20 maggio 2015 Siccome non si riesce a fare una riforma vera e propria della giustizia, dal momento che il mondo politico si trova in una situazione di assoluta debolezza, e subalternità, nei confronti del partito dei Pm, il premier Renzi ha pensato di stralciarne alcuni punti, per portare a casa comunque qualcosa. Prima la miniriforma della responsabilità civile, che senza cambiare, sostanzialmente, la posizione dei magistrati, aveva però fatto un certo effetto nell'opinione pubblica. Tanto che proprio l'altro giorno Renzi l'ha rivendicata come soluzione (32 anni dopo) del famoso caso Tortora. Ora è il momento della riforma delle intercettazioni. Il tema è molto delicato per tre ragioni. Riguarda il rapporto tra giornalismo e magistratura. Riguarda gli strumenti delle principali indagini condotte negli ultimi 20 anni. Riguarda il diritto alla dignità dei cittadini, imputati e non. Il rapporto tra giornalismo e magistratura è un problema che da un quarto di secolo è diventato molto grande, perché sia la magistratura che i giornalisti hanno finito per costruire su questo rapporto la solidità dei propri mestieri. I magistrati usano i giornalisti come strumenti di potere, i giornalisti usano i magistrati come strumento di lavoro. II patto si basa sulla subalternità dei giornalisti e sull'accettazione dell'ordine di non usare mai il diritto di critica. Questo patto ha cambiato radicalmente il volto del giornalismo italiano e i rapporti di forza dentro la magistratura, dove l'elemento spettacolarità ha prevalso sull'elemento indagine e investigazione. Del resto questa situazione è stata denunziata, poco più di una settimana fa, da uno dei mostri sacri della magistratura: il procuratore di Torino Armando Spataro. Ed è proprio su questo punto che si è concentrata l'attenzione di chi propone la riforma delle intercettazioni. Compresi alcuni celebri magistrati, come Bruti Liberati, Pignatome e Gratteri. I quali chiedono che sia salvato interamente il diritto a intercettare dei magistrati, e sia limitato il diritto dei giornalisti a pubblicare. Prevedendo innanzitutto la riduzione del materiale di indagine, ottenuto attraverso le intercettazioni, che sarà fornito agli avvocati. E poi prevedendo pene fino a 5 anni di carcere per i giornalisti che pubblicheranno il materiale che non è stato consegnato agli avvocati, perché non riguarda direttamente le prove a carico degli imputati. Queste proposte però hanno suscitato la protesta indignata di una parte del giornalismo italiano. Il quale parla di legge-bavaglio. Non è una legge-bavaglio, è chiaro. Semplicemente proibisce lo sputtanamento di persone che non c'entrano niente, l'anticipazione della pena in forma mediatica, l'uso della macchina del fango per vendere un po' di copie. Però un problema c'è: perché punire solo il giornalista? Gratteri risponde: le pene di 5 anni non servono a punire il giornalista ma a permettere che il giornalista sia a sua volta intercettato e così sia possibile scoprire la sua fonte. Non regge molto. La fonte è facile da scoprire: uno dei Pm che aveva le intercettazioni proibite. E poi non si è mai sentito - specialmente dalla voce di un magistrato - che una pena non è una pena ma uno strumento di indagine! Non solo non si è mai sentito, ma è del tutto incostituzionale. Comunque c'è un secondo problema, molto serio. Le intercettazioni sono uno strumento che viola in modo devastante il diritto alla privacy, e oltretutto, spessissimo, sono fuorvianti. L'interpretazione di una intercettazione può essere molto discrezionale. Raramente la trascrizione di una intercettazione fotografa la realtà: ignora modi di dire, lessici familiari o di gruppo, intonazioni della voce, fatti sconosciuti ai quali si riferisce, sottintesi. Infine c'è una terza questione. Che succede di quelle intercettazioni che restano ai magistrati e non vengono fornite alla difesa? Non rischiano di aumentare mostruosamente il potere di conoscenza dell'accusa a danno della difesa. O persino di costituire strumento di ricatto? C'è un'unica soluzione, al momento. Proibire le intercettazioni, almeno per due o tre anni. Dando il tempo ai legislatori di riformulare da zero tutte le norme che le regolano. E rendendoci più simili agli altri paesi occidentali che usano le intercettazioni si e no dieci volte meno di noi. Diciamo, i paesi dove vige lo Stato di Diritto. Giustizia: intervista a David Ermini "indispensabile mettere uno stop al gossip giudiziario" di Cristiana Mangani Il Messaggero, 20 maggio 2015 Presto, anzi prestissimo. La questione intercettazioni sembra essere proprio in dirittura d'arrivo nell'agenda di Governo. E non importa se c'è chi dice che è la risposta al parere espresso dalla VI Commissione del Csm che ha bocciato la legge anti-corruzione, perché - come spiega David Ermini, responsabile giustizia del Pd - "da un anno a questa parte abbiamo fatto tantissime cose, alcune che si aspettavano da cinquant'anni, come il falso in bilancio". Quindi onorevole come intende procedere il Governo sulle intercettazioni? "Il punto è proprio questo. Le soluzioni sono tre: o si lascia al Governo la delega, per cui poi il Governo farà il decreto legislativo, oppure si fa uno stralcio come abbiamo fatto per la prescrizione, o ancora si fa l'articolato all'interno del ddl del Governo". Da che dipende? "Dalle decisioni che la maggioranza prenderà, perché il ddl è del Governo. La volontà è certamente quella di intervenire, e anche in modo abbastanza rapido. Si tratta però di verificare quale sia la condizione migliore e la decisione spetterà al Governo che potrebbe decidere di fare un emendamento suo e proporre un articolato, oppure potrebbe la stessa maggioranza presentare un articolato come iniziativa parlamentare". In che modo procederete? "Io credo più sulla prevenzione che non sulla repressione. Bisogna fare in modo che le intercettazioni non attinenti alle indagini vengano chiuse in un archivio dove le persone che hanno accesso siano ben responsabilizzate e individuate. A questo archivio, la difesa e l'accusa devono poter entrare solo previa autorizzazione del giudice. Nei processi dove non ci sono le ordinanze di custodia cautelare è abbastanza facile fare questo, sebbene già nelle informative di polizia si debba evitare di inserire il gossip. Altrettanto deve fare il pm nel momento in cui richiede l'ordinanza al gip". Chi deciderà quali sono le intercettazioni utili alle indagini? "Il problema è proprio questo. In quelle dove non c'è l'ordinanza si fa l'udienza filtro e vengono accantonate e inserite nel fascicolo solo quelle attinenti. Quando invece il pm deve fare la sua richiesta di arresto, è necessario il rispetto delle persone. Ritengo che i pubblici ministeri debbano inserire solo le parti utili all'inchiesta e lo stesso deve fare il gip. Troppo spesso persone che non hanno niente a che fare con l'indagine si vedono sbattute sui giornali". Secondo lei perché accade? "Mah, spesso è un effetto a strascico, la polizia giudiziaria manda l'informativa al pm. Questo la rielabora lasciando dentro le intercettazioni. E altrettanto, molto spesso, fa anche il giudice per le indagini preliminari. Non deve succedere, andrebbero accantonate. Io ho fatto l'avvocato penalista per anni, e devo dirlo, ci sono anche molti gip che tagliano dalle richieste i particolari non strettamente necessari alle inchieste". Unione europea: una chance prima del default di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Parlamento Ue. Posizione relative alle procedure di insolvenza n. A8-0155/2015 L'Europarlamento sta varando (oggi è previsto il voto finale) il restyling del regolamento 1346/2000 relativo alle procedure su insolvenze transfrontaliere che hanno effetti in uno Stato membro diverso da quello del debitore. Iniziativa che ha l'obiettivo di concedere una seconda chance agli imprenditori provati dalla crisi economica, assicurando al tempo stesso la tutela dei creditori. La linea scelta è stata quella di modernizzare il quadro giuridico con un sistema incentrato sulla ristrutturazione e non sulla liquidazione e fallimento. Tra le novità più significative l'ampliamento dell'ambito di applicazione alle procedure che promuovono il salvataggio delle società economicamente valide, ai procedimenti di ristrutturazione del debitore quando sussiste solo una probabilità di insolvenza, a quelli in cui il debitore mantiene ancora il controllo dei suoi beni, di remissione del debito e che autorizzano alla sospensione temporanea delle azioni di esecuzione promosse dai singoli creditori. In primo piano, evitare il trasferimento dei beni del debitore in un altro Stato a danno dei creditori e il principio dell'universalità della procedura, con il riconoscimento automatico e immediato dei provvedimenti. Il Consiglio Ue aveva già adottato, il 13 marzo scorso, la posizione n. 7/2015, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale Ue del 28 aprile, in vista dell'adozione del nuovo regolamento. Il regolamento, che contiene regole sulla giurisdizione, sul riconoscimento delle decisioni e sul diritto applicabile, è una delle misure previste nel Programma della Commissione Ue "Giustizia per la crescita" per favorire il risanamento e la ripresa. D'altra parte, che si tratti di una necessità lo dicono i numeri. Nella Ue, a seguito della crisi, solo la metà delle imprese sopravvive oltre i 5 anni dall'inizio dell'attività. Non solo. Come sottolineato dal Commissario Ue alla giustizia, Vera Jourova, circa 200mila aziende hanno dichiarato fallimento, 600 al giorno e una perdita di 1,7 milioni posti di lavoro l'anno. Senza dimenticare che un quarto delle procedure d'insolvenza hanno carattere transfrontaliero. Proprio sulla base di questa situazione, il nuovo regolamento, costituito da 92 articoli e 3 allegati, facendo propri i principi affermati nel corso degli anni dalla Corte di giustizia Ue, dà spazio all'insolvenza preventiva e al registro interconnesso sulle insolvenze. Il testo si applicherà anche ai procedimenti ibridi, inclusi gli accordi di ristrutturazione del debito. Sul fronte della giurisdizione, per facilitare l'individuazione del giudice competente tra i diversi Stati membri ed evitare sovrapposizioni di procedimenti, con giudicati confliggenti, è stata chiarita la nozione di centro degli interessi principale del debitore (cosiddetto Comi). Resta fermo, così, come titolo principale attributivo della giurisdizione, il centro degli interessi principali del debitore, ma il regolamento chiarisce che tale luogo è quello in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi, recependo così il contenuto della sentenza Eurofood. Per le società e le persone giuridiche si presume "che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale". Se, però, la sede legale è stata spostata in un altro Stato membro entro il periodo di tre mesi precedente la domanda di apertura della procedura d'insolvenza, la presunzione cade. Per le persone fisiche, che esercitano un'attività imprenditoriale o professionale indipendente, il centro degli interessi principali è il luogo in cui si trova la sede principale di attività. L'apertura di una procedura d'insolvenza in uno Stato membro impone il riconoscimento nello spazio Ue. Nel segno della gestione efficiente della massa fallimentare e per favorire il coordinamento tra procedura principale e secondaria, sono fissate due situazioni specifiche che consentiranno al giudice adito per l'apertura di una procedura secondaria di insolvenza, su richiesta dell'amministratore della procedura principale di insolvenza, di rinviare o rifiutare l'apertura della procedura. Nuove regole anche per le procedure d'insolvenza di società parte di un gruppo. Il nuovo testo supera, poi, l'anello debole del vecchio regolamento, favorendo la trasparenza e la maggiore pubblicità. In questa direzione, gli Stati saranno obbligati a istituire registri fallimentari interconnessi e accessibili gratuitamente dagli operatori dei diversi Stati membri utilizzando il sito https://e-justice.europa.eu/content_interconnected_insolvency_registers_search-246-en.do, già operativo per alcuni Paesi. Nessun cambiamento, invece, per le regole di individuazione della legge applicabile, con la conferma dell'articolo 4 del regolamento n. 1346/2000 e, quindi, dell'applicazione della lex concursus. E qui riappare il nodo del diritto sostanziale con le legislazioni di numerosi Stati che ancora favoriscono la liquidazione piuttosto che la ristrutturazione. Un dato negativo che, come sottolineato dalla Commissione Ue nel documento "Costruire un'Unione dei mercati e dei capitali" costituisce un ostacolo al mercato. Elemento oggettivo del delitto di devastazione e saccheggio Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Reati contro l'ordine pubblico - Delitti - Devastazione e saccheggio - Elemento oggettivo - Nozione. L'elemento oggettivo del delitto di devastazione consiste in qualsiasi azione, posta in essere con qualsivoglia modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento - comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo - di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un'offesa e un pericolo concreti dell'ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l'opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 9 settembre 2014 n. 37367. Reati contro l'ordine pubblico - Delitti - Devastazione e saccheggio - Elemento oggettivo - Gravità dei fatti di devastazione - Rilevanza - Esclusione - Lesione dell'ordine pubblico - Necessità. Ai fini della configurabilità del delitto di devastazione e saccheggio, trattandosi di reato contro l'ordine pubblico, è indifferente la gravità del danno in concreto prodotto, purché sia accertato che i fatti posti in essere abbiano leso non soltanto il patrimonio, ma anche l'ordine pubblico. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 28 gennaio 2014 n. 3759. Reati contro l'ordine pubblico - Delitti - Devastazione e saccheggio - Fatti di devastazione - Elemento oggettivo - Assorbimento del delitto di danneggiamento - Configurabilità. Il delitto di devastazione di cui all'articolo 419 cod. pen. assorbe quello di danneggiamento perché l'elemento oggettivo consiste in qualsiasi azione, con qualsivoglia modalità posta in essere, produttiva di rovina, distruzione o anche danneggiamento, che sia comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo, di una notevole quantità di cose mobili o immobili. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 13 gennaio 2012 n. 946. Reati contro l'ordine pubblico - Delitti - Devastazione e saccheggi - Fatti di devastazione - Elemento oggettivo. L'elemento oggettivo del delitto di cui all'articolo 419 cod. pen. consiste, nell'ipotesi della commissione di fatti di devastazione, in qualsiasi azione, con qualsivoglia modalità posta in essere, produttiva di rovina, distruzione o anche danneggiamento, che sia comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo, di una notevole quantità di cose mobili o immobili, sì da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche offesa e pericolo concreti dell'ordine pubblico inteso in senso specifico come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l'opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 14 giugno 2010 n. 22633. Reati contro l'ordine pubblico - Delitti - Devastazione e saccheggio - Elemento oggettivo - Fatti di devastazione - Necessità - Singolo atto di violenza - Configurabilità del reato - Esclusione. Integra l'ipotesi delittuosa prevista dall'articolo 419 cod. pen. la commissione di fatti di devastazione, dovendosi ritenere insufficiente a tal fine la realizzazione di un singolo atto di violenza. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 9 aprile 2009 n. 15543. Reati contro l'ordine pubblico - Devastazione e saccheggio - Elemento oggettivo - Danneggiamento parziale dei beni oggetto dei fatti di devastazione - Irrilevanza - Fatti lesivi anche dell'ordine pubblico - Necessità. Il delitto di devastazione previsto dall'articolo 419 cod. pen. è un reato contro l'ordine pubblico, per cui è indifferente che i fatti di devastazione abbiano interessato in tutto o in parte i beni oggetto di aggressione o che sia stato grave il danno in concreto prodotto, purché sia accertato che i fatti posti in essere abbiano leso non soltanto il patrimonio, ma anche l'ordine pubblico. • Corte di Cassazione, sezione I, Sentenza 2 luglio 2001 n. 26830. Contributi, omessi versamenti ancora reato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 19 maggio 2015 n. 20547. La delega per la depenalizzazione dei reati contributivi (legge 67/2014) non ha effetti immediatamente abrogativi del dl 463/83. Quindi, gli imprenditori sotto processo per o messi versamenti previdenziali e assistenziali non possono invocare la depenalizzazione del fatto e ottenere un proscioglimento, ma solo attendere l'emanazione dei decreti delegati per poi eventualmente chiedere la revoca della sentenza per abolizione del reato (articolo 673 del codice di procedura penale). La Terza penale della Cassazione (sentenza 20547/15, depositata ieri) rimette mano a una questione attualissima, viste le "promesse" della legge del marzo dello scorso anno, la maggior parte delle quali ancora in attesa di realizzazione. Nello specifico, la Corte conferma la responsabilità penale di un imprenditore catanese, restituendo il fascicolo all'appello solo per la rideterminazione della pena (alcuni illeciti sono nel frattempo prescritti), ma soprattutto i giudici argomentano i motivi che non consentono il "self-executing" della delega. Secondo il ricorrente la legge 67/14 sarebbe oltremodo chiara poiché "estrinseca e rende definitiva la volontà del legislatore di non perseguire più penalmente gli illeciti penali ivi elencati, senza alcuna possibilità di modifica sul punto da parte della decretazione delegata". Ciò anche in relazione alla famosa decisione della Consulta (224/1990) che riconosceva la delega come "fonte direttamente produttiva di norme giuridiche". La Terza però è di avviso opposto. "In assenza del concreto esercizio della delega - scrive il relatore - non è possibile ritenere che i principi e i criteri inseriti nella legge di delegazione in materia di depenalizzazione abbiano effetto modificativo dell'ordinamento vigente", anche perché mancando il passaggio dell'illecito in violazione amministrativa si darebbe il segnale di un "liberi tutti" "del tutto irragionevole". Al contrario, il Parlamento non ha intenzione "di dismettere totalmente la punibilità per i fatti di omesso versamento, bensì di assoggettarli unicamente a una sanzione amministrativa", appunto. Inoltre, aggiunge la Terza, che cosa accadrebbe in mancanza di esercizio della delega nei termini previsti? Pertanto, chiosa la Corte, il reato di omesso versamento rimarrà tale e non una violazione meramente amministrativa "fino all'emanazione dei decreti delegati". Quanto alla consapevolezza della causa di non punibilità (cioè versare i contributi entro tre mesi dalla contestazione), la Terza ribadisce che può essere acquisita "in qualunque forma", quindi non è obbligatorio che la notifica penale illustri tale facoltà. Nessuna tutela per i crediti irrisori di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Accesso al giudice negato se la causa vale pochi euro ed è priva di interessi giuridicamente protetti. La Corte di cassazione, con la sentenza 4228, di fatto legittima il giudice a istituire un filtro, bollando come inammissibili le azioni esecutive finalizzate a ottenere soddisfazione per cifre decisamente minime: nel caso esaminato circa 34 euro. L'occasione per dire stop a contenziosi che assorbono le risorse già limitate della giustizia, con enormi ricadute sulla lunghezza dei procedimenti, arriva da un procedimento avviato per un'esecuzione presso terzi per un debito iniziale di oltre 17 mila euro, poi estinto dal debitore. L'arrivo dell'assegno non aveva però placato il cavilloso ricorrente che lamentava il mancato pagamento degli interessi sulla somma, maturati nei 15 giorni trascorsi dalla notifica del precetto al saldo. La domanda non viene soddisfatta e la Suprema corte spiega perché. I giudici della Terza sezione, nella causa scritta per la sua importanza dallo stesso presidente titolare Giuseppe Salmé, escludono la tutela giuridica per le azioni esecutive che hanno ad oggetto "un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica". Un criterio estensibile anche all'azione di cognizione che va bloccata se l'entità del valore economico in gioco è oggettivamente minima e quindi l'interesse che la sorregge è giuridicamente irrilevante. La Suprema corte ricorda che la giurisdizione è una risorsa limitata che legittima un limite ai ricorsi affermato esplicitamente o implicitamente dalla legge. La necessità di mettere un argine alle numerosissime cause "bagatellari" di natura patrimoniale con importi "simbolici" si desume sia dall'articolo 111 della Costituzione, che impone il rispetto della durata ragionevole dei giudizi, sia dall'articolo 6 della Cedu che, nella lettura della Corte di Strasburgo, considera ai fini della ragionevole durata, dei procedimenti la fase del giudizio di cognizione e i connessi procedimenti esecutivi. A supporto della scelta i giudici utilizzano anche la nozione di abuso del processo, già affermata dalla Cassazione (23726/2007), per escludere la possibilità di frazionare i crediti, relativi a un unico rapporto, in una pluralità di richieste, con un aggravio ingiustificato per il debitore e un effetto inflattivo sui giudizi. La Suprema corte respinge dunque la tesi della difesa del creditore il quale sosteneva che "nessuna norma autorizza il giudice ad eliminare un credito qualunque ne sia l'entità". La parte ricorrente contesta anche l'affermazione del Tribunale di primo grado, secondo il quale il creditore aveva agito in violazione del dovere di buona fede e il suo difensore era venuto meno alla lealtà e probità previste dal codice deontologico. Ma i giudici precisano che la Cassazione non è la sede in cui censurare l'esercizio del potere di segnalazione del comportamento del difensore all'ordine professionale. La Suprema corte con la sentenza 4228 si pone sulla scia di un criterio già adottato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo che ha messo un veto alla ricevibilità per le cause in cui il ricorrente non ha subito un danno economicamente rilevante e la violazione non ha riguardato importanti questioni di principio. A Strasburgo dal 2010 vige il principio "de minimis non curat praetor": l'esigenza è quella di non disperdere le forze nelle cause minori per concentrarle sui giudizi che richiedono un esame nel merito. Lettere: caso Diaz e tortura, Raffaele Cantone sottovaluta i rischi per il futuro di Livio Pepino Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015 Il confronto tra Raffaele Cantone, Patrizio Gonnella e Lorenzo Guadagnucci sul "senso" di Genova 2001 non va lasciato cadere perché, oltre a riguardare una delle pagine più nere della nostra storia recente, apre squarci importanti sul futuro. Scrive Cantone che i fatti della Diaz sono gravissimi ed esecrabili ma non tali da legittimare indebite generalizzazioni perché "non sono stati coperti" dalle istituzioni e "non sono il segno di un modus operandi tipico delle nostre forze di polizia". Non è così e la sottovalutazione di quei fatti apre la strada a gravi rischi per il futuro. Lo dice senza mezzi termini la sentenza 18 maggio 2010 della Corte di appello di Genova (confermata dalla Cassazione) che sulla "perquisizione" alla Diaz e relative responsabilità scrive: "I tutori dell'ordine si sono trasformati in violenti picchiatori, insensibili a qualunque evidente condizione di inferiorità fisica (per sesso o età delle vittime) di chi stava fermo con le mani alzate, di chi stava dormendo e si era appena svegliato per il frastuono. Alla violenza si è aggiunto l'insulto, il dileggio sessuale, la minaccia di morte. Il sangue è sgorgato a fiotti per ogni dove lasciando tracce che non potevano essere trascurate da nessuno dei presenti. Se possibile è ancora più grave la valutazione delle condotte successive che hanno prodotto i falsi, le calunnie e gli arresti illegali (per ricordare le più rilevanti). Qui è davvero difficile nascondersi l'odiosità del comportamento: una volta preso atto che l'esito della perquisizione si era risolto nell'ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, i vertici della Polizia avevano a disposizione solo un retta via, per quanto dolorosa: isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociarsi da tale condotta, rimettere in libertà gli arrestati. Purtroppo è stata scelta la strada opposta: con incomprensibile pervicacia si è deciso di percorre fino in fondo la strada degli arresti, e l'unico modo possibile era creare una serie di false circostanze funzionali a sostenere così gravi accuse da giustificare un arresto di massa. L'origine di tutta la vicenda è individuabile nella esplicita richiesta da parte del Capo della Polizia di riscattare l'immagine del corpo e di procedere a tal fine ad arresti, richiesta concretamente rafforzata dall'invio da Roma a Genova di alte personalità di sua fiducia ai vertici della Polizia che di fatto hanno scalzato i funzionari genovesi dalla gestione dell'ordine pubblico". Le violenze di Genova non sono state né episodiche né opera di schegge isolate di una organizzazione complessivamente sana. Lo escludono i fatti: in essi sono stati coinvolti tutti gli apparati presenti (carabinieri, polizia di Stato, guardia di finanza, polizia penitenziaria); la "perquisizione" alla Diaz ha visto la compresenza di carabinieri (preposti al controllo esterno) e di reparti di polizia provenienti da diverse città (coordinate da funzionari di grado elevatissimo); intorno agli autori di pestaggi e torture hanno fatto quadrato i vertici del corpo (mentre i fotografi di mezzo mondo riprendevano le maschere di sangue dei giovani trascinati fuori dalla Diaz, i portavoce della questura e del capo della polizia continuavano a parlare di "alcuni feriti per lesioni pregresse"); per coprire l'operazione e i reati commessi sono state costruite prove false da parte dell'establishment della polizia (come accertato con sentenza definitiva); nessun provvedimento disciplinare è stato preso nei confronti di alcuno degli operatori e funzionari coinvolti (e le sospensioni intervenute oltre dieci anni dopo sono state l'effetto necessitato delle condanne definitive); lo stesso accertamento giudiziario è stato frutto del lavoro ostinato di pochi pubblici ministeri isolati nel loro ufficio (il cui capo aveva chiesto la convalida dell'arresto per resistenza e associazione a delinquere di tutti i presenti nella Diaz all'atto della irruzione di polizia). Genova, lungi dall'essere un semplice "episodio" sgradevole, è stata una svolta nelle politiche di ordine pubblico, caratterizzata dalla militarizzazione del conflitto, dalla ricerca dello scontro muscolare con i manifestanti, dall'obiettivo di "sconfiggere e umiliare il nemico". Una svolta che ha coinvolto anche altre istituzioni e che chiama direttamente in causa i vertici della polizia e la politica (senza il cui avallo nulla del genere sarebbe accaduto). Questo, oltre alla gravità e al sadismo delle violenze realizzate, è il punto con cui bisogna fare i conti se si vuole evitare che quella "prova generale" diventi regola (cosa di cui vi sono ormai segnali significativi). Anch'io - come Cantone - ho lavorato per anni a fianco di operatori di polizia: conosco la sensibilità e il rigore di molti; ne ho visti alcuni, dopo Genova, piangere di rabbia; e ne ho visti altri avviare serie riflessioni autocritiche (come Luigi Notari, nel bel libro intervista "Al di sotto della legge" curato da Mauro Ravarino e pubblicato il mese scorso dalle Edizioni Gruppo Abele). È anche per non far torto a loro, oltre che a tutti noi, che non bisogna minimizzare. Lettere: vita dura per i giovani avvocati, servono misure per non scoraggiarli di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte Cassazione) Libero, 20 maggio 2015 Tempi duri e prospettive nebulose per le libere professioni, in particolare per i giovani che al termine dei corsi universitari e dopo il conseguimento della laurea non trovano uno sbocco nel settore pubblico e non riescono a realizzare l'aspirazione ad un contratto di lavoro intellettuale a tempo indeterminato. La crisi economica riduce in termini generali il ricorso all'attività libero-professionale. L'aumento del numero di professionisti sulla piazza non si traduce in un miglioramento della qualità del servizio. La liberalizzazione delle tariffe determina una concorrenza selvaggia. Il potenziale cliente è messo nella condizione di scegliere liberamente, tra una pletora di professionisti, quello che offre condizioni tariffarie più convenienti a scapito magari della qualità del servizio. Si realizza una forma di frustrante precariato a danno dei giovani, che vedono il cammino sempre più irto di ostacoli e spesso non hanno la forza di resistere. Provo a capire il percorso disegnato per gli esercenti professioni legali dalla legge 31.12.2012 n. 247 e mi metto nei panni dell'aspirante avvocato. Si laurea con qualche anno di ritardo rispetto alle generazioni precedenti. È obbligato a sostenere un tirocinio in forma continuativa per 18 mesi: tirocinio consistente nell'addestramento, a contenuto teorico e pratico, finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l'esercizio della professione e per la gestione di uno studio legale nonché a fargli apprendere e rispettare principi etici e regole deontologiche. Dopo i primi sei mesi di lavoro interamente gratuito è possibile, a discrezione del dominus, che gli sia riconosciuto un compenso o un'indennità (naturalmente di infimo importo). Terminato il tirocinio, il nostro giovane dovrà sottoporsi ad un esame di Stato, con tre prove scritte, la conoscenza adeguata di cinque materie fondamentali e di altre due a scelta in un numero di otto, con gli elaborati corretti in una diversa sede di Corte di Appello e, quindi, da una Commissione diversa da quella che lo esaminerà agli orali. Divenuto finalmente avvocato, dovrà aprire uno studio con i costi relativi; iscriversi all'albo; versare i contributi previdenziali; soggiacere alle varie imposizioni fiscali; sottoscrivere una polizza assicurativa contro la responsabilità civile e contro gli infortuni sul lavoro; curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale "al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell'interesse dei clienti e dell'amministrazione della giustizia". Se desidera il titolo di specialista, il nostro giovane dovrà seguire percorsi formativi almeno biennali o utilizzare la propria comprovata esperienza nel settore di specializzazione, qualora vanti un'anzianità di iscrizione di almeno otto anni e dimostri (al Consiglio Nazionale Forense) di avere esercitato in modo assiduo, prevalente e continuativo, attività professionale in uno dei settori di specializzazione negli ultimi cinque anni. Sopravvissuto alle prove appena descritte, potrà incamminarsi sul sentiero della vita, sapendo però di non poter fare affidamento sui minimi tariffari, di dover preventivamente informare e pattuire il compenso, di lavorare senza garanzia di un reddito idoneo al mantenimento di un tenore di vita personale e familiare dignitoso. Insomma, vi è quanto basta per fiaccare molti laureati e indurli ad accettare soluzioni inique, vessatorie e talora eterogenee rispetto al titolo di studio conseguito. Nel 2011, con l'avvio della mediazione civile obbligatoria, si erano aperti spiragli importanti. Dopo l'intervento della Corte Costituzionale e l'emanazione dell'ultima legge sulla negoziazione assistita, le prospettive di occupazione per i giovani professionisti hanno subito un brusco peggioramento. È il caso di fare ammenda degli errori commessi e di studiare un cambiamento di rotta? A cominciare dalla possibilità per i laureati in legge di svolgere attività di consulenza extragiudiziale senza doversi iscrivere sia all'albo sia alla Cassa di Previdenza. Sicilia: Fondazione Sud; progetto "Oltre i confini" per assistenza agli stranieri in carcere Ansa, 20 maggio 2015 Assistere gli stranieri detenuti nelle strutture penitenziarie della Sicilia è l'obiettivo di "Oltre i confini" ("Beyond the Borders"), progetto finanziato dalla "Fondazione con il Sud" e realizzato dalla "Cooperativa prospettiva futuro" di Catania, in collaborazione con l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e altri partner. I cui primi otto mesi di attività sono stati presentati a Palermo al Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria della Regione Sicilia. Le attività - avviate a luglio 2014 e la cui fine è prevista per maggio 2016 - sono state realizzate in 21 istituti di pena siciliani, che ospitano 1.115 stranieri provenienti dall'Africa (650), dall'Europa (395) e dall'Asia (53). "Nel corso di questi mesi - racconta Giulia Di Giacinto, referente Oim per il progetto - abbiamo assistito i detenuti stranieri nella richiesta di protezione internazionale, di rinnovo dei permessi di soggiorno e d'informativa legale. Allo stesso tempo, abbiamo anche svolto attività di informazione per il personale degli istituti. Da quanto è stato possibile osservare, nelle carceri sono ancora piuttosto carenti i servizi di mediazione culturale e mancano sufficienti risorse economiche per far fronte a bisogni primari, come l'abbigliamento e la possibilità di telefonare ai propri parenti nei paesi d'origine. In alcuni casi, i detenuti arrivati in Italia da poco devono aspettare mesi per poter chiamare". In questo primo periodo di attività sono state inoltrate 45 richieste di protezione internazionale ed è stata raccolta la volontà di cento detenuti di chiedere l'espulsione come misura alternativa e sostitutiva alla detenzione. L'Oim si è inoltre attivata nella verifica dell'applicazione della "Circolare Amato-Mastella" secondo cui gli istituti penitenziari devono comunicare tempestivamente alle questure i nominativi dei detenuti interessati per procedere alla loro identificazione prima della scarcerazione. Marche: storie da musei, archivi e biblioteche, premiazioni in carcere aibnotizie.aib.it, 20 maggio 2015 Giunge alla sua terza edizione Storie da musei, archivi e biblioteche, concorso itinerante per racconti brevi e fotografie organizzato dal Mab Marche (coordinamento marchigiano tra Musei, Archivi e Biblioteche promosso da Icom, Anai e Aib) in collaborazione con la Regione Marche - Assessorato alla Cultura e Assessorato ai Servizi Sociali, l'Associazione culturale RaccontidiCittà, con Narcissus.me di Simplicissimus Book Farm e con Biblioteche Aperte, che ha coinvolto 201 partecipanti in 30 strutture marchigiane, fra cui biblioteche comunali e di Fondazioni, musei, archivi, il Servizio Bibliotecario di Ateneo dell'Università degli Studi di Camerino (MC), e le biblioteche di due istituti penitenziari. L'iniziativa ha raccolto ben 515 elaborati (100 racconti e 415 foto) che raccontano le istituzioni culturali del territorio e l'importanza che esse rivestono per le loro comunità di riferimento, con una particolare attenzione al tema del Grand Tour Cultura Marche 2014: Musei - Archivi - Biblioteche: crocevia di culture. Per i vincitori, buoni FootWings in FW$ (FootWings Dollars) da spendere su FootWings.com, il marketplace dell'editoria digitale di Simplicissimus Book Farm, eReader offerti da Mab Marche e la pubblicazione in due antologie eBook (una per i racconti e una per le fotografie) già disponibili per essere scaricate gratuitamente dagli scaffali di UltimaBooks.it. In particolare, lo scorso 11 aprile il concorso ha fatto tappa presso la Casa Circondariale di Pesaro per la premiazione dei detenuti partecipanti. Silvia Seracini di Racconti di Città e Lorenzo Sabbatini, bibliotecario responsabile del progetto regionale Biblioteche Carcerarie, hanno condotto l'evento, ringraziando i detenuti, gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli educatori, le personalità politiche e tutti coloro che con il loro operato si prodigano quotidianamente per far sì che la "normalità" della società esterna non sia sempre così lontana e penetri se pur per breve tempo all'interno di un luogo di detenzione. Con questa giornata si è voluto dare possibilità di presenza attiva ai detenuti, tendenzialmente giovani e di varie nazionalità, che solitamente partecipano solo in parte ai concorsi e alle altre iniziative. Grazie alla collaborazione di Paul Aster, cantante e chitarrista rock e country, sono stati creati momenti di grande partecipazione musicale da parte della platea e Johnny Cash, molto legato alla prigioni ed ai detenuti, non poteva mancare nelle citazioni. Toccanti come la commozione del detenuto nell'ascoltare la lettura del proprio brano dedicato al ricordo della madre. La cerimonia si è conclusa con la consegna alla biblioteca del carcere del kit di libri della campagna di promozione della lettura #ioleggoperché. Per gli organizzatori della giornata, la stessa è stata una conferma della costanza nel costruire reti di collaborazione culturale basate su giornali, radio, web tv, teatro, scrittura e tanto altro. Nella consapevolezza che i risultati migliori prendono forma attraverso donne e uomini appassionati: il successo di Storie da musei, archivi e biblioteche è dovuto proprio a questa formula. Marcello Pesarini - supporto organizzazione Storie da musei, archivi e biblioteche Lorenzo Sabbatini - Coordinatore di progetto Sistema Bibliotecario Carcerario Marche Silvia Seracini - Bibliotecaria AIB Marche e vicepresidente dell'Associazione culturale RaccontidiCittà Oristano: a Massama arrivano gli ex detenuti del 41-bis di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 20 maggio 2015 Già trasferito il primo che ha terminato di scontare la misura di detenzione speciale, ne arriveranno altri 40. L'ospite speciale numero 1 è arrivato nei giorni scorsi. Presto, al carcere di Massama, un'altra quarantina di detenuti lo seguirà. Non ci sarebbe nulla di strano e di nuovo, perché un carcere deve per l'appunto ospitare dei detenuti. Questo è però un detenuto particolare, perché è il primo che arriva nella casa circondariale oristanese dopo aver terminato il periodo in regime di detenzione sotto le rigidissime misure restrittive del 41bis. Significa che è un detenuto che ha commesso reati ancora più gravi rispetto a quelli dell'Alta Sicurezza 3 che sinora erano stati ospitati a Massama. E proprio in carcere è già pronta la sezione che dovrà accogliere anche gli altri ex 41bis, una quarantina in tutto che arriveranno nei prossimi giorni quando saranno terminate le grandi manovre per effettuare i trasferimenti da altri penitenziari della penisola sino a quello di Massama che, ormai, si è trasformato in tutto e per tutto in carcere di massima sicurezza. I detenuti comuni che vi stanno scontando la pena sono infatti in numero assai ridotto rispetto a quelli che hanno avuto contatti diretti con associazioni per delinquere di stampo mafioso o con il terrorismo. Visti i precedenti però non ci sono da dormire sonni tranquilli: il numero potrebbe salire oltre le quaranta unità e crescere a seconda delle necessità che non vengono certo definite in base alla esigenze segnalate da Massama, dove da tempo il carcere ospita un numero di detenuti assai superiore a quello inizialmente preventivato. Così, tra gli agenti e gli educatori, c'è il timore che si possa salire creando ulteriori problemi alla struttura dove si veleggia costantemente sopra i 250 carcerati. Si arriverà però a 300 che sarà la capienza massima che il penitenziario raggiungerà a breve. Succede che il piatto della bilancia penda quindi sempre dalla solita parte. Il numero del personale in servizio nella casa circondariale oristanese ondeggia infatti tra le 178 e le 180 persone, con comprensibili difficoltà e quelle che, da qualcuno, vengono definite senza troppi giri di parole come le più classiche nozze coi fichi secchi. Saranno problemi che insorgeranno ben presto con turni e rotazioni tra i lavoratori e difficoltà nel gestire un numero così elevato di detenuti, tra l'altro con un curriculum assai particolare. In attesa che si capisca per davvero come verrà gestita questa nuova fase, la certezza è che, a pochissimi anni dalla sua apertura, il destino di Massama sembra segnato. Il "tranquilli" sbandierato dal ministero al momento dell'apertura, fa oggi sorridere se si pensa al numero elevatissimo di detenuti speciali presenti. Savona: "casi di tubercolosi nel carcere Sant'Agostino", i detenuti non rientrano in cella di Mauro Camoirano La Stampa, 20 maggio 2015 Casi di tubercolosi nel carcere di Sant'Agostino? La protesta dei detenuti che non rientrano nelle celle dopo l'ora d'aria e il Sappe, il più rappresentativo sindacato di categoria, che lancia l'allarme. Già in occasione della Festa del Corpo, lo scorso 8 maggio, proprio il segretario regionale del Sappe, Michele Lorenzo, aveva posto l'accento sulle condizioni di lavoro, rimarcando profeticamente: "L'assurdo si palesa nella realtà quotidiana quando non vi sono nemmeno i guanti protettivi per le perquisizioni o una tutela per operare in presenza di detenuti affetti da patologia infettiva". E ieri la situazione si è palesata in tutta la sua potenziale pericolosità. Rimarca, infatti, Lorenzo: "I vertici dell'istituto penitenziario di Savona sono presenti solo sulla carta. Ieri pomeriggio i detenuti hanno inscenato una protesta con il non rientro nelle rispettive celle dopo l'ora d'aria, protesta originata dalla presenza di un detenuto extracomunitario affetto da Tbc (secondo indiscrezioni non confermate si tratterebbe di un profugo nigeriano recentemente arrestato)". Secondo il Sappe la direzione "avrebbe sottovalutato i rischi collegati ad un eventuale contagio visto che l'istituto di Savona non possiede settori per isolare da un punto di vista sanitario il detenuto affetto da questa patologia". Da qui, sempre secondo le fonti del Sappe, "a distanza di una decina di giorni i casi di sospetta Tbc sarebbero aumentati a quattro, innescando la protesta dei restanti detenuti". Per Lorenzo, "sarebbe stato opportuno che la Direzione, con il sanitario dell'istituto, avessero trasferito il primo detenuto colpito da sospetta Tbc in un altro istituto idoneo per una adeguata assistenza. Ora è indispensabile che la Direzione attivi la procedura di controlli medici sul personale che ha avuto contatti con i detenuti". Dal Sappe concludono ricordando che domani, alle ore 9,30, in piazza Monticello, si terrà una conferenza stampa "dove avremmo modo di rappresentare tutte le criticità del Sant'Agostino". Roma: a Rebibbia sostegno legale gratuito per i detenuti di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2015 È partita l'attività dello sportello legale "Sandro Pertini". Qualche tempo fa avevamo registrato la disponibilità, da parte dell'avv. Ferdinando Imposimato, Presidente emerito della suprema Corte di Cassazione, a fornire un servizio di consulenza gratuito ai detenuti meno abbienti. Mentre venivano espletati i necessari adempimenti burocratici e organizzativi, la squadra di volontari si è arricchita di nuovi preziosi contributi, per cui oggi raccoglie quattro ex magistrati, tre avvocati e un giurista del calibro di Federico Sorrentino. Oltre alla Casa di Reclusione, dove l'iniziativa è partita, c'è l'intenzione di avviare l'attività anche nella vicina Casa Circondariale Nuovo Complesso, sempre nel carcere di Rebibbia. Di questo ampliamento si occupa l'ex Presidente del Tribunale penale di Roma Nuccia Cappuccio, da anni già impegnata in un'azione di tutoraggio ai detenuti iscritti all'Università. Forte di questi contributi (volontari e totalmente gratuiti), che hanno la carica umana, le competenze e l'entusiasmo necessari per raggiungere buoni risultati, con lo sportello ci si propone di tentare, sia pure come se fosse una goccia nell'oceano, di intervenire a attenuare la sperequazione che sempre più caratterizza il sistema della giustizia italiano. Non si può fare a meno di usare il modo di dire ormai abusato che descrive un sistema forte con i deboli e debole con i forti. Intere categorie di reati possono godere di una sorta di amnistia mascherata sotto forma di prescrizione, come accade a quelli contro la P.A. su cui in questi giorni sta intervenendo il governo. In altri casi, ben presenti nelle patrie galere, ci sono persone che si trovano a scontare pene per fatti compiuti molto tempo fa e che, per chissà quale ingarbugliato meccanismo, arrivano a sentenza solo dopo che magari qualcuno aveva già deciso di cambiare vita. Un dato di fatto inoppugnabile è che la popolazione detenuta risulta sempre più composta quasi esclusivamente da persone che non hanno avuto i mezzi o le possibilità per difendersi adeguatamente. Di qui l'intervento dei volontari dello sportello legale: ad analizzare e magari suggerire come fare per mitigare condanne sproporzionate; a correggere, laddove sono stati fatti errori, cumuli di pena eccessivi rispetto alla gravità dei fatti; a promuovere la revisione delle condanne comminate in contumacia, o comunque in assenza delle necessarie garanzie della difesa. Su questi e altri temi che via via emergeranno dalle situazioni concrete poste dai detenuti, si cercherà di sollevare questioni più generali, magari da trattare con appositi seminari di approfondimento. In questa attività più propriamente culturale sarà come sempre centrale il ruolo delle scuole e dei centri di studio che in questi anni stiamo tentando di implementare e sviluppare all'interno del carcere. Padova: Voltaire si è fermato al Due Palazzi, parola di bici & panettoni di Giulio Pasi ilsussidiario.net, 20 maggio 2015 Voltaire tra le altre diceva che "il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri". Noi possiamo quindi dire che il celebre filosofo francese deve essersi fermato a Padova. Questo perché domani, 20 maggio, con la partecipazione di autorevoli ospiti giunti da diversi paesi, sarà presentato il nuovo Working Paper della Collana 2wel, Percorsi di Secondo Welfare, Forgiveness and Work behind Bars: Giotto in the Due Palazzi Prison of Padua. Il convegno si terrà a Roma, nel carcere di Regina Coeli e sarà introdotto da Santi Consolo, capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Presenterà la ricerca Andrea Perrone, ordinario di Diritto commerciale all'Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Cesen di Milano. Come anticipato, all'incontro parteciperanno importanti ospiti internazionali: il magistrato brasiliano Luiz Carlos Rezende E Santos, già membro del Consejo Nacional de Justicia, Jürgen Hillmer dell'Università di Brema in Germania, Senator für Justiz und Verfassung, e lo sceriffo della Contea di Cook (Chicago) Thomas J. Dart. Concluderà i lavori Paola Severino, oggi prorettore vicario della Luiss, che nel 2012, incontrando l'esperienza della cooperativa Giotto, ebbe a dire: "Oggi in carcere ho visto dei lavori straordinari, non i soliti pezzetti messi insieme per far passare il tempo ai detenuti. Le biciclette, i panettoni, i call center che funzionano. Non elemosine, ma qualcosa di attrattivo per gli imprenditori e utile per l'economia del paese". La ricerca che oggi sarà presentata e discussa a Roma, grazie anche al sostegno ricevuto dall'importante Fetzer Institute, sviluppa esattamente l'evidenza che sorprese l'allora Ministro della Giustizia. Infatti il paper ha come oggetto l'esperienza della Cooperativa Giotto di Padova, che dal 1991 sviluppa percorsi lavorativi per i detenuti del carcere cittadino, e i positivi risultati che questa ha raggiunto sul fronte del reinserimento sociale e del contrasto alla recidiva del reato. Non è questa la sede per "svelare" tutti i contenuti della ricerca, disponibile per la lettura sia in lingua inglese che in italiano, tuttavia è utile offrirne una presentazione generale. Si è già detto che il paper ha come oggetto le attività svolte dalla cooperativa sociale Giotto nella casa di reclusione di Padova. A partire dagli anni Novanta la Cooperativa ha offerto opportunità di inserimento lavorativo a centinaia di detenuti del carcere Due Palazzi. Il paper apre con la storia della Cooperativa e le attività attualmente svolte all'interno delle strutture penitenziarie: tra le altre, una pluri-premiata pasticceria e la produzione di sofisticati modelli di biciclette. Lo studio prosegue poi con l'analisi di alcune best practices sviluppate dalla Cooperativa nel campo della riabilitazione dei detenuti. Questa parte approfondisce le principali caratteristiche strutturali e gli archetipi del modello rieducativo della Cooperativa. Nella sezione finale - basata su interviste semi-strutturate ad alcuni detenuti attualmente in organico alla Cooperativa - vengono identificati alcuni effetti del metodo applicato da Giotto. Le persone intervistate attribuiscono al loro coinvolgimento con Giotto molti benefici: dal miglioramento della propria condizione fisica e mentale a una radicale trasformazione personale. La ricerca si conclude aprendo a un'ulteriore raccolta di dati, sia qualitativi che quantitativi, allo scopo di misurare attentamente gli effetti derivanti dall'approccio innovativo della Cooperativa Giotto all'interno del carcere Due Palazzi. A margine possiamo osservare che il lavoro svolto dal gruppo di ricercatori guidati dal prof. Perrone consente di costruire, secondo un approccio scientificamente fondato, la narrazione di una esperienza che spesso è considerata elitaria e comunque residuale nella vita di una società. Vicende come quelle della cooperativa Giotto - secondo il sentire comune - sarebbero qualcosa degno di interesse solo per gli addetti ai lavori, ossia chi già si interessa al tema della rieducazione nelle carceri (il carattere elitario) o comunque "frequenta" quegli ambienti della società civile in cui sorgono iniziative che non a caso vengono racchiuse nell'indistinto ed eloquente concetto di "terzo settore" (ed ecco anche il carattere residuale). I risultati della ricerca che oggi sarà presentata a Roma mostrano invece come l'esperienza della cooperativa Giotto è foriera di importanti indicazioni. Da un lato, la vicenda della cooperativa Giotto insegna qualcosa rispetto la vita della società nella sua interezza, nel senso che da essa emerge un suggerimento utile - quasi una indicazione di policy, si direbbe - per affrontare un problema che non investe semplicemente i detenuti ma concerne un pezzo importante del sistema giudiziario del nostro paese e dunque in ultima istanza la dimensione democratica. Dall'altro, l'esperienza imprenditoriale della Cooperativa sfida certe categorie concettuali che nonostante la crisi finanziaria continuano a circolare nel pensiero (economico ma non solo) mainstream, al punto da aver "smosso" un premio Nobel per l'economia come Stiglitz a scrivere che "è necessario un processo di ripensamento generale per trovare un nuovo equilibrio tra mercati, governi e altre istituzioni, inclusi i soggetti non profit e le cooperative, con lo scopo di costruire un sistema economico plurale. Ci siamo concentrati troppo a lungo su un solo modello, quello della massimizzazione del profitto, e in particolare su una variante di tale modello, un mercato incontrollato. Abbiamo visto che quel modello non funziona ed è chiaro che abbiamo bisogno di modelli alternativi. Abbiamo anche bisogno di far di più per identificare il contributo che queste forme alternative di organizzazioni (cioè le cooperative o imprese sociali) stanno dando alla nostra società e, quando parlo di contributo, non lo intendo appena in termini di PIL, ma come contributo alla soddisfazione". È proprio per la possibilità di attribuire una portata universale ad una esperienza particolare che non si può poi tacere di ciò che anticipa e segue la ricerca condotta: il paper è infatti accompagnato da una prefazione e una postfazione che permettono di cogliere più chiaramente la posta in gioco. Nello svolgere alcune riflessioni introduttive allo studio, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, sottolinea come "quello di Giotto è un caso con evidenti caratteristiche di esemplarità: un'impresa sociale che interagisce con l'amministrazione pubblica, coniugando imprenditorialità e socialità con esiti rilevanti sul piano del recupero umano, dei rapporti familiari ricostruiti e della reintegrazione sociale dei detenuti nel tessuto normale delle nostre comunità". In particolare, l'autorevole giurista, riferendosi alla cronaca di questi tempi, non manca di sottolineare come "proprio nel momento in cui ci preoccupiamo della inefficienza degli strumenti della sussidiarietà verticale fino al punto di rischiare di buttare via il bambino con l'acqua sporca, occorre guardare con particolare attenzione anche all'altra componente della sussidiarietà, quella orizzontale con cui si cerca di uscire dalla rigida contrapposizione tra il "pubblico" e un privato inteso soltanto come mercato". Questo secondo Flick sarebbe uno dei meriti della ricerca in discorso. Con una chiara dote di sintesi e dimostrando tutta l'attenzione dedicata allo studio condotto, Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia all'Università Bicocca di Milano, nella postfazione fissa l'essenza di quanto accade tra le mura del carcere padovano: "Giotto offre un'alternativa concreta e credibile alle forme di controllo repressivo che, come sappiamo, restituiscono, al termine di un periodo di segregazione, soggetti rancorosi e ritratti dai mondi sociali, spesso sorretti da un'identità negativa […]. La cooperativa incontra le vite di quei giovani la cui traiettoria sembra ineluttabilmente destinata a condurli o a radicarli nelle file della criminalità organizzata, senza ricorrere a forme di controllo segregante e/o a processi di etichettamento, di stigmatizzazione. Così opera in modo diametralmente opposto, restituendo a giovani donne e uomini la possibilità di incontrare la bellezza che abita il mondo". Si capisce quindi tutto l'interesse che anche gli osservatori internazionali stanno mostrando per quello che è a tutti gli effetti un fattore di cambiamento radicale, non solo delle prassi, ma anzitutto dei paradigmi d'azione, cioè del modo di intendere ciò con cui si prende rapporto. Forse gli anglosassoni parlerebbero di disruptive innovation. Noi, più semplicemente, ci accontenteremmo se si potesse riconoscere questa ricerca come un contributo significativo alla promozione di una cultura sociale ed economica più integralmente umana. In conclusione, pensando all'esperienza che sarà presentata oggi, peraltro con gli ospiti sopra menzionati, si provi ad immaginare il primo capitolo di un libro che iniziasse così: "Venivano da tutto il mondo per cogliere il segreto del successo delle carceri italiane". Una volta si sarebbe potuto ritenere di avere tra le mani un classico romanzo di fantascienza. Oggi invece è tutto vero e la frase potrebbe comparire tra le pagine di una ricerca di storia contemporanea o, almeno, tra le cronache di questi giorni. Droghe: proibizionismo, la critica costruttiva di Marco Perduca Il Manifesto, 20 maggio 2015 Il 6 e 7 maggio scorsi, al Palazzo di Vetro si sono tenuti una serie di incontri in occasione del "dibattito di alto livello" convocato dal Presidente dell'Assemblea Generale come appuntamento preparatorio dell'Ungass 2016 - la sessione speciale dell'Assemblea Generale sulla droga, la prima dopo quella del 1998, che si svolse sotto lo slogan "Un mondo senza droga. Possiamo farcela". Se a marzo alla Commissione Droghe di Vienna (Cnd 2015) s'era già segnalato l'emergere di un fronte di scettici dello status quo proibizionista, a New York si è finalmente passati alla critica costruttiva. Jan Eliasson, vice di Ban Ki-moon, ha ricordato che lo scopo dell'Onu è di alleviare le tragedie umane, di promuovere una vita dignitosa contro tutte le discriminazioni e che l'uso del diritto penale per governare certi fenomeni sociali va nella direzione opposta. Sul fronte dei governi, i capofila dello scontento sono stati i paesi latino-americani (per due ore la lingua ufficiale dell'Onu è stato lo spagnolo) guidati dalla Colombia, il cui ministro della giustizia Reyes Alvarado ha elencato ciò che occorre fare: recuperare l'obiettivo originario delle Convenzioni, cioè migliorare la salute e il benessere pubblico; allineare le politiche sulle droghe con gli impegni relativi alla protezione e promozione dei diritti umani, inclusa l'abolizione della pena di morte; garantire il diritto alla salute, focalizzandosi sull'eliminazione dei danni e sull'accesso alle medicine essenziali; definire misure per affrontare le nuove sostanze e rivedere i sistemi per la riclassificazione delle stesse; riconoscere agli stati membri ampio margine per adeguare ai propri contesti nazionali le politiche internazionali di controllo; migliorare la partecipazione di tutte le agenzie dell'Onu e della società civile ai lavori di preparazione dell'Ungass; promuovere alternative all'incarcerazione, quindi decriminalizzare l'uso; promuovere lo sviluppo alternativo e tutelare l'ambiente. Puro buon senso riformatore. Da parte di chi ha subito gli effetti nefasti della guerra alla droga. Una settimana dopo queste parole, con motivazioni legate alla salute pubblica e all'inquinamento, il governo liberal-conservatore di Bogotà ha sospeso l'ultra ventennale Plan Colombia, cioè le fumigazioni aeree delle piantagioni di foglia di coca che alcune stime ritengono essere costate quasi due miliardi di dollari senza aver ridotto minimamente le oltre 300 tonnellate annue di pasta di coca prodotta nel paese andino. Una repressione cieca e inutile. Durante il dibattito in plenaria e negli eventi laterali a New York, l'Organizzazione mondiale della salute (Oms) ha insistito sulla necessità di privilegiare gli aspetti dell'uso degli stupefacenti legati alla salute, l'Università delle Nazioni Unite ha richiamato la necessità di una valutazione delle strategie in atto, mentre invece, buon ultimo ma per questo non certo meno importante, lo United Nations Development Program (Unpd) considera la guerra alla droga un potente limite allo sviluppo umano ed economico di intere regioni e nei prossimi mesi elaborerà degli indicatori per offrire ulteriori elementi all'allarme. Di fronte a tutto ciò, l'Europa continua a mantenere un profilo basso ritenendo che il grosso del lavoro debba esser fatto a Vienna dove l'Ufficio sulle Droghe e il Crimine, (Unodc), continua a non volersi confrontare con questo nuovo scenario di crescenti richieste riformatrici - e non solo perché il direttore è un diplomatico russo. È vero che durante l'Ungass l'Unione Europea sarà presieduta dal governo olandese, ma occorre arrivarci preparati per cogliere appieno l'occasione. Stati Uniti: Human Rights Watch denuncia "spray urticanti per calmare detenuti disabili" di Fabio Polese Corriere della Sera, 20 maggio 2015 Spray urticanti, scosse elettriche e "bombe" al peperoncino lanciate dentro le celle di detenuti con disabilità mentale. E ancora, persone indifese legate a sedie e letti per giorni interi e altri brutali maltrattamenti. Tutto questo succede in più di cinque mila carceri locali e statali degli Stati Uniti. A denunciarlo è il recente rapporto "Insensibile e crudele uso della forza contro i detenuti con disabilità mentali nelle carceri Usa", redatto pochi giorni fa dall'organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw) che accusa il sistema penitenziario statunitense per l'uso inutile, eccessivo e molto pericoloso della violenza. "Le prigioni possono essere un luogo pericoloso, rischioso e persino mortale per uomini e donne con problemi di salute mentale", ha affermato Jamie Fellner, autrice del documento Hrw. "La forza viene usata contro questi prigionieri anche quanto, a causa della loro malattia, non sono in grado di obbedire agli ordini dati". Molto spesso, dunque, basterebbe saper gestire le situazioni. Cosa che, purtroppo, non sempre succede. Nel rapporto di 127 pagine pubblicato da Hrw il 12 maggio scorso - arricchito da un video che mostra chiaramente le violenze gratuite subite dai detenuti - ci sono le testimonianze di oltre 125 persone tra agenti di custodia - attuali ed ex -, psichiatri e avvocati dei prigionieri e il racconto di tantissime storie di abusi. Secondo la denuncia di Hrw molti detenuti hanno subito violenti percosse che hanno provocato la rottura di mascelle, nasi e costole. Ma non solo: ustioni di secondo grado, lesioni di organi interni e contusioni profonde. In alcuni casi, spiega Jamie Fellner, "la forza usata contro di loro ha portato anche alla morte del detenuto". È il caso del 35enne Christopher Lopez, affetto da "disordine schizofrenico di tipo bipolare", che alle 3 e 30 del mattino del 17 marzo del 2013, è stato trovato privo di sensi nella sua cella in una prigione del Colorado. Invece di mandarlo in infermeria per un controllo, come dovrebbe essere da prassi, gli agenti lo hanno ammanettato e legato ad una sedia. Poche ore più tardi lo hanno "liberato" e lasciato solo dentro un'altra cella, nonostante mostrasse chiari segni di crisi. Intorno alle nove del mattino il giovane è deceduto per iponatremia, un disturbo del sangue curabile con ausili medici. Ma così non è stato. Arabia Saudita: cercasi boia, mano ferma e sangue freddo di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 maggio 2015 Arabia Saudita. Ai candidati che risponderanno all'annuncio pubblicato dal ministero della pubblica amministrazione non è richiesta alcuna qualifica, devono semplicemente dimostrare di saperci fare con la sciabola. Impennata delle esecuzioni capitali nel regno dei Saud. Quest'anno già 85. Non è richiesta una qualifica agli otto boia che cerca il ministero della pubblica amministrazione dell'Arabia saudita. E nemmeno titoli di studio. Vanno bene anche gli analfabeti. I candidati devono semplicemente avere la mano ferma, sangue freddo e dimostrare di saperci fare con la sciabola. Non sappiamo quanti sauditi risponderanno a questo "annuncio di lavoro" apparso in rete che, peraltro, non prevede un salario alto. Certo è che il numero delle condanne a morte eseguite è drammaticamente aumentato nel regno di re Salman alleato di ferro dell'Occidente: già 85 quest'anno contro le 88 del 2014. Ma lo staff, a quanto pare, è insufficiente. Anche perché si estende il tipo reati puniti con la morte: omicidio, stupro, apostasia, traffico di droga o di armi, adulterio. L'amputazione di una o di entrambe le mani inoltre è una pena di routine per il furto. In Arabia saudita la maggior parte delle condanne a morte avvengono mediante decapitazione. I più "fortunati" possono . Quest'sperare nella fucilazione. Tutto si svolge in pubblico e, nonostante il divieto di ripresa, gli spettatori non di rado postano in internet filmati raccapriccianti. Nel mese di gennaio fece il giro della rete il video di una donna birmana, Layla bint Abdul Mutaleb Bassim, che urlava la sua innocenza prima di essere decapitata in una strada pubblica della Mecca. Incurante di quelle grida, il boia la costrinse a sdraiarsi per terra, in prossimità di un passaggio pedonale, quindi le recise la testa con una spada ricurva. In seguito la Saudi Press Agency comunicò che la donna era stata condannata a morte per aver ucciso sei anni prima una bimba di sette anni, la figlia di suo marito. A nulla è valsa la recente denuncia di Amnesty International sul vertiginoso aumento delle sentenze di morte eseguite in Arabia saudita, che l'anno scorso si è piazzata al terzo posto in questa macabra classifica. Circa la metà dei condannati da parte dei tribunali del regno wahabita è saudita mentre il resto proviene da Pakistan, Siria, Giordania, India, Yemen, Birmania, Ciad, Eritrea, Filippine, Indonesia e Sudan. Il ministero degli interni sostiene che la pena di morte è un deterrente importante ma non fornisce alcun riscontro statistico a questa affermazione. Anzi, il numero in salita delle condanne a morte indirettamente dice il contrario. L'aumento è coinciso con l'ascesa al potere di Salmam, a conferma indiretta che il nuovo re intende usare il pugno di ferro non solo in politica estera ma anche all'interno per dare un segnale forte a dissidenti e oppositori. Human Rights Watch riferisce che almeno 38 delle esecuzioni eseguite nel 2015 sono avvenute per reati di droga ma da più parti si sostiene che l'aumento delle decapitazioni è legato a "ragioni di sicurezza". Contribuiscono anche i giudici di ruolo, più numerosi che in passato, che stanno portando a conclusione molti processi rimasti fermi per lungo tempo. L'Iran, dati alla mano, esegue annualmente più condanne a morte dell'Arabia saudita. Ma mentre Tehran è costantemente criticata, condannata, tenuta in isolamento da Europa e Stati Uniti, invece Riyadh gode di impunità, grazie al suo ruolo "moderato" in Medio Oriente e nella regione del Golfo. Anche se nelle capitali occidentali conoscono bene il peso che l'Arabia saudita e altre petromonarchie stanno avendo nella crescita del radicalismo sunnita e del jihadismo, specie nella Siria devastata dalla guerra civile. In Arabia saudita non se la passano meglio i condannati al carcere. Uno dei casi più noti è quello del blogger Raif Badawi. Il 17 giugno 2012 è stato arrestato per aver criticato esponenti religiosi e successivamente accusato di apostasia. Nel 2013 è stato condannato a sette anni di carcere e 600 frustate ma nel 2014 la Corte d'appello di Gedda ha inasprito la condanna a 10 anni di prigione, 1000 frustate e una multa di 1.000.000 di rial (circa 200mila euro). Lo scorso 9 gennaio Badawi è stato frustato in pubblico dopo la preghiera del venerdì di fronte alla moschea di al-Jafali a Gedda. Dopo la fustigazione è stato portato all'ospedale in gravi condizioni. Solo grazie alla (tardiva) indignazione internazionale non è stato più frustato ma resta a rischio e comunque sconterà la condanna a 10 anni. Egitto l'Ong Federation for Human Rights denuncia violenze sessuali contro i detenuti Askanews, 20 maggio 2015 Le forze di sicurezza egiziane fanno ricorso su vasta scala alla violenza sessuale contro i detenuti, secondo un rapporto dell'ong International Federation for Human Rights. Per "mettere a tacere le proteste pubbliche", uomini, donne e bambini sono sottoposti ad abusi di ogni genere, da test di verginità fino a stupri e stupri di gruppo. Il ministero degli Interni egiziano - riporta la Bbc - ha detto di non voler commentare finché non avrà studiato il rapporto, che rileva peraltro un netto incremento di casi da quando i militari hanno ripreso il potere nel luglio 2013. Raramente i colpevoli vengono fermati e questa impunità altro non è che "una cinica strategia politica volta a zittire tutte le opposizioni". Fra le vittime ci sono studenti, manifestanti, attivisti per i diritti umani, omosessuali e anche bambini. Gli autori del rapporto riconoscono di non avere prove per sostenere che questi abusi vengano ordinati dall'alto, ma la dimensione della violenza e l'impunità degli autori suggeriscono che vi sia alle spalle una precisa strategia politica. Marocco: Amnesty International denuncia "la tortura è endemica per reprimere dissenso" Askanews, 20 maggio 2015 Un nuovo rapporto di Amnesty International denuncia l'uso di numerose tecniche di tortura da parte delle forze di sicurezza del Marocco per estorcere confessioni e ridurre al silenzio attivisti e dissidenti: dai pestaggi alle posizioni dolorose, dal soffocamento all'annegamento simulato, dalla violenza fisica a quella psicologica. Il rapporto, intitolato "L'ombra dell'impunità: la tortura in Marocco e nel Sahara occidentale", rivela una realtà più oscura rispetto all'immagine presentata dalle autorità di Rabat quando, nel 2011, risposero alle proteste di massa scoppiate in tutta la regione promettendo una serie di riforme e una nuova costituzione in cui la tortura sarebbe stata messa al bando. La leadership del Marocco mostra all'esterno l'immagine di un paese liberale e sensibile ai diritti umani. Ma fino a quando la minaccia della tortura continuerà a pendere sui detenuti e sui dissidenti, quell'immagine resterà solo un miraggio - ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. Grattando sulla superficie, ecco emergere la tortura usata per stroncare le proteste e portare prove in tribunale. Chi sfida l'ineguaglianza e si batte per ciò in cui crede può essere bersaglio della violenza e della tortura - ha proseguito Shetty. Il rapporto di Amnesty International descrive 173 denunce di tortura nei confronti di uomini, donne e bambini ad opera delle forze di sicurezza e di polizia relative al periodo 2010-2014. Tra le vittime figurano studenti, attivisti politici affiliati a organizzazioni di sinistra o islamiste, sostenitori dell'autodeterminazione del Sahara occidentale e persone sospettate di terrorismo o di reati comuni. Le persone rischiano la tortura dal momento dell'arresto e per tutta la durata della custodia da parte della polizia. Assai spesso, i tribunali chiudono gli occhi di fronte alle denunce ed emettono sentenze basate su "confessioni" ottenute con la tortura. Chi osa denunciare e chiedere giustizia viene addirittura incriminato per "calunnia" e "diffusione di notizie false". L'impunità regna incontrastata, nonostante l'impegno delle autorità a rispettare i diritti umani. Il rapporto di Amnesty International documenta tutta una serie di brutali tecniche di tortura usate dalle forze di sicurezza nei confronti dei detenuti, tra cui quella del "pollo allo spiedo" in cui il prigioniero è tenuto sospeso a testa in giù, legato polsi e ginocchia a una sbarra. Mohamed Ali Saidi, 27 anni, è uno dei numerosi sahrawi che hanno denunciato di essere stati torturati dalle forze di polizia dopo gli arresti eseguiti nel corso delle proteste scoppiate a Laayoune nel maggio 2013: "Hanno minacciato di violentarmi con una bottiglia. Me l'hanno messa davanti agli occhi, era una bottiglia di Pom (una bevanda analcolica alla mela molto diffusa in Marocco). Mi hanno sospeso nella posizione del pollo allo spiedo e hanno iniziato a bastonarmi sulle piante dei piedi. Sempre mentre ero in quella posizione, mi hanno immerso i piedi nell'acqua gelata, mi hanno messo uno straccio sulla bocca gettandomi nel naso prima acqua e poi urina. Alla fine mi hanno tolto tutti i vestiti a parte le mutande e mi hanno preso a cinghiate dietro le cosce". Abdelaziz Redaouia, un 34enne di nazionalità franco-algerina, ha denunciato di essere stato torturato nel dicembre 2013 per aver rifiutato di firmare un verbale d'interrogatorio nel quale ammetteva reati di droga: "Rifiutavo di firmarlo e mi picchiavano nuovamente. Mi hanno messo una manetta attorno a una guancia e hanno iniziato a stringere come se volessero farmi un piercing". Gli agenti di polizia - ha proseguito l'uomo - gli hanno messo la testa sotto l'acqua e applicato scariche elettriche sui genitali mediante una batteria di automobile, poi lo hanno sospeso e picchiato sulle piante dei piedi. Il rapporto di Amnesty International descrive decine di casi di pestaggi di manifestanti e semplici spettatori in strada e all'interno dei veicoli delle forze di sicurezza, che esibiscono sfrontatamente la loro impunità dando un minaccioso segnale a tutti. Abderrazak Jkaou, uno studente dell'università di Kénitra, ha denunciato di essere stato picchiato fino a perdere conoscenza alla vigilia di una manifestazione: "Alcuni avevano lunghi bastoni di legno. Mi hanno picchiato dalla testa ai piedi. È arrivato un agente in borghese che si è messo una manetta intorno alla mano e mi ha colpito tra gli occhi. A quel punto sono svenuto. Altri agenti hanno preso a schiacciarmi la vescica con gli stivali fino a farmi urinare, come messaggio agli altri studenti. Loro pensavano che fossi morto". Alcune delle persone che hanno denunciato arresti e torture sono noti attivisti ma altri erano semplici spettatori. Khadija (il suo nome è stato cambiato per proteggerne l'identità) ha raccontato come è stata aggredita dagli agenti di polizia nel corso di una manifestazione universitaria a Fes nel 2014: "Gli agenti antisommossa sono arrivati da dietro e mi hanno bloccata. Sono caduta, mi hanno strappato il velo e picchiato. Poi mi hanno trascinato via per le gambe, faccia in giù, verso il loro furgone. Dentro, mi aspettavano in 10. Lì ho subito i colpi più duri". Nel suo rapporto, Amnesty International mette in evidenza un preoccupante sviluppo: l'uso dei reati di "calunnia" e "diffusione di notizie false" per colpire chi osa denunciare la tortura. Negli ultimi 12 mesi sono stati avviati otto procedimenti giudiziari per questi reati. La "diffusione di notizie false" può essere punita con un anno di carcere e una multa equivalente a circa 443 euro, la "calunnia" con cinque anni di carcere. Gli imputati possono essere costretti a pagare ingenti risarcimenti sia per la "calunnia" che per la "diffamazione". Nel 2014 due giovani attivisti, Wafae Charaf e Oussama Housne, sono stati condannati a due e tre anni di carcere rispettivamente per "diffusione di notizie false" e "calunnia" dopo aver denunciato di essere stati torturati, peraltro senza neanche aver identificato i presunti responsabili della tortura. Quattro degli otto incriminati per "calunnia" o "diffusione di notizie false" hanno presentato un ricorso ai tribunali francesi, in quanto aventi doppio passaporto o coniugi di cittadini francesi. Questi ricorsi potrebbero diventare impossibili se il parlamento di Parigi approverà una proposta di legge per porre fine alla competenza dei giudizi francesi su violazioni dei diritti umani avvenute in Marocco. "Il Marocco è a un bivio: può avviarsi lungo la strada che porta a un sistema giudiziario sufficientemente solido per contrastare le violazioni dei diritti umani o continuare a nasconderle. Il governo parla di riforme ma le autorità paiono interessate più a rafforzare le norme contro la calunnia che quelle contro la tortura. Per cambiare le cose, dobbiamo vedere nelle aule di tribunale i torturatori, non i torturati. Coloro che denunciano la tortura devono essere protetti e non incriminati" - ha commentato Shetty. Dopo aver ricevuto da Amnesty International una prima analisi delle conclusioni del rapporto, il governo marocchino ha diffuso una lunga nota respingendo categoricamente ogni addebito. La risposta menziona le iniziative assunte per contrastare la tortura, comprese le riforme legislative, ma evita di replicare alle specifiche denunce di tortura e alla quasi totale assenza di indagini adeguate. "Il governo dice che la tortura è un ricordo del passato. Ma nonostante alcune misure di segno positivo, anche un solo caso di tortura rappresenta un grave fallimento. E noi ne abbiamo documentati 173, tra il Marocco e il Sahara occidentale, relativi a ogni settore della società" - ha chiarito Shetty. "La legge marocchina vieta la tortura ma, per dare un significato concreto a questo divieto, è necessario che le autorità indaghino adeguatamente sulle denunce di tortura piuttosto che respingerle a priori" - ha concluso Shetty. Kosovo: a Pristina manifestazione familiari persone arrestate dopo scontri di Kumanovo Nova, 20 maggio 2015 I familiari dei kosovari arrestati per gli scontri di Kumanovo del 9 e 10 maggio, nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) e detenuti nelle carceri macedoni, scenderanno oggi in piazza a Pristina per chiedere al governo di proteggere i propri parenti. Dopo gli scontri di Kumanovo, che hanno provocato la morte di 8 agenti della polizia macedone e almeno 10 militanti, sono stati eseguiti una trentina di arresti. Secondo gli avvocati dei detenuti, i kosovari subiscono abusi da parte della polizia macedone. Inoltre, secondo i legali, la salute dei detenuti è peggiorata a causa di torture da parte di polizia. I detenuti hanno chiesto l'aiuto di Croce rossa internazionale, difensore civico, Osce, ambasciata del Kosovo a Skopje e primo ministro, Isa Mustafa.