Al via gli Stati Generali sull'esecuzione delle pene. Ma c'è posto per le persone detenute? di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2015 Quando ho ricevuto l'invito del Ministro Orlando ad assistere alla presentazione degli Stati Generali sull'esecuzione delle pene, che si svolgerà a Bollate il 19 maggio, nella cornice di Expo, mi è venuto in mente il protagonista di Ecce Bombo di Nanni Moretti con la sua domanda fatale: "Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?". In realtà, Ristretti Orizzonti pone con forza il problema di cosa devono fare le persone detenute per "farsi notare", e per far capire che in questi Stati Generali vogliono avere un ruolo, e non marginale. Gli Stati Generali saranno presentati nella cornice di Expo. Io non ho nessun tipo di pregiudizio rispetto alla vetrina di Expo, ma penso anche che quel contesto non sia molto significativo per fare da contorno a una situazione carceraria, che mantiene troppi aspetti drammatici, e ancora è troppo lontana dal rispetto della legalità. Noi di Ristretti Orizzonti abbiamo a lungo chiesto al ministro Orlando di portare parte degli Stati Generali nella Casa di reclusione di Padova: lo abbiamo fatto non perché sottovalutiamo il ruolo che possono avere "i tecnici" nell'elaborazione di una riforma dell'Ordinamento Penitenziario, ma perché pensiamo che, dopo la commissione Palma, la commissione Palazzo, la commissione Giostra, che hanno lavorato proficuamente e prodotto risultati significativi, dopo migliaia di convegni sui "temi caldi" dell'esecuzione della pena, fosse giunto il momento di dare un ruolo nuovo alle persone detenute, di aprirsi al confronto e all'ascolto loro e dei loro famigliari. Ma non abbiamo voglia di un ascolto "pietoso", e nemmeno che tutti gli Stati Generali, organizzati con tavoli di studio, propongano, tra le tante voci da sentire, anche una specie di "audizione" dei detenuti. Il Ministro ha affermato che tutti sono chiamati "ad un immane lavoro giuridico, ma prima ancora ad una sfida culturale, che richiede maturità e sensibilità, e che potrà essere vinta solo se vissuta da tutti con spirito propositivo". Ma la sfida culturale vera non sarebbe finalmente di avere il coraggio di riconoscere alle persone detenute la dignità di essere davvero protagonisti di una grande consultazione che riguarda prima di tutto le loro vite, il loro futuro, il futuro delle loro famiglie? E di accettare che Ristretti Orizzonti sia un interlocutore "diverso", perché unisce la competenza e la capacità di approfondimento acquisite in anni di informazione dal carcere alla conoscenza diretta della realtà carceraria che solo chi è detenuto può avere? La pena "rabbiosa" e la pena "riflessiva" Quando in redazione parliamo del senso della pena, e di quanto sarebbe fondamentale partire dalla dignità delle persone detenute, e smetterla di considerarle destinatarie di "benefici" e non di diritti, ogni tanto mi ricordo che da piccola avevo un gioco che si chiamava "Non t'arrabbiare" e sembrava fatto apposta per far incazzare i giocatori. A volte ho l'impressione che il carcere sia esattamente questo: dovrebbe insegnare alle persone, che hanno commesso reati spesso violenti, e comunque non hanno rispettato le vite degli altri, a controllare la rabbia, a dare un taglio all'aggressività, a vedere la realtà con lo sguardo di chi ha subito i loro reati, e invece finisce per moltiplicare la loro rabbia e giustificare la loro irresponsabilità. Ma se in tutti questi anni le Istituzioni ci sono riuscite così poco, a trasformare la "pena rabbiosa" in una "pena riflessiva", non sarebbe finalmente ora di provare ad ascoltare dalle persone detenute gli effetti che gli ha fatto per anni un certo modo di scontare la pena, e le prospettive che si aprono quando la pena invece è mite, sensata, per lo meno non dannosa e non vendicativa? Questo carcere che dovrebbe assomigliare sempre più a un luogo di cultura e istruzione, e invece è ancora così spesso una "scuola di criminalità", non è forse una colossale sconfitta per la società, e un investimento insensato su un fallimento certo? Parlare alla società Ha dichiarato di recente il Ministro "Gli interventi che metteremo in campo dovranno saper coinvolgere l'intera società. Un tema complesso in una società in crisi, il tema dei "diritti difficili", che sono la misura della civiltà di un sistema giuridico". Ma come pensano i tecnici, gli esperti, gli addetti ai lavori di riuscire a parlare alla testa e al cuore di tanti cittadini impauriti e rabbiosi? A Ristretti Orizzonti abbiamo imparato a farlo, versando "lacrime e sangue" per dieci anni e più in un progetto di confronto con le scuole, affrontando ogni giorno incontri nelle classi con persone detenute in permesso, e portando poi gli studenti anche in carcere. Incontri dove niente è facile, perché si parla della giustizia e delle pene a partire dalle storie personali: storie di persone "regolari" che mai avrebbero immaginato di passare dall'altra parte, da quella dei "delinquenti", o storie di persone che hanno fatto la scelta di vivere nell'illegalità. E così chi è detenuto impara a "guardarsi" con gli occhi della società, a rispondere a domande anche severe, a rivedere la sua vita facendo finalmente i conti con la responsabilità delle sue scelte e dei suoi comportamenti. È presunzione pensare che potremmo insegnare qualcosa nel campo della comunicazione, noi che da anni riusciamo a raccontare il carcere in modo sobrio e attento? che non abbiamo paura, pur essendo un giornale fatto da detenuti, di coinvolgere nei nostri progetti tante vittime? che parliamo da anni con migliaia di studenti, ma anche con tanti genitori? che siamo diventati "formatori" di centinaia di giornalisti, per i quali organizziamo ogni anno in carcere seminari di formazione sull'esecuzione della pena, in cui mettiamo insieme a insegnare i "tecnici" con gli esperti di galera vera? La palude del regime del 41 bis e dei circuiti di Alta Sicurezza Se poi pensiamo, e noi lo pensiamo, che gli addetti ai lavori abbiano la tentazione, in questi Stati Generali, di "scansare" i temi caldi e impopolari del 41 bis e dell'Alta Sicurezza, è perché abbiamo le nostre buone ragioni: quando si è deciso di chiudere le sezioni di Alta Sicurezza di Padova, a NESSUNO pare sia venuto in mente di vedere davvero se tanti di quei detenuti, dopo anni di permanenza in quei circuiti, potevano essere declassificati, anzi no, su cento detenuti sono state fatte due declassificazioni, e tutti gli altri sono stati "imballati" e preparati per essere spediti in giro per l'Italia. Se però si "scoperchia la pentola" delle vite degli uomini etichettati come "i mafiosi", si scopre che rischiano di restare confinati per sempre nei loro ghetti perché a nessuno interessa tirarli fuori da lì, nessuno vuole investire sul loro cambiamento, sul loro distacco reale dalle organizzazioni criminali di cui hanno fatto parte. A Ristretti abbiamo invece accettato la sfida, e siamo andati anche a "leggere le carte". E abbiamo scoperto che da anni si tengono le persone chiuse in Alta Sicurezza e non si fanno quasi declassificazioni perché fa comodo accettare le formule stereotipate di certe Direzioni Antimafia per cui "non si possono escludere collegamenti con le organizzazioni criminali", fa comodo mantenere lo stato di cose presente quando si parla di detenuti che hanno fatto parte della criminalità organizzata. Per un po', forti della nostra esperienza di confronto fianco a fianco in redazione tra detenuti delle sezioni di Media Sicurezza e detenuti dell'Alta Sicurezza1, pensavamo che il problema fosse garantire anche in AS gli stessi livelli di attività, istruzione, lavoro, responsabilizzazione che dovrebbero esserci per i detenuti comuni. Ma invece no, invece vorremmo che gli Stati Generali fossero più radicali nel porre fine a queste permanenze di anni in Alta Sicurezza e nel rimettere in discussione anche il 41 bis. E lo facessero avendo il coraggio di ascoltare i racconti di figli e detenuti, e poi di domandarsi se non si possa prefigurare, per quel regime, il reato di tortura. Per finire, gentile ministro Orlando, non abbiamo ricevuto ancora nessuna risposta al nostro invito a dare spazio all'esperienza di Ristretti Orizzonti in questi Stati Generali, anche se siamo stati i primi e più insistenti sostenitori della necessità di parlare di esecuzione della pena in modo nuovo, ma immaginavamo che questo significasse dare un ruolo centrale nel dibattito alle persone detenute. Saranno loro la grande novità degli Stati Generali, oppure ancora una volta sarà "qualcun altro" a decidere del loro destino? P.S. Se il Ministro o qualcuno incaricato da lui vuole avere un'idea di cosa significa coinvolgere le persone detenute in una grande discussione collettiva con la società, venga il 22 maggio nella Casa di reclusione di Padova alla Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza". Giustizia: a Bollate giornata di presentazione degli Stati generali del carcere Luca Fazio Il Manifesto, 19 maggio 2015 Giustizia. Alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, giornata di presentazione degli Stati generali dell'esecuzione penale, un percorso semestrale di riflessione e approfondimento sulle tematiche legate al carcere per arrivare in autunno all'elaborazione di un progetto di riforma I problemi e i limiti del sistema penitenziario italiano sono noti. Soprattutto agli addetti ai lavori, che spesso però si ritrovano soli ogniqualvolta cercano di dare voce a coloro che vivono il carcere da dentro. Si fanno convegni, si redigono rapporti. Non basta più. Non è facile restituire ai cittadini l'immagine di una situazione che è sempre più drammatica, nonostante un lieve calo della popolazione carceraria (i detenuti in Italia sono circa 53.982 mentre i posti letto sono 49.943, quindi ci sono 108 persone ogni 100 posti letto). Ma i numeri non dicono tutto. Ancora più difficile, infatti, studiare soluzioni e stimolare confronti cercando di coinvolgere la collettività per invitarla a ragionare su un progetto di riforma del sistema penale che consenta se non altro la semplice applicazione dei principi costituzionali (e magari permetta all'Italia di evitare altre condanne dalla Corte europea dei diritti dell'uomo). Un tentativo, forse il più serio e collegiale mai tentato prima, prenderà il via questa mattina all'interno del carcere di Bollate (Milano) con gli "Stati generali dell'esecuzione penale", un appuntamento preparato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha già coinvolto diverse personalità del mondo della cultura, della magistratura, del volontariato, della politica e dell'amministrazione penitenziaria. Non si tratta di un convegno, è la presentazione di un lungo percorso di riflessione e approfondimento che durerà sei mesi con l'obiettivo di arrivare al prossimo autunno all'elaborazione di un progetto di riforma dell'ordinamento penitenziario. Le finalità di uno sforzo così prolungato sono molteplici. Raccogliere materiali, elaborare proposte, porre la questione delle pene e della loro esecuzione al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica, vincere le paure veicolate dal discorso "sicuritario", puntare sull'effettiva possibilità di recupero sociale del condannato, pensare a pene alternative praticabili. E ancora: portare all'interno del carcere il contributo di chi vive "fuori" e può dare tantissimo in termini di cultura, di formazione professionale e di accompagnamento al graduale reinserimento del detenuto. Si tratta di una consultazione ampia e complessa che si svilupperà intorno a 18 tavoli di lavoro aperti a tutti, per una volta anche ai detenuti. Ogni tavolo tratterà un aspetto tematico e verrà coordinato da un "facilitatore" della discussione. L'idea è di mettere a confronto punti di vista anche diversi tra loro. I temi sono questi: architettura e carcere, la vita e la responsabilizzazione del detenuto, donne e carcere, vulnerabilità e dipendenze, minorenni autori di reato, il mondo degli affetti e la territorializzazione della pena, stranieri, lavoro e formazione, istruzione e sport, salute e disagio psichico, misure di sicurezza, sanzioni all'interno della comunità, mediazione e tutela delle vittime dei reati, regole internazionali, formazione degli operatori penitenziari, ostacoli normativi al trattamento rieducativo, processo di reinserimento, organizzazione e amministrazione dell'esecuzione penale. Questa mattina, nel carcere di Bollate, la giornata di presentazione degli Stati generali comincerà con l'esposizione di alcuni teli realizzati dai detenuti in collaborazione con l'Accademia di Brera (e con Dario Fo). A seguire proiezione di una parte del documentario "Ombre della sera" di Valentina Esposito. Insieme al ministro Orlando, partecipano il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, il giurista e filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, la giornalista e scrittrice Marcelle Padovani, l'attrice Valentina Lodovini, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il capo dell'amministrazione penitenziaria Santi Consolo e il presidente del Comitato scientifico degli Stati generali Glauco Giostra. L'ex presidente Giorgio Napolitano, invece, invierà un messaggio. Giustizia: sulle carceri due piccoli passi nella giusta direzione di Luigi Manconi e Stefano Anastasia Il Manifesto, 19 maggio 2015 Stati generali dell'esecuzione penale a Bollate. Bimbi detenuti con le madri e reclusi per l'illegittima Fini-Giovanardi, si può risolvere a leggi invariate. Qualsiasi cosa voglia dire questo recupero del vocabolario della Francia rivoluzionaria, sembra impegnativo il proposito del ministro Andrea Orlando di mettere in cantiere gli "Stati generali dell'esecuzione penale". Un progetto che debutta oggi nel carcere milanese di Bollate (forse, ahinoi, l'unico istituto "riformato" dell'intero territorio nazionale). Grazie alla costante sollecitazione del presidente Giorgio Napolitano e all'importante impegno dell'attuale ministro e del suo predecessore Annamaria Cancellieri, dei Radicali e dell'associazionismo, l'Italia è uscita - seppure non definitivamente - dal cono d'ombra della condanna europea per il sovraffollamento sistematico delle nostre prigioni. I 54mila detenuti di oggi non sono pochi, ma non sono i 68mila di qualche anno fa, e in carcere gli spazi e le risorse cominciano a essere meno drammaticamente sproporzionate alle necessità della popolazione detenuta, di quanto fossero fino a ieri. Purtroppo, però, le buone notizie si fermano qui. Nelle smagliature della rete territoriale di accoglienza, grande incertezza aleggia ancora intorno alla sorte dei ricoverati negli ex-ospedali psichiatrici giudiziari e intorno al destino dei futuri internati. Intanto, interrottasi la pressione dell'Europa, si è arrestata la diminuzione della popolazione detenuta. Ne discendono due temi assai rilevanti per gli Stati generali: con gli ospedali psichiatrici giudiziari in via di smantellamento, non sarà il caso di rivedere complessivamente i criteri di responsabilità penale e le misure di sicurezza, prima che le nuove Residenze regionali si trasformino in piccoli luoghi di più "decoroso" degrado umano? E, una volta ridotta la popolazione detenuta attraverso il contenimento della custodia cautelare, non si dovrebbero adottare misure straordinarie di riduzione delle pene in esecuzione? Di conseguenza, non è forse il momento di intervenire sulle politiche di criminalizzazione della marginalità sociale? Sono proprio quest'ultime, infatti, che hanno causato in passato l'esplosione del sistema penitenziario e ridotto drasticamente il ricorso ordinario alle misure alternative come modalità di esecuzione delle pene. Siamo certi che non mancheranno contributi in questa direzione, tra i molti che sono stati sollecitati nell'ambito degli Stati generali; e siamo certi che il ministro Orlando vorrà prenderli in seria considerazione per migliorare e affinare la sua proposta di riforma del sistema penale e penitenziario già all'esame delle Camere. Ma le grandi riforme camminano su piccoli passi, e allora ci permettiamo di proporre all'ordine del giorno degli Stati generali e della quotidiana azione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria due piccole cose, risolvibili anche a legislazione vigente, che darebbero il segno di quel cambiamento di mentalità non più differibile. A dispetto di due successive leggi dello stato, sono ancora decine i bambini ristretti in carcere con le loro madri. L'individuazione delle case-famiglia esterne al circuito penitenziario e delle altre modalità cautelari o esecutive della pena fuori dalle ordinarie sezioni detentive continua a rilento, come se la limitatezza dei numeri giustificasse quelle detenzioni ingiustificabili e innaturali. D'altro canto, nonostante due autorevoli pronunciamenti della Corte di cassazione, non abbiamo più notizie dei detenuti condannati in via definitiva per fatti di droghe che avrebbero potuto beneficiare della riduzione di pena conseguente all'abolizione della legge Fini-Giovanardi. Un anno fa il ministro Orlando, rispondendo a un'interrogazione parlamentare, diceva che poteva trattarsi di circa tremila persone. Che fine hanno fatto? Sono stati tutti scarcerati per fine pena? Ne hanno ottenuto la riduzione o alcuni sono ancora in esecuzione di condanne dichiarate illegittime? Anche qui, sappiamo perfettamente che a più di un anno dalla decisione della Corte costituzionale i numeri possono essersi di molto ridotti, ma se anche fossero mille, cento, dieci o uno solo, è moralmente accettabile la detenzione di una persona sulla base di una sentenza illegittima? Ecco, se gli Stati generali dell'esecuzione penale, insieme a molti buoni propositi e a progetti realizzabili in tempi non biblici, mettessero all'ordine del giorno questi due provvedimenti e li approvassero e applicassero entro termini accettabili (sei mesi sono sufficienti, se c'è la buona volontà), queste assise della giustizia penale, saranno state proficue. Giustizia: lo scandalo dei bambini in cella, una delle più grandi vergogne italiane di Errico Novi Il Garantista, 19 maggio 2015 Basterebbe poco per trasformare le nostre carceri da un labirinto pieno di angoli bui a un sistema rispettoso della dignità. Un esempio, tra i più chiari e più urgenti da risolvere, è ad esempio la condizione dei minori, anzi dei neonati detenuti. "Ce ne sono almeno una quarantina", segnala Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama. Proprio il senatore si è fatto promotore di un intenso "pressing" nei confronti del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, con un obiettivo: fare in modo che ai bimbi con meno di 3 anni non capiti mai, e mai più, di trascorrere i primi mesi di vita dentro una cella. "È già previsto dalla legge - spiega Manconi - che debbano esserci case famiglia protette per madri e figli minori. Ma ritardi amministrativi, intoppi burocratici, indifferenza istituzionale hanno impedito la cancellazione di una iniquità oltraggiosa". Basta poco. Almeno in apparenza. Quel tanto che consentirebbe di trasformare le nostre carceri da un labirinto pieno di angoli bui a un sistema rispettoso della dignità. Un esempio, tra i più chiari e più urgenti da risolvere, è la condizione dei minori, anzi dei neonati detenuti. E sì, ce ne sono "Almeno una quarantina", segnala Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama. Proprio il senatore si è fatto promotore di un intenso "pressing" nei confronti del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, con un obiettivo: fare in modo che ai bimbi con meno di 3 anni non capiti mai, e mai più, di trascorrere i primi mesi di vita dentro una cella. Il "basta poco", la filosofia con cui Manconi si spende per questa specifica e particolare causa -al pari delle molte altre che, va detto, difende dentro e fuori il sistema carcerario - è in fondo anche lo spirito buono che aleggia sugli "Stati generali dell'esecuzione penale", il "percorso semestrale di riflessione e approfondimento sulle tematiche legate al carcere per arrivare nel prossimo autunno all'elaborazione di un articolato progetto di riforma", come si legge nella nota di Via Arenula. L'iniziativa voluta dal guardasigilli e dal capo del Dap Santi Consolo sarà presentata questa mattina alle 10, al presso la Casa di reclusione di Milano Bollate. Nelle molte sessioni che da qui in poi verranno organizzate si affronteranno tutti i temi forti richiamati appunto da una possibile riforma dì sistema. Certo è che un caso molto particolare come quello dei neonati in cella non avrebbe neppure bisogno di vedersi intestato un dibattito. "La necessità di risolverlo è chiarissima tanto più che non si tratta di introdurre nuove previsioni normative: quelle già ci sono", spiega Manconi, "è già previsto dalla legge che debbano esserci case famiglia protette per madri e figli minori. Ma ritardi amministrativi, intoppi burocratici, indifferenza istituzionale hanno impedito finora la cancellazione di una iniquità più oltraggiosa di tutte le altre iniquità che rivela il nostro sistema penitenziario". Il ministro della Giustizia ha oggettivamente impresso una svolta alla propria politica sulle carceri: lo dimostra la stessa convocazione degli "Stati generali", come pure la tenacia con cui Orlando insiste sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari nonostante la resistenza delle Regioni. Non ha potuto sottrarsi dunque all'appello del senatore Manconi: "Il guardasigilli si è impegnato a fare della drammatica questione una priorità del suo programma", ricorda ancora il presidente della commissioni Diritti umani, "i primi segnali positivi già sì manifestano: a Roma, grazie all'opera instancabile dell'assessore ai Servizi sociali Francesca Danese, un accordo tra tribunale, Comune e Dap permetterà di accogliere le detenute con figli in una casa famiglia protetta, ricavata da due palazzine dell'Eur sottratte alla criminalità organizzata. Un buon inizio". Sarà questa la strada da far seguire in tutta Italia: "In media, ogni anno, e da tre lustri, una quarantina di minori con meno di 3 anni si trovano detenuti con le proprie madri: la gran parte nelle celle e nei reparti ordinari dei nostri istituti penitenziari, con quali rovinosi effetti sullo sviluppo psicologico di quei bambini, non è difficile immaginare". Si supererà anche questo. Forse non ci sarà bisogno di convocare una serie di incontri all'interno degli "Stati generali", appunto. Ma magari, evocare la questione qua e là nel corso dei lavori, tanto per ricordare che a volte basta poco per rendere le carceri più umane, servirà come segnale di speranza. Giustizia: Iori (Pd); arrivano i docenti ruolo in carcere, potenziata offerta educativa 9Colonne, 19 maggio 2015 "Il disegno di legge per la riforma della scuola contiene un'importante novità sul fronte dell'insegnamento destinato ai detenuti nelle carceri: arriveranno, infatti, per la prima volta, docenti di ruolo per la scuola primaria in possesso di un titolo specifico di specializzazione". Lo dichiara, in una nota, la deputata del Pd, membro della commissione Giustizia e responsabile nazionale del Pd per l'infanzia e l'adolescenza, Vanna Iori. "Con questa norma - sottolinea Iori - l'offerta educativa risulterà potenziata in termini qualitativi, rafforzando una concezione rieducativa della pena e del carcere come un luogo non solo di detenzione, ma, al contrario, soprattutto come un ambiente di riabilitazione per i detenuti". "Il ddl scuola prevede che per l'insegnamento presso gli istituti penitenziari sarà istituito un ruolo speciale, al quale possono accedere i docenti in possesso dei requisiti prescritti per la partecipazione ai concorsi per la scuola primaria", aggiunge la deputata del Pd. "Inoltre - prosegue Iori - i docenti del ruolo speciale delle scuole primarie presso gli istituti penitenziari saranno incardinati nei centri provinciali d'istruzione per gli adulti". "Il potenziamento dell'offerta scolastica all'interno delle carceri avrà anche un importante effetto deterrente sul fronte della recidiva: la strada della riabilitazione del detenuto passa anche e soprattutto dalla conoscenza e dall'apprendimento", conclude la responsabile nazionale del partito per l'infanzia e l'adolescenza. Giustizia: media e processi, servono nuove regole di Francesco Cerisano Italia Oggi, 19 maggio 2015 Dalla competenza territoriale (che deve essere certa in modo che il giudice competente a decidere di un processo sia chiaro e indiscutibile da subito) ai tempi di prescrizione passando per il sempre discusso rapporto tra giustizia e informazione. Per il codice di procedura penale sembra essere arrivato il momento del restyling. Una revisione che dovrà rafforzare l'impianto del codice di rito colmandone alcuni profili di fragilità forieri di lungaggini processuali, gogne mediatiche e incertezze per l'attesa di giustizia reclamata dall'opinione pubblica. Perché se è vero che i tempi dei processi non possono essere gli stessi dei media, né tantomeno quelli attesi dalle imprese, è altrettanto innegabile che "vada fatto di tutto perché questi tempi non siano eccessivamente divergenti tra loro". L'esigenza di rimettere mano al codice è stata riconosciuta da più parti. Dal presidente della Corte d'appello di Milano Giovanni Canzio, al capo della procura meneghina, Edmondo Bruti Liberati, fino al padre del codice del 1989, il professore Ennio Amodio. L'occasione è stata il convegno organizzato dal circolo della stampa di Milano che ha riunito attorno allo stesso tavolo autorevoli esponenti del mondo della comunicazione (su tutti Rosanna D'Antona presidente di Havas Pr Milan e Antonio Calabrò, consigliere di Assolombarda per la legalità e la responsabilità sociale d'impresa) e operatori del diritto per rispondere a interrogativi sempre d'attualità: come conciliare la "spettacolarizzazione" di inchieste e processi con il diritto alla difesa e alla presunzione di innocenza? E come tutelare la reputazione di imprese e aziende, spesso condannate mediaticamente e poi assolte nelle aule giudiziarie? Apparentemente si tratta di interessi inconciliabili perché è inevitabile che l'attenzione dei media sia più alta nella fase investigativa (quando la competizione tra testate alimenta il rincorrersi delle anticipazioni) e meno nella fase processuale. Ma qualche punto di incontro si può trovare. Come? Per esempio realizzando nelle procure strutture destinate alla comunicazione e ai rapporti con i media. Oggi tutto è accentrato nella mani del procuratore capo, ma all'estero, per esempio in Francia, non è così e vi sono magistrati che a tempo pieno svolgono il ruolo di intermediazione con la stampa. In Italia, invece, iniziative di questo genere hanno avuto un'accoglienza tiepida. "Il Csm e la Scuola di magistratura hanno organizzato corsi di comunicazione per le toghe, ma la cosa è stata vista male da qualcuno", ha sottolineato Bruti Liberati, secondo cui invece una struttura comunicativa ad hoc nelle procure consentirebbe di rispondere alle esigenze informative della stampa, realizzando una pax tra testate concorrenti che dunque non avrebbero più interesse a farsi la guerra a colpi di scoop. E i giudici inquirenti dal canto loro "smetterebbero di consolidare rapporti privilegiati con i giornalisti". Sulla necessità di intervenire per regolamentare le relazioni tra pm e stampa ha concordato anche Giovanni Canzio che ha puntato l'indice sulla spettacolarizzazione delle inchieste da parte di certi magistrati "spesso interessati alla costruzione di una propria immagine mediatica spesso propedeutica a una discesa in campo politica". "Dal punto di vista mediatico quello che interessa è la costruzione dell'ipotesi investigativa, mentre invece al centro dovrebbe esserci l'accertamento delle responsabilità all'interno del processo di cognizione". È quella "delocalizzazione", come la chiama il professor Amodio, che porta a realizzare una "presunzione di colpevolezza" in grado di travolgere la vita personale e professionale dell'indagato, ma ancor più grave quando ci sono in gioco gli interessi delle imprese, spesso costrette "ad allontanare talenti o a rivedere il rapporto con la clientela". "Per riequilibrare i pesi tra giustizia e informazione", ha osservato D'Antona, "è più che mai indispensabile una gestione strategica dei processi di comunicazione nel corso di una controversia legale". Gli anglosassoni, che hanno coniato questa particolare tipologia di pubbliche relazioni con l'obiettivo di sostenere le tesi difensive e la salvaguardia della reputazione della parte, la chiamano "litigation pr". Ma per attenuare gli effetti deleteri sulle imprese c'è bisogno, come auspicato da Antonio Calabrò, di una giustizia "efficiente ed efficace" in grado di ridurre il più possibile il "pregiudizio mediatico" che mina la reputazione delle imprese coinvolte in inchieste giudiziarie. Accorciare ulteriormente i tempi di prescrizione? Per il presidente della Corte d'appello di Milano, non serve. "Non è attraverso il taglio della prescrizione che si risponde alle richieste dei cittadini e delle imprese di avere un giudizio rapido, quanto piuttosto attraverso l'efficientamento della macchina processuale", ha osservato Canzio che ha espresso apprezzamento per la riforma, approvata a marzo dalla camera e ora in discussione al senato, che sospende la prescrizione per due anni dal deposito della sentenza di condanna di primo grado sino alla sentenza d'appello e per un anno dal deposito della sentenza di secondo grado sino alla pronuncia della sentenza definitiva. Giustizia: riforma delle intercettazioni, il governo accelera sul giro di vite di Alberto Gentili Il Messaggero, 19 maggio 2015 La bocciatura al Csm della legge anticorruzione fa infuriare il premier. Verso lo stralcio degli ascolti dalla riforma del processo penale, subito dopo le regionali. L'indicazione era di affrontare lo scoglio insieme alla riforma del processo penale. Ma Matteo Renzi, a sorpresa, ha deciso di accelerare. E tale è la voglia del premier mettere le nuove norme sulle intercettazioni nero su bianco, che è circolata la voce di un blitz al prossimo Consiglio dei ministri. Ma sembra prevalere la linea di affrontare la questione dopo le elezioni regionali, quando verranno stralciate dalla riforma del processo penale le nuove regole sugli ascolti. Così come chiede da tempo il Ncd di Angelino Alfano. A spingere Renzi a rompere gli indugi, racconta chi frequenta palazzo Chigi, è stato venerdì scorso l'intervento a gamba tesa della VI commissione del Csm che ha bocciato la legge anti-corruzione. Un giudizio pesante ("provvedimento disorganico e insufficiente") che ha fatto infuriare il premier. Tanto più perché il testo della legge sarebbe stato scritto sulla base delle osservazioni di numerosi magistrati. Tant'è che David Ermini, responsabile giustizia del Pd, venerdì ha messo a verbale: "Sono sorpreso e sconcertato, il giudizio è incomprensibile e va in senso contrario a quello espresso da magistrati in prima linea come Cantone e Greco". E il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, è corso a gettare acqua sul fuoco: "La proposta della Commissione deve essere ancora votata dal plenum, per me la legge anti-corruzione è un indiscutibile passo avanti". Il testo cui lavorano il premier e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non sarà in ogni caso un provvedimento contro i magistrati: "Nessuno vuole colpire un importante strumento d'indagine", dice una fonte ben informata. Ma la legge che verrà battezzata in giugno conterrà un giro di vite sulle intercettazioni "non rilevanti ai fini delle indagini", imponendo il divieto di diffondere e pubblicare le conversazioni di soggetti terzi non coinvolti nelle inchieste "per impedire l'ormai consueta gogna mediatica" Saranno previste sanzioni per magistrati e avvocati che le diffondono e anche per i giornalisti che le pubblicano. "Ma è da escludere che tra queste sanzioni ci sia il carcere", garantisce un'altra fonte che ha in mano il dossier. Che il tema sia ormai maturo, Renzi l'ha detto più volte. "Le intercettazioni sono uno strumento molto utile, rinunciarvi sarebbe stupido e autolesionista", ha affermato il premier il mese scorso in una intervista a "Il Messaggero", "ma il modo con il quale vengono diffuse da alcuni avvocati e alcuni magistrati e anche da alcuni media, è francamente inaccettabile. Siamo tutti d'accordo sulla necessità di intervenire con misure che non blocchino i magistrati e contemporaneamente consentano di soddisfare il sacrosanto diritto di cronaca. La soluzione è a portata di mano. Siamo la maggioranza che ha superato l'articolo 18, declassificato i segreti di Stato, introdotto la responsabilità civile... dunque toccherà a noi anche risolvere il nodo delle intercettazioni e non ci tireremo indietro". E adesso, improvvisamente, a pochi giorni dalle elezioni, torna d'attualità un vecchio progetto del governo e del Ncd: stralciare le norme sulle intercettazioni dal disegno di legge sulla riforma del processo penale, per le quali l'esecutivo ha già la delega a intervenire con un articolato ad hoc. E di varare un disegno di legge ex novo, volto a limitare la divulgazione delle conversazioni intercettate "non rilevanti". Una mossa che coglie di sorpresa chi alla Camera lavora al provvedimento: "Stralciando le intercettazioni dalla riforma del processo penale non si guadagna tempo, visto che ormai è tutto incardinato in commissione Giustizia", dice un'altra fonte autorevole, "ma certo il governo si potrà muovere con più libertà. Forse vorrà dare un segnale all'elettorato moderato...". Irritazione contro il Csm a parte, deve essere questa una delle ragioni che spingono Renzi a rilanciare subito l'intervento per limitare la "gogna mediatica". Dopo il decreto sulle pensioni che accontenta 3,7 milioni di pensionati, ma ne scontenta 650mila con assegni sopra i 3.200 euro, il premier intervenendo sulle intercettazioni probabilmente punta a conquistare proprio la fetta di opinione pubblica tradizionalmente legata a Forza Italia. E ogni voto, dato che la battaglia elettorale in Regioni come Liguria e Campania si gioca sul filo, è estremamente prezioso. Ciò che è certo, è che appelli a intervenire sono piovuti sulla testa di Renzi da più fronti. Il garante della privacy, Antonello Soro in una lettera ha sollecitato il premier a un "intervento immediato". E proprio la VI commissione del Csm ha espresso un giudizio positivo sulla bozza fatta filtrare dal governo. Sì al "filtro" per selezionare le conversazioni intercettate, secretando quelle irrilevanti ai fini delle indagini. E sì alla maggiore tutela "dei cittadini non indagati". Giustizia: "Dentro la Corte" di Sabino Cassese… una Consulta moderna è indispensabile di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2015 Per inquadrare correttamente nella giurisprudenza costituzionale la sentenza della Corte 70/2015 sul blocco della rivalutazione delle pensioni occorre partire da alcune considerazioni di carattere generale sulle quali ha richiamato l'attenzione Sabino Cassese nel suo originale libro "Dentro la Corte". Le questioni della Corte sono filtrate attraverso il diritto; non si affronta direttamente il problema politico. La Corte è davvero un organo giudiziario che riconduce i conflitti politici o costituzionali ai criteri di razionalità logica, alla coerenza. Molti casi hanno implicazioni politiche o costituiscono decisioni politiche sia pure a seguito di analisi tecnico-giuridica e sulla base di elementi di razionalità riconducibili alla ragionevolezza. La Corte "motiva ma non spiega". Ecco perché le sentenze della Corte difficilmente sono capite dall'esterno. E tuttavia il peso della Corte dipende dalla forza con la quale i poteri dello Stato la sorreggono. Tutte le sentenza della Corte sono fondate sul precedente. La sentenza 70/2015 è frutto di una concatenazione di precedenti, di riferimenti a decisioni già prese sicché non è agevole comprendere il decisum che viene formulato alla fine della decisione. Lo sforzo delle sentenze, la motivazione, è la dimostrazione della coerenza decisione con il precedente. Le sentenze vengono istruite sulla base di una collaborazione degli assistenti dei giudici che sono giudici e professionalmente tendono a non vedere la questione costituzioni e politiche. I riferimenti al diritto comune sono fatti con l'adeguamento al "diritto vivente", alla giurisprudenza dei giudici ordinari, il che può essere un limite alla impostazione in termini costituzionalmente rilevanti della questione. Complessivamente si può dire che c'è una certa autoreferenzialità, che rende la Corte prigioniera di se stessa. Le critiche alla sentenza 70/2015 sono di carattere esterno e riguardano il rapporto con gli altri poteri dello Stato. La motivazione è semplicistica: la Corte non può fare cose riconducibili al potere politico. È una tesi che prova troppo. Allora bisogna chiedersi (come disse il presidente Ambrosini nel 1992) che cosa ci stia a fare la Corte se non può stabilire i limiti che incontra il parlamento nella sua discrezionalità politica, che pure è un altro punto fermo della giurisprudenza costituzionale: il parlamento può fare tutto ciò che non viola la Costituzione. La sentenza 70/2015 non può essere capita dall'esterno se la critica è così radicale. La ragione è che la Corte non ha saputo spiegare in termini semplici e chiari che non esisteva il vincolo di bilancio. Nella sentenza 10/2015 il riferimento al principio di bilancio fu un modo come un altro per giustificare la deroga alla retroattività della decisione presa. La sentenza 70/2015 appare un po' frettolosa, anche se, a parer mio, giuridicamente corretta. Sta nascendo in Italia un orientamento che non solo critica la Corte ma rischia di produrre come osserva Cassese, un arretramento di due secoli nella configurazione dei rapporti della Corte con gli altri poteri. Le Corti costituzionali esistono in quasi tutti i paesi democratici a cominciare dalla Corte federale degli U.S.A. I limiti alla competenza delle Corti possono essere indagati dalla comparazione degli orientamenti delle diverse Corti e la Corte italiana non è certo ultima nell'apprestare una giurisprudenza soddisfacente. Ma si sostiene che la Corte e tutti gli altri giudici in specie il TAR sono un grosso impedimento alla responsabilità politica. Si critica "il peso sempre maggiore che le decisioni delle varie branche della giurisdizione hanno sull'attività di governo. E non si manca di rilevare che c'è un potere giudiziario anche in America. E in soccorso di tale disinvolta teoria viene aggiunto il corollario "il modo in cui è stato esercitata l'azione penale in modo persecutorio". Il che la dice lunga sui limiti auspicati delle diverse giurisdizioni. Tornando alla sentenza 70/2015 essa è sostanzialmente corretta. Forse si poteva guadagnare tempo aspettando che la Corte fosse al completo o ricorrere a qualche manipolazione con una sentenza additiva. Ma l'isolamento della Corte e l'aspirazione alla vanificazione della sua giurisprudenza, in nome del primato della politica, sono tentazioni pericolose. Come ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelskj l'equilibrio di bilancio non deve diventare un automatico lasciapassare al libero arbitrio della politica. Il legislatore deve sempre tener presente "l'eguaglianza nella giustizia". Il riferimento ai conti conformi della richiesta dell'Europa non deve diventare una super norma costituzionale. Ma non c'è dubbio che il rispetto degli accordi nella Comunità pone problemi che se oggi non possono essere risolti non con accorgimenti sbrigativi, va affrontato dagli stati con normative che ancora non esistono. Ma all'esterno è stato rivendicato "il primato della politica". Sembra di sentire Togliatti quando non capiva come ci potesse essere un altro organo dello Stato che fosse al di sopra del parlamento. Ora la Corte non è al di sopra del parlamento, ma giudica della costituzionalità delle leggi. I rapporti tra poteri non possono essere configurati se non come correttezza della propria competenza. E il parlamento ha tutti gli strumenti nella legge costituzionale per dimostrare la costituzionalità delle leggi di spesa. Semmai la Corte può chiedere al parlamento e al governo chiarimenti sulle questioni dubbie. Qui diventa rilevante il ruolo dell'Avvocatura di Stato che difendendo la legge ha l'onere di illustrare come essa non violi il principio dell'equilibrio di bilancio. Giustizia: riforma delle prescrizioni, reazioni della magistratura né nuove né inaspettate di Giunta dell'Unione Camere Penali camerepenali.it, 19 maggio 2015 L'indipendenza e l'autonomia della magistratura devono essere preservate e, tuttavia, sono proprio le insofferenze nei confronti dell'esercizio di prerogative che appartengono al legislatore, e il trasmodare in una visione quasi proprietaria della giustizia, ciò che maggiormente nuoce all'autorevolezza ed all'indipendenza (interna ed esterna) del CSM e dell'intera Magistratura e che inesorabilmente finisce con l'alterare quell'indispensabile equilibrio fra i diversi poteri dello Stato che costituisce la garanzia fondamentale di ogni democrazia liberale. Non sono né nuove né inaspettate le reazioni della magistratura di fronte ai doverosi ripensamenti del Parlamento sulla riforma della prescrizione. L'Anm, per bocca del suo Presidente Rodolfo Sabelli, è tornata infatti ad invocare una sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado, rinviando così riforme ed annullamenti ai tempi imperscrutabili di una giustizia libera da ogni vincolo. È intervenuto sul punto anche il Procuratore antimafia Roberti il quale, al contrario, ritiene che sarebbe meglio sospendere definitivamente la prescrizione con l'esercizio dell'azione penale, ricordandosi poi di rilevare che, tuttavia, una norma che consentisse processi troppo lunghi finirebbe per violare l'art. 111 Cost. che fissa il principio della ragionevole durata. Piuttosto nuove nei contenuti, nei toni e negli accenti, le incursioni del Csm volte non solo ad interdire ogni possibile rimodulazione della riforma, ma a formulare vere e proprie proposte di legge, spiegando al Parlamento cosa e come fare. Nella sua proposta di parere che andrà all'esame del Plenum mercoledì prossimo. La VI Commissione del Csm, all'unisono con le critiche dell'Anm, formula un durissimo attacco nei confronti del Governo e del Parlamento, definendo "sporadiche", "frammentarie", "disorganiche" e "insufficienti" le ipotesi di riforma all'esame del Senato. E nel far ciò spiega puntualmente al Governo quale sia la riforma della prescrizione da eseguire. Dice il Vice Ministro Costa che "ogni giorno che passa si rafforza l'esigenza di riformare il Csm. Le invasioni di campo sono solo una sfumatura delle criticità che sono sotto gli occhi di tutti". Quella che si evidenzia in questo contesto è tuttavia una di quelle criticità che destano allarme, perché rendono evidente non solo la natura e la qualità di uno squilibrio interno al CSM ed alla intera magistratura, ma anche un insopportabile alterazione del corretto equilibrio che deve mantenersi fra i diversi poteri dello Stato. L'Organo di governo autonomo della Magistratura, diviso fra anime contrapposte (non solo quella dei laici e dei togati), dilaniato fra correnti, non opera più opinabili pareri tecnici su questo o quel singolo disegno di legge, ma agisce come un vero organo politico. Come un partito in campagna elettorale, entra nel vivo delle complesse scelte politiche del Parlamento, auspicando vere e proprie "rotture epistemologiche" con la passata ideologia del processo. L'indipendenza della magistratura e l'autonomia del suo governo, non solo non sono in discussione, ma devono essere preservate, sottolineando tuttavia come proprio questi straripamenti, queste insofferenze nei confronti dell'esercizio di prerogative che appartengono al legislatore, questo trasmodare in una visione quasi proprietaria della giustizia, è proprio ciò che maggiormente nuoce all'autorevolezza ed all'indipendenza (interna ed esterna) del Csm e dell'intera Magistratura e che inesorabilmente finisce con l'alterare quell'indispensabile equilibrio fra i diversi poteri dello Stato che costituisce la garanzia fondamentale di ogni democrazia liberale. Giustizia: gli avvocati "processano" Tinti. L'ex pm scrisse: "guadagnano sulle lungaggini" di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2015 L'Ordine degli avvocati di Roma non sembra ammettere riflessioni e critiche dei suoi iscritti su norme processuali e attività forense. Lo sa bene Bruno Tinti, per 40 anni magistrato, dal 2009 iscritto al foro della Capitale e azionista del Fatto Quotidiano. Tinti rischia di doversi difendere davanti al Consiglio distrettuale di disciplina, istituito nel gennaio scorso, dopo che l'Or - dine di Roma ha deliberato l'apertura di una pratica nei suoi confronti. La sua presunta colpa è aver pubblicato un articolo il 14 settembre scorso, sul nostro giornale, dal titolo: "Consigli non richiesti al premier da un ex magistrato con 40 anni di carriera: non ne capisci, ma informati". Nell'articolo, l'avvocato-ex magistrato spiegava cosa, a suo giudizio, non funziona nella macchina della giustizia e perché. Alcuni passaggi del pezzo non devono esser piaciuti agli avvocati. Come quando Tinti afferma che "il processo civile non funziona perché è troppo lungo". "Ed è troppo lungo - si legge ancora nell'articolo - perché il codice di procedura è sbagliato e perché la gente litiga molto. In realtà litiga molto proprio perché la procedura è sbagliata: chiunque preferisce pagare tra 8 anni anziché oggi. Quindi si deve cambiare il codice di procedura. Non dare retta agli avvocati che su questo codice ci campano: più cose scrivono, più il processo è lungo, più guadagnano. E inoltre più processi ci sono e più guadagnano". Dopo aver spiegato cosa potrebbe rendere il processo civile più efficace, Tinti si sofferma anche sul "processo penale" che "non funziona perché il codice di procedura è sbagliato. Ci sono troppi gradi di giudizio: indagini, Tribunale della libertà (che può essere replicato N volte), udienza preliminare, Tribunale, Appello e Cassazione. Anche qui, non dare retta agli avvocati: più gradi di giudizio, più lavoro, più soldi." Affermazioni e opinioni queste che, come è scritto nel verbale del 16 ottobre scorso dell'Ordine degli avvocati, violerebbero "la dignità e il decoro dell'Avvocatura". Il Consiglio dell'Ordine forense di Roma deve essersi molto rammaricato anche quando Tinti ha spiegato come le notifiche, gli avvisi inviati ad avvocati e indagati, rallentino considerevolmente i processi, facendo slittare anche di mesi le udienze. "Il processo penale non funziona perché si fa un uso demenziale delle notifiche. Costano un sacco di soldi, non vanno mai a buon fine e sono la causa principale dei rinvii delle udienze, dunque della durata del processo penale, dunque della prescrizione dei reati. Anche qui lascia perdere gli avvocati; loro sulle notifiche andate a male ci campano: servono per la prescrizione". Secondo l'Ordine degli avvocati di Roma, queste come pure le altre affermazioni contenute nell'articolo pubblicato, "oltreché imprecise e inveritiere" siano anche offensive per i loro iscritti. Adesso l'avvocato Tinti ha presentato una memoria difensiva al consiglio distrettuale di disciplina, i cui membri dovranno decidere se aprire una pratica disciplinare come richiesto dall'Ordine il 16 ottobre scorso. In questo caso, Tinti dovrà spiegare le sue affermazioni ma anche perché un Ordine non possa rinunciare a confrontarsi con i limiti della professione, lasciando ai propri iscritti la libertà di critica. Giustizia: il pm Di Matteo attacca il Csm "abusi per escludermi, costituzione violata" di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2015 Procura Nazionale, il pm della trattativa stato-mafia ricorre al Tar contro la bocciatura: "costituzione violata, professionalità ignorata". Contromossa del pm di Palermo Nino Di Matteo alla bocciatura del Csm, con il voto contrario dei vertici della Cassazione, al concorso come sostituto alla direzione nazionale antimafia (Dna). Il magistrato più a rischio d'Italia, oggi in prima linea nel processo sulla trattativa Stato-mafia, ha presentato un ricorso al Tar che è un duro attacco all'organo di autogoverno della magistratura. I suoi legali, il professor Mario Serio e l'avvocato Giuseppe Naccarato, chiedono la sospensione della delibera che ha promosso i sostituti Eugenia Pontassuglia, Salvatore Dolce e Marco del Gaudio. Accusano il Csm di aver violato l'articolo 97 della Costituzione sul buon andamento della Pubblica amministrazione e di aver commesso "abuso di potere", violando una circolare interna. Nelle 33 pagine, che Il Fatto ha potuto leggere, rimarcano che sono stati ignorati meriti e abnegazione del magistrato. Gli avvocati sottolineano "l'umiliante pretermissione, da parte del Csm, del valore degli anni di sacrifici, rischi, impegno in cui si è articolata la carriera" di Nino Di Matteo "al servizio della Giustizia. Appare addirittura beffardo - scrivono - che, dopo lunghi mesi di notorietà delle spietate minacce rivolte dalla mafia, il Csm se ne sia ricordato promuovendo un procedimento ufficioso di trasferimento extra ordinem, esattamente alla vigilia della deliberazione sul concorso, con ciò rivelando platealmente il suo orientamento negativo all'accoglimento della domanda". Ed ecco la sferzata: "Si tratta di una, non lusinghiera per chi l'ha effettuata, inammissibile proposta compensativa, la cui incompatibilità con il principio scolpito dall'art. 97 della Costituzione appare in egual misura clamorosa e insostenibile!". Alla base del ricorso, però, una ragione professionale: "Si tratta della sistematica, algebricamente calcolata e calibrata sottovalutazione dell'ineccepibile e solidissimo profilo professionale del ricorrente". Secondo gli avvocati, non è stato attribuito il punteggio secondo i parametri della circolare, ed è stato così disatteso l'essenziale parere del Consiglio giudiziario di Palermo, il Csm locale, una "inconcepibile sottovalutazione" che "sfida il parere del Consiglio Giudiziario del 18 ottobre 2012 (confermato nel marzo scorso, ndr): "Il dott. Di Matteo ha diretto e coordinato indagini particolarmente incisive e complesse nei confronti di agguerrite famiglie mafiose. In tale contesto ha dato prova di straordinarie qualità professionali". Osservano, amareggiati, gli avvocati di Di Matteo: "Non è incoraggiante per la magistratura italiana apprendere che queste doti - spinte fino all'annullamento della possibilità di vivere una vita senza il costante terrore di vedersela violentemente tolta -valga per il suo organo di governo autonomo soltanto i due terzi del punteggio massimo". Neppure la relazione del Consiglio giudiziario "è servita a convincere l'arcigna maggioranza consiliare a prendere in considerazione l'elemento premiale in questione". C'è dell'altro: "Ancor più grave, al limite della mortificazione umana e professionale, è la mancata attribuzione dell'incremento di 1 punto" dato che la circolare del Csm lo prevede ‘nei casi in cui risulti che il magistrato è stato impegnato per periodi di tempo prolungati e continuativi in compiti particolarmente complessi ed impegnativi". Nel ricorso si compara anche il metro di giudizio usato per i candidati promossi e quello per il bocciato Di Matteo, arrivato undicesimo: non solo è stata ignorata l'anzianità del pm rispetto ai colleghi, ma "per i controinteressati si riconosce una loro profonda conoscenza della criminalità organizzata, di cui sorprendentemente non si fa cenno per il dott. Di Matteo", che pure si occupa di mafia dal 99, quando riaprì le indagini sull'omicidio di Rocco Chinnnici e in seguito chiese l'ergastolo per Totò Riina dal quale gli giunse la prima decisa minaccia di morte. L'ultima, quella del superlatitante Matteo Messina Denaro, è ancora attuale, tanto da giustificare l'arrivo a Palermo del dispositivo bomb jammer che individua e disattiva eventuali congegni elettronici. In conclusione, si legge nel ricorso, "appare evidente che il Csm sia incorso in una vera e propria omissione di elementi significativi" che risultano dagli atti presentati. "Di conseguenza l'omissione di cui è affetta" la delibera del Csm la rende "illegittima", tanto più "a fronte del principio pacifico secondo cui il Csm non può discostarsi dal parere del Consiglio giudiziario se non con motivazione adeguata". La parola passa al Tar del Lazio. Giustizia: quelli che temono il carcere se passa il disegno di legge anti-omofobia di Mattia Feltri La Stampa, 19 maggio 2015 Per Adinolfi il testo all'esame del Senato è "liberticida". Scalfarotto: "La libertà di opinione non è in discussione". "Se il ddl Scalfarotto fosse approvato, cara Boldrini, io sarei arrestato e rischierei fino a 6 anni di carcere". L'allarmato tweet di Mario Adinolfi - ex deputato del Pd e oggi direttore della Croce, quotidiano di sommo rigore cattolico - segue la "giornata mondiale contro l'omofobia e la transfobia" che ha armato l'inquietudine dei presidenti della Repubblica e della Camera, Laura Boldrini in particolare, per l'assenza di una legge in punizione degli omofobi (da ora in poi transfobici è sottinteso). Lo sarebbe, come dice il tweet, il disegno di legge del sottosegretario Ivan Scalfarotto (Pd) approvato alla Camera nel settembre del 2013, giorno in cui i cinque stelle si baciarono sulla bocca in denuncia all'annacquamento del testo per renderlo condivisibile ai più. Da allora però la legge è rimasta lì, regolarmente inserita nel calendario della commissione del Senato e mai discussa. Il fatto è che le posizioni sulla norma sono infinite al punto che Scalfarotto si è definito "una persona non gradita alle associazioni Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) oltranziste": il suo ddl è troppo morbido così come per Adinolfi, e tanti altri come lui specie nel centrodestra, è troppo duro. "Giro l'Italia a presentare il mio libro (Voglio la mamma, sui temi in oggetto, ndr) e ogni volta sono accolto da associazioni gay che mi contestano e mi insultano, vorrebbero impedirmi l'incontro, mi ritengono un nemico titolare di opinioni discriminatorie e fonti di odio", dice Adinolfi. Secondo lui a legge approvata ci vorrebbe nulla perché qualcuno lo denunciasse portandolo a giudizio, "che poi io lo vinca oppure no: sarebbe quantomeno un impedimento alla mia libertà di opinione". La legge punisce con pene che vanno da sei mesi a sei anni chi propagandi idee sulla discriminazione sessuale o partecipi ad associazioni coi medesimi obiettivi o istighi a commettere violenza; è stata scritta, spiega Scalfarotto, estendendo all'omofobia la legge Reale-Mancino a proposito di violenza o discriminazione per motivi etnici o religiosi. "Vorrei tranquillizzare Adinolfi: non è che con la legge Mancino sono finiti alla sbarra decine di razzisti, che pure ci sono. Il diritto di opinione è tutelato dall'articolo 21 della Costituzione, e nessuna innovazione penale lo supererà". E però è vero che è difficile capire quale sia la portata della discrezionalità del giudice. Poche settimane fa il manifesto elettorale di un candidato gay valdostano è stato deturpato con disegni di orecchini, collane e ciglia femminili. È reato di omofobia? "Ecco, un conto è l'omofobia, un conto il reato. Secondo me è omofobia ma non è reato", dice Scalfarotto. E il cartello esposto a Lecce da un commerciante che esortava i genitori a "tenere lontani i vostri figli da gay"? Insomma, qualche serio problema di interpretazione c'è. "Deciderà il giudice", ripete Scalfarotto affidando forse inconsapevolmente ma una volta ancora alla magistratura un potere che dovrebbe essere della politica. Adinolfi è uno per il quale l'adozione da parte di coppie omosessuali equivale a una "compravendita" ed è uno a cui non sfugge che per questo convincimento rischia di trovarsi in mezzo a una gigantesca class action. Per limitare la portata della legge è stato aggiunto un emendamento (o meglio, il subemendamento Gitti, dal nome di chi l'ha scritto) per cui la pena non si applica ad associazioni "di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione". Si fa l'esempio ovvio di una scuola ebraica che non assuma un musulmano come insegnante di religione. Dunque, se uno dice a dottrina che "i gay sono malati" non commette reato e se lo dice in una scuola pubblica sì? Difficile venirne fuori. E Scalfarotto comprende che in Italia ci sono persone affezionate al liberalismo inglese dove si è sempre puniti per ciò che si fa e mai per ciò che si sostiene, "ma non capisco per quale ragione tanto liberalismo venga caro quando si parla di omosessuali e non quando si parla d'altro". E cioè, se in Italia è reato dire che "i negri sono inferiori" lo sia anche se si dice che inferiori sono i gay. Che non ci siano discriminati fra i discriminati. Giustizia: "pirati della strada" impuniti, così la pena è tutta per le vittime di Maria Corbi La Stampa, 19 maggio 2015 Cento diciannove morti e 1.224 feriti. Alcol e droga presenti nel 19,6% dei casi. Il 42% dei responsabili che l'ha fatta franca nel 2014. Numeri che raccontano la strage dei pirati della strada. Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Lazio tristemente in vetta nella desolante classifica delle regioni più colpite. "Le vittime sono molte di più. Perché le famiglie non si riprendono più, sono condannate non solo al dolore perenne ma anche all'ingiustizia di non vedere mai i responsabili puniti come meritano". Giuseppa Cassaniti lo sa bene, perché ha perso la figlia Valeria di 17 anni travolta sotto casa da un pirata che sfrecciava a 110 chilometri orari quando il limite era di 30. "Passano gli anni ma non cambia il dolore e nessun risarcimento vale la perdita dell'amore della tua vita. Mentre chi mi ha strappato Valeria se l'è cavata con una condanna di 2 anni e 4 mesi, il che significa che è rimasto libero e ha continuato a vivere". Sono tante le storie tutte troppo uguali, unite dal filo del dolore. Una Spoon River un po' diversa, ancora più atroce. Dove la giustizia incompiuta aggiunge lacrime al vuoto. Carlo Garofalo, 45 anni, non c'è più, sua moglie Maddalena il 24 settembre del 2013, a Udine, ha visto infrangersi i sogni, i progetti, il suo cuore. La ragazza di 29 anni che in stato di ebbrezza ha provocato tutto questo "è libera di proseguire la sua vita", come ha amaramente notato Maddalena. "Nessun perdono" per lei, C.C, una condanna patteggiata a 2 anni e 6 mesi di reclusione (con sei mesi di arresto e revoca della patente). "Nessun perdono". Pene troppe basse. Lo pensano i parenti e lo pensa la gente comune. "Non voglia di vendetta ma di giustizia sì", dice Giordano Biserni presidente dell'Asaps, l'associazione sostenitori e amici della polizia stradale. "La media delle condanne si aggira sui 2 anni e 8 mesi". Nei loro archivi un lungo elenco di impunità. Tre anni e quattro mesi dati in appello lo scorso marzo a Gabardi El Habib, marocchino, che a luglio del 2013 ha travolto Beatrice Papetti, 16 anni, mentre era in sella alla sua bicicletta a Gorgonzola. Tre anni e due mesi per il 31enne di origine kosovara Nazmi Kastrati che a luglio ha investito e ucciso Simone Suardi, 23 anni, mentre era in sella al suo motorino sulla strada che dal suo paese, Martinengo, porta a Cortenuova, in provincia di Bergamo. Nazmi è tornato indietro per vedere come stava il ragazzo, è poi scappato preso dal panico, come ha raccontato quando si è costituito. Ha patteggiato 2 anni, 9 mesi, 10 giorni di carcere e 400 euro di ammenda il camionista bulgaro Dimitrov Denchev Krasimir, 37 anni, che la sera del 22 giugno scorso scappò dopo avere stroncato sulle strisce pedonali a Pontenuovo (Ravenna) la vita del piccolo Gionatan La Sorsa. Nemmeno tre anni, dopo averlo trascinato per un centinaio di metri. Per "riprendersi" il bulgaro era andato subito da una prostituta. Patente sospesa per sette anni e mezzo. "Una misura inutile", osserva Giordano Biserni, perché nessuno ci assicura che non se ne faccia fare un'altra al suo Paese". Quattro anni e due mesi in primo grado per Ionel Vaida, romeno di 42 anni che ha travolto Davide Viola, 16 anni a Collesalvetti. Era ubriaco. Per lui patente sospesa per 4 anni, l'interdizione per 5 anni da i pubblici uffici e il pagamento dei danni ai familiari della vittima con una provvisionale di 80mila euro per ciascuno dei genitori e di 40mila per la nonna. E giustizia sospesa per Elsa, Vincent, Julien e Andrey, i giovani francesi uccisi dall'automobilista Ilir Beti, ubriaco, che guidava in contromano lungo l'autostrada vicino ad Alessandria nel 2011 per far vedere alla fidanzata quanto era "fico". La Corte di Cassazione ha annullato la condanna in secondo grado a 21 anni (conforme a quella di primo grado) perché non ha ravvisato il dolo ma solo la colpa. Finisce alla Consulta il doppio binario penale-amministrativo sulle omissioni Iva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2015 Tribunale di Bologna. Prima sezione penale, ordinanza 21 aprile 2015. Finisce davanti alla Corte costituzionale la possibilità di sommare sanzione penale e sanzione amministrativa in materia di omessi versamenti Iva. A rinviare la questione alla Consulta, davanti alla quale sullo stesso tema, scaturito con la sentenza della Corte europea dei diretti dell'uomo del marzo 2014 Grande Stevens, già è stata sollevata la questione sul versante del market abuse, è stata la Prima sezione penale del tribunale di Bologna con ordinanza del 21 aprile. I giudici chiedono così alla Corte di valutare il fatto che l'articolo 649 del Codice di procedura penale, in relazione all'articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000, non prevede l'applicabilità del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all'imputato sia già stata inflitta, per il medesimo fatto e nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale deve essere riconosciuta natura penale sulla base della Convenzione dei diritti dell'uomo. A venire messo in discussione è così in realtà tutto l'impianto penale tributario che, ricorda l'ordinanza, è orientato al princpio del doppio binario sanzionatorio. L'articolo 13 del decreto 74/2000 prevede espressamente la possibilità di cumulo della sanzione penale (pur se diminuita) e di quella amministrativa, subordinando l'applicazione della circostanza attenuante al pagamento del debito tributario comprensivo della sanzione. L'articolo 13, comma 2-bis, condiziona inoltre l'accesso al patteggiamento al pagamento del debito tributario. "Il doppio binario - mette in evidenza l'ordinanza - emerge, poi, dalla previsione dell'autonomia del procedimento amministrativo di accertamento e del processo tributario in pendenza di quello penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione". Nessuna possibilità poi di utilizzare il principio di specialità per risolvere il problema del cumulo di sanzioni: le Sezioni unite penali hanno già escluso un rapporto di specialità tra disposizione penale e amministrativa (il riferimento è alla sentenza delle Sezioni unite n. 37424 del 28 marzo 2014). È vero, prosegue il giudice bolognese, che rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere per le stesse violazioni di obblighi di dichiarazione Iva una combinazione di sovratasse e sanzioni penali con l'obiettivo di assicurare il gettito e tutelare in questo modo gli interessi finanziari dell'Unione europea. Tuttavia, bisogna, ha precisato la Corte europa dei diritti dell'uomo, che la sovratassa non abbia natura penale. L'ordinamento italiano ha però previsto un meccanismo per scongiurare, almeno in linea teorica, il cumulo della sanziona amministrativa con quella penale con la sospensione della riscossione della misura amministrativa fino alla definizione del giudizio penale. Ma, ricorda l'ordinanza, il meccanismo non si sottrae alla critica per cui, se la sanzione tributaria ha carattere afflittivo pari a quella penale, allora un'assoluzione penale in via definitiva non può dare luogo, come invece avviene, alla ripresa del procedimento amministrativo. Inoltre, applicando proprio i criteri della Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza Engel del 1976) non si può che arrivare, per l'ordinanza, alla conclusione che la sanzione amministrativa tributaria per omesso versamento Iva ha natura penale, vista la sua natura non compensativa, ma deterrente e punitiva, come di norma tipico del penale. Inoltre, "La previsione di un termine diverso di scadenza, al fine di individuare il diverso momento di consumazione della sanzione amministrativa e del reato, non vale a differenziare il fatto nella sua concretezza; né la mera previsione di una soglia di punibilità penale appare capace di distinguere il fatto oggetto delle due previsioni sanzionatorie, che resta il medesimo". Soppressione filtro e travisamento fatti e prove, sotto accusa responsabilità dei magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2015 Esce praticamente demolita sotto il profilo costituzionale la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il tribunale di Verona, infatti, con ordinanza del 12 maggio ha rinviato alla Consulta numerose disposizioni della legge n. 18 del 2015. A partire dall'ampliamento delle ipotesi che possono dare luogo a responsabilità dello Stato e del magistrato, comprendendo anche il travisamento del fatto o delle prove: una fattispecie che, tra l'altro, si caratterizza per vaghezza, assenza di tassatività e limitatezza, permettendo così di mettere sotto censura "qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio compiuta dal giudice nel giudizio a quo, che risulti non gradita o sfavorevole, semplicemente qualificandola come travisamento". Anche la soppressione del filtro di ammissibilità non convince il giudice veronese che sottolinea invece come "l'eliminazione di tale vaglio preventivo, offre ora ad una parte, priva di remore o anche solo particolarmente determinata, la duplice alternativa di condizionare la valutazione del giudice, (possibilità vieppiù concreta dopo l'introduzione della nuova ipotesi di illecito del travisamento del fatto o delle prove) o di provocare la sua astensione, e con essa la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio a quo, anche attraverso l'avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del giudice stesso, che è rimesso, quanto all'an, al quando e al quomodo". Si arriva così a riconoscere a una parte la possibilità di influire indebitamente sul corso del giudizio o sulla serenità del giudice. Conclusione aggravata dal fatto che, invece, è rimasta obbligatoria la previsione di esercizi dell'azione disciplinare del Procuratore generale presso la Cassazione peri medesimi fatti. L'obbligo di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato riconosciuto colpevole scivola, secondo l'ordinanza, perché obbliga la Presidenza del Consiglio ad agire "la buio" senza tenere conto dei costi e dei benefici del giudizio intrapreso. Infine, la legge sulla responsabilità non ha fornito alcuna indicazione (e avrebbe dovuto) sui mezzi con i quali lo Stato dovrà fare fronte ai maggiori esborsi determinati dall'estensione delle ipotesi di responsabilità. Alla Consulta la sospensione per il periodo feriale del processo esecutivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2015 Tribunale di Cosenza - Ordinanza 4 maggio 2015. Con una ordinanza del 4 maggio scorso il tribunale di Cosenza ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell'articolo 3 della legge n. 742/1969 nella parte in cui non prevede l'applicabilità anche al "processo esecutivo" della deroga alla generale regola della sospensione dei termini processuali per il periodo feriale. Secondo il giudice del rinvio la norma contrasta con il canone della "ragionevolezza/uguaglianza" nella parte in cui, invece, prevede tale eccezione per l'opposizione agli atti esecutivi (ed in generale per i processi aventi carattere incidentale al processo esecutivo). Il caso - A seguito di istanza di vendita, in un processo di esecuzione immobiliare, il creditore ha richiesto la concessione di una proroga di 120 giorni, ex articolo 567 del Cpc , per il deposito della documentazione ipocatastale. La richiesta è da ritenersi tempestiva in virtù della sospensione feriale dei termini processuali ma sarebbe invece fuori termine secondo la prospettazione di incostituzionalità della norma. Il diritto vivente - Secondo l'ordinanza, per quanto il diritto vivente sia univoco nel considerare l'applicabilità della sospensione al solo processo esecutivo, una simile soluzione si pone "in netto e clamoroso contrasto con il canone di rango costituzionale della ragionevolezza/uguaglianza non potendosi escludere, per evidenti ragioni di coerenza logica, che nel processo esecutivo sussistano le medesime ragioni di celerità che sono correlate ai processi che si instaurano quali incidenti dello stesso". "Appare a dir poco faticoso - prosegue il tribunale - intendere come potrebbero "diversità strutturali" tra il processo esecutivo e gli incidenti che trovano causa nel suo svolgimento giustificare la sospensione dello svolgimento del primo ma non dei secondi durante il periodo di ferie". Al contrario, il diritto vivente sostiene che sussisterebbero ragioni di "celerità" insite nei processi oppositivi, come pure esigenze correlate alla prevenzione di "incertezze" nell'esito delle opposizioni da considerarsi "disancorate dal rapido svolgimento del processo esecutivo". La motivazione - Una disciplina "incoerente", secondo il giudice estensore Giuseppe Greco, tenuto anche conto che i giudizi incidentali al processo esecutivo articolandosi in una fase di merito e in una di legittimità talvolta giungono a definizione dopo moltissimi anni. Mentre una analoga esclusione dalla sospensione dei termini non è prevista per il processo esecutivo "che è la sede effettiva nella quale si persegue l'effettivo soddisfacimento degli interessi sostanziali degli attori sia del processo esecutivo che di quelli incidentali". Tuttavia, come ricorda il tribunale, la Cassazione in precedenza ha negato l'ipotizzabilità di una questione di costituzionalità, statuendo che "non esorbita da una discrezionale valutazione il ritenere, come ha fatto il legislatore, che l'esigenza di una maggiore celerità del processo esecutivo non si spinga al di là della speciale disciplina stabilita per le opposizioni esecutive, senza proiettarsi anche sull'istituto della sospensione feriale dei suoi termini". Una motivazione ripresa pari pari da una risalente pronuncia della Corte costituzionale, n. 61/1985, rispetto ad analoga questione posta in materia elettorale, utilizzando un argomento che però secondo il giudice "è difficilmente replicabile in relazione al rapporto tra processo esecutivo e opposizioni esecutive". Ciò detto, il tribunale sottolinea che "non è possibile individuare autonome ragioni che possano giustificare la sollecita definizione dei giudizi oppositivi che si collocano in seno al processo esecutivo se non avendo riguardo all'interesse preminente costituito dal sollecito svolgimento della procedura esecutiva nell'ambito della quale si verificano gli incidenti di opposizione". Mentre non può utilizzarsi lo strumento dell'analogia legis avendo le ipotesi derogatorie della sospensione carattere eccezionale. Da qui il rinvio alla Consulta e la sospensione del giudizio. Legge Pinto: accordo Giustizia-Bankitalia per indennizzi più rapidi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2015 Accordo tra Ministero della giustizia e Banca d'Italia per l'attività di liquidazione degli indennizzi di cui alla legge n. 89 del 2001 - 18 maggio 2015 Un accordo tra il ministero della Giustizia e Bankitalia per rendere più veloci e certi gli indennizzi dovuti ai cittadini per l'eccessiva lunghezza dei processi, come previsto dalla legge Pinto. L'accordo siglato dal capo dipartimento per gli affari della giustizia Antonio Mura e il direttore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi è coerente con l'impegno del Governo a saldare i debiti dell'Amministrazione statale. La Banca d'Italia, come tesoriere dello Stato, collaborerà con via Arenula nell'attività istruttoria dei mandati di pagamento che dovranno essere sottoscritti dalla Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani. Obiettivo dell'intesa è arrivare entro 120 giorni al pagamento dei futuri decreti di condanna della pubblica amministrazione all'equa riparazione in seguito a processi lumaca sia civile che penali. La maggiore rapidità nei pagamenti eviterà allo Stato di il formarsi di nuovi debiti, mentre le Corti d'Appello sgravate dal peso dei pagamenti sopravvenienti potranno dirottare la loro attività sui debiti arretrati che ammontano a oltre 450 milioni di euro. All'Italia la lentezza dei processi costa circa 8 milioni al mese. Recentemente la Corte di Cassazione aveva fatto scattare il semaforo verde per il pignoramento dei fondi del ministero della Giustizia (sentenza 6078/2015). Il via libera riguardava la confisca, presso la Banca d'Italia, delle somme relative a Irap, Irpef e simili, in favore dei creditori. Class action, cadono gli ostacoli di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2015 Potenzialmente dirompente. La riforma della class action approvata dalla commissione Giustizia della Camera, in discussione in Aula dalla seduta notturna di mercoledì, rivede in maniera drastica l'impianto di uno strumento caricato di molte aspettative al suo debutto, nel 2010, e poi assai poco utilizzato. Tutto l'intervento è così ispirato dalla volontà di proporre un rilancio dell'azione di classe. A partire dalla collocazione delle nuove misure che, formalmente, vengono spostate dal Codice del consumo a quello di procedura civile. Un cambiamento che non è solo formale perché si porta dietro la cancellazione di tutta una serie di condizioni che, nella prospettiva dei sostenitori del disegno di legge (che ingloba oltre a un'ampia parte della maggioranza, in testa il Pd, anche il Movimento 5 Stelle, mentre il ministero della Giustizia in commissione non ha certo fatto le barricate), ha sinora ingessato la class action. Da Confindustria per ora nessuna reazione ufficiale, ma trapela comunque una forte preoccupazione per una misura che viene letta come assai aggressiva nei confronti delle imprese, smentendo inoltre uno dei cardini delle recenti politiche del ministero della Giustizia sul fronte civile e cioè la creazione di un circuito alternativo alla giurisdizione per affrontare l'emergenza. La riforma, invece, si sottolinea, avrà come conseguenza di fare da volano al contenzioso. Così, se la disciplina attuale prevede limiti sia all'ambito di applicazione soggettivo, diritti individuali dei consumatori e utenti e interessi collettivi, sia nell'ambito di applicazione oggettivo, responsabilità contrattuale, del produttore, da pratiche commerciali scorrette, e condotte anticoncorrenziali, con la riforma la tutela diventa possibile per tutti i diritti individuali omogenei e per una assai più generica responsabilità per lesione di diritti individuali. La domanda per l'azione di classe si propone davanti al tribunale delle imprese, ed è oggetto di un giudizio di ammissibilità che, se superato, da luogo poi alla valutazione nel merito. Tra un procedimento e l'altro si disciplina anche la possibilità di adesione alla classe di nuovi soggetti. Una possibilità di adesione che però è solo preliminare e non definitiva: è infatti previsto, ed è uno dei passaggi cruciali della riforma, anche un'adesione successiva alla sentenza che ha accertato la responsabilità dell'impresa (in un primo momento era prevista un'estensione automatica a tutti i rappresentanti della classe, anche se sino a quel momento del tutto assenti, dei benefici della sentenza). Il procedimento che si delinea, è così in due fasi. Con la prima che si snoda attraverso la domanda, il giudizio di ammissibilità, l'adesione preliminare, la trattazione della causa e la sentenza; la seconda con la disciplina della procedura di adesione successiva, il progetto dei diritti individuali degli aderenti, il decreto del giudice delegato, il piano di riparto delle somme e l'ordine finale di pagamento. È infatti previsto che nella seconda fase il rappresentante comune degli aderenti (figura nominata dal giudice tra chi ha i requisiti di curatore fallimentare) metta a punto il piano dei diritti omogenei degli aderenti con le sue conclusioni per ciascuna posizione. Il giudice delegato, con decreto motivato in forma sintetica, quando accoglie integralmente o solo in parte la domanda, condanna poi l'impresa al pagamento delle somme dovute a ciascun aderente a titolo di risarcimento o di restituzione. Con il medesimo decreto, ed è anche questa una delle novità più significative, il giudice condanna l'impresa a pagare una somma aggiuntiva al rappresentante comune, a titolo di compenso, aumentandola in caso di particolare complessità dell'incarico o di ricorso a consulenti, ma soprattutto, il giudice delegato condanna l'impresa a versare un importo a titolo di compenso premiale all'avvocato che assistito l'attore fino alla sentenza che ha accertato la responsabilità dell'azienda. Una misura, quest'ultima, che vista la presa d'atto della fase calante delle associazioni di rappresentanza degli interessi collettivi(da quelle dei risparmiatori a quelle dei consumatori, passando per quelle ambientali), scommette invece sugli avvocati per incentivarli a fare raccolta di mandati per la proposizione della class action. Sardegna: Piras (Sel) scrive al ministro Orlando "mandi ispettori all'Ipm di Quartucciu Dire, 19 maggio 2015 Il deputato di Sel Michele Piras ha rivolto un'interrogazione al ministro della giustizia Andrea Orlando affinché verifichi le condizioni del carcere minorile di Quartucciu. Piras spiega che l'interrogazione riprende "la lettera pubblica di denuncia con la quale Don Ettore Cannavera ha motivato le sue dimissioni da cappellano del carcere minorile di Quartucciu. Come anticipato confermo che reputo gravissime le valutazioni esposte circa lo stato di fatiscenza della struttura, la totale impraticabilità di un progetto pedagogico e di reinserimento sociale, le condizioni nelle quali lavorano gli educatori". "Una situazione totalmente incompatibile - aggiunge il deputato sardo - con il dettato costituzionale, l'Art. 27 in particolare e quanto esso dispone in materia di funzione rieducativa della pena. Perciò chiediamo al Ministro di farsi carico di una indagine, che accerti la situazione, le eventuali responsabilità e nel caso preveda le necessarie sanzioni e rimozioni, ripristinando un contesto educativo che possa aiutare dei minori che hanno sbagliato a ritrovare un posto nella società, con maggiore consapevolezza di se stessi e senso di responsabilità". Lazio: Consigliere Sbardella "restituire autonomia operativa al Sert carcere di Rebibbia" Il Velino, 19 maggio 2015 "Dal nuovo atto aziendale della RM B ho appreso che il Sert di Rebibbia, il più grande della Regione Lazio per numero di assistiti, è stato declassato da Uosd (Unità operativa semplice dipartimentale) a Uos (Unità operativa semplice), e che quindi perderà la sua autonomia, per dipendere da un Sert territoriale. Chiedo al presidente Zingaretti se non sia opportuno e necessario rivedere tale decisione." Lo rende noto il consigliere regionale Pietro Sbardella che sul Sert di Rebibbia ha presentato in un'interrogazione urgente. "L'autonomia del Sert di Rebibbia ha garantito sino ad oggi standard di notevoli qualità, cosi come attestato dal dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e dal ministero degli Esteri essendo l'unico nel Lazio a gestire un Day Hospital per il trattamento della sindrome astinenziale all'interno di un istituto penitenziario, tanto da interessare le competenti strutture dell'Onu che lo visiteranno nel prossimo mese di giugno. Considerato che tale dipendenza funzionale da altra struttura determinerebbe una sovrapposizione di ruoli e funzioni destinate a incidere negativamente sul delicato lavoro a favore dei cittadini detenuti e tossicodipendenti, la Regione Lazio - conclude Sbardella - si deve impegnare a restituire al Sert di Rebibbia l'originaria autonomia funzionale della struttura". Alghero: Caligaris (Sdr); chiusura corso scolastico Ipsar nega valore riabilitativo studi Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2015 "La chiusura di un corso scolastico a qualunque livello genera sconcerto e dolore perché significa ridurre le possibilità di riscatto sociale e di emancipazione culturale. La soppressione delle classi dell'Ipsar di Alghero dietro le sbarre lascia sgomenti perché viene negato il valore riabilitativo dello studio". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", precisando che "non si possono barattare i numeri con le opportunità di recupero per persone che hanno commesso errori e stanno pagando il loro debito con la società". "Appare davvero singolare - sottolinea - che un'istituzione il cui compito precipuo è quello di diffondere la cultura e rafforzare le competenze possa richiedere a un Istituto Penitenziario di garantire un numero minimo di studenti per mantenere un corso professionale statale. A meno che non si voglia indurre le persone a commettere reati per accedere alla formazione, sarebbe più opportuno considerare il significato che l'impegno individuale assume nelle scelte delle persone private della libertà". "L'Ufficio Scolastico Regionale, anziché affidarsi a meri calcoli ragionieristici, dovrebbe privilegiare - evidenzia la presidente di Sdr - l'importanza della scuola per restituire dignità a quanti vivono consapevolmente la detenzione e aspirano a migliorare le condizioni di vita proprie e dei loro familiari. Conseguire un diploma professionale e/o una laurea per un detenuto ha un significato particolarmente elevato e lo rafforza nell'azione riabilitativa. Cancellare questa opportunità significa far perdere le speranza a quanti attribuiscono alla conoscenza e al rapporto con i docenti un valore risocializzante". "Prima di assumere una decisione così dolorosa sarebbe quindi opportuno non solo considerare i risultati conseguiti negli anni precedenti dagli studenti ristretti e dai loro insegnanti ma riferirsi anche al ruolo riabilitativo e sociale del corso scolastico. Sarebbe inoltre il caso di affrontare la questione coinvolgendo l'assessorato regionale dell'Istruzione nonché gli amministratori locali. La cittadina catalana che vanta una particolare sensibilità verso la cultura - conclude Caligaris - non può accettare passivamente che venga cancellata una così importante esperienza di civiltà". Sulmona: detenuto in regime di 41bis ricoverato in ospedale per una sospetta meningite Il Centro, 19 maggio 2015 Rientra l'allarme per un detenuto del carcere di Sulmona ricoverato all'ospedale di Chieti con una sospetta meningite batterica. Dagli esami a cui l'uomo è stato sottoposto al policlinico è emerso che si tratta meningite di tipo virale, patologia non contagiosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche all'interno del supercarcere peligno, come ha riferito il responsabile dell'area medico-sanitaria Fabio Federico. Il paziente era stato ricoverato d'urgenza nel reparto di rianimazione dell'ospedale di Chieti dopo essere entrato in coma per una sospetta meningite. Le sue condizioni sono migliorate e già tra domani e dopodomani dovrebbe essere trasferito nel reparto malattie infettive del San Salvatore dell"Aquila. Avellino: denuncia dell'Osapp "il muro di cinta del carcere di Ariano Irpino cade a pezzi" ottopagine.it, 19 maggio 2015 L'Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, nonostante le nostre numerose e non riscontrate precedenti missive in merito, continuiamo a ricevere segnalazioni e lamentele da parte di Personale di Polizia Penitenziaria iscritto e non, sulle condizioni in cui versa la struttura penitenziaria Arianese, ed in particolar modo, sullo stato di degrado dell'Istituto penitenziario, della Caserma Agenti, gli alloggi demaniali, le sezioni detentive del vecchio reparto, il reparto infermeria. Solo alla fine dello scorso anno, il Provveditore Regionale, a seguito di numerose segnalazioni fatte dalle OO.SS., ha disposto la chiusura della cucina detenuti presente presso il vecchio reparto detentivo, ad oggi a distanza di mesi, ancora non è stata avviata alcuna opera di ristrutturazione e messa in sicurezza di tale locale. Inoltre, attualmente la cucina detenuti presente nel nuovo padiglione, realizzata per soddisfare le esigenze della popolazione presente in quel Reparto detentivo, oggi si vede costretta a sopperire anche alle esigenze di tutto l'intero Istituto Penitenziario, vecchio e nuovo, con ovvie e normali ripercussioni, sulla qualità e durata dei relativi arredi e struttura che lavora a ciclo continuo. Va evidenziato altresì, la mancata funzionalità degli impianti di montacarichi ed ascensori nell'intera struttura Penitenziaria (vecchio e nuovo reparto detentivo), tutto ciò comporta che i detenuti lavoranti devono effettuare la distribuzione del vitto, portando a mano per tutto l'istituto e fino al quarto piano i carrelli del vitto, lo stesso accade per la raccolta dei rifiuti e per la distribuzione dei generi di sopravvitto che acquistano tramite il mod. 72. Tale situazione della mancata funzionalità degli ascensori e maggiormente sentita, di fronte a casi critici di malore dei detenuti, che devono essere soccorsi e trasferiti o presso la sezione infermeria che si trova all'ultimo piano del vecchio padiglione o presso un luogo esterno di cura. Infatti più volte è stato lamentato da parte del Personale Sanitario tale grave disagio che oltretutto potrebbe essere pregiudizievole per il soccorso e per la salvaguardia del bene primario della vita Umana, nonché per coloro che sono anziani o con problemi di deambulazione. Alla luce di quanto sopra, non possiamo altresì, omettere di denunciare le pessime condizioni igienico Sanitarie, in cui versa la maggior parte del vecchio Istituto Penitenziario (compreso il block house, porta carraia, ingresso sezioni, colloqui, ecc. ecc.), insomma a dirla chiaramente, necessità di un intervento generale di ristrutturazione e tinteggiatura di tutti i locali e ambienti dove sono presenti i Poliziotti Penitenziari e i detenuti, nonché le camere di soggiorno di questi ultimi, nonché del muro di cinta che presenta diverse problematiche legate alla mancata manutenzione ordinaria ed a seguito degli agenti atmosferici. Corre l'obbligo fare un inciso sulla porta carraia, in particolar modo sulle condizioni lavorative dell'addetto, e la mancanza assoluta di sicurezza, considerato l'afflusso da quella parte di tutti coloro che accedono in Istituto sia a piedi che con gli automezzi (personale di Polizia Penitenziaria, detenuti art. 21, Avvocati, Magistrati, Personale civile, familiari dei detenuti, forze dell'Ordine, traduzioni, ecc. ecc.) in poche parole un porto di mare, ed un solo addetto per fare tutto ciò, ed inoltre vi sono anche gli armadi parzialmente funzionanti per il deposito delle armi individuali di tutti i Poliziotti Penitenziari in servizio presso l'Istituto Penitenziario Arianese. Questa O.S. propone, la riapertura della portineria Centrale, al fine di consentire l'accesso pedonale con ripristino dell'apparecchiatura per il controllo "metal detector", la delocalizzazione degli armadi presso il Block House per il deposito delle armi, previa sostituzione di tutte le serrature con un tipo di sicurezza, l'automazione del cancello pedonale esterno alla porta carraia comandato elettricamente e la seconda unità nella fascia di maggiore movimentazione (8/14). Infine non possiamo non parlare del Block House, dove vi è la presenza h 24 di un solo Operatore di Polizia Penitenziaria, che purtroppo opera con serie difficoltà, a seguito della carenza di strumenti tecnologici che possano contribuire al controllo veicolare e pedonale di coloro che accedono quotidianamente presso la Casa Circondariale Arianese. Di fatti, il secondo cancello lato interno sembrerebbe da tempo non funzionante, pertanto all'atto dell'apertura del primo cancello, ci si trova direttamente all'interno dell'Istituto senza che vi sia la possibilità di effettuare i dovuti controlli e riscontri nella zona filtro, cioè tra i due cancelli carrabili esistenti, lo stesso dicasi per il cancello pedonale, privo di qualsiasi sicurezza e metal detector per il controllo del personale e visitatori, inoltre i monitor presenti presso il Block House in parte non sono funzionanti tutto ciò, necessità un urgente intervento per consentire i minimi standard di sicurezza, anche in considerazione dei gravi fatti recentemente accaduti presso il Tribunale di Milano. Non ci resta dopo queste segnalazioni, confidare nella sensibilità delle Autorità in indirizzo affinché ognuno per quando di propria competenza possano intervenire al fine di trovare la soluzione, per garantire una discreta condizione lavorativa al Personale di Polizia Penitenziaria e Civili in servizio presso l'Istituto Penitenziario Arianese, considerato lo stato di abbandono in cui è stato lasciato negli ultimi anni. Verona: a Montorio segnali di disgelo tra sindacati di polizia penitenziaria e direttrice di Alessandra Vaccari L'Arena, 19 maggio 2015 Dopo mesi, per la prima volta gli agenti e la dirigente dell'istituto si sono confrontati sull'organizzazione del lavoro e sulla sicurezza È cominciata con un muro contro muro. Ma alla fine segnali di distensione ce ne sono stati. Grazie all'intervento del prefetto Iginio Olita, che ha convocato allo stesso tavolo i rappresentanti delle organizzazioni sindacali che tutelano il personale della Polizia penitenziaria e il direttore del carcere assieme al suo comandante. A chiede re il tavolo di concertazione erano stati i rappresentanti di Sappe, Osapp, Ugl Pol-Pen, Cisl-Fns e Cgil-Fp, cui poi si sono aggiunte anche le altre sigle che invece non avevano avuto atteggiamenti così critici nei confronti della direzione del carcere. "Non possiamo che ringraziare il prefetto", hanno detto i sindacalisti all'uscita dall'incontro nei palazzi scaligeri, "la sua opera è stata fondamentale. La nostra direttrice all'inizio era molto arroccata sulle sue posizioni, è stato il prefetto a farle capire che era necessario trovare posizioni comuni per il bene di tutti, visto che noi operiamo nell'ambito della sicurezza", ha detto Carlo Taurino, della Cgil-Fp. Alla fine, è stato anche concordato un incontro tra rappresentanti sindacali e direttrice, che si terrà venerdì. Intanto ieri pomeriggio i sindacalisti hanno relazionato alla loro assemblea sul tavolo di concertazione che si è svolto in prefettura. "Al rappresentante di governo abbiamo consegnato una nostra memoria", spiega Daniela Ferrari della Cisl-Fns, "in cui spieghiamo che da oltre due anni siamo impegnati al ripristino delle buone costruttive relazioni sindacali con la direttrice che invece è riluttante. Saremmo disonesti se non ammettessimo che il cambiamento dovuto ai principi dell'umanizzazione della pena, conseguenti alla sentenza Torreggiani ha portato a un certo sconquasso anche nel nostro istituto, che fino a tre anni fa era l'eccellenza a livello nazionale. Ma altrettanto doveroso è dire che il cambiamento poteva e doveva essere accompagnato da un'opera di analisi e rivisitazione dell'attuale struttura organizzativa e soprattutto strutturale del carcere di Montorio, seguendo le indicazioni che il Dipartimento (amministrazione del carcere ndr) aveva impartito", aggiunge Ferrari. Tra i provvedimenti più urgenti che chiede la Polizia penitenziaria c'è il ripristino di due agenti, anche durante il cambio del turno in sezione visto che con il regime di celle aperte ci si trova sempre con un agente e una sessantina di detenuti negli spazi comuni. Una situazione di non sicurezza per gli operatori e per gli stessi detenuti. Molti di loro si sono organizzati in turni per uscire dalla cella ed evitare che altri entrino magari a rubare le loro cose. Parma: Ass. Progetti&Teatro, nove detenuti di alta sicurezza portano in scena Ulisse di Francesco Palomba Redattore Sociale, 19 maggio 2015 Il teatro come ricerca di sé e degli altri per i detenuti degli Istituti penitenziari di Parma. Lo spettacolo realizzato dall'associazione Progetti&Teatro è l'esito del laboratorio tenuto da Carlo Ferrari e Franca Tragni. In programma il 20 maggio alle 13 in carcere. Un viaggio volto alla riscoperta delle proprie origini. Che cos'è Itaca per Ulisse se non un ritorno a se stesso? Alle proprie sicurezze? È questo il tema al centro di "La mia Itaca", spettacolo, che vedrà la partecipazione di 9 detenuti, nato da un laboratorio teatrale tenuto con cadenza settimanale nel carcere di Parma da Carlo Ferrarie Franca Tragni, che da 11 anni collaborano con grande tenacia per garantire lo svolgimento di questa attività a favore delle persone detenute. "Siamo riusciti a creare una bella atmosfera per permettere a queste persone di riuscire a sentire le grandi potenzialità che hanno. Il lavoro di quest'anno si è concentrato sull'Odissea per portare un'immagine di speranza che potesse alimentare i sogni". Questi i propositi e gli obiettivi dei due registi, autori dello spettacolo, e, in questo caso, anche educatori. Lo spettacolo, realizzato dall'associazione culturale Progetti&Teatro con il sostegno degli Istituti penitenziari di Parma e del Comune, andrà in scena il 20 maggio alle 13 presso il carcere della città. I partecipanti al laboratorio sono detenuti di alta sicurezza e "l'esperienza del teatro - hanno sottolineato Carlo Ferrari e Piera Metallo, educatrice degli Istituti penitenziari di Parma - ha offerto, dal punto di vista sociale e personale, un ritorno significativo in termini di autostima e attenzione verso se stessi e gli altri, con i quali ci si relaziona". Itaca, quindi, è la metafora dell'obiettivo da raggiungere. Ulisse è, invece, l'esempio di come percorrere quest'avventura piena d'ostacoli e intemperie. Proprio come nel poema epico di Omero che, nel primo libro dell'Odissea, riunisce il Concilio degli dei per determinare il ritorno a casa del re di Itaca, dove, in sua assenza, banchettano i Proci, coloro che vogliono prendere in sposa Penelope, sua moglie. Chi ne ha sentito parlare sa che il protagonista, contro il volere del potente dio del mare Poseidone, dopo un lungo viaggio di dure prove e sfide in terre sconosciute, riuscirà a tornare a casa e a sconfiggere i Proci. Trasformato dalla dea della sapienza in un povero e fragile anziano, Ulisse è l'unico a superare la prova stabilita da Penelope (tendere e scoccare la freccia con l'arco magico) sotto suggerimento d'Atena, per chi avesse voluto sposarla. Con esso sconfigge i suoi nemici, ancora sorpresi dal fatto che uno sconosciuto fosse riuscito nell'impresa da loro miseramente fallita. Riappropriandosi della sua terra, della sua famiglia e di se stesso, Ulisse, incarna il simbolo dell'uomo che riesce a superare le prove della vita con la forza dell'ingegno versatile e curioso. Questo spettacolo vuole essere il superamento delle prove degli dei e l'ascolto dei loro consigli; l'arco magico con cui i 9 Ulisse sconfiggeranno i propri Proci e il viaggio verso la riappropriazione di Itaca. Un percorso volto non solo ai detenuti ma a chiunque voglia risentirsi parte integrante della comunità. Varese: il cibo e il racconto, il concorso letterario per i detenuti si ispira a Expo www.varesenews.it, 19 maggio 2015 La premiazione della quinta edizione della manifestazione in programma giovedì 21 maggio alle ore 17 nella Sala Ambrosoli di Villa Recalcati. "Il cibo e le storie", è il titolo scelto per la quinta edizione del concorso artistico letterario promosso dalla Casa Circondariale di Varese e rivolto alle persone recluse negli Istituti di Pena della Lombardia. Sulla scia delle tematiche affrontate da Expo, oltre 150 detenuti reclusi in 12 Istituti di Pena hanno aderito all'iniziativa inviando racconti, fotografie, disegni e piccole istallazioni. Le opere saranno presentate all'interno della cerimonia di premiazione che si terrà giovedì 21 maggio alle ore 17 nella Sala Ambrosoli di Villa Recalcati (sede della Provincia di Varese, p.za libertà,1 Varese). Il prof. Gianni Emilio Simonetti, esperto di antropologia culturale introdurrà il tema dell'incontro. Al termine della cerimonia verrà servito un aperitivo multietnico organizzato dalle donne aderenti al progetto "Oltre le porte". Questo evento è stato organizzato con la collaborazione di: Fondazione Enaip Lombardia, Cooperativa Lotta Contro L'Emarginazione, Auser Varese, Associazione Assistenti Carcerari S.Vittore Martire. L'iniziativa è aperta a tutti coloro che intendono farsi un'idea diretta di quanto sta avvenendo oggi nelle carceri del nostro paese. Milano: al Pirellone un concert-show con i detenuti del carcere di Opera www.varesereport.it, 19 maggio 2015 Un concert-show per la pace nel mondo messo in scena dai detenuti del carcere di Opera (MI). È dirompente il messaggio legato allo spettacolo "L'amore vincerà", che andrà in scena a Palazzo Pirelli il 20 e il 21 maggio all'Auditorium Gaber. Oggi, in conferenza stampa, sono stati illustrati i contenuti dell'evento e la genesi di questa originale partnership tra il Consiglio regionale della Lombardia e il penitenziario di massima sicurezza di Opera. Una collaborazione nata in seno alla Commissione Speciale "Situazione carceraria in Lombardia", presieduta da Angelo Fanetti, e poi sostenuta dall'Ufficio di Presidenza e dal Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Raffaele Cattaneo. L'opera, diretta da Isabella Biffi, rientra in un progetto culturale di rieducazione attivato già 7 anni fa e che ha avuto anche l'opportunità di far calcare ai detenuti il palcoscenico del teatro Arcimboldi. "L'idea di un carcere dove rinchiudere persone e gettare la chiave, come vorrebbe parte della vulgata comune, sarebbe un danno per tutta la società - spiega il Presidente Cattaneo -. Le strutture penitenziarie che non offrono una proposta rieducativa hanno una percentuale elevatissima di recidiva. Il carcere, dunque, deve essere un luogo dove espiare le pene, ma anche dove trovare le ragioni per ricostruire se stessi e il proprio rapporto con la società. In questo percorso l'arte è uno strumento straordinario di riscatto e con questo evento il Consiglio regionale accoglie e condivide l'idea di un carcere che restituisce alla società delle persone". "Quando mi sono avvicinato per la prima volta a questo progetto ho provato delle emozioni rare - spiega il Presidente Fanetti - Attraverso questo lavoro le persone sono davvero in grado di trasformare, di far emergere bontà e amore che, per motivi diversi, sono venuti meno o erano sopraffatti da altri sentimenti". Alla conferenza stampa erano presenti anche il direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano, la regista Isabella Biffi e uno dei protagonisti del concert-show, Francesco Ranieri, da una settimana in libertà dopo 17 anni di reclusione. Il direttore Siciliano ha rilevato "l'importanza di dare visibilità anche esterna a un lavoro che ha il merito di formare dei professionisti che comprendono davvero per cosa valga la pena "spellarsi" le mani". La regista Biffi ha parlato di "rivoluzione umana" e della "capacità dell'arte e del teatro di trasformare il veleno delle persone in medicina". "Una persona, pura avendo sbagliato, deve avere la possibilità di essere rivalutato - ha detto Ranieri, che anche da uomo libero continua a seguire il progetto e a partecipare a prove e messe in scena. Pacificare noi stessi vuol dire essere pronti ad essere in pace con il mondo". Milano: aperitivo in carcere nel giardino della sezione femminile di San Vittore di Barbara Righini Io Donna, 19 maggio 2015 C'è un giardino segreto, o almeno sconosciuto ai più, all'interno della sezione femminile della Casa Circondariale di San Vittore, a Milano. In concomitanza con Expo, fino a ottobre, un paio di volte al mese, il giardino si trasforma in location per un aperitivo didattico aperto alla cittadinanza e organizzato e gestito dalle donne detenute allieve della "Libera scuola di cucina". La scuola è gestita da A&I Onlus in convenzione con la Direzione di San Vittore. Dal 2012 le donne detenute possono, se vogliono, imparare a cucinare, a organizzare un evento culinario, a servire a tavola, in modo da rendere produttivo e costruttivo il tempo della detenzione e in modo da imparare un mestiere per il futuro reinserimento in società. "Lavorare mi aiuta a far passare il tempo veloce", ha raccontato Dana, una delle donne che partecipano al progetto. "Ho imparato a fare la pizza, la pasta al forno e poi mi aiuta a non pensare", ha testimoniato un'altra delle ragazze. Gli aperitivi servono anche come metodo di autofinanziamento della ‘Libera scuola di cucinà. I partecipanti, che siano aziende o liberi cittadini, sono infatti invitati a fare una donazione. Il progetto è stato inserito fra quelli di "Women for Expo" ed è stato premiato dal Presidente della Repubblica Mattarella. Torino: Salone del Libro, la letteratura di Helle Helle al carcere di Davide Mazzocco www.booksblog.it, 19 maggio 2015 La scrittrice danese, autrice di Come fosse al presente, ha presentato il suo libro, edito da Scritturapura, alla Casa circondariale di Torino Lorusso e Cutugno nell'ambito del Salone Internazionale del Libro. Per la prima volta la Casa circondariale Lorusso e Cutugno ha ospitato la presentazione di un libro nell'ambito di Voltapagina, iniziativa del Salone Internazionale del Libro che da alcuni anni porta gli scrittori nelle carceri piemontesi. In passato altri scrittori erano stati ospitati dal carcere minorile Ferrante Aporti, ma mai, prima d'ora, si erano aperte le porte del carcere che ospita fra i 1300 e i 1400 detenuti adulti, alle porte della città sede del Salone del Libro. Protagonista dell'evento che si è svolto nella sezione con trattamento di custodia attenuata è stata la scrittrice danese Helle Helle, autrice di Come fosse al presente, libro fresco di stampa per i tipi di Scritturapura, casa editrice astigiana specializzata nelle letterature ai confini dell'Europa, dal Portogallo all'Islanda, dalla Turchia alla Danimarca. L'incontro è stato organizzato all'interno di un progetto di più ampio respiro, quello della rivista Letter@ 21 realizzata da Eta Beta Scs in collaborazione con Liberlab Soc. Coop. e Scritturapura Casa Editrice con i contenuti prodotti dai detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, da sempre all'avanguardia per tutto ciò che riguarda i percorsi trattamentali e formativi offerti ai propri ristretti. La parte introduttiva sulla situazione carceraria è seguita da sei letture critiche con le recensioni di altrettanti titoli pubblicati da Scritturapura "Il libro bianco di Rafael Horzon, La stanza dipinta di Inger Christensen, La notte in cui cadde il muro di Renatus Deckert, Cinque sigilli di Luca Ragagnin, Materna dolcezza di Possidonio Capacha e Sangue di tutti noi di Giorgio Bona. Nel numero zero della rivista anche sezioni dedicate alle sceneggiature, allo sport, alla cucina, ai giochi, poesie e una recensione cinematografica. Letter@ 21 è un progetto cartaceo che trova spazio anche sul web". Helle Helle ha rivelato quanto di autobiografico vi sia nella storia di Dorte, la ventenne danese che abbandona la campagna per trasferirsi a studiare a Copenaghen. Una volta giunta in città, Dorte non frequenta le lezioni, passa da una relazione all'altra e si mette alla ricerca di se stessa, mentendo ai genitori sulla propria quotidianità. "Tutti i miei libri parlano di donne e uomini che fanno il contrario di quello che dovrebbero fare. Non avrei stimoli nel parlare di persone che riescono a trovare la loro strada e un obiettivo nella vita. La ragazza protagonista del libro è un po' persa e mi ricorda la mia giovinezza. Come fosse al presente ha ricevuto di recente lusinghiere recensioni su The Guardian e sull'Independent. La scrittrice danese parla dei punti di riferimento della propria scrittura: Ernest Heminghway, Virginia Wolf, alcuni scrittori norvegesi e alcuni sudamericani, Gustave Flaubert con il suo Madame Bovary. Al centro dei suoi libri c'è sempre la ricerca dell'identità. "Non scrivo libri con molta suspense: parlo di chi non sa cosa fare, di chi prende decisioni sulla base di quello che gli altri gli dicono di fare o come se fosse in balia del vento". Il pubblico partecipa con attenzione al dibattito e un detenuto chiede alla scrittrice che cosa abbia provato all'ingresso in una struttura detentiva: "Ero nervosa, non tanto per il fatto che l'incontro si sarebbe svolto in carcere, ma perché dovevo presentare il mio libro in Italia. Quando l'educatrice, all'ingresso, ci ha spiegato che due persone condividono un spazio di 9 mq, ho pensato che fosse una cosa inimmaginabile. Mi sono chiesta come si faccia a non impazzire o quando si sente il bisogno di stare da soli. E ho pensato che la letteratura possa essere uno strumento per creare uno spazio e un tempo più ampi". Il mini tour torinese di Helle Helle è poi proseguito con le presentazioni alla Libreria Trebisonda e al Salone Internazionale del Libro di Lingotto Fiere. Immigrazione: Europa unita… ma solo nell'intervento militare di Carlo Lania Il Manifesto, 19 maggio 2015 Migranti. Via libera alla missione contro gli scafisti, ma è guerra sulle quote di accoglienza È un'Unione europea brava a menar le mani ma decisamente scarsa in solidarietà quella uscita dal vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa di ieri a Bruxelles. Riuniti per dare finalmente il via libera al piano che dovrebbe contrastare i trafficanti di uomini e allo stesso tempo cominciare una prima, seppure esigua distribuzione dei profughi (in ballo c'erano appena 20 mila posti), i 28 si sono ritrovati concordi solo per la prima parte, quella militare, ponendo invece resistenza alla possibilità di accogliere sul proprio territorio uomini, donne e bambini che pure fuggono da guerre e persecuzioni. Intendiamoci: nessuna sorpresa. Nei giorni scorsi già Gran Bretagna, Ungheria e Polonia si erano dette contrarie al principio delle quote obbligatorie, ma la loro si poteva considerare un'opposizione in qualche modo messa nel conto. Domenica invece, a sorpresa un no pesante è arrivato dalla Francia, e la scelta di Parigi ha avuto come primo effetto quello di trascinare con sé anche la Spagna. Il segno di un debacle politica generale, prima di tutto per il governo italiano, che già da giorni cantava vittoria su un risultato evidentemente tutt'altro che scontato. Ma anche dell'Europa che ancora una volta vede prevalere gli egoismi nazionali sugli interessi comuni. Per l'Italia quello francese è un "tradimento" che lascia il segno. "Mi auguro davvero che non ci siano dei passi indietro, sarebbe molto amaro", commentava il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni quando, a consiglio ancora in corso, già si intuivano i primi nuvoloni. Situazione talmente grave che a sera anche il presidente della Repubblica sente l'urgenza di intervenire: "I flussi che partono dalla Libia - avverte Mattarella - configurano un dramma umanitario senza precedenti di cui l'Europa deve farsi carico collettivamente, con senso di responsabilità, spirito di solidarietà e disponibilità all'accoglienza". Come era prevedibile, nessun ostacolo è arrivato invece dai 28 alla missione militare, anche se resta ancora l'incognita della risoluzione Onu che dovrebbe consentire interventi anche in acque libiche. Come ha ricordato l'alto rappresentante per la politica etera dell'Ue Federica Mogherini, il via ufficiale all'operazione di contrasto degli scafisti - che si chiamerà EuNavFor Med, Forza navale europea per il Mediterraneo - non si avrà prima del 24 giugno, giorno in cui è fissato il consiglio dei capi di Stato e di governo. È stato comunque deciso che sarà l'Italia a guidare la missione sotto il comando dell'ammiraglio Enrico Credendino che avrà il suo quartiere generale al Coi (Comando operativo interforze) di Centocelle. La missione ha un mandato di 12 mesi e per i primi, considerati come una fase di avvio, potrà contare su un budget di 11,82 milioni di euro. Diverso i discorso sugli obiettivi de dispiegamento di forze che verrà messo in campo. Nel piano messo a punto dalla Mogherini sono previste tre fasi: una prima di controllo in acque internazionali suffragato anche dal lavoro di intelligence. La seconda nella acque libiche a caccia dei barconi utilizzati dagli scafisti con lo scopo di affondarli prima che vengano caricati. E infine la terza, in cui è prevista la possibilità di intervenire direttamente nei porti libici per colpire le imbarcazioni. Questi ultimi due interventi non sono però possibili senza il via libera dell'Onu e soprattutto senza la collaborazione delle autorità libiche. Quella che si gioca al palazzo di vetro è comunque una partita a sé, e anche questa dagli esiti imprevedibili la bozza di risoluzione circolata finora si basa sull'articolo 7 della Carta delle Nazioni, unite, che permette azioni di forza in casi estremi. E se anche ieri la Mogherini ha ribadito di non vedere grossi problemi, la possibilità di qualche sorpresa è sempre forte. Sia perché la Russia ci tiene a mettere in chiaro che un eventuale intervento sul suolo libico deve essere limitato al contrasto delle organizzazioni criminali, volendo così evitare una ripetizione di quanto accaduto nel 2011. Sia perché ieri l'ambasciatore libico all'Onu, Ibrahim Dabbashi, a mostrato più di un dubbio sul pino messo a punto dall'Ue. "Non è una buona idea", ha detto il diplomatico riferendosi alla possibilità di affondare i barconi direttamente nei porti libici. "Sarà molto difficile distinguere le barche dei pescatori da quelle dei trafficanti. Potrebbe essere un disastro per i pescatori". E non solo per loro, se dall'Onu dovesse arrivare una risoluzione con restrizioni maggiori rispetto a quelle previste. Immigrazione: la democrazia affonda nel Mediterraneo di Marco Revelli Il Manifesto, 19 maggio 2015 Cancellata la memoria dei suoi fallimenti, l'Europa si prepara, per via amministrativa, a una nuova, folle avventura di guerra nel Mediterraneo. E l'Italia di Renzi, con il partito della nazione, è in prima fila. Forse è bene provare ad alzare un po' lo sguardo allo scenario generale, in violento movimento soprattutto nel quadro europeo, per cercare di trovare un senso al di sopra di una discussione condotta prevalentemente in modo superficiale o anacronistico. Prendiamo ad esempio le elezioni politiche in Gran Bretagna. Sono state discusse, da quasi tutti, come se si fosse trattato della solita partita tra Tories e Labour - tra destra e sinistra. Oppure, soprattutto nell'area Pd, come se in ballo fosse la gara tra New e Old Labour, un derby - per usare una categoria cara a Renzi - tra Tony Blair (riesumato) e Ed Miliband (rapidamente seppellito), avendo trionfato postumo il primo ed essendo affondato neonato il secondo. Basta dare un'occhiata ai dati e alle belle mappe colorate che gli inglesi sanno fare benissimo, per capire che non è così. Se si considerano i voti in valori assoluti, anziché i seggi condizionati dal sistema elettorale, si vedrà che il Labour di Miliband non si è affatto svuotato drammaticamente, anzi ha preso (con i suoi 9.347.326) circa 700.000 voti in più rispetto a quelli di Gordon Brown cinque anni fa, e - udite udite - appena 200.000 in meno del mitico Blair che nel 2005 ne aveva raccolti 9.552.436. Quello che è andato in pezzi, invece - ed è la luna che bisognerebbe guardare, anziché il dito che ognuno si caccia nell'occhio - è il Regno Unito. L'United Kingdom, che non è più per nulla United, e sempre meno Kingdom. La macchia uniformemente gialla della Scozia, con i 56 seggi su 58 allo Scottish National Party di Nicola Sturgeon (alla sinistra di Miliband, per la cronaca); quella prevalentemente verde e grigia dell'Irlanda; la quasi assenza di blu (Cameron) e di rosso (Miliband) in Galles, ci dicono che il vecchio gioco del bipartitismo si pratica ormai solo in una delle quattro "terre" del Regno, nella vecchia Inghilterra. Anzi, a ben vedere neppure più qui, dove non può non colpire l'estensione omogenea del colore blu (mentre le aree rosse sono quasi esclusivamente concentrate nella "grande Londra" e nella fascia sempre più ristretta che va dallo Yorkshire al Lancashire). E anche questo monocromatismo è il segno che un meccanismo si è rotto: che la tradizionale democrazia dell'alternanza non funziona più nella sua stessa patria, ora che l'antica frattura di classe capitale-lavoro, ancorata alla territorialità dei collegi uninominali, lascia il posto, nell'inedita mobilità del lavoro, a fattori come la paura e il bisogno d'identità in un'Inghilterra irriconoscibile a se stessa nella sua tardiva fragilità e nel suo inedito isolazionismo. Pochi se ne sono accorti. Ma è quello il vero messaggio preoccupante, perché se la democrazia s'inceppa nel luogo stesso in cui è nata, significa che siamo veramente al di là di una linea d'ombra. Tanto più che quel sotterraneo cedimento strutturale dell'impianto democratico si sta manifestando in forme sempre più clamorose anche nel centro stesso dell'Europa continentale. Può sembrare un dettaglio, ma mi ha colpito un commento recente in Tv, a proposito del referendum ventilato dal governo greco sugli impegni da assumere con l'Europa, in cui si diceva en passant che si potrebbe anche tenere perché - testuale - "il ministro Schauble sembrerebbe favorevole a permetterlo". Il ministro Schauble! Cioè il ministro delle finanze della repubblica federale tedesca - un responsabile economico, di un Paese altro, sia pur potente -, chiamato ad autorizzare o meno l'espressione più elementare della sovranità popolare in un paese membro. D'altra parte l'aspetto più evidente di tutta la lunga trattativa seguita alla svolta democratica in Grecia, è stato il costante tentativo dell'oligarchia europea di costringere in modo bipartisan - Ppe e Pse, Merkel o Hollande, senza significative differenze - il nuovo governo di Alexis Tsipras a tradire il mandato elettorale e ad assumere provvedimenti socialmente dolorosi e per certi aspetti feroci nei confronti della parte più sofferente dei propri cittadini. Come se il "privilegio" di appartenere all'Unione presupponesse la disponibilità dei governi a "far male" ai propri popoli, secondo un modello di politica neo-feudale, sacrificale, sostanzialmente premoderno (e dal punto di vista filosofico-politico pre-contrattualistico: non è stato Mario Draghi a proclamare che "il contratto sociale è morto"?), in cui all'antica "unzione" divina è sostituita l'ipermoderna "funzione" economica (anzi, finanziaria). E al corpo del sovrano il più impersonale "pilota automatico", termine forse più scientifico ma che, come quello, trasferisce i criteri delle scelte pubbliche al di fuori e al di sopra della società e del controllo dei cittadini che la compongono, secondo un modello che la folle architettura dell'Unione europea - strutturalmente orientata a neutralizzare il livello esecutivo rispetto al processo politico-rappresentativo - formalizza e impone, a cascata, sui paesi membri. La chiamano "democrazia esecutiva" non essendo più sostenibile il termine "rappresentativa", ma si tratta ormai di una post-democrazia. Cioè di un'oligarchia sempre meno elettiva, nella quale per quello che resta delle sinistre novecentesche, a cominciare dalle socialdemocrazie classiche, c'è sempre meno spazio (e infatti sono o in profonda crisi come in Francia e Inghilterra, o in via di assimilazione al grande centro come in Germania), venendo a mancare i requisiti minimi per la rappresentanza di interessi (in primo luogo quelli del mondo del lavoro) che il paradigma prevalente - Graecia docet - cancella dal proprio orizzonte. Così come cancella la memoria delle sue stesse catastrofi preparandosi, per via amministrativa, a una nuova, folle avventura di guerra nel Mediterraneo. Di questa emergenza democratica che scuote alle radici il corpo politico dell'occidente - di questa "rivoluzione conservatrice", come è stata giustamente chiamata -, l'esperienza italiana del governo Renzi è un'espressione caricaturale, segnata da un di più di virulenza (o di goliardia) per l'innesto populistico che il suo autore v'immette, ma non esterna. O men che meno estranea. S'inserisce anzi in modo organico in quella stessa dimensione sistemica che ha fatto dire a uno come Noam Chomsky che "le democrazie europee sono al collasso". Ed è per questo particolarmente infida e minacciosa (tutto sommato più minacciosa della sgangherata sfida berlusconiana, perché più interna a un potere transnazionale), da combattere nello spazio nazionale e insieme nella sua radice continentale. Non per niente abbiamo chiamato la nostra lista L'Altra Europa con Tsipras, a dare il segno di una battaglia lunga e comune. Sinceramente, avrei preferito che Barbara Spinelli ci avesse messo a disposizione la sua competenza e intelligenza di colta europeista per aiutarci ad approfondire questi aspetti del nostro difficile essere altro da tutto ciò, piuttosto che "prendere le distanze" - come ha scritto - dall'Altra Europa con motivazioni di cui mi è difficile cogliere la focalità politica (e l'eventuale incomponibilità delle rispettive posizioni). A meno che nel suo rimprovero di un eccesso di relazionalità (o di diplomazia, o di subalternità) nei confronti delle formazioni politiche che furono con noi nelle europee e delle figure che stanno, in modo sempre più netto, rompendo con il Pd, non ci sia una più radicale rivendicazione di autonomia e di ostilità nei confronti della "società politica" in quanto tale, identificata con ciò che sta "in alto" e contrapposta a quanto sta "in basso" secondo uno schema verticale che sostituirebbe il vecchio asse orizzontale destra-sinistra e che ha orientato le retoriche del Movimento 5 Stelle. In questo caso il dissenso sarebbe davvero netto. In primo luogo perché la constatazione della crisi strutturale della forma-partito - su cui io stesso ho speso molte parole - non significa necessariamente, anzi non significa affatto una dichiarazione di ostilità e inimicizia nei confronti delle persone e delle culture che in quegli organismi hanno militato o continuano a militare (ma, al contrario, una disponibilità alla ricerca comune di forme radicalmente innovative per andar oltre). E in secondo luogo perché resto convinto che per combattere il Partito della Nazione di Renzi - che considero la priorità assoluta del momento - non serva, oggi, la cosiddetta antipolitica. Cioè la vis polemica che permise a suo tempo a Grillo di colpire e affondare la corazzata bersaniana. Per la semplice ragione che il renzismo ha già incorporato quell'antipolitica. Ne ha fatto una parte strutturale della propria retorica e della propria legittimazione. E che per colpirlo efficacemente oggi serva, al contrario, un di più di politica. Di progettualità politica. Di innovazione politica. Di relazionalità politica. E di forza politica: forza delle idee (perché bisognerà averne di grandi, e radicali, per uscirne in avanti), ma anche forza dei numeri. Capacità di mettere in campo lo schieramento più ampio e articolato possibile, in grado di raggiungere quella massa critica che è condizione di credibilità di un progetto che si proponga di rovesciare non solo le scelte di un governo, ma un paradigma, e di praticare lo spazio continentale della sfida europea. Per questo mi auguro che subito dopo il voto regionale, nel quale almeno gli embrioni di quella massa critica potranno aver modo di manifestarsi, si avvii un processo costituente ampio. Molto più ampio del fronte che sostenne nel 2014 il nostro progetto pilota. Stati Uniti: Report di Vera Institute of Justice "le dieci verità sull'isolamento carcerario" di Annalisa Lista www.west-info.eu, 19 maggio 2015 Molti sono i miti legati al regime di isolamento in carcere. E non tutti sanno davvero in che consiste e quali sono i suoi effetti sulla salute. Per sfatare alcuni di questi luoghi comuni, l'istituto americano Vera Institute of Justice ha pubblicato un rapporto in dieci punti essenziali. 1. Si pensa che il regime di isolamento preveda condizione severe ma non disumane. Invece, si trascorrono intere giornate in una micro cella. Senza tv, senza libri, con poca luce. Con la rara possibilità di parlare con familiari e terapisti. 2. Si pensa che finiscano in isolamento solo gli individui pericolosissimi e violenti, come i serial killer. Spesso, invece, finiscono in isolamento anche quelli che hanno solo infranto una regola imposta in carcere. 3. Spesso si abusa dell'isolamento, che dovrebbe essere adottato solo in casi estremi. 4. Il periodo di segregazione, spesso, dura più del dovuto. 5. Si tende a pensare che gli effetti dell'isolamento sulla salute fisica e psichica siano sovrastimati. Invece, le patologie legate a questa forma di detenzione sono numerose e accertate. 6. È opinione comune credere che l'isolamento limiti i casi di aggressione sul personale penitenziario. Al contrario, alcune riforme hanno dimostrato che la riduzione del ricorso a questo trattamento ha ridotto anche la violenza nei confronti dei secondini. 7. In alcuni ordinamenti giudiziari l'isolamento è adottato come misura correttiva. Invece, dalle analisi del Vera Institute, emerge che tale pena non ha alcun risultato positivo sulla condotta del detenuto. 8. In alcuni sistemi ordinamenti si ritiene che porre in isolamento persone socialmente pericolose come i disabili mentali sia la soluzione. È stata dimostrata, invece, la maggior efficacia di misure alternative. 9. L'isolamento non è meno costoso delle più tradizionali forme di incarcerazione. A causa dell'aumento del personale di controllo e di sofisticatissimi strumenti di sorveglianza, un prigioniero in isolamento negli Stati Uniti può arrivare a costare $216,12 al giorno rispetto ai $85,74 di un detenuto qualsiasi. 10. Contrariamente alle diffuse credenze, mettere in libertà i detenuti che hanno vissuto in isolamento senza reinserirli gradualmente in società attraverso programmi di riabilitazione, aumenta il tasso di recidiva. Tunisia: al 200% il sovraffollamento delle carceri, sotto accusa la detenzione preventiva di Diego Minuti Ansa, 19 maggio 2015 Le carceri tunisine sono ormai al collasso, nonostante il fatto che i governi post-rivoluzione abbiano fatto dell'edilizia carceraria un punto fisso delle loro politiche. Secondo gli ultimi dati, peraltro avallati da rilevazioni di organizzazioni come la Lega tunisina per i diritti dell'Uomo e Human Rights Watch, in molte delle carceri del Paese la situazione è ad un passo dall'esplodere, con un tasso di occupazione delle celle che è del 200 per cento rispetto alla capienza massima (peraltro, c'è da dire, calcolata con estrema larghezza, quasi con colpevole benevolenza rispetto alla realtà delle strutture). È un problema difficile da risolvere soprattutto perché i tempi per la realizzazione di nuove strutture carcerarie sono oggettivamente lunghi, per la trafila burocratica (bandi, valutazione delle proposte, ricerca dei fondi) e per i tempi netti di costruzione. E questo accade in un momento che vede le carceri tunisine non brillare certo per rispetto degli standard minimi di vivibilità. Ma tutto questa nasconde un problema, che appare evidente agli addetti ai lavori e che riporta ad un dato che si commenta da solo: in questo momento in carcere il numero di coloro che attendono un giudizio supera quella di coloro che, condannati, stanno espiando una pena. Ed è questo che sta alimentando le polemiche in seno agli addetti ai lavori, con avvocati e attivisti dei diritti umani che condannano, senza esitazione, l'uso che i magistrati inquirenti fanno dello strumento della carcerazione preventiva che, sostengono, solo in assenza di alternative, dovrebbe essere l'ultima risorsa per un pubblico ministero. Invece, si dice da più parti, la carcerazione preventiva è ormai dilagante e tutto lascia sospettare che essa sia diventata non uno strumento di cautela per il pubblico ministero, ma qualcosa di cui si abusa per fare pressioni non solo psicologiche sul presunto reo o per mettere dietro le sbarre una persona su cui si pensa di indagare, ma a tempo debito. Durante la dittatura ed anche nell'era di Bourghiba poche voci si levavano contro lo stato delle carceri, con la sola eccezione delle opposizioni che protestavano contro il trattamento riservato ai detenuti politici. Ma ora è difficile arginare l'ondata crescente della rabbia e di questo il governo dovrà pure tenere conto. A detta di molti, nuove carcere non risolveranno il problema, ma appare difficile imporre un alt a certi atteggiamenti della magistratura inquirente, alle prese con una enorme e forse insostenibile massa di processi - soprattutto per delitti contro la proprietà e la persona. Nepal: "Coraggio e pazienza", le sopravvissute alla tratta fondano una ong di Marta Santomato Cosentino il manifesto, 19 maggio 2015 Il peggioramento della vita provocato dal terremoto rischia di aumentare il numero di giovani che finiscono tra le mani dei trafficanti. Ma c'è chi riesce a salvarsi, dando vita a una ong unica al mondo. "Coraggio e pazienza". Sono queste le virtù invocate dal primo ministro nepalese Sushil Koirala nel suo tardivo discorso alla nazione dopo le due violente scosse di terremoto che oltre agli edifici, hanno fatto crollare anche le speranze. Coraggio e pazienza per ripartire, per non cedere alla disperazione e fronteggiare il pericolo di un nuovo- violento- sciame sismico. Coraggio e pazienza per resistere all'inganno di chi promette una vita migliore. Oltre agli oltre 8 mila morti, ai 18 mila feriti e alle 300 mila case che si sono sbriciolate, il terremoto ha acuito il rischio che sempre più giovani donne cadano nella rete dello sfruttamento sessuale e del traffico di esseri umani, un crimine molto comune in Nepal. A lanciare l'allarme è stata l'ong locale Shakti Samuha, la prima organizzazione nel mondo ad essere costituita da sopravvissute alla tratta. Il peggioramento delle condizioni di vita provocato dai danni del terremoto rischia di aumentare il numero di giovani che finiscono per affidarsi a chi, fingendo di portare aiuto, le avvicina promettendo un futuro, magari un matrimonio e un lavoro a patto di seguirlo oltre frontiera. In Nepal il mercato delle donne ha origini lontane e risale all'epoca della monarchia Rana quando il sovrano, in cerca dell'appoggio del governo britannico, regalava all'India le ragazze nepalesi, da sempre considerate tra le più belle della regione, perché intrattenessero le truppe. Col passare degli anni e il fiorire della globalizzazione e del settore dell'intrattenimento, sono sempre di più le ragazze che, anche per una manciata di dollari, vengono vendute. Non solo in India ma anche in Cina, nelle Filippine, in Corea, in Sud Africa. Il distretto di Sindhupalchok, a nord di Kathmandu, si trova nei pressi dell'epicentro del sisma dello scorso 25 aprile ed è li che si registrano i danni più evidenti: la maggior parte delle case sono state rase al suolo, le persone dormono all'aperto o si riparano con quello che trovano. Mancano cibo e acqua e lo stato delle strade non permette ai soccorsi di raggiungere quelle zone. "La totale assenza di alternative che si respira in contesti del genere - ha spiegato Aashish Dulal, uno dei capo progetto dell'organizzazione - rende le ragazze ancora più vulnerabili ed esposte al pericolo di finire a lavorare in qualche bordello di Bangkok, Karachi o Nuova Delhi". L'Ong, attiva in 11 distretti del Paese, dal 1996 lavora non solo sulla prevenzione e sulla protezione ma anche, attraverso un percorso di educazione, sul riassorbimento del trauma. Thapatali è uno degli slum più problematici di Kathmandu, si trova alla periferia orientale della città ed è uno dei primi quartieri in cui l'organizzazione ha iniziato a lavorare quando, nel 2012, circa 200 case, per ordine del Governo, sono state demolite all'interno di un progetto di riqualificazione dell'area. Da allora sono circa 2 mila le persone che vivono in alloggi di fortuna. In situazioni di questo tipo i trafficanti agiscono con facilità perché, per molte donne senza prospettive, rappresentano l'unica soluzione possibile. Il rischio in questo momento, secondo l'Ong, è che le zone più colpite dal terremoto diventino il terreno in cui far lievitare i numeri del mercato dello sfruttamento. La portata del flusso di donne è difficile da definire. Gli ultimi dati disponibili risalgono all'anno 2012- 2013 quando la Commissione nepalese per i diritti umani ha elaborato delle stime che parlano di circa 13 mila giovani- tra i 12 e i 19 anni- sparite oltre confine e di altre 16 mila che hanno denunciato di essere state vittima di tentativi di rapimento. La paura è che il prossimo rapporto contenga cifre di gran lunga superiori e che siano sempre di più le ragazze che passano clandestinamente la frontiera. La povertà e la mancanza di alfabetizzazione agevolano il raggiro. Infatti, in proporzione, il numero di ragazze (e di famiglie) che, seppur all'oscuro, si affidano volontariamente ai trafficanti attratte dall'illusione di una vita migliore è di gran lunga superiore ai casi di rapimento. Amnesty International, in un rapporto sullo sfruttamento sessuale, ha fotografato le condizioni ideali per il lavoro dei trafficanti: miseria e disagio, scarso- quando non inesistente - accesso all'educazione, la mancata conoscenza della lingua di un paese straniero, gettano le basi per una dipendenza fisica e psicologica delle ragazze che, passando la frontiera senza documenti, non sanno, qualora riescano a fuggire, come tornare indietro. Nelle prime settimane la gestione dell'emergenza si concentra sul portare aiuti di prima necessità. "Per cercare di trattenere il maggior numero di donne dal compiere una scelta sbagliata - ha spiegato Dalal - insieme a cibo e tende stiamo cercando anche di portare generi di conforto femminili come assorbenti e spazzolini da denti". Centrale nell'attività dell'ong è il supporto psicologico offerto alle ragazze a rischio sparizione. Le giovani sopravvissute alla tratta, portano la loro testimonianza in giro per le aree più critiche. Alcune sono state rapite appena adolescenti e recuperate dopo anni costrette a prostituirsi o a trascorrere la notte con facoltosi uomini d'affari in vacanza. Vanno in giro per le macerie dei distretti e raccontano quanto sia stato caro il prezzo che hanno pagato. Un prezzo doppio. Quello dell'inganno e della schiavitù.