Giustizia: il Papa "l'ergastolo è una condanna a morte… tutti potremmo essere carcerati" Askanews, 1 maggio 2015 "L'ergastolo è una condanna a morte, perché si sa che di lì non si esce. È duro. Cosa dico a quell'uomo? Cosa dico a quella donna? Ma forse… non dire niente. Prendere la mano, accarezzarlo, piangere con lui, piangere con lei. Così, avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Avvicinarsi al cuore che soffre. Ma tante volte noi non possiamo dire niente. Niente. Perché una parola sarebbe un'offesa. Soltanto i gesti. I gesti che fanno vedere l'amore. "Tu sei un ergastolano, lì, ma io condivido con te questo pezzo di vita di ergastolo", e quel condividere con l'amore: niente di più. Questo è seminare l'amore". Lo ha detto il Papa rispondendo a braccio alle domande dei membri della Comunità di vita cristiana (CVX) - Lega Missionaria Studenti d'Italia, circa 5.000 persone, ricevuta in Vaticano. "Il carcere è una delle periferie più, più brutte, [con] più dolore. Andare in carcere significa prima di tutto dire a se stesso: "Se io non sono qui, come questa, come questo, come questa, come questo, è per pura grazia di Dio", ha detto Bergoglio rispondendo a braccio alle domande. "Pura grazia di Dio. Se noi non siamo scivolati in questi sbagli, anche in questi reati o crimini, alcuni forti, è perché il Signore ci ha presi per mano. Non si può entrare in carcere con lo spirito di "ma io vengo qui a parlarti di Dio, perché abbi pazienza, perché tu sei di una classe inferiore, sei un peccatore": no, no! Io sono più peccatore di te, e questo è il primo passo. Ma, nel carcere uno può dirlo con tanto coraggio, ma dobbiamo dirlo sempre: quando noi andiamo a predicare Gesù Cristo a gente che non lo conosce o che porta una vita che non sembra molto morale, pensare che io sono più peccatore di lui, perché se io non sono caduto in quella situazione è per la grazia di Dio". "Noi - ha detto ancora Francesco - non possiamo andare in [nelle] periferie senza questa coscienza. Paolo: Paolo aveva questa coscienza. Lui dice di se stesso che è il più grande peccatore; anche, lui dice una parola bruttissima di se stesso: "Io sono un aborto"! Ma questo è nella Bibbia, è la Parola di Dio, eh?, ispirata dallo Spirito Santo! Non è fare faccia di immaginetta come dicono che i Santi… ma i Santi si sentivano peccatori perché avevano capito questo! E la grazia del Signore ci sostiene". Giustizia: nasce Fondo di solidarietà per la tutela giurisdizionale contro le discriminazioni www.consiglionazionaleforense.it, 1 maggio 2015 Presentato in occasione del V Salone della Giustizia l'iniziativa dell'Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni razziali e del Consiglio Nazionale Forense. Storie di ordinaria discriminazione, nei confronti di immigrati, ma non solo. Pur se ancora limitata la casistica delle richieste di accesso al Fondo di solidarietà per la tutela giurisdizionale delle vittime di discriminazione, i casi finora sottoposti al comitato paritetico - e che hanno ottenuto l'accesso al Fondo - raccontano di episodi di mancato riconoscimento nel concreto di diritti riconosciuti sulla carta, da normative comunitarie e da provvedimenti nazionali. Il punto è stato fatto in occasione del V Salone della Giustizia che si sta celebrando a Roma dal 28 al 30 aprile al salone delle Fontane all'Eur, nel corso del workshop organizzato dal Consiglio Nazionale forense. Sono intervenuti Susanna Pisano - già consigliera Cnf e componente del Comitato di gestione del fondo dott. Paolo Ferrari - responsabile Contact center Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali dott.ssa Alessandra Barberi - dirigente Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali avv. Maria Masi (consigliera nazionale per il distretto di Napoli). Il Fondo di solidarietà per la tutela giurisdizionale delle vittime di discriminazione è istituito dal Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio e gestito in collaborazione dal Consiglio Nazionale Forense e dall'Ufficio nazionale Anti-discriminazioni razziali dello stesso Dipartimento, con l'obiettivo di favorire la integrazione e il rispetto delle diversità. Il Fondo consente alla vittime di discriminazione di accedere alla tutela giurisdizionale grazie alla anticipazione sulle spese legali, che saranno restituite, attraverso un meccanismo di rotazione, in caso di sentenza favorevole. Il contributo "economico" offerto alle persone che subiscono episodi di discriminazione o molestie potrà contribuire a fare emergere il fenomeno, visto che a fronte di un elevato numero di denunce all'Unar, le azioni giudiziarie rimangono esigue. Segno, questo, di una difficoltà di accesso delle vittime al sistema giustizia. Quanto alle richieste pervenute di accesso al Fondo, sono di varia natura ma - talvolta - coinvolgono anche le pubbliche amministrazioni. Qualcuno contesta la esclusione dalla graduatorie triennali per l'insegnamento degli stranieri lungo-soggiornanti; oppure il mancato riconoscimento dell'assegno di maternità alla cittadina straniera in permesso di soggiorno in Italia per questioni di famiglia; oppure la denuncia di discriminazione per orientamento sessuale per il mancato riconoscimento - da parte del datore di lavoro pubblico - del congedo matrimoniale a seguito di una unione civile tra persone dello stesso sesso contratta all'estero. Poi ci sono le storie di ordinaria inciviltà come quelle che riguardano le molestie nei luoghi di lavoro o il rifiuto di accesso a luoghi o esercizi pubblici a persone con disabilità. Secondo i dati di una ricerca Istat commissionata dallo stesso Dipartimento delle Pari Opportunità e condotta sulla popolazione straniera residente in Italia da oltre 15 anni, risulta che il 9,3% dei cittadini stranieri dichiara di aver subito una discriminazione nella ricerca del lavoro, il 16,9% ritiene di averne subite sul posto di lavoro. Altre discriminazioni sono state segnalate nella ricerca di casa (10,5%), nell'ambito scolastico (12, 6%), nell'ambito di luoghi pubblici, esercizi commerciali o mezzi di trasporto (8,1%), nei rapporti di vicinato (6,2%), nella erogazione dei finanziamenti (3,6%) o in visite e controlli medici (2,8%). "Il Consiglio Nazionale Forense ha avviato da tempo una collaborazione istituzionale con il Dipartimento delle Pari opportunità nell'ambito di una intensa attività volta alla promozione e alla affermazione dei diritti fondamentali delle persone anche tramite la formazione specifica degli avvocati in settori "a rischio" dichiara il presidente Andrea Mascherin. "L'istituzione del Fondo rappresenta, oltre che una novità nel diritto antidiscriminatorio, anche un significativo passo in avanti verso una tutela più effettiva delle vittime della discriminazione. A fronte di tantissime denunce e segnalazioni che pervengono al Contact Center Unar, oltre mille l'anno, pochi sono i soggetti che, non vedendo riconosciuti i propri diritti, decidono di proseguire nel percorso di tutela a causa della mancanza di competenze legali ", dichiara Marco De Giorgi, Direttore Generale Unar. "Conoscere per poter agire. Il Salone della Giustizia, aperto ai cittadini ed agli operatori, è una occasione importante per parlare di solidarietà e per promuovere questa iniziativa inter-istituzionale. Per questo il Cnf ha ritenuto utile e opportuno dedicare uno dei workshop a questo tema", dichiara Maria Masi, consigliera nazionale. "Questo progetto, come altri promossi in questi ultimi anni, concretizzano la funzione sociale dell'Avvocatura, il suo ruolo di collante all'interno della società; spesso la professione è vissuta come una missione e abbiamo potuto già verificare l'impegno con il quale gli avvocati promuovono la tutela dei diritti delle persone più deboli" spiega Susanna Pisano, Avvocata e componente del comitato del Fondo. Informazioni specifiche sul funzionamento del Fondo, sulle condizioni di ammissione, sulle domande sono contenute nel Regolamento pubblicato sui siti www.unar.it e www.consiglionazionaleforense.it. Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli" di Vincenzo Vitale Il Garantista, 1 maggio 2015 In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" -ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è -né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo. Giustizia: reati contro l'ambiente, come bloccare una legge giusta di Roberto Saviano L'Espresso, 1 maggio 2015 Da anni le Camere lavorano per introdurre nel codice penale i reati contro l'ambiente. Ora arriva un nuovo stop. Un grande favore alle eco-mafie. Seguiamo l'iter tortuoso di un disegno di legge che farebbe bene al nostro paese. Seguiamolo per capire come accade che nel lavoro alle Camere su un disegno di legge si riescano a far entrare tali e tanti interessi da renderlo imperfetto pur se necessario. Seguiamolo per capire come tra Camera e Senato si arenino le migliori intenzioni. Seguiamolo per capire come dovremmo essere coinvolti sempre, perché solo il nostro sguardo e la nostra attenzione possono davvero richiamare all'ordine chi lavora per noi e per nessun altro. E chiediamo, infine, ai parlamentari uno slancio di responsabilità perché dimostrino di sapere quali sono gli interessi che devono tutelare. Nel 1994 Legambiente pubblicò la prima edizione del Rapporto Ecomafia con l'obiettivo di inserire i reati ambientali nel codice penale. Dopo 21 anni i reati ambientali potrebbero entrare nel codice penale perché presenti in un disegno di legge promosso da tre partiti (Pd, M5S e Sel), approvato alla Camera in prima lettura il 26 febbraio 2014 e al Senato in seconda lettura il 4 marzo 2015 (dopo un'estenuante discussione fatta per 12 mesi nella commissione Giustizia presieduta dal senatore Nitto Palma di Forza Italia e nella Commissione ambiente presieduta dal senatore Ncd Marinello, entrambi contrari all'inserimento degli eco-reati nel codice penale). "Se la legge sugli eco-reati venisse approvata", riferisce Legambiente, "inquinamento, disastro ambientale, traffico di materiale radioattivo, omessa bonifica e impedimento del controllo, ino a oggi considerati reati contravvenzionali e quindi di natura minore, diventerebbero delitti da codice penale e quindi sanzionati adeguatamente per la loro gravità e contrastati in modo molto più efficace. I tempi di prescrizione si raddoppierebbero e si potrebbero utilizzare anche strumenti d'indagine efficaci come le intercettazioni e l'arresto in flagranza, propri solo dei delitti e non dei reati minori". Sarebbe una svolta dopo vent'anni di informazione e lotta. Ma non è sempre tutto semplice come appare e soprattutto per bloccare un disegno di legge basta trovare un cavillo, solo uno - che poi spesso cavillo non è - perché tutto rischi di arenarsi. Nel passaggio al Senato del disegno di legge sui reati ambientali, il senatore di Fi Antonio D'Alì propone l'inserimento di un emendamento che stabilisce il divieto dell'uso dell'air gun (una tecnica di ispezione dei fondali marini ad aria compressa, molto controversa a livello internazionale per gli impatti su cetacei e pesca). Tutto normale, uno slancio ambientalista e nulla più, se non fosse che l'air gun ha scatenato in modo evidente le preoccupazioni delle società energetiche e che tra gli ultimi emendamenti presentati in Commissione Giustizia della Camera ce n'è uno di Fi che prevede l'abrogazione del divieto dell'uso dell'air gun. Quindi D'Alì al Senato ne chiede il divieto e due suoi colleghi di partito, probabilmente in disaccordo, chiedono la ine del divieto in Commissione Giustizia della Camera. Ora, la Camera potrebbe decidere di approvare il ddl sugli eco-reati così com'è, ma ne dubito, perché verrà giudicato imperfetto. Sarà quindi modificato nuovamente e rimandato al Senato, per un quarto passaggio parlamentare dove probabilmente si arenerà definitivamente rendendo vano il ventennale lavoro di Legambiente, l'impegno di Libera e delle associazioni ambientaliste, di medici, studenti e di categoria, come Coldiretti, Cia, Federambiente, Kyoto Club e Aiab che hanno chiesto un intervento diretto di Matteo Renzi. se il ddl sugli eco-reati verrà bloccato per tutelare le compagnie petrolifere, sarà l'ennesima dimostrazione che le persone chiamate a rappresentare i nostri interessi in realtà rappresentano unicamente quelli di chi può far loro favori e distribuire prebende. Ma se verrà bloccato sarà drammaticamente chiaro come funziona il Parlamento. Sarà evidente cosa accade lontano dai nostri occhi. E se questo accade ogni volta vuol dire che il percorso democratico, che il meccanismo democratico, si è inceppato. Se quando puntiamo la lente di ingrandimento scorgiamo questo, quale fiducia resta? Quale fiducia anche in chi promette di voler cambiare tutto, ma alla prova dei fatti non riesce a comprendere le dinamiche di palazzo? Siamo in balia di politicanti di professione, siamo in balia di chi fa politica con cinismo. Di chi dà supporto alle eco-mafie con una leggerezza criminale. Giustizia: Unione europea; prescrizione da rivedere se impedisce sanzioni su frodi fiscali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2015 Corte di giustizia europea, conclusioni dell'avvocato generale nella causa C-105/14. Se le norme sulla prescrizione, previste nell'ordinamento italiano per alcuni reati inclusa la frode fiscale, impediscono, per motivi sistemici, l'applicazione di sanzioni effettive, è violato il diritto Ue. Tuttavia, se non sussiste un impedimento sistemico all'applicazione di sanzioni, la prescrizione può essere preservata. Lo scrive l'Avvocato generale della Corte di giustizia Ue, Kokott, nelle conclusioni depositate ieri nella causa C-105/14. Il rinvio pregiudiziale alla Corte, che non è vincolata dalle conclusioni dell'Avvocato generale, è arrivato dal Tribunale di Cuneo alle prese con un procedimento penale che vede al centro alcuni imputati di frode fiscale nel commercio di champagne. Accusati di aver emesso dichiarazioni Iva fraudolente e fatture per operazioni inesistenti nell'ambito di un'associazione a delinquere, gli imputati, anche a causa dello spostamento del procedimento, potrebbero non subire alcuna sanzione a causa della prescrizione. Questo perché, con la legge n. 251/2005 è stato modificato l'articolo 160 del Codice penale, con la conseguenza che il termine assoluto di prescrizione, nel caso di interruzione del procedimento, è aumentato unicamente di un quarto rispetto al termine originario e non della metà come avveniva prima. Una situazione che, secondo il Tribunale di Cuneo, porterebbe a una violazione del diritto Ue impedendo l'applicazione di sanzioni nel caso di violazione delle regole sull'Iva, danneggiando il bilancio dell'Unione visto che una quota dell'Iva fa parte delle risorse proprie dell'Unione. Per di più non si tratterebbe di una peculiarità del caso di specie, ma coinvolgerebbe un gran numero di procedimenti per reati economici. Chiarito che il giudice nazionale può effettuare un rinvio pregiudiziale sulle carenze sistemiche del diritto penale, l'Avvocato generale ha precisato che la normativa nazionale sulla prescrizione non può essere equiparata all'introduzione di una nuova esenzione dall'Iva non prevista dalla direttiva 2006/112. I riflettori dell'Avvocato generale sono invece puntati sulla compatibilità del sistema di prescrizione con l'obbligo degli Stati membri di applicare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive per i reati fiscali. Prima di tutto perché solo un regime sanzionatorio funzionante nel settore dell'Iva garantisce una parità di trattamento tra tutte le imprese che operano nel mercato interno e, in secondo luogo, perché così è assicurata la tutela degli interessi finanziari dell'Unione. Di conseguenza, nessun dubbio che gli Stati devono mettere in piedi un apparato sanzionatorio efficace, che può avere carattere amministrativo o penale. L'analisi dell'efficacia delle sanzioni - osserva l'Avvocato generale - va svolta tenendo conto delle peculiarità delle procedure nazionali, con la possibilità, per gli Stati, di prevedere un regime di prescrizione che preserva la certezza del diritto "non escludendo, in linea di principio, un'applicazione effettiva delle sanzioni". A patto, però, che "le norme sulla prescrizione applicabili non annullino nel loro insieme l'efficacia e la capacità dissuasiva delle sanzioni previste". Questo porta l'Avvocato generale a concludere che in sé la normativa sulla prescrizione non è incompatibile con il diritto Ue salvo nel caso in cui, per ragioni sistemiche, essa impedisca di irrogare sanzioni effettive compromettendo la lotta alla frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione. Tale accertamento spetta ai giudici nazionali. Se questi ultimi arrivassero alla conclusione che la normativa sulla prescrizione, in modo generale e sistematico, impedisce l'applicazione di sanzioni, i giudici dovrebbero procedere all'interpretazione conforme, facendo salvo il divieto dell'interpretazione contra legem. In ultimo, scatterebbe l'obbligo di disapplicazione dell'articolo 160 del Codice penale nel rispetto, però, dell'equità del procedimento assicurato dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Giustizia: per le società la prescrizione si interrompe con la notifica del rinvio a giudizio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2015 Corte di cassazione, sesta sezione penale, sentenza 30 aprile 2015 n. 18257. La prescrizione nei procedimenti a carico delle società, per reati commessi da dipendenti, segue le regole della giustizia civile e non penale. Per queste ragioni l'interruzione dei termini scatta non al momento dell'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, ma dalla sua notifica. Per queste ragioni è stato considerato ormai trascorso il termine di 5 anni e dichiarata la prescrizione in un procedimento per svariati reati contro la pubblica amministrazione che aveva visto coinvolta anche una srl pugliese. A queste conclusioni arriva la Corte di cassazione con la sentenza n. 18257 della Sesta sezione penale depositata ieri. I giudici hanno così respinto il ricorso presentato dal pubblico ministero che rivendicava invece l'applicazione della disciplina penale. Per il Pm la data di riferimento per l'inizio del calcolo dei termini è quella di emissione dell'atto interruttivo; nel caso in esame l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio. Per il Gup, invece, la data di efficacia dell'atto interruttivo è rappresentata dalla notifica, il che faceva indiscutibilmente considerare ormai trascorsi i 5 anni. La Cassazione nell'avvalorare la lettura della disciplina fatta dal giudice dell'udienza preliminare mette in evidenza come il pm innanzitutto ha compiuto una mossa falsa, sottolineando come il decreto 231 del 2001 esclude la natura recettizia della richiesta di rinvio a giudizio. In realtà, osserva la Cassazione, il decreto 231 non dice nulla a proposito del carattere recettizio della richiesta. La sentenza ricorda che la legge delega che ha tracciato i binari per l'istituzione della responsabilità amministrativa degli enti (legge n. 300 del 2000) espressamente prevede che le sanzioni amministrative si prescrivono decorsi 5 anni e che l'interruzione è regolata dalle norme del Codice civile. "Le disposizioni del decreto legislativo (articolo 22) - scrivono i giudici - sono conformi a tale previsione disciplinando la prescrizione in modo diverso rispetto alla prescrizione penale, del resto, se non vi fosse ottemperanza alla previsione della applicabilità della disciplina del Codice civile scatterebbero le conseguenze della contrarietà alla legge delega". E allora, se questa è la prospettiva e il riferimento deve essere al Codice civile, va tenuto presente che nella disciplina dell'interruzione della prescrizione (articolo 2943 del Codice civile) l'effetto di paralisi dei termini si ottiene con la messa a conoscenza dell'atto nei confronti del debitore e, in particolare, con la notifica degli atti processuali. "Del resto - conclude la sentenza, la ragione è che in quel caso, l'atto introduttivo rappresenta la richiesta al debitore che non può che decorrere dalla effettiva conoscenza, mentre, nel processo penale, la prescrizione rileva in quanto mancato esercizio dell'azione penale, tenendosi perciò conto del compimento delle attività relative, ovvero dell'emissione del provvedimento, e non della notifica". Veneto: progetti-fantasma regionali per detenuti e disabili, spesi 9 milioni di fondi pubblici di Mauro Pigozzo Corriere Veneto, 1 maggio 2015 Nuovo ciclone sul maxi bando sociale della Regione: acquistati immobili a Monselice e Laggio di Cadore. Nel primo spunta il nome della società di Padrin, il restauro del secondo progettalo da due candidati forzisti. Il palazzo di via Svezia a Padova brilla nella zona industriale grazie alle vetrate di un blu quasi elettrico, che riflettono il verde degli alberi e la noia grigia del cemento tutt'attorno. Al suo interno, su due pianerottoli, si trovano, una a fianco all'altra, la cooperative "Ipas" e "Athena", che si sono aggiudicate circa 9 milioni di euro del bando per i disabili del 2011 - quello finito sotto accusa per il caso di Cà della Robinia - e le aziende del consigliere regionale Leo Padrin (appena passato da Forza Italia ai tosiani), tra le quali spiccano la Stel Srl e la Servizi logistici Srl (in quest'ultima c'è un bel gruppo di soci, tra cui la Camera di Commercio e l'Unione degli Industriali di Padova, Interporto, Enaip). È qui il "cervello" che ha pensato di partecipare a quel bando del 2011, che sta scuotendo la Regione: "Ipas", che si aggiudicò 4,2 milioni per l'acquisto, a Monselice, di un capannone che doveva dare occupazione a 40 tra ex detenuti e persone con problemi di inclusione sociale, vi ha la sede legale. Ma a questo palazzo, appunto, arrivano anche le telefonate di chi cerca la cooperativa "Athena", con sede in via l'orino a Mestre, capace di "vincere" 5,1 milioni per comperare e ristrutturare la casa soggiorno alpino di Laggio di Cadore, nel Bellunese, per trasformarla in centro vacanze per i disabili e le loro famiglie. A Monselice, i soldi sono già stati tutti bonificati. A Laggio, invece, sono stati erogati "solo" 2,2 milioni: la parte rimanente arriverà quando inizierà il restauro. Da quei 9,3 milioni di euro (da restituire in 25 anni) non sono germogliati però i frutti sperati: nessuna delle "categorie sociali" indicate dal fondo regionale di rotazione, al momento, è presente: non ci sono ex detenuti a Monselice e nessun disabile è ospitato a Laggio. Il punto è che le due coop sono entrambe guidate da Moreno Lando. Non solo vicino di casa di Padrin: del presidente della commissione Sanità e Sociale del consiglio regionale, Lando è socio proprio in "Servizi logistici". Il sindaco di Este, Giancarlo Piva, si infervora. "Già tre anni fa abbiamo compilato un dossier sul caso di Monselice, consegnato al governatore Luca Zaia, oltre ad aver segnalato il caso alla conferenza dei sindaci dell'Usi", dice. "Le cooperative del nostro territorio sono state ignorate - incalza - ed è indegno che un bando di quel valore sia stato vinto dalla Ipas, che solo a maggio del 2012 ha cambiato il proprio oggetto sociale da cooperativa di lavoro a coop sociale". Ieri inoltre si è scoperto un dettaglio interessante: fino a qualche giorno fa, all'ingresso del capannone del-l'Ipas a Monselice, dove appunto dovrebbero lavorare ex detenuti e disabili, faceva capolino il simbolo della "Servizi logistici srl", la società di Padrin. Perché? La "Servizi logistici" si serviva in qualche modo di questo capannone acquistato con i soldi per i disabili? Ieri il cartello non c'era più. Spostandoci nel Bellunese, Athena si è aggiudicata un finanziamento ancora più ingente, il più cospicuo dell'intera graduatoria regionale: 5,1 milioni necessari ad acquistare (per una quota del 70%, del valore di 1.750.000 euro) e poi ristrutturare la casa di proprietà dell'Associazione famiglie rurali di Vittorio Veneto, 68 camere che dal 1986 garantiscono ferie estive ed invernali per quasi 6 mila pernottamenti all'anno. Il piano di trasformazione dell'ex preventorio per la cura della tubercolosi in un moderno centro vacanze a misura di handicap è stato curato da un gruppo di professionisti, fra i quali l'architetto Silvia Moro e l'ingegnere Fabio Chies, rispettivamente assessore provinciale a Treviso e presidente del consiglio comunale di Conegliano, entrambi candidati alle Regionali nella lista di Forza Italia ed ambedue soci dell'europarlamentare Remo Sernagiotto nella società che gestisce la country house azzurra sul Montello. "Un progetto splendido dal punto di vista sia funzionale che estetico - commenta Alessandro Toffoli, vicepresidente dell'Associazione famiglie rurali - che non vediamo l'ora di attuare, insieme naturalmente agli amici di Athena, dai primi di settembre. Avremmo potuto avviare il cantiere a gennaio, ma abbiamo rinviato di nove mesi per non pregiudicare la stagione estiva". Anche le 800 anime di Laggio attendono il taglio del nastro sperando nell'indotto. "Si lavorava abbastanza, fino a 4 o 5 anni fa c'era un certo movimento", spiega Mario, barista. Ora, invece, con Athena è tutto fermo. Nella parte posteriore dell'edificio, l'intonaco sta iniziando a staccarsi e la ruggine si sta impadronendo di ringhiere e corrimano. Qua e là, sedie abbandonate, vecchie scope, una lavatrice lasciata sotto le intemperie. Lazio: il Garante dei detenuti Angiolo Marroni, il nostro è un "modello" che funziona La Repubblica, 1 maggio 2015 La Regione Lazio è stata la prima regione a dotarsi di una authority per la tutela dei diritti dei reclusi attraverso la creazione del "Modello Lazio" per la gestione del disagio penitenziario. In un report, Angiolo Marroni, al termine del mandato di garante dei detenuti, ha stilato un bilancio dei risultati positivi ottenuti grazie all'esistenza di tale progetto di reintegrazione sociale. Negli ultimi 10 anni, innanzitutto, sviluppando l'interazione diretta - oltre 110mila i colloqui nelle carceri del Lazio -, si è ottenuto che 120 detenuti si iscrivessero all'università e sostenessero regolarmente gli esami: un incremento del 575% rispetto al 2005 quando furono appena 12 gli studenti censiti. Dopo l'esperienza del carcere, invece, 950 persone hanno trovato un'occupazione con le cooperative sociali e con la collaborazione di importanti aziende italiane. Sulla base del progetto "Modello Lazio", inoltre, l'Università di Tor Vergata ha istituito il Master di secondo livello in "Intermediatore del disagio penitenziario". "In questi anni - ha commentato il garante uscente - abbiamo sviluppato un modello istituzionale che ha coinvolto Enti pubblici e privati, istituzioni di ogni ordine e grado, il mondo della cooperazione e delle grandi imprese. Abbiamo dato una speranza a chi è in carcere senza dimenticare il diritto alla sicurezza dei cittadini; abbiamo cercato di trasmettere la cultura della legalità e di cancellare il pregiudizio verso i detenuti. Su 950 persone che hanno trovato un impiego solo 8 hanno commesso nuovamente dei reati, meno dell'1%". Il report annovera due iniziative, promosse dal garante, entrambe indicate dal Ministero di Giustizia come buone pratiche da replicare sull'intero territorio nazionale. Si tratta della Teledidattica - Università in carcere, tecnologia multimediale messa a punto grazie al contributo dell'Università di Tor Vergata per consentire ai detenuti dell'Alta Sicurezza di Rebibbia Nuovo Complesso di seguire le lezioni a distanza, e delle Carte dei Servizi Sanitari, ideate con lo scopo di imprimere nero su bianco il rispetto del Diritto alla Salute ai reclusi. Oltre ad aver affermato l'importanza dell'istruzione come strumento per decrementare la recidiva, il "Modello Lazio" è risultato fondamentale anche per l'integrazione dei detenuti extracomunitari, infatti, il garante è punto di riferimento anche per i detenuti stranieri del CIE di Ponte Galeria e per quelli del Cara. Nel 2014, inoltre, l'Unione Europea ha finanziato un progetto di prevenzione dei reati sessuali; instaurati rapporti anche con la Commissione Europea per i diritti umani, il garante del carcere di Wormwood Scrubs (Londra) e il Ministero della Giustizia norvegese. Il Garante Angiolo Marroni, infine, ha esortato a non disperdere il lavoro compiuto in dieci anni, un "patrimonio che è di tutti". "Credo sia doveroso continuare a dare speranza a chi soffre in carcere; a tutti coloro che dedichiamo tanto del nostro impegno". Modena: un patto con il Comune per favorire l'impiego di carcerati nel volontariato Gazzetta di Modena, 1 maggio 2015 Firmato il protocollo tra Ministero, Comune e associazioni: dai trasporti al servizio mensa, oltre ad attività manuali. Favorire l'attivazione di percorsi di volontariato rivolti a persone in esecuzione penale o sottoposte alle misure di sicurezza. In altre parole, promuovere per quei detenuti che per legge ne possono usufruire, la possibilità di impegnare il loro tempo in attività di volontariato presso enti locali o associazioni, in un'ottica di restituzione e servizio per la collettività. È questo l'obiettivo del Protocollo d'intesa a cui sono giunti la direzione della Casa circondariale S. Anna, l'Ufficio Esecuzione penale esterna (Uepe) del Ministero della Giustizia, la Provincia di Modena, i Comuni di Modena e di Castelfranco, le organizzazioni che rappresentano il mondo del volontariato, cioè l'Associazione Servizi per il volontariato (Asvm) e il Forum provinciale del Terzo Settore. Duplice la finalità dell'intesa firmata ieri in Municipio, da Gian Carlo Muzzarelli in qualità di presidente della Provincia, dall'assessora al Welfare Giuliana Urbelli per il Comune di Modena, dall'assessora al volontariato Maurizia Cocchi Bonora per il Comune di Castelfranco, dalla presidente di Asvm Emanuela Carta, dal portavoce del Forum provinciale Albano Dugoni, dalla direttrice di Uepe Patrizia Tarozzi e dalla quella del Sant'Anna Rosa Alba Casella. Da una parte, il protocollo intende promuovere una forma di attività ripartiva a favore della collettività, un'attività che per il detenuto e la persona in esecuzione penale esterna ha anche valore riabilitativo; dall'altra, favorire la nascita di una rete in grado di accogliere quelle persone che hanno aderito al progetto, anche in vista del loro reinserimento sociale. A prevedere la possibilità di impiegare i detenuti in attività di volontariato a favore della collettività sono diversi articoli presenti nel corpo della normativa penitenziaria, e tra questi la recente legge 10 del 21 febbraio 2014. Già dal 2013 il volontariato modenese e il Ministero della Giustizia attraverso Uepe, l'Ufficio che ha il compito di favorire il reinserimento sociale dei condannati, hanno in essere una convenzione che consente ai detenuti di impegnarsi presso alcune associazioni di volontariato: Auser, Portobello, Porta Aperta, Gruppo Carcere Città, Csi Volontariato, Gruppo volontari Crocetta, Porta aperta al carcere e Insieme in quartiere per la città. Nel 2012, in occasione del terremoto, sono stati 8 i detenuti impegnati nelle terre del cratere insieme con gli altri volontari. Oggi con il Protocollo, già recepito dalla Giunta del Comune di Modena e da quella di Castelfranco, i territori su cui insistono le strutture di detenzione e di lavoro, viene sancito l'impegno in tal senso di tutti i soggetti. In particolare, il Comune di Modena si impegna a individuare le risorse idonee e gli ambiti di attività in cui i detenuti e le persone in esecuzione esterna possono prestare volontariato, oltre che a sostenere il progetto dei singoli attraverso interventi individuali, come il trasporto o la mensa. Trento: nel carcere di Spini di Gardolo una nuova ala per i detenuti "sex offender" Il Trentino, 1 maggio 2015 Nella struttura di Spini arrivano detenuti "sex offender": l'annuncio del direttore Pappalardo, che parla delle criticità. Dal prossimo due maggio sarà operativa nell'ambito del carcere di Trento una nuova sezione riservata ai "sex offender" - in massima parte pedofili e stupratori - provenienti dagli istituti di pena dell'Italia Settentrionale, ma specialmente da Verona, dove a causa del sovraffollamento non c'è più la necessaria sicurezza. La stessa sezione potrebbe anche ospitare i familiari del personale di polizia impegnato in particolari operazioni o le famiglie dei collaboratori di giustizia. L'unico punto critico è dato dalla necessità di trasferire gli attuali ospiti dei due piani interessati o in altri bracci, ma anche in altri istituti di pena. La notizia è emersa nell'ambito della conferenza stampa del direttore del carcere Valerio Pappalardo che a giugno completerà il suo mandato semestrale di missione, ma che avrebbe l'intenzione di fermarsi a Trento interrompendo così, il lungo periodo di mancanza di un direttore fisso. Pappalardo ha colto l'occasione per descrivere la realtà carceraria di Trento caratterizzata da un rapporto di una guardia ogni due carcerati: sono infatti cento gli uomini della Polizia carceraria, contro 207 detenuti (70% extracomunitari per la maggioranza nordafricani e dieci donne). "Riusciamo a gestire questo rapporto minoritario grazie alla sorveglianza dinamica, resa possibile da una struttura altamente tecnologica che permette il costante monitoraggio degli spazi. Comunque questa situazione di rischio, è stata più volte segnalata al Ministero". Ma pur essendo una struttura all'avanguardia, anche quella di Trento ha alcune criticità. Prima tra tutte le prese d'aria indispensabili per il riciclo, ma che a detta del direttore stesso, sono pericolose perché permetterebbero di sostenere un cappio. E qui è stato introdotta la dolorosa questione dei suicidi in carcere: "Non li ho vissuti direttamente, ma ho esaminato le pratiche non ravvisando alcuna deficienza da parte dell'organizzazione carceraria. L'assistenza che diamo ai carcerati è ottimale, purtroppo non avendo a che fare con soggetti mentalmente abituati al rischio reclusione come potrebbero essere i mafiosi, i nostri detenuti sono più soggetti ad azioni autolesionistiche". Il direttore ha ricordato come nella sua carriera abbia visto detenuti ingoiare indumenti per cercare di soffocarsi e altri sbattere violentemente la testa contro spigoli o pavimento a conferma dell'imprevedibilità di questi gesti. Un'altra peculiarità del carcere diretto dal Pappalardo è quella dell'assistenza sanitaria che non è più interna, ma da tre anni è di competenza dell'Azienda Sanitaria il cui direttore Flor, ha indicato l'alta professionalità di tutto il reparto di Pronto Soccorso coordinato dal dottor Ramponi al quale è stata assegnata la relativa delega. Grazie alla collaborazione con cooperative esterne, è garantita anche l'occupazione retribuita dei detenuti. Frosinone: Sappe; detenuto tenta suicidio in carcere, salvato dalla Polizia penitenziaria www.ogginotizie.it, 1 maggio 2015 Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Frosinone: salvato dall'Agente di Polizia Penitenziaria in servizio, il detenuto si trova attualmente ricoverato in ospedale in gravi condizioni. Protagonista, ieri pomeriggio, un detenuto ultrasessantenne, B.P. "L'insano gesto - posto in essere mediante impiccamento - non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma il detenuto si trova attualmente in gravi condizioni in ospedale. Durante l'ora d'aria, ha approfittato dell'assenza del suo compagno di cella per mettere in atto l'insano gesto, legando una corda ricavata dal lenzuolo alla grata della finestra e al collo, per poi lasciarsi penzolare. Soltanto grazie all'intervento provvidenziale dell'Agente di sezione si è evitato che l'estremo gesto avesse conseguenze fatali. Immediatamente soccorso dal personale medico ed infermieristico presente in carcere, il detenuto è stato successivamente trasportato d'urgenza al pronto soccorso dell'ospedale cittadino, dove tutt'ora si trova ricoverato in gravi condizioni. L'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Maurizio Somma, segretario regionale Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, sottolinea che "alla data del 28 febbraio scorso erano detenute a Frosinone 505 persone. Negli ultimi dodici mesi del 2014, nel penitenziario frusinate, si sono contati 10 tentati suicidi, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 82 episodi di autolesionismo, 28 colluttazioni e 10 ferimenti". "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Frosinone - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", conclude Capece. "Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri laziali e del Paese sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia". Genova: carcere di Marassi; dopo una denuncia sospeso l'agente (presunto) picchiatore di Giuseppe Filetto La Repubblica, 1 maggio 2015 "Abbiamo preso questo istituto nel 2003, l'abbiamo trasformato in una "casa di vetro", e voi sapete quali sacrifici facciamo per recuperare e rieducare i reclusi". L'agente carcerario al momento è stato collocato in ferie forzate. Gli è stato "consigliato" di non rientrare fino a quando non sarà fatta chiarezza. "C'è un' inchiesta da parte della Procura della Repubblica - ricorda il direttore - aspettiamo". Il fascicolo è stato affidato al pm Giuseppe Longo, e però Mazzeo non ha ritenuto opportuno tenere in servizio un agente sul quale gravano pesanti indizi ed è indagato di lesioni. L'antefatto. Nel fine settimana tra l'11 e il 12 di aprile un detenuto avrebbe denunciato di essere stato manganellato e picchiato da un agente penitenziario. Tant'è che avrebbe chiesto di essere visitato dai medici della Struttura di Medicina Penitenziaria che lavorano all'interno del carcere. Pare che una prima volta l'accaduto non sia stato segnalato ai vertici della casa circondariale. Successivamente, però, la vicenda sarebbe stata denunciata dalla psicologa, anche questa dipendente della Asl Tre. "Appena ho ricevuto il rapporto da parte del comandante- assicura il direttore - ho trasmesso tutto in Procura". Ed anche al Provveditore alle Carceri, Carmelo Cantone, che da parte sua ha aperto un'inchiesta interna e negli scorsi giorni nei suoi uffici di viale Brigate Partigiane ha convocato i tre medici. La vicenda è stata segnalata pure al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. L'accaduto, comunque, è tutto da accertare. Lo avrebbe scritto il comandante della Polizia Penitenziaria, Massimo Di Bisceglie, nel rapporto che ha consegnato al direttore. Che, a sua volta, ha chiesto una relazione all'agente. Quest'ultimo (un abruzzese assegnato a Genova solo da poco tempo) avrebbe dichiarato di essere stato prima bersaglio di sputi e poi aggredito. Sarebbe seguita una colluttazione e in questa fase il recluso sarebbe caduto, riportando ematomi alle braccia. Ma attenzione: sarebbe stato lo stesso agente a sollecitare la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria. All'aggressione, però, non avrebbe assistito nessuno. Peraltro, la zona in cui si sarebbe verificata, non è coperta da telecamere. Versione che però contrasterebbe con quella fornita dal recluso (un tossicodipendente che deve scontare una pena per spaccio di stupefacenti): sarebbe stato picchiato con un manganello e secondo quanto avrebbero scritto i medici nel referto, le lesioni potrebbero essere compatibili con i colpi. "I manganelli sono custoditi in armeria - spiega Mazzeo - e possono essere utilizzati solo in certe situazioni". La normativa carceraria, infatti, ne vieta l'uso, a meno che non sia autorizzato dal comandante delle guardie o dal direttore: solo in casi di estrema emergenza, come può essere una rivolta o una rissa impossibile da sedare. "Se è stato introdotto qualche oggetto contundente non autorizzato, ne trarremo le dovute conseguenze - ripete Mazzeo - . Non nascondiamo nulla ed è nostro interesse che la verità venga a galla". Lo ribadiscono gli stessi vertici della "Penitenziaria". E però "Radio Carcere" sostiene che all'interno delle "Case Rosse" ci sarebbe un gruppetto di agenti, piuttosto giovani, che non avrebbero rispettato gli ordini gerarchici, con azioni punitive nei confronti di detenuti ritenuti particolarmente irrequieti ed oltraggiosi. La sicurezza all'interno delle carceri per gli agenti penitenziari è una medaglia a due facce. Tanto che ieri, secondo quanto denuncia il Sappe (Sindacato di Polizia Penitenziaria) nel giro di poche ore un detenuto ricoverato nel reparto psichiatrico del San Martino ha aggredito, in due distinti momenti, altrettanti poliziotti addetti alla sua vigilanza. Padova: agenti penitenziari erano in "malattia", ma facevano i meccanici e i calciatori di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 1 maggio 2015 Inchiesta della procura per truffa: indagati 12 guardie carcerarie e 5 medici. A Ruvo di Puglia, nel quartiere popolare dove vive e lavora, è Mimmo il meccanico. A Padova, fra i raggi del supercarcere Due Palazzi, è invece la guardia D., agente di polizia penitenziaria colpito da lombosciatalgia dal luglio dello scorso anno. Tre settimane fa i carabinieri in borghese l'hanno trovato chino sotto un'Opel Zafira, intento a riparare lo sterzo della macchina. Le mani nere, il cric, la tuta da meccanico. Quando gli investigatori sono entrati nella sua officina fingendosi clienti, Mimmo ha grugnito come fa chi è impegnato in uno sforzo. "Inequivocabile la sua attività", hanno sottoscritto. Come confermano i vicini di casa: "Mimmo è l'unico meccanico della zona". A Ruvo di Puglia nessuno sa infatti che è un agente in servizio a Padova, stipendiato e malato. Così va a Ruvo. Ma lo stesso succede in un paesino del Padovano, dove un'altra guardia carceraria del Due Palazzi si è messa in malattia per gli stessi problemi alle gambe. Anche lui a casa da mesi. Nel corso dei quali gli inquirenti, alle prese con la desolante realtà del supercarcere, hanno trovato il modo di sorridere. É successo quando l'hanno visto su un campo di calcio. Scattava, correva, ripartiva, tirava. Non era una partita fra scapoli e ammogliati. No, campionato di Promozione. Allenamenti, partita domenicale, agonismo. Una cosa seria, insomma, seppure dilettantistica. Ma Mimmo e il collega non sono gli unici casi di falsi malati del penitenziario di massima sicurezza veneto. Il pm Sergio Dini, che sulla vicenda ha aperto un'inchiesta, al momento ne ha iscritti dodici e nello stesso fascicolo ha infilato anche i nomi di cinque medici. Sono i dottori compiacenti, che hanno certificato "l'epidemia" del Due Palazzi. Gli inquirenti hanno fatto due conti: dal 2012 le guardie indagate hanno fatto mediamente 70 giorni all'anno di assenza per patologie fantasma. Centinaia i certificati sequestrati, distribuiti nel corso dell'anno con una densità particolare su alcune date: 8 e 23 dicembre, periodo Pasquale, intorno di Ferragosto. Molto gettonati anche i sabati e i lunedì. "Chiaro, il ponte è sacro", ironizza l'investigatore. "Stiamo parlando della punta di un iceberg. Questo è certamente un fenomeno molto diffuso e non solo nel carcere di Padova... e poi si lamentano perché ci sono pochi agenti rispetto ai detenuti". Caso estremo è quello di un agente trasferito a Tolmezzo, verso il confine di Nord Est. Una scelta che il soggetto in questione non ha gradito. Al punto che nel carcere del piccolo centro della provincia di Udine la guardia non è si mai vista. Il suo medico gli ha coperto l'intero periodo con una serie di certificati rinnovati puntualmente ad ogni scadenza. Talvolta non serviva nemmeno andare in ambulatorio. Tutto al telefono, intercettato. "Buongiorno dottore, sono scoperto per due giorni, può farmi fa un certificato?". "Cosa metto?". "Lombo-sciatalgia". Sanremo (Im): Uil; caserma del carcere in pessime condizioni e a pagamento per gli agenti www.sanremonews.it, 1 maggio 2015 La protesta di Fabio Pagani della Uil Penitenziari. "Abbiamo ricevuto ieri comunicazione da parte della Direzione del Carcere di Sanremo che, dal 15 maggio prossimo, il personale di Polizia Penitenziaria dovrà pagare la Caserma all'interno del muro di cinta del Carcere di Valle Armea". Lo ha detto Fabio Pagani, segretario regionale della Uil Penitenziari, che prosegue: "Lo scorso 27 febbraio abbiamo visitato il carcere e ovviamente la caserma, così riproponiamo le foto dello "scatto dentro", con le camere riservate alla Polizia Penitenziaria che, oltre alle pessime condizioni saranno addirittura, dal 15 maggio anche a pagamento". "Premesso - precisa il sindacalista - che il corpo sconta a proprio danno l'eccezionalità di essere l'unica Forza di Polizia a cui è richiesto il pagamento degli alloggi collettivi, nel momento in cui le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria sono quotidianamente impegnati a contrastare gli innumerevoli episodi di insofferenza, devastazione e violenza posti in essere da detenuti e a garantire la tenuta del sistema, pagando un doloroso dazio di sangue, sarebbe importante un tangibile segnale di attenzione e non momenti di penalizzazione come questi per un vero rilancio del Corpo ed affermazione dei diritti". Milano: Primo Maggio-Primo Raggio: a San Vittore debutta "Pensando Expopositivo" Adnkronos, 1 maggio 2015 Primo maggio al primo raggio. È uno "Speciale Padiglione Italia" quello che andrà in scena, domani, nel carcere di San Vittore, a Milano, in occasione del debutto di Expo 2015. Si tratta di un'esposizione delle attività produttive legate al cibo e all'ambiente che le cooperative del privato sociale realizzano nelle strutture penitenziarie italiane. Un'occasione importante per dare visibilità all'economia penitenziaria che non solo produce ma tenta di generare posti di lavoro per i detenuti e realizzare quell'intervento di inclusione sociale che punta all'abbassamento della recidiva. Il padiglione ‘specialè, che sarà allestito nel primo raggio del carcere, potrà essere visitato nel pomeriggio da cittadini, imprenditori, ristoratori, commercianti per assaggiare, toccare, concordare strategie commerciali, stabilire contatti utili e creare opportunità di lavoro. La sfida Expo per l'Amministrazione penitenziaria è far sentire il carcere parte del territorio, rinsaldare il patto sociale e contribuire alla costruzione di una società integrata "buona come il buon cibo" e migliore per tutti. E mentre lo storico penitenziario milanese, San Vittore, apre le porte alla città per vivere un Expo dentro, al lavoro, nel sito di Rho Pero, ci saranno anche 100 detenuti, uomini e donne, italiani e stranieri, "adeguatamente e preventivamente formati", pronti a dare supporto alla logistica, all'accoglienza e all'assistenza ai visitatori, secondo le provenienze geografiche. Un intervento reso possibile dal ‘Protocollo d'intesa per Expo 2015' sottoscritto nei giorni scorsi dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Pasquale Nobile de Santis e dal provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria per la Lombardia Aldo Fabozzi. Firenze: "Notte bianca" a Sollicciano, nel live il Folsom Prison Blues di Johnny Cash www.gonews.it, 1 maggio 2015 Via alla Notte Bianca fiorentina dal carcere di Sollicciano, con una particolare rivisitazione del celebre Live at Folsom prison del grande Johnny Cash: sul palco il cantautore Massimiliano Larocca, accompagnato anche da alcuni detenuti che seguono corsi di musica nel penitenziario alle porte del capoluogo toscano. All'esibizione ha dato il via il sindaco Dario Nardella: "nemmeno un carcere può chiudere le sbarre alla musica, messaggio di libertà", ha commentato il primo cittadino. Tanti eventi in campo stasera per la Black night (questo il titolo dell'edizione di quest'anno) il cui filo conduttore è la musica: tra i concerti, da segnalare, l'esecuzione integrale di "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd in via Martelli, a pochi passi da piazza del Duomo a cura di Nem, in Palazzo Vecchio maratona di classica su Bach orchestrata da Massimo Ruffini. Il Jazz è di casa in piazza San Firenze: in piazza Santa Croce e piazza della Repubblica ensemble vocali inviteranno il pubblico a cantare pezzi di Paolo Conte e dei Creedence Clearwater Revival. In piazza Duomo scorreranno immagini di film, telefilm e cartoni animati classici. Aperti e gratuiti i musei di Palazzo Vecchio e Novecento dalle 18 alle 6, Santa Maria Novella, Bardini (civici), tra gli statali saranno visitabili fino a mezzanotte Bargello e Cappelle Medicee. In piazza San Lorenzo ci sarà una grande installazione multimediale dedicata al lavoro creativo di Giancarlo Cauteruccio. Aperta gratis la Mostra dell'Artigianato alla Fortezza. Bus e tramvia resteranno attivi tutta la notte, ma non sarà consentito l'accesso alle auto in centro: per tutta la durata degli eventi la ztl notturna resterà attiva. Pontremoli (Ms): giovani detenute dell'Ipm in scena al Teatro della Rosa con "Il Dono" Adnkronos, 1 maggio 2015 Debutta l'8 e 9 maggio al Teatro della Rosa di Pontremoli "Il Dono", il nuovo spettacolo realizzato dalle ragazze dell'Istituto Penale Minorile di Pontremoli. Alla conferenza stampa di presentazione, che si terrà il 4 maggio alle 12, parteciperà anche il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. La rappresentazione, spiega una nota, costituisce il coronamento di un lungo periodo di lavoro, durante il quale le ragazze detenute, con la collaborazione dell'associazione locale Centro Teatro Pontremoli, si sono cimentate con tutta la complessa macchina organizzativa, attivando, all'interno e all'esterno dell'istituto, laboratori di sartoria e maschere per la realizzazione dei costumi, laboratori di scenografia per la costruzione della scena e laboratori di movimento e di teatro per la preparazione dello spettacolo. Importante è stato poi il laboratorio di scrittura creativa, che ha visto operare fianco a fianco le ragazza detenute e gli studenti dei licei "Malaspina" di Pontremoli e "Leonardo da Vinci" di Villafranca, nella stesura di testi utilizzati per integrare il copione. Lo spettacolo, con la regia del Bolognese Paolo Billi, le coreografie di Elvio Pereira De Assunçao e le scene di Irene Ferrari, è una rilettura de "La sagra della primavera" di Igor Stravinsky, che "mette in risalto valori di particolare significato nell'ottica del percorso rieducativo-pedagogico e di risocializzazione all'interno del quale le ragazze sono inserite, come ad esempio il donare e l'agire disinteressato e la dimensione comunitaria del vivere". L'evento si colloca in un più ampio progetto culturale, volto a favorire l'apertura della struttura dell'istituto verso territorio, mediante un più ampio coinvolgimento di collaborazione tra le ragazze e le realtà istituzionali e associative della zona circostante. Il progetto è promosso dal ministero della Giustizia - Centro Giustizia Minorile Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e Massa Carrara, dalla Regione Toscana e dal Comune di Pontremoli. È realizzato dal Teatro del Pratello di Bologna, insieme al Centro Teatro Pontremoli, in collaborazione con Opera Don Calabria e Centro Giovanile Mons. G. Sismondo. Lo spettacolo è realizzato con la fondamentale collaborazione dell'Accademia di Belle Arti di Carrara, che ha visto la partecipazione di studenti e insegnanti per realizzare le decorazioni scenografiche e i trattamenti pittorici dei costumi. Immigrazione: non lo dicono, ma gli "scafisti" sono quasi tutti ragazzini di 13, 14, 15 anni di Damiano Aliprandi Il Garantista, 1 maggio 2015 Sono minorenni e vengono reclutati tra le file dei profughi che hanno un minimo di esperienza di navigazione, in cambio di un viaggio gratis. Accettano di mettersi alla guida dei barconi, senza sapere se arriveranno a destinazione, accettando anche il rischio di un'imputazione per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina o, peggio ancora, di strage. Questi sono la maggior parte degli scafisti e, se arrestati, finiscono nel carcere minorile. Gli scafisti bambini arrivano in Italia traghettando adulti che potrebbero essere i loro genitori, ragazzi che potrebbero essere i loro fratelli e spesso anche cadaveri che hanno incontrato ancora uomini, sull'altra sponda del Mediterraneo, Dentro l'inarrestabile e notissima tragedia degli sbarchi c'è anche quella sconosciuta degli scafisti bambini. "Sono quasi tutti egiziani - spiega Elvira Iovino, la responsabile dell'organizzazione gesuita Centro Astalli che li segue nel carcere minorile di Catania - sono richiestissimi dai trafficanti che li vanno a cercare nei loro villaggi sulla costa". Hanno 13, 14, 15 anni al massimo, conoscono il mare e le correnti da sempre perché sono figli di pescatori, sanno guidare un'imbarcazione con destrezza a differenza dei loro coetanei del Mali, del Niger o del Chad che l'acqua non l'hanno quasi mai vista. I trafficanti li cercano perché sono poveri, perché sanno che accetteranno la loro offerta; non pagano il viaggio, in cambio guideranno il gommone che dalla nave madre porta il suo carico di disperati verso la costa. Quando i migranti scendono dalla nave madre e salgono in gommone, sono gli scafisti bambini a distribuire l'acqua rimasta, se c'è, a decidere chi mangia e chi invece guarda gli altri mangiare. Si sentono nello stesso tempo terrorizzati e potenti, credono di viaggiare verso l'Eldorado e invece, una volta a terra, li aspettano le forze dell'ordine e il carcere. I veri trafficanti non guidano i gommoni, ma reclutano altre persone. Però per tutta la vita, i bambini scafisti, porteranno il peso di reati gravissimi: traffico di esseri umani, quando i migranti muoiono anche omicidio e strage. Sono coloro che vengono condannati al carcere. Nell'ultimo tratto di mare dall'Egitto alla Sicilia, comandano loro. Si credono uomini, si sentono potenti, governano le correnti, comandano su uomini e donne più grandi. Invincibili. E invece in un mare troppo grande sono come barche di carta al vento. Spazzate via da trafficanti senza scrupoli e da famiglie talmente povere e disperate che non hanno la forza e la voglia di capire. Il Centro Astalli Catania li incontra in carcere, con imputazioni gravissime e cerca di aiutarli tramite numerose attività. Sono spaventati, increduli, condannati ad anni di detenzione, lontano dalla famiglia. Sono uno dei tanti "effetti collaterali" della mancanza di canali umanitari sicuri e leciti per chiedere asilo in Italia. Ma il governo Renzi e l'Europa intera sta optando per le solite "soluzioni" emergenzialiste. Ovvero dal carcere fino ai bombardamenti dei barconi. D'altronde c'è stato un coro unanime delle associazioni contro le decisioni del vertice straordinario dei ventotto capi di Stato e di governo sull'immigrazione, voluto dal premier italiano Matteo Renzi, Molte le voci che si sono levate a criticare pesantemente le conclusioni adottate dai leader, voci che sottolineano in particolare il timore mostrato nell'affrontare il tema del soccorso e dell'accoglienza di chi fugge da guerre e terrorismo. Immigrazione: "aiutarli a casa loro"… che grande ipocrisia! di Roberto Saviano L'Espresso, 1 maggio 2015 C'è chi sostiene che il problema degli immigrati si risolve con lo sviluppo dei paesi d'origine. Ma l'Italia spende pochissimo in missioni umanitarie La dichiarazione di Matteo Renzi sull'editoriale del "New York Times" "non tutti i passeggeri sui barconi dei trafficanti sono famiglie innocenti" lascia stupiti. Stupisce che il nostro presidente del Consiglio rilasci informazioni che suggeriscono che le organizzazioni terroristiche usino il vettore dei barconi per far raggiungere ai propri uomini l'Europa. Se si riferiva invece agli scafisti, è una storia che già si conosceva e che spesso viene anche mal raccontata. La differenza tra scafista e trafficante dovrebbe essere chiara a tutti. Lo scafista è colui che tiene il timone e spesso è semplicemente uno dei migranti con minima conoscenza di mare, visto che la maggior parte dei sub-sahariani non sono mai stati su una barca in vita loro e spesso non sanno neanche nuotare. Esistono scafisti criminali parte dell'organizzazione ma anche scafisti disperati tra i disperati. Quella dichiarazione che lascia intendere che sui barconi viaggino anche terroristi necessita di essere spiegata. Mai come ora ci manca come ministro Emma Bonino, che sarebbe in assoluto la più titolata a intervenire su questi temi. Ed è proprio dalla sua riflessione che vorrei partire: cancellare l'operazione Mare Nostrum è stato un errore drammatico. L'operazione italiana Mare Nostrum costava 9,3 milioni di euro al mese e Renzi e il suo governo l'hanno cancellata con la scusa che costasse troppo. Triton, guidata dall'Unione Europea attraverso Frontex, non costa nemmeno un terzo: 2,9 milioni al mese. Ma la grande differenza tra Mare Nostrum e Triton risiede nella salvaguardia della vita in mare: Mare Nostrum aveva tra gli obiettivi garantire la salvaguardia della vita in mare; Triton, invece, prevede il controllo delle acque internazionali solo fino a 30 miglia dalle coste italiane e quindi il suo scopo principale è il presidio dei flussi e non il soccorso. Si è passati da un'operazione militare e umanitaria, quale era Mare Nostrum, a una mera operazione di sicurezza in cui si è perso di vista totalmente che quando si ha a che fare con i flussi di migranti si ha a che fare prima di tutto con vite umane, con disperazione, con ricerca di aiuto. Chiudere Mare Nostrum per motivi legati ai soldi è stata un'assoluta vergogna di cui questo governo non si sta prendendo la responsabilità. Emma Bonino, intervistata da Giulia Innocenzi per Servizio Pubblico, ha lanciato l'allarme sui Cie e i Cara - strutture di cui non si capisce bene l'utilità e la finalità, che la stessa Bonino ha definito "delle specie di carceri senza neanche il regolamento carcerario" - e sul sistema d'asilo nel nostro Paese. Chi chiede asilo in Italia poi non può cercare un lavoro qui, alimentando i pregiudizi e il fastidio della popolazione che scambia questa inazione obbligata per ozio e indolenza. L'Italia ha il più basso investimento d'Europa sulle missioni umanitarie all'estero, quindi quella "dell'aiutiamoli a casa loro" in realtà è solo una messa in scena, perché non c'è nessun progetto, nessuna autorevolezza di rapporto con i Paesi africani perché si generi questo tipo di percorso. L'Italia non ha nessuna cooperazione allo sviluppo degna di questo nome e quindi è l'ultimo Paese che può suggerire come soluzione "aiutiamoli a casa loro". La Tunisia ospita 1 milione di libici su 11 milioni di abitanti; la Giordania ospita circa 800mila profughi su 4 milioni di abitanti; il Libano accoglie i milione di migranti su 4 milioni di abitanti. Quindi in Italia il problema non è che ci sono troppi migranti - questa è solo una percezione su cui speculano alcuni partiti, la Lega in primis - ma è in realtà un problema politico, che l'Italia non riesce ad affrontare, con cui le nostre istituzioni non sanno relazionarsi. Le parole di Emma Bonino andrebbero diffuse ovunque in queste ore, ricordando che in Italia non è vero che si prova fastidio verso gli immigrati, si prova fastidio verso gli immigrati poveri, perché i russi o gli arabi ricchi che stanno comprando il nostro Paese, che portano cash, che stanno monopolizzando il nostro mercato immobiliare e non solo, beh, questi immigrati sono tutti ben accolti e si è tutti proni al loro fascino esotico. Immigrazione: quegli schiavi nelle carceri libiche, torturati e venduti dalle guardie di Federico Varese La Stampa, 1 maggio 2015 L'attenzione dei media e della politica europea si è focalizzata sulla tragedia dei migranti che muoiono nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Vi è però un'altra storia che non viene raccontata. Migliaia di persone che tentano di attraversare il Mediterraneo vengono intercettate dalla marina libica e internate in Centri di detenzione dove manca ogni assistenza sanitaria, dove le donne danno alla luce bimbi destinati a morire in pochi giorni e dove gli uomini si ammalano di tubercolosi e di altre malattie infettive. In questi campi di prigionia esiste uno spregevole mercato dei dannati: le guardie carcerarie vendono i detenuti ad aziende libiche. Chi non muore in prigione diventa schiavo. Nel frattempo i fondi per combattere la corruzione, migliorare le condizioni nelle carceri e documentare la tortura in Libia sono stati drasticamente ridotti dall'Unione europea e dalle altre organizzazioni internazionali. Questo è il racconto che ci fa Currun Singh, ventinove anni, responsabile a Tripoli dell'ufficio dell'Organizzazione Mondiale contro la Tortura (Omct). La denuncia Alto, con capelli neri cortissimi, Currun parla attraverso Skype. La sua organizzazione era stata inviata in Libia dalla Ue nel 2012 per documentare gli abusi che avvenivano nelle carceri del nuovo regime. Da allora la situazione è cambiata in maniera drammatica per lui, per i suoi collaboratori e per le vittime. Oggi la sua Onlus ha trasferito il quartier generale a Tunisi per ragioni di sicurezza, ma continua, tra mille difficoltà, la missione in Libia. "Durante le nostre indagini, ci siamo resi conto che il gruppo più a rischio di tortura era proprio quello dei migranti". Migliaia di cittadini stranieri che cercano di attraversare il Mediterraneo vengono catturati dalla guardia costiera e dalla marina libiche. Poche ore dopo l'arresto, vengono trasferiti in centri di detenzione formalmente sotto l'autorità del ministero dell'Interno libico, ma di fatto gestiti da milizie armate. Ufficialmente queste strutture sono 17, ma ne esistono almeno 38. La più famigerata è l'ex zoo di Tripoli, dove rifugiati provenienti dall'Africa subsahariana sono stipati dentro le gabbie per gli animali. "Abbiamo visitato diversi centri di detenzione, sia maschili sia femminili. Le condizioni sono indescrivibili. Non vi è alcun tipo di assistenza medica e le malattie infettive sono diffusissime, soprattutto la tubercolosi. Molti hanno scabbia, emorroidi, e si temeva anche un'epidemia di Ebola. Donne incinta partoriscono bambini che muoiono in fasce oppure sono costretti a vivere in condizioni disumane". Morti sospette Oltre a registrare casi di morti sospette, gli avvocati e gli assistenti sociali guidati da Currun hanno raccolto molte denunce di torture. Frustate, scosse elettriche, sprangate, bruciature da sigaretta sono all'ordine del giorno. "Abbiamo incontrato donne nigeriane, alcune giovanissime, che sono state rapite da trafficanti e costrette a prostituirsi in Libia. Finiscono in prigione quando rimangono incinta e non sono più "produttive". Questi luoghi infernali sono sovraffollati e senza risorse. Poiché non vi è spazio per tutti i rifugiati, le guardie hanno un forte incentivo a liberarsene, ma vogliono anche guadagnarci. "Una notte abbiamo ricevuto una telefonata da un gruppo di detenuti eritrei. Ci avvertivano che alcuni connazionali erano stati prelevati nel mezzo della notte e caricati su un camion verso una destinazione ignota. Abbiamo poi appurato che erano stati venduti". Aziende edili e agricole libiche comprano dalle guardie i prigionieri e li costringono a lavorare senza alcun contratto, anche se a volte promettono loro un passaggio su una chiatta diretta in Italia. Una spregevole economia dello sfruttamento coinvolge trafficanti, guardie carcerarie, gruppi criminali e milizie. Come fermare le violenze Cosa si può fare per interrompere questo ciclo di violenza? Innanzi tutto bisognerebbe far ripartire i programmi di monitoraggio, distribuzione delle medicine e riunificazione familiare per i detenuti, in gran parte rifugiati. "I fondi sono finiti e sto cercando di convincere diverse organizzazioni internazionali a finanziare tali progetti". Uno di questi è costato 10.000 euro, secondo un documento interno che ho potuto leggere. La comunità internazionale deve tornare ad occuparsi della Libia, mentre bombardare le coste avrebbe solo l'effetto di compromettere ogni dialogo con le autorità. La mente di Currun torna alle scene cui ha assistito nei centri di detenzione. Gli chiedo cosa è successo al gruppo di eritrei rapiti nel mezzo della notte. "Qualche tempo dopo mi hanno chiamato al telefono - mi dice. I loro connazionali erano tornati, dopo mesi di lavoro massacrante nei campi. Le promesse di uno stipendio o di un viaggio verso l'Europa non si sono materializzate, mentre il ciclo della violenza è continuato. Altri uomini abili sono stati venduti e altre donne hanno visto i loro figli morire, lontano dalla luce del giorno. Come scrisse un grande poeta inglese, "lunga è quella notte che non vede arrivare il mattino". Droghe: basta tossicodipendenti in carcere, trovare nuove idee conviene a tutti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 1 maggio 2015 Ogni soldo speso nei trattamento della tossicodipendenza riduce di 7 volte la spesa per i reati legati a stupefacenti. Troppi detenuti per motivi legati all'uso delle sostanze stupefacenti e scarsa misura alternativa - che farebbe anche risparmiare lo Stato - per essi. Questo è il quadro dipinto dalla FederSerd, la Federazione dei servizi di tossicodipendenza durante un convengo svolto a Roma nella giornata di ieri. Secondo il presidente di FederSerd, Pietro Fausto D'Egidio "l'Italia è agli ultimi posti in Europa per numero di misure alternative. Secondo i dati della Relazione al Parlamento del 2014 solo circa 2.500 detenuti (cioè circa il 15% degli interi detenuti consumatori di sostanze) hanno potuto usufruire di misure alternative". Spiega sempre D'Egidio che "attualmente circa il 30%, dei quasi 50.000 detenuti, sono consumatori di sostanze e la maggior parte di essi sono in carcere per aver commesso dei reati in qualche modo correlati all'uso di sostanze. Questa percentuale raggiunge circa il 50% fra i detenuti in attesa di giudizio". Il problema è che "in questi anni una serie di condizioni, legate in qualche misura a contesti normativi che andrebbero rivisti, ed a una mancanza di risorse e di investimenti, hanno fatto sì che in carcere siano stabilmente presenti circa 15.000 consumatori dì sostanze, la maggior parte dei quali destinati a ricevere dei trattamenti inadeguati. Sono numeri allarmanti che dovrebbero sollecitare ad apportare modifiche normative". Numeri decisamente allarmanti che la Federazione vuole contribuire ad invertire anche perché le misure alternative farebbero decisamente risparmiare le casse dei contribuenti. "Secondo alcuni studi internazionali - specifica il presidente della FederSerd - è stimato come ogni dollaro speso nei trattamenti in carcere per i detenuti alcol/tossicodipendenti sia capace di diminuire di 7 dollari la spesa legata ai reati connessi con i problemi di alcol/tossicodipendenza". E la riduzione nella spesa legata ai reati commessi dai consumatori di sostanze, raddoppia se i programmi terapeutici consistono nelle cosiddette "misure alternative", cioè nello scontare la pena, per il detenuto alcol-tossicodipendente, in strutture riabilitative esterne al carcere. Il dato vale anche per l'Italia: "I numeri dimostrano che - spiega D'Egidio -mentre il tasso di recidiva nei detenuti che non hanno usufruito di misure alternative è del 68%, quello in coloro che ne hanno usufruito è del 18%". Poi D'Egidio, durante il convegno, specifica : "Le ragioni di questa situazione stanno in una cornice normativa che declina in maniera non scientificamente moderna i criteri per la certificazione di dipendenza, che non permette ai recidivi l'utilizzo delle misure alternative, che non distingue sul piano sanzionarono il consumo delle diverse sostanze, che non permette programmi alternativi per ì soggetti da dipendenza comportamentali e che non mette a disposizione risorse adeguate per programmi alternativi sul territorio. E per queste ragioni che chiediamo con forza una revisione della legge sulle droghe, ormai vecchia di più di 25 anni, ed un adeguamento dell'ordinamento penitenziario ai cambiamenti strutturali che hanno visto finalmente entrare il sistema sanitario nazionale in carcere". Ma il problema che rimane è che ci sono scarse risorse. Il presidente lo racconta : "Assistiamo ormai da anni ad una contrazione delle risorse di personale a fronte di nuovi impegni e nuovi incarichi come per esempio sulle patologie legate al gioco d'azzardo. Il problema è che sappiamo quali sono le azioni da intraprendere ma ci mancano le persone che sono il fulcro nevralgico della nostra attività". E poi c'è anche il problema della frammentazione regionale: "Serve più coordinamento tra i servizi di tossicodipendenza e i tribunali di sorveglianza". D'Egido ricorda anche la situazione critica degli Ospedali psichiatrici giudiziari che sono in via di chiusura: "Nonostante la chiusura i dati sono allarmanti: dei 1.072 internati che erano ristretti negli Opg al 31.12.14, più del 70% sono consumatori problematici di sostanze e di questi solo pochissimi hanno ricevuto dei programmi appropriati e specialistici sul territorio. Nella maggior parte dei casi sono state realizzate solo delle mere revisioni di programma o di attribuzione di presa in carico, quasi mai integrate e strutturate con i Sert". Il presidente quindi conclude con una proposta: "In questo contesto presentiamo oggi la Carta di Roma dei principi etici e scientifici per il trattamento del detenuto consumatore di sostanze. Il documento che è un vero proprio vademecum vuole essere uno sforzo di mettere nero su bianco quei principi fondamentali che dovrebbero guidare l'azione di tutti". Unione europea: elogio a Juncker che ha alzato la voce contro Orbán e la pena di morte di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 1 maggio 2015 E così finalmente l'Europa ci regala almeno un segno di vita politica, un soprassalto di dignità, un sussulto di attenzione e di rispetto per i diritti umani, per la democrazia, di ripudio per i regimi che portano indietro la soglia delle loro libertà. E così il premier ungherese Viktor Orbán, che tra la democrazia e l'autoritarismo putiniano ha dichiarato di preferire quest'ultimo, che ha dato una sterzata antidemocratica all'Ungheria e che voleva infliggere all'Italia (non riuscendoci) l'umiliazione di un ambasciatore antisemita, stavolta deve fare marcia indietro. Aveva annunciato che in Ungheria sarebbe stata reintrodotta la pena di morte, forse confidando sulla solita accidia europea. E invece il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha detto che non se ne parla e che, se l'Ungheria avesse imboccato quella strada, l'Europa avrebbe reagito con forza. Finora il match è stato vinto dall'Europa. Finalmente. Finalmente una voce che non è soltanto una raccomandazione economica, un diktat finanziario, una indicazione di politica monetaria. Ma una voce politica che dice agli Stati membri che la democrazia non è un elastico da maneggiare senza cura e arbitrariamente. Che sui valori non si transige. Che sulla pena di morte bisogna essere intransigenti e bisogna continuare a combattere con gli Stati Uniti perché la aboliscano e perché la pena di morte, usata smodatamente e crudelmente dalle dittature e dalle tirannie, è una macchia indelebile per una democrazia. L'Europa, sinora, era rimasta muta. Di fronte alla devastazione dei diritti umani al di fuori dei suoi confini è stata silente e impotente. Ma anche dentro i suoi confini, purtroppo. Ora l'Ungheria di Orbán dovrà tener conto di un'Europa che sa reagire e che sa difendere i propri valori. Finalmente. Indonesia: appello australiano giustiziato diventa documentario, proiettato nelle scuole Agi, 1 maggio 2015 Qualche mese prima di finire davanti al plotone d'esecuzione, Andrew Chan, uno dei due trafficanti di droga australiani giustiziati mercoledì in Indonesia, scrisse una lettera struggente per mettere in guardia gli adolescenti dal far uso di droghe. La missiva, letta dalla sua cella nel carcere di massima sicurezza dell'isola-prigione di Nusakambangan, è diventato l'elemento attorno a cui ruota un breve documentario, Dear Me, che sarà trasmesso nelle scuole superiori di Australia e Gran Bretagna a scopo educativo. Nella lettera il giovane racconta la sua adolescenza scapestrata, le brutte compagnie, il rapporto conflittuale con genitori e insegnanti, gli episodi di bullismo subiti e l'incontro con la droga, quando non aveva neanche 15 anni. "Il mio è un esempio perfetto di un vita buttata". Insieme al suo compagno, Myuran Sukumaran, Chan fu pizzicato in Indonesia mentre cercava di portare 8,3 chili di eroina in Australia e ha poi trascorso un terzo della sua vita, dieci anni, dietro le sbarre. I due australiani in carcere però avevano avuto un luminoso percorso di crescita interiore: Sukumaran a febbraio era stato ordinato sacerdote e il secondo, che poche ore prima della morte ha sposato la fidanzata, insegnava inglese e arte agli altri detenuti. Il caso continua a fare scalpore. Affranta per la loro "brutale e insensata" morte, un' anziana nonna britannica, Lindsay Sandiford, che potrebbe essere la prossima a finire dinanzi al plotone di esecuzione in Indonesia, ha raccontato - in una dichiarazione diffusa dal suo avvocato Craig Tuck, che i due in carcere si erano "trasformati" e "avevano trasformato la vita delle persone intorno a loro". "La loro brutale e insensata morte lascia il mondo più povero". Chan, "il mio caro amico", come lo chiama la donna, "mi ha consigliato nei momenti più difficili, dopo la mia condanna a morte nel 2013". I due australiani utilizzavano il loro tempo in carcere, per rendere "migliore" la vita per tutti noi: "Avevano organizzato corsi di pittura, lezioni di cucina e computer, e davano un aiuto concreto per assicurarsi che i detenuti piu poveri avessero cibo e vestiti; e che quelli malati avessero accesso al traffico di droga". Sandiford, che sostiene di essere stata incastrata nel traffico di droga, è difesa da un team di avvocati internazionali che adesso, grazie ai fondi che sta raccogliendo la famiglia in Gran Bretagna, tenterà un ricorso presso la Corte Suprema indonesiana; se il suo appello dovesse essere respinto, chiederà la grazia al presidente indonesiano Joko Widodo, che però nel caso dei detenuti giustiziati mercoledì aveva respinto al mittente tutte le richieste. La legislazione antidroga indonesiana è una delle più severe al mondo e il presidente Widodo, che ha fatto della lotta alla droga una battaglia personale, ritiene che l'emergenza è tale da richiedere la pena capitale per i condannati. Stati Uniti: accuse a Ordine psicologi, dopo l'11 settembre cooperò a torture dei detenuti Ansa, 1 maggio 2015 Dopo le stragi dell'11 settembre l'Ordine degli Psicologi americani collaborò segretamente con l'amministrazione Bush per rafforzare le giustificazioni etiche e legali delle torture a cui furono sottoposti prigionieri catturati nella guerra al terrorismo. La denuncia è di un rapporto di psicologi dissidenti e attivisti per i diritti umani ottenuto dal New York Times. Costruito sulla base di messaggi email inediti, il dossier è il primo a stabilire un legame tra l'American Psychological Association e gli interrogatori sotto tortura dei detenuti nelle basi Usa, a Guantanamo e a Abu Ghraib. Sostiene che gli sforzi del gruppo per mantenere psicologi coinvolti nel programma di interrogatori coincisero con quelli dell'amministrazione Bush di salvare il programma dopo la devastante pubblicazione nel 2004 delle foto di abusi nel carcere di Abu Ghraib in Iraq. "L'Apa si coordinò segretamente con funzionari della Cia, della Casa Bianca e del Pentagono per definire giustificazioni etiche degli interrogatori sulla base della sicurezza nazionale che si allineavano con le linee guida legali che autorizzavano le torture da parte della Cia", concludono gli autori del rapporto. Il coinvolgimento degli psicologi è rilevante perché a sua volta aiutò il Dipartimento della Giustizia a argomentare in segreto che il programma era legale e non costituiva tortura dal momento che professionisti della salute supervisionavano le attività degli agenti dell'intelligence. Stati Uniti: da Baltimora a NewYork, così la morte di Freddie Gray incendia l'America di Paolo Mastrolilli La Stampa, 1 maggio 2015 Dilagano le proteste per il 25enne nero morto poco dopo l'arresto. La polizia: voleva farsi male, batteva la testa contro le pareti del furgone. La polizia di Baltimora ha completato e consegnato al procuratore Marilyn Mosby l'inchiesta sulla morte di Freddie Gray, mentre le proteste provocate dal suo decesso quando era in stato di arresto si sono allargate a una mezza dozzina di città, con oltre 140 arresti solo a New York. Gray era stato fermato il 12 aprile scorso, quando la polizia lo aveva bloccato in strada, arrestandolo poi perché gli aveva trovato addosso un coltello a scatto. Gli agenti lo avevano caricato su un van, dove era rimasto per circa 40 minuti. Alla fine del trasferimento era stato portato in ospedale, dove era morto poco dopo, a causa di una lesione alla spina dorsale. Questo episodio ha provocato le proteste violente che hanno sconvolto Baltimora, e dall'inchiesta dipende ora la stabilità della città. Come è stato ferito Gray? I poliziotti lo hanno picchiato? Qualcuno verrà portato davanti alla giustizia? La decisione cruciale sta ora nelle mani di Marilyn Mosby, una procuratrice nera di 35 anni, figlia di poliziotti, che può archiviare la pratica, incriminare qualcuno, o convocare un Grand Jury popolare a cui sottoporre le prove per stabilire se sono stati commessi reati. La magistrata però ha già detto che non si baserà solo sull'inchiesta condotta dalla polizia, e la continuerà con gli strumenti a disposizione del suo ufficio. Il rapporto consegnato ieri è segreto, ma la polizia ha rivelato un particolare finora sconosciuto. Il giorno dell'arresto, gli agenti avevano detto di aver fatto tre soste con il van, prima di arrivare in ospedale. L'inchiesta però ha rivelato che le fermate erano state quattro, e questo pone due problemi. Primo: perché i poliziotti avevano inizialmente nascosto questo stop, scoperto solo grazie all'analisi dei video ripresi dalle telecamere della sicurezza? Secondo: cosa è successo durante questa sosta imprevista? Il rapporto, secondo le indiscrezioni raccolte dal "Washington Post", contiene anche la testimonianza di un altro detenuto, secondo cui Gray durante il viaggio aveva cercato di farsi male, sbattendo la testa sulle pareti del mezzo. Il detenuto era nello stesso van e non poteva vedere Freddie, perché erano separati da un pannello metallico, ma lo avrebbe sentito sbattere. Questo potrebbe significare che si è provocato la lesione da solo, volontariamente, ma l'avvocato della sua famiglia ha smentito. La procuratrice Mosby, anche per allentare la pressione, ha deciso che le conclusioni raccolte dagli investigatori della polizia non sono sufficienti. Quindi cercherà di chiarire meglio i fatti, avviando una propria inchiesta. È una scelta cruciale, perché quando a Ferguson l'agente Darren Wilson non fu incriminato per l'uccisione del diciottenne nero Mike Brown, le proteste riesplosero in tutta l'America. Nel frattempo, però, come era avvenuto ad agosto scorso, le manifestazioni di solidarietà si stanno già moltiplicando in molte città. Mercoledì ci sono state proteste a New York, Denver, Boston, Minneapolis e Washington, ma la tensione sta salendo nell'intero Paese. A New York la manifestazione è cominciata nel tardo pomeriggio a Union Square, ma ha perso presto il carattere pacifico. Alla fine la polizia ha arrestato più di 140 persone, alcune perché avevano aggredito i poliziotti. Brasile: il caso di Cesare Battisti è diventato uno scontro tra politica e magistrati di Omero Ciai Venerdì di Repubblica, 1 maggio 2015 Nonostante ci sia un giudice di Brasilia che ne ha ordinato l'espulsione, il caso di Cesare Battisti sembra ancora lontano da una soluzione definitiva. In un senso o nell'altro. Il giudice, la signora Adverci Mendes, sostiene che, secondo la Costituzione del Brasile, Battisti non può avere la residenza perché ha commesso reati di sangue in Italia e perché entrò nel Paese con un passaporto falso. Il giudice, è qui sta la forza della sua sentenza, non ne chiede l'estradizione, proibita dal decreto presidenziale di Lula del 2010, ma l'espulsione verso uno dei due Paesi nei quali Battisti è stato residente prima di arrivare in Brasile: Messico o Francia. Decisione che non fa una piega, ma andrà sottoposta ad altri tre gradi di giudizio, Tribunale supremo compreso, cui Battisti per la legge brasiliana ha diritto di appellarsi. Sembra evidente che alla fine del mandato presidenziale, cinque anni fa, respingendo la richiesta italiana di estradizione, Lula e i suoi consiglieri giuridici hanno combinato un gran pastrocchio, soprattutto per quel passaporto falso, grimaldello rimasto appeso per aria, che ora il giudice utilizza nella sua sentenza. E nello scenario bisogna ricordare che gran parte della magistratura brasiliana non ha mai accettato il modo in cui sì concluse temporaneamente il caso dopo che il Tribunale supremo, massimo organo giuridico del Paese, aveva sentenziato per l'estradizione, lasciando formalmente l'ultima parola al presidente per evitare un conflitto dì poteri. All'inizio del 2011, grazie al decreto presidenziale, Cesare Battisti ha ottenuto un permesso permanente di residenza in Brasile. Poi ha avuto anche un lavoro, più o meno inventato, presso la sede del sindacato vicino al Pt, il partito di Lula, a San Paolo, Ma ora che il clima è cambiato, c'è aria di vendetta da parte della magistratura. La rete degli "amici" brasiliani dell'ex terrorista ha perso egemonia: Eduardo Suplicy, il senatore che lo aveva protetto e aiutato, ha perso il suo seggio e si è riciclato come assessore ai diritti umani nel governo comunale di San Paolo; Tarso Genro, l'ex ministro di giustizia che gli concesse l'asilo politico, ha perso le elezioni a governatore dello Stato di Porto Alegre; Dilma Rousseff, presidente in carica, disse a suo tempo che se la decisione fosse stata nelle sue mani avrebbe concesso l'estradizione; e, infine, l'ex presidente Lula, con l'esplosione dello scandalo dei fondi neri di Petrobras, l'holding petrolifera, ha ben altro a cui pensare. Intorno alla possibilità che si possa capovolgere un decreto presidenziale in Brasile la discussione è aperta. C'è chi sostiene che la concessione della residenza discende automaticamente dalla decisione presidenziale e chi, al contrario, che una cosa è la "non estradizione" verso l'Italia e un'altra il diritto a risiedere nel Paese. Così l'ultima battaglia è servita. A risolverla sarà con ogni probabilità il Tribunale supremo. Ma chissà quando. Moldavia: ratificato l'accordo con la Bielorussa sul trasferimento dei detenuti Il Velino, 1 maggio 2015 Attualmente 16 cittadini moldavi stanno scontando pene nelle carceri bielorusse, mentre non ci sono cittadini della Bielorussia che stanno scontando pene detentive in quel paese. Il Parlamento moldavo ha ratificato l'accordo tra la Bielorussia e la Moldavia sul trasferimento delle persone imprigionate in modo che possano scontare il resto della loro pena nel paese di origine. Il documento è stato firmato a Chisinau il 24 settembre 2014 in occasione della visita ufficiale del presidente bielorusso Alexander Lukashenko e ha lo scopo di rafforzare la cooperazione tra Moldova e Bielorussia. È stato firmato dal ministro degli interni della Bielorussia Igor Shunevich e dall'allora ministro della Giustizia moldavo, Oleg Efrim. La firma dell'accordo si è resa necessaria dal momento che la Bielorussia non è parte contraente della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate adottata a Strasburgo nel 1983, ratificata dalla Moldavia nel 2004. Il documento ha lo scopo di garantire il rispetto dei diritti dei condannati. L'accordo prevede che un cittadino di uno dei due paesi che ha commesso un reato nel territorio di uno Stato può essere trasferito dopo la condanna. Il trasferimento può arrivare sulla base di una richiesta della persona condannata, della sua famiglia, del suo rappresentante legale o di un avvocato. Attualmente 16 cittadini della Moldavia stanno scontando pene nelle carceri bielorusse, mentre non ci sono cittadini della Bielorussia che stanno scontando pene detentive in quel paese. Pakistan: giustizia (solo) per Malala, condannati all'ergastolo i 10 attentatori islamisti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 1 maggio 2015 Sono stati condannati all'ergastolo da un tribunale di Mingore dieci miliziani islamisti che il 9 ottobre del 2012 tentarono di uccidere Malala Yousufzay, la studentessa che, ferita con due compagne all'uscita di scuola, si è salvata per miracolo sollevando un'ondata di sdegno nel mondo che le ha poi fatto avere il Nobel. La polizia pachistana aveva arrestato in settembre i dieci militanti del Ttp, i talebani del Pakistan che decisero l'uccisione della quindicenne che simboleggiava il diritto allo studio dopo un ordine di mullah Fazlullah, sanguinario comandante noto come "mullah Radio". Il giudice Amin Kundi li ha riconosciuti tutti colpevoli (la polizia ha trovato anche le armi) condannandoli alla prigionia più lunga in Pakistan (25 anni). Ma se la giustizia fa in parte il suo corso (Fazlullah è latitante) un sondaggio su un recentissimo caso - l'assassinio pochi giorni fa a Karachi dell'attivista Sabeen Mahmud - rivela il grado di sfiducia dei pachistani: quasi l'80% ritiene infatti che Sabeen di giustizia non ne avrà. Raggiunta nella macchina dove viaggiava con la madre all'uscita di un dibattito nel Belucistan organizzato da T2F, un centro culturale di cui era l'animatrice, Sabeen è stata giustiziata da due motociclisti venerdì 24 aprile con quattro pallottole (la madre è salva). Le autorità di polizia ha confermato che di attentato omicida si è trattato. T2F è una storia di successo a Karachi: con mostre, incontri e dibattiti, è un centro vivace della cultura cittadina. Ma quello di Sabeen non è l'unico caso. Tra gli omicidi recenti, qualche giorno dopo la morte di Sabeen, Syed Wahidur Rahman, docente della Università di Karachi. La colpa? Essere sciita. Così come l'avvocato Ali Hasnain Bukhari, lui pure sciita e attivista del Muttahida Qaumi Movement (Mqm), Stessa tecnica e stessa colpa, oppure quella di essere il legale di un movimento rivale. Ma a far le spese della violenza politica, islamista o settaria ci sono anche professori di diritto islamico: è il caso di Shakeel Auj, rettore della stessa università di Syed ucciso nel settembre del 2014 mentre stava andando al consolato iraniano. Per la polizia una madrasa di Karachi aveva emesso una fatwa contro di lui per blasfemia. Colpevoli e mandanti sono rimasti impuniti.