Per umanizzare le carceri, bisogna prima andare a scuola di umanità Il Mattino di Padova, 18 maggio 2015 Quando le persone detenute parlano in maniera quasi ossessiva dei trasferimenti, e di cosa vuol dire, come rischia di succedere a Padova per le sezioni di Alta Sicurezza, essere impacchettati e spediti in un altro carcere, bisognerebbe provare a mettersi nei panni di chi, in galera magari da venti e più anni, e con la prospettiva di restarci a vita, si ritrova a essere privato anche di quel poco che aveva. Un ergastolano ci ha scritto, per esempio, descrivendoci cos'è stato per lui passare dall'avere una cella singola, che dovrebbe essere un diritto per chi in quella cella deve vivere fino alla sua morte, al trovarsi una branda sopra la testa, e perdere anche quella poca umanità contenuta nel poter stare da soli a vivere la propria "non vita": "Hanno messo la doppia branda in tutte le celle. A me è successo che la sera quando sono andato per mettermi a letto, con la branda sopra, mi sono sentito come se fossi stato chiuso in una bara ed ho avuto un attacco di panico, in pochi minuti ero come fatto di acqua, mi sentivo soffocare. Mi sono spogliato, mi sono lavato con un panno bagnato di acqua calda, mi sono rivestito, e ho provato a cambiar branda, e a stare su quella superiore. Ma come sono salito mi sembrava di essere steso su un materasso gonfiabile in mezzo al mare, lì mi sono accorto che il problema era serio, mi girava la testa, vertigini da impazzire. Ora sto dormendo con il materasso a terra. Nessuno mi ha chiamato per dirmi se avessi bisogno di qualcosa, solo le guardie, conoscendomi, sono comprensive perché sanno cosa vuol dire se una persona, da 25 anni abituata a dormire su una branda, la vai a collocare in una scatola chiusa". Ma un trasferimento può anche significare passare da un carcere in cui le relazioni, i rapporto con i propri famigliari, gli affetti sono in qualche modo rispettati, a un carcere in cui è tutto più difficile e meno a dimensione umana. La testimonianza che segue è di una persona, che, pur non essendo una parente stretta, ma "solo" un'amica di famiglia, era autorizzata a fare i colloqui con un ergastolano, che ora è stato trasferito da Padova. E quel trasferimento ha significato per lui perdere anche quel po' di affetto che ritrovava nei colloqui, perché nel carcere dove è ora è pressoché impossibile essere autorizzati a incontrare persone che non siano i famigliari. Giusto per far capire che il nostro Paese avrebbe bisogno di andare a scuola di umanità, ricordiamo che in Francia, ma anche in Germania, una persona può presentarsi al carcere, esibire un documento e andare a trovare un amico rinchiuso lì dentro. Evidentemente qualcuno lì ha capito che un po' di umanità può rendere migliori tutti, sia i "delinquenti" che i "buoni". Una persona detenuta ha bisogno di poter avere degli amici Gentile redazione di Ristretti Orizzonti, vi scrivo in quanto voglio condividere con voi il mio dispiacere e il mio rammarico per il trasferimento di Giuseppe Zagari. Sapete nel carcere dove lui ora si trova nemmeno lo posso più andare a trovare e non è solo la distanza a impedirmi questo, ma proprio il fatto che lì non concedono autorizzazioni per far entrare persone "terze" cioè non parenti stretti, mentre a Padova io entravo anche se oltre a una carissima amicizia non ho altro legame con lui (ma non la chiamerei poca cosa l'amicizia), non essendo parente. Ora non solo lo so lontano, ma nemmeno posso stargli vicina come invece negli ultimi cinque anni gli sono stata. Non ho mai mancato un mese di fargli colloquio. Questa cosa non solo faceva bene a lui, ma anche ne erano sollevati i suoi famigliari e soprattutto sua mamma, che essendo lontana e pure malata certo non poteva raggiungerlo tutti i mesi... ma appunto almeno c'ero io. E poi lasciate che vi dica tutta quello che penso: io oggi mi vergogno e mi dolgo di aver acceso in Giuseppe un barlume di speranza, spingendolo a credere che lottare, partecipare ed aprirsi sarebbero state cose giuste e utili proprio per far vedere che nessuno è o deve rimanere cattivo per sempre. La speranza che forse anche per lui ci fosse la possibilità di non rimanere soltanto un corpo in vita, chiuso in una cella in attesa della morte. Sì, perché in fondo questo è lui, cosi come lo sono tutti gli ergastolani a cui vengono negati ogni speranza e ogni futuro per sempre... corpi vivi rinchiusi in attesa di morte, nel nome di una giustizia e sotto lo scudo delle leggi che io non riesco a comprendere. Questa giustizia sa cosa vuol dire avere un proprio caro sepolto vivo? Come ci si sente a poterlo andare a trovare facendolo uscire di tanto in tanto da quella specie di "morte viva" che è l'ergastolo per vederlo e rassicurarsi a vicenda che è tutto a posto, nonostante si sia consapevoli che cosi proprio non è.... A Padova con voi di Ristretti Orizzonti io ho visto e conosciuto e ho avuto occasione di partecipare a una diversa realtà… una realtà di confronto, consapevolezza e di costruttiva rieducazione. Ho conosciuto persone speciali e seriamente impegnate a dare il loro contributo alla società, affinché la triste realtà carceraria possa essere, invece che fatta prevalentemente di punizioni e afflizioni e spesso vessazioni anche inutili, un qualcosa di costruttivo e utile al fine di un ravvedimento sincero da parte di chi ha sbagliato e di una rieducazione effettiva e reale. Ho visto il vostro impegno a far conoscere a chi sta fuori senza alcun paravento la realtà carceraria e le storie che portano a sbagliare, educando cosi pure loro ad essere una società meno tendente alla vendetta e più alla prevenzione. Appunto per questo vostro modo di fare, che io ammiro e credo sia vera rieducazione e reinserimento, anche io ho fatto passo passo la parte mia, invitando Giuseppe a fidarsi, a non temere di sperare e di mettersi in gioco affinché la sua esperienza possa servire a chi la ascolta a non fare i suoi stessi errori. Sapete cosa mi ha detto lui a proposito di questo in un primo momento?? Mi ha detto che ne aveva parlato con altri compagni, e in particolare con Carmelo dicendogli: "Tu Carmelo lotti da quanti anni?? Quante cose stai facendo concretamente, battaglie che vengono apprezzate da tanti? Eppure dove ti trovi? Ti trovi nella stessa condizione in cui mi trovo io che non faccio nulla... sempre qui e sempre chiuso e sempre senza speranza ... chi te lo fa fare e perché continui a sbatterti contro un muro insormontabile?". Ma poi piano piano lui era riuscito ad apprezzare il vostro lavoro e ha iniziato timidamente ad affacciarsi a questo nuovo mondo, dove anche lui poteva dare un contributo, ha incontrato con voi e insieme a voi persone che finalmente non lo guardavano come un corpo sepolto vivo, un cattivo per sempre, un essere senza più alcun diritto, rinchiuso in quattro squallide mura aspettando la propria morte. E ha iniziato a sperare e a crederci, che nonostante tutto anche lui ancora era un essere umano, considerato come tale da voi e forse un domani anche dalla società. L'ho visto rifiorire, Giuseppe, mese dopo mese, anno dopo anno, lentamente, timidamente, riconquistando una fiducia in una giustizia che spesso risultava così vendicativa, da rendere persino lui, che è consapevole delle scelte sbagliate fatte, una vittima più che un colpevole. Ecco, e ora? Ora tutto questo con il trasferimento l'hanno nuovamente distrutto. Oggi che cosa devo dire? Che aveva allora ragione Giuseppe nel suo essere pessimista? Non riesco e non voglio abbandonarmi a questo pensiero, io non voglio far parte di una società che si mostra a volte non meno crudele di certi criminali. Io oggi sinceramente mi vergogno anche di aver acceso in Giuseppe una speranza inutile per cui lui paga il prezzo di averci creduto e sperato per un po' insieme a me e a tutti noi che forse ci poteva essere pure per lui dignità, e almeno la considerazione che nonostante tutto lui fosse per lo stato qualcosa di più di un corpo vivo da detenere chiuso e privo di qualsiasi speranza. Yvonne A. Giustizia: responsabilità civile; il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato di Carlo Nordio Il Messaggero, 18 maggio 2015 Dopo soli due mesi dalla sua promulgazione, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati finisce già davanti alla Corte Costituzionale. Lo ha deciso un giudice civile di Verona, lamentandone l'indeterminatezza e il rischio che possa condizionare il corso e l'esito dei processi. È presumibile che questa iniziativa sia seguita dalle inevitabili polemiche dovute alla singolarità del problema. Si dirà che i giudici contestano una legge che li riguarda personalmente, e che il conflitto sarà risolto in famiglia, cioè da altri giudici. Al che sarà facile rispondere che solo un giudice può giudicare un altro giudice, o una legge che riguarda i giudici, esattamente come solo un chirurgo può operare un altro chirurgo. E la querelle continuerà. Il problema è serio perché l'Italia è l'unico Paese al mondo in cui esista un potere senza responsabilità. Prendiamo il pubblico ministero. È il capo della polizia giudiziaria, e quindi dirige le indagini con una discrezionalità che può sconfinare nell'arbitrio, conferendogli attribuzioni impensabili. Ad esempio, solo spedendo un'informazione di garanzia, può condizionare la vita politica di un parlamentare, di un governo e magari di una legislatura. Una simile forza dovrebbe essere bilanciata da una responsabilità equivalente; negli Stati Uniti, ad esempio, è controllata dalla volontà popolare, perché il District Attorney viene eletto dai cittadini. Invece da noi il Pm gode delle stesse garanzie di indipendenza e autonomia del giudice, e quindi non risponde a nessuno. Può imbastire processi lunghi, costosi e fantasiosi. Alla fine dirà che l'azione penale è obbligatoria, e che ha solo fatto il suo dovere. Se dal pubblico ministero passiamo al giudice, il problema è anche più serio. L'Italia è l'unico Paese con un processo accusatorio dove un cittadino assolto possa essere riprocessato e condannato in una sequenza infinita. I casi sono noti, e sarebbe doloroso farne i nomi. Questa è una follia logica, perché se la condanna può intervenire solo quando le prove a carico resistono a ogni ragionevole dubbio, bisognerebbe ammettere che i magistrati che avevano assolto erano degli imbecilli. A parte questo, in una simile catena di sentenze, che negli anni hanno coinvolto decine di magistrati, chi avrà sbagliato e chi no? Difficile dirlo. Ancor più difficile distinguere tra responsabilità dei giudici togati e di quelli popolari, che, in corte d'assise, hanno gli stessi poteri dei primi. Faremo causa anche a loro? Chissà. Di fronte a problemi così complessi, governo e parlamento hanno risposto in modo emotivo. Condizionati dallo slogan del "chi sbaglia paga", invece di incidere sulle cause degli errori giudiziari - come ad esempio l'irresponsabile potere dei pubblici ministeri - hanno preferito agire sull'effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie. Scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita. L'aspetto più singolare di questa vicenda è stata tuttavia la reazione dei magistrati. Alcuni hanno minacciato lo sciopero, altri forme più blande di protesta, tutti hanno, apparentemente, mugugnato. Alla fine non è successo nulla, salvo il rinvio alla Consulta della parte più ambigua della legge: quella che appunto consente, o pare consentire, di far causa allo Stato (e quindi al giudice) prima che la causa sia definitivamente conclusa, con l'effetto automatico di paralizzare i processi. Perché il magistrato denunciato si potrà astenere, passando il fascicolo al collega, e questo a un altro, e così per l'eternità. Era dunque ovvio che sarebbe finita come ha disposto il giudice di Verona, e come certamente nei prossimi giorni disporranno decine di tribunali. La legge sarà forse parzialmente abrogata dalla Corte, e comunque la montagna avrà partorito un topolino. I magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo. E come dice Shakespeare, quando il principe sospira, il popolo geme. Giustizia: l'1 aprile la chiusura degli Opg, ad oggi (quasi) tutti gli internati ancora in cella di Giuliana De Vivo Il Giornale, 18 maggio 2015 Sullo sfondo grigio del cielo biellese villa Sella è un edificio tetro. Quasi viene da credere alle voci che la vogliono abitata da fantasmi. Colpa dell'antica leggenda per cui, prima della sua edificazione nel 1879, in quel punto c'era un santuario con un affresco della Madonna, che un folle sfregiò a pietrate. Oggi la villa, quasi per nemesi, dovrebbe ospitare chi dalla follia dev'essere aiutato a guarire. La legge 81 del 2014 ha sancito, dopo anni di dibattiti e proroghe, la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Almeno sulla carta. Di fatto, villa Sella adesso è vuota. Bisogna ristrutturarla, ma "i 12 milioni erogati dallo Stato alla precedente giunta, quando sono arrivato non li ho trovati", si giustifica l'assessore alla sanità Antonio Saitta. Intanto si pensa a strutture alternative - temporanee - come il vecchio ospedale degli Infermi a Biella, oppure a Grugliasco (To) o Voltaggio, nell'alessandrino. Per ora tutte ipotesi, mentre fioccano le proteste dei cittadini. Strutture fantasma Il Piemonte è paradigma di quel che sta accadendo nel Paese. Tutti d'accordo a chiudere le celle dei sei ospedali psichiatrici (Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto), rivelatisi talvolta luoghi da brivido: pazienti legati ai letti e bottiglie calate nei buchi dei gabinetti per sbarrare l'accesso ai topi di fogna, come rese pubblico una commissione parlamentare d'inchiesta nel 2010. Ma delle nuove strutture (le Rems, Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza) che dovevano entrare in funzione dal 1° aprile, non c'è traccia. Dovevano ospitare gli internati ritenuti da periti e giudici "non dimissibili" (cioè ancora bisognosi di cure e potenzialmente pericolosi) e assistiti da personale medico dei dipartimenti di salute mentale delle Asl, più che controllati da guardie penitenziarie. Luoghi con un massimo di 20 posti letto; una, due o più strutture in ogni Regione, a seconda della capienza richiesta per accogliere chi da quel territorio proviene. In tutto, poco più di 400 persone: non numeri da esodo biblico. Ma il passaggio "dalla contenzione alla cura", annunciato come una svolta epocale e finanziato con 172 milioni di euro, è di là da venire. Per i ritardi ma anche per le proteste dei cittadini che non vogliono "i matti" dietro casa, specie se non è pronto ciò che per legge doveva esserlo. Paola Di Nicola, magistrato del Tribunale di Roma che ha seguito e giudicato parecchi casi di reati commessi da malati psichiatrici, non ha dubbi: "Il principio della riforma è giusto e la magistratura lo ha fortemente voluto. Purtroppo, però, sono certa diesiamo di fronte a una "Basaglia 2": c'è stata disattenzione da parte delle istituzioni, gli enti locali hanno cercato di prendere tempo, chiedendo l'ennesimo rinvio invece di trovare soluzioni adeguate". Nessuno pensava che dal 1° aprile gli ospedali psichiatrici avrebbero chiuso come per magia. E infatti molti sono ancora in funzione. "Sarà un passaggio graduale", hanno ribadito gli addetti ai lavori, a partire dal sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. Ma nemmeno metà delle regioni è pronta. Ognuno a modo suo Si scopre che "regionalizzazione" fa rima con confusione. Con l'eccezione della Lombardia, dove l'Opg di Castiglione delle Stiviere era già gestito da personale a prevalenza sanitaria. Qui saranno ospitati anche i detenuti-pazienti liguri: la giunta Burlando infatti anziché predisporre Rems, ha scelto di pagare 300 euro al giorno per ogni suo malato. Il Veneto è stata la prima Regione a rischio commissariamento, l'unica a essersi all'inizio persino rifiutata di elaborare un piano. Ora corre ai ripari con il progetto di una Rems a Nogara (Vr), accanto all'ospedale Francesco Stellini. Siccome i tempi sono lunghi, si pensa a "residenze intermedie". Nel Paese dove il provvisorio tende a durare all'infinito lo stesso concetto è applicato in quasi tutto il centro-sud. Sono "di passaggio" due delle quattro strutture laziali. Bloccata da ricorsi anche la pre-Rems di Guardiagrele (Chieti), destinata agli ex internati abruzzesi e molisani. Le Asl si arrovellano su altre soluzioni, mentre sul terreno scelto per la struttura definitiva a Ripa Teatina c'è un ecomostro ancora da abbattere. In Toscana sono state individuate quattro sedi, dopo che la battaglia dei radicali ha scongiurato l'ipotesi di trasferire i pazienti non dimissibili assieme ai detenuti in semilibertà a Solliccianino, accanto al carcere Mario Gozzini. Nella lista c'è anche il complesso appendice dell'ospedale di Volterra. E cosa c'era lì, prima? Un manicomio. Si cambia per tornare indietro, "intanto gli internati toscani sono ancora nell'Opg di Montelupo", fa notare il radicale Maurizio Buzzegoli, "perciò invochiamo la nomina di un commissario ad acta, come prevede la legge in caso di ritardi". Stessa richiesta arriva dalla Camera penale di Reggio Calabria, perché le Rems di S. Sofia d'Epiro (Cs) e Girifalco (Cz) non sono pronte. Rimandata a fine mese anche l'apertura delle strutture pugliesi e sarde - sempre provvisorie - a Spinazzola (Bt) e Capoterra (Ca). In Campania, in attesa che le Rems casertane e avellinesi vedano la luce, le Rems-ponte sono previste a Roccaromana e a Mondragone, il paese della rivolta degli immigrati del 2014. Va un po'meglio in Sicilia, dove le Rems nel catanese e nel messinese sono aperte, e già quasi piene: il rischio è "arrivare subito a saturazione, se non partono piani di recupero alternativi", avverte Nunziante Rosania, direttore dell'ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto. Stalker e omicidi C'è un dato tecnico che preoccupa il giudice Di Nicola: "È una riforma fatta di commi sparsi inseriti nei decreti legge, senza modifiche nel codice e nella procedura penale, che continuano a prevedere la misura di sicurezza in Opg. Ma se questi sono superati e le Rems non ci sono ancora, dovesi sconta questa misura?". Bisogna poi capire chi si prenderà cura sanitariamente di queste persone. "Se un soggetto è considerato pericoloso è perché purtroppo esiste il rischio che commetta nuovamente gli stessi reati. Che nel 60% dei casi sono contro la persona: stalking, aggressioni ripetute, tentativi reiterati di omicidio, spesso nei confronti di mogli e compagne. Inutile, poi, disperarsi dei tanti femminicidi se non si assicura un percorso di cura efficace, vero, a chi commette atti persecutori nei confronti delle donne". Giustizia: lo psichiatra Rocchini "le nuove residenze rischiano di essere piccoli manicomi" di Giuliana De Vivo Il Giornale, 18 maggio 2015 A sorpresa sono gli psichiatri ad avere le maggiori perplessità sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il pericolo, dicono, è che le nuove residenze finiscano per essere dei piccoli manicomi sotto mentite spoglie. Il professor Piero Rocchini, perito psichiatrico presso il Tribunale di Roma, alle novità tecniche introdotte dalle legge di recente ha dedicato una relazione. Professore, perché esiste questo rischio? "I malati mentali gravi hanno bisogno di un iter di riabilitazione fatto di tecniche psicoterapiche e dell'inserimento in un ambiente con attività strutturate: laboratori di teatro, pittura, sartoria, falegnameria. Non si tratta, banalmente, di "farli lavorare", ma di far recuperare loro, attraverso queste abilità, il contatto diretto con la realtà. È quello che si fa a Castiglione delle Stiviere, ma questo non sarà mai possibile nelle Rems, proprio perché sono piccole. Alcuni dei centri aperti nel Lazio sono dei mini pronto soccorso psichiatrici: adatti alle urgenze, non al percorso di lungo periodo". Quindi è un problema di spazi? "Non è solo questo. Nessuno ha sollevato questo problema finora ma c'è una percentuale di appartenenti alla criminalità organizzata che, sfruttando perizie false di medici conniventi, è riuscita ad ottenere l'infermità o seminfermità mentale. Un caso noto è quello di Michele Senese ‘o pazzo (il camorrista napoletano oggi al carcere duro per i suoi legami con Massimo Carminati emersi nell'inchiesta su Mafia Capitale, ma che in passato ha più volte ottenuto proscioglimenti o domiciliari in clinica per asserite infermità mentali, ndr), ed è ovvio che questo fenomeno tenderà ad aumentare perché i controlli nelle Rems saranno molto più blandi, e fuggire molto più facile". Un gruppo di 64 psichiatri del dipartimento di salute mentale di Bologna ha scritto una lettera al ministro Lorenzin proprio sul tema sicurezza... "Sì, appunto, perché il controllo none prefissato per legge ma affidato ad accordi che le strutture stipulano con questura e polizia locali". La nuova legge però mette fine alla stortura del cosiddetto "ergastolo bianco", cioè la possibilità di prolungare di continuo la misura di sicurezza: l'effetto era che il malato restava internato per decenni, spesso a vita. "La norma prevede che il malato resti nella Rems per un tempo pari al massimo della pena prevista per il reato che ha commesso. Questa previsione però è un controsenso rispetto agli obiettivi di cura proclamati dalla legge stessa, perché vuole dire prefissare l'uscita del malato con un calcolo per legge, che prescinde totalmente dall'iter terapeutico e dalla sua valutazione. Faccio notare che, purtroppo, esiste una percentuale - seppur piccola, pari a circa l'8% - di malati cronici, che nonostante le cure più avanzate rispondono con un aggravamento costante. Infatti in questi anni ci sono stati pazienti usciti e poi rientrati in Opg, compreso quello di Castiglione delle Stiviere, proprio per il fallimento di misure alternative di sicurezza". In ogni caso, l'obiettivo culturale e politico del legislatore è il reinserimento sociale dei pazienti: farli uscire gradualmente dalle Rems con dei percorsi terapeutici personalizzati... "Anche su questo fronte i problemi aperti sono più complessi di quanto possa sembrare: tra i pazienti che saranno dimessi ve ne sono alcuni appartenenti a tipologie di malattie - penso al tossicodipendente psicotico - che non sono trattate dai dipartimenti di salute mentale delle Asl, ma dai Sert. Quindi, in generale, si pone un problema di organico, considerando che i dipartimenti sono già sottostimati: a Roma il Tuscolano serve già un bacino di 400mila abitanti. Poi c'è un'altra questione, tecnica". Quale? "Le nuove maglie della legge restringono troppo il raggio d'azione dello psichiatra sui pazienti dimessi: si limita tutto al Tso (trattamento sanitario obbligatorio, ndr), che peraltro va fatto nei centri di diagnosi ospedalieri. Vuol dire che lo psichiatra che opera sul territorio può intervenire solo in caso di "pericolo in atto", oppure se chiamato dal 118 per una "necessità terapeutica". Giustizia: vendetta o rieducazione? se anche i killer conclamati escono dal carcere di Michele Concina Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015 La sottile linea tra punizione e recupero è sempre tirata in ballo dalla politica, ma errori ce ne sono stati… e a spese di vittime innocenti. "Piango di continuo, ripensando a ciò che ho provato. Quell'uomo dovrebbe rimanere in carcere a vita per non nuocere più". Sono frasi attribuite dai giornali alla tassista violentata a Roma dieci giorni fa. Leggi, e pensi quello che hai pensato cento volte di fronte al dolore e alla rabbia delle vittime: sì, ma. Sì, è comprensibile, ma la Costituzione italiana dice che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Sì, ma esistono gli errori giudiziari. Sì, ma bisogna dar retta alla ragione, non all'istinto che urla: mettetelo dentro, e buttate via le chiavi. Sì, ma il carcere è criminogeno. Sì, ma la giustizia è una cosa, la vendetta un'altra. Sì, ma noi persone colte e civili non possiamo confonderci con le folle feroci, bava alla bocca e mani che prudono per la voglia di linciaggio. Eppure, a riguardare le cronache divenute storia, ci sono casi in cui buttar via le chiavi sarebbe stato probabilmente meglio per tutti, compresi gli stessi colpevoli. Avrebbe risparmiato vite umane, ciascuna preziosa, ciascuna insostituibile. Avrebbe evitato a decine di famiglie, anche quelle degli assassini, il peso insopportabile dell'angoscia. Avrebbe dato la possibilità a chi ha ucciso di fare i conti con il peggio di sé. Prendiamo Angelo Izzo, uno dei tre pariolini fascisti che nel settembre del 1975 violentarono e torturarono per più di un giorno Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, poi se ne andarono a cena credendole morte entrambe. Aveva vent'anni, Izzo, ma era già stato condannato per stupro. Solo che al posto dei due anni e mezzo della sentenza, aveva scontato appena qualche mese. Per il massacro del Circeo fu condannato all'ergastolo, come i suoi due compari. Ma già in appello gli furono elargite le attenuanti generiche, riducendo così la pena a trent'anni. Provò a evadere almeno tre volte, una volta prendendo anche in ostaggio un maresciallo delle guardie carcerarie. Eppure nel dicembre 2004 gli fu concessa la semilibertà. "È una persona non pericolosa per la società. Ha bisogno di relazioni umane che potrebbero orientarlo a costruirsi un'immagine di sé riscattante e valorizzante e di impegno verso la biofilia. Una persona ben dotata intellettualmente che punta a un rinnovamento di se stesso", scrissero i magistrati. Neppure cinque mesi dopo, Angelo Izzo uccideva, soffocandole, una donna di 48 anni e una ragazzina di quattordici. Oppure, ricordiamoci di Maurizio Minghella; dei suoi occhi persi nel vuoto, delle sue mani enormi. Nel corso del 1978, nei dintorni di Genova, uccise cinque donne. Le rimorchiava su utilitarie rubate, le portava in qualche forra isolata e le ammazzava a pietrate, o strangolandole. Era l'anno del sequestro di Aldo Moro. Così l'assassino ebbe la brillante idea di sviare le indagini scrivendo sul corpo di una delle vittime Brigate Rose, con una esse sola. Gli diedero l'ergastolo, nel 1981. Ma gli bastarono quindici anni di buona condotta a Porto Azzurro per ottenere la semilibertà, a Torino. Cinque ore al giorno dal lunedì al venerdì per lavorare in una delle cooperative del Gruppo Abele, quindici senza vincoli il sabato e la domenica. Da quel momento le prostitute del capoluogo piemontese cominciarono a essere seviziate e ammazzate con allarmante frequenza. Dieci cadaveri in cinque anni, fino al marzo del 2001, quando la strage si concluse e Minghella aggiunse altri ergastoli alla sua collezione. Da quegli anni di cronache remote spuntano il nome, e la vita dimenticata, di Italo Meotti. A Ferrara, nel 1984, aveva ucciso la giovane moglie; nei primi due gradi di giudizio era stato condannato a 18 anni. Tre anni dopo, quando stavano per scadere i termini della carcerazione preventiva, furono i suoi stessi genitori a intuire che fuori dalle sbarre poteva essere ancora pericoloso: gli scrissero in carcere, implorandolo di ritirare il ricorso in Cassazione. Meotti rifiutò, uscì, s'innamorò di Gloria Polmonari, una ragazza di 26 anni. Quando le confessò il suo passato, Gloria chiuse la relazione; più tardi si mise con un altro. A colpi di 38, Meotti uccise la ragazza e conciò in fin di vita il nuovo fidanzato. "Ho sparato proprio per uccidere", disse calmo agli agenti che l'arrestavano. I suoi fantasmi, però, non intendevano lasciarlo tranquillo. In carcere era sorvegliato a vista; ma cinque mesi dopo, una notte, chiese al secondino di allontanarsi un attimo, perché sotto i suoi occhi non riusciva ad andare di corpo. L'agente si spostò di venti metri, tornando subito indietro. Pochi secondi, sufficienti a Meotti per uccidere ancora; sé stesso, questa volta. S'impiccò con un cordino all'inferriata della finestra. La stessa pena che volle infliggersi Emiliano Santangelo, nel febbraio del 2006, in una cella del carcere di Biella, in Piemonte. Aveva 33 anni, spesi in buona parte a perseguitare una ragazza, Deborah Rizzato. L'aveva violentata quando era ancora una bambina, poco più di dieci anni. Lei aveva trovato il coraggio di denunciarlo; lui era andato in galera promettendo vendette. Uscito dopo tre anni, non le aveva dato tregua. Le nuove denunce della ragazza non erano servite a nulla. Una mattina di novembre Santangelo l'aspettò nel parcheggio dell'azienda in cui lavorava, tamponò la sua macchina per bloccarla e la uccise con sette coltellate. Deborah aveva 23 anni. Sono passati solo pochi mesi dalla morte a Firenze di Irene Focardi. Bella donna, ex modella, aveva 43 anni e qualche problema con l'alcol quando è scomparsa, all'inizio dello scorso febbraio. Quel che restava di lei è stato ritrovato a fine marzo, in un sacco buttato in un fosso lungo la ferrovia. Per l'omicidio è stato arrestato l'ex compagno, Davide Di Martino. Uno che resta innocente fino all'ultimo grado di giudizio; ma non certo una persona raccomandabile. Era stato già condannato a tre anni e nove mesi, proprio per aver picchiato più volte, crudelmente, Irene. Nel marzo 2014, interpellata sull'opportunità di scarcerare Di Martino, la pm Ornella Galeotti si era opposta con estrema decisione: "L'indagato presenta inequivocabili sintomi di pervicacia a delinquere. È assai probabile la reiterazione, in stato di libertà, di ulteriori comportamenti delittuosi". I colleghi giudicanti non le avevano dato retta: "Le esigenze cautelari sembrano poter essere salvaguardate anche con gli arresti domiciliari". Ad agosto, Di Martino era stato messo fuori. E aveva subito provveduto a dar ragione al pubblico ministero, evadendo spesso dagli arresti domiciliari soprattutto allo scopo di gonfiare di botte la sua compagna. È successo il 7 settembre, il 12 novembre, il 13 dicembre. Pestaggi veri, ogni volta: ciascuno dei certificati medici riporta prognosi da trenta giorni. La magistratura non aveva fatto una piega. Fino al ritrovamento di quel cadavere nel sacco. Una vicenda ancora più controversa è quella del genovese Luca Delfino. Era fidanzato con Luciana Biggi quando la ragazza fu uccisa con un coccio di vetro in uno dei vicoli del centro storico, nell'aprile del 2006. Fu subito sospettato, ma il procuratore capo Francesco Lalla e il sostituto Enrico Zucca stabilirono che non c'erano indizi sufficienti per arrestarlo. L'anno successivo si mise con una commessa, Maria Antonietta Multari. Dopo appena quattro mesi lei lo lasciò, e lo denunciò per aggressione; ai carabinieri raccontò anche di minacce ai suoi genitori. Il 10 agosto 2007, a Sanremo, Luca Delfino uccise Maria Antonietta Multari con quaranta coltellate. Al funerale, tre striscioni contro la magistratura sul sagrato della chiesa. Il padre della vittima diede a Zucca dell'"assassino". Soprattutto, su Zucca calò un bombardamento di polemiche di rara ferocia da parte della polizia e dello schieramento politico di centrodestra. Il motivo era ovvio: il pubblico ministero genovese che sosteneva l'accusa in quel procedimento è un magistrato preparato e tenacissimo. Sue, fra l'altro, le indagini sul più noto dei serial killer italiani, Donato Bilancia, 17 vittime in sei mesi. E in quegli anni le sue capacità erano concentrate nei processi sui sanguinosi abusi della polizia durante il G8 genovese del 2001, in particolare nella scuola Diaz; conclusi poi con la condanna definitiva di alcuni tra i dirigenti di grado più alto del Viminale. Per di più, il funzionario con cui lo scontro fu più diretto era il capo della Mobile genovese, Claudio Sanfilippo. Nel corso del dibattimento sul G8, incaricato da Zucca di procurare i tabulati delle telefonate fra i poliziotti, Sanfilippo riferiva che non si trovavano, così come le due molotov usate per costruire la falsa motivazione per l'irruzione della Celere nella scuola. Anche sulla scena dell'omicidio di Luciana Biggi, fece sapere il pubblico ministero, la squadra mobile della polizia aveva commesso parecchi errori. È andata a finire in modo abbastanza paradossale, per quel delitto. Al processo, Zucca chiese 25 anni, ma Delfino fu assolto; e la sentenza fu confermata in appello. Per l'omicidio di Maria Antonietta Multari, Delfino è stato invece condannato a 16 anni e otto mesi, più cinque anni in una struttura psichiatrica perché gli è stata riconosciuta la semi- infermità mentale. È già a metà della pena, non dovrebbe mancare molto alla scarcerazione. Nell'attesa, il suo sguardo spiritato fissa il mondo dalla pagina Facebook "Convertirsi a Dio in compagnia di Luca Delfino"; non si sa se l'abbia aperta lui, o qualcun altro che si crede spiritoso. Decidere quanta galera è giusto è già difficilissimo. Stabilire quanta è sufficiente a non rimettere in circolazione un pericolo pubblico, ancora di più. Annamaria Franzoni, condannata per l'omicidio di suo figlio a Cogne, ha scontato sei anni. I trent'anni inflitti in primo grado a Ruggero Jucker, che massacrò la fidanzata con un coltello da sushi, grazie all'appello e ai vari meccanismi di sconto si sono rattrappiti a meno di 11. Gli stessi che ha passato in cella Erika De Nardo, la ragazza di Novi Ligure che uccise la madre e il fratellino. Fra poco qualcuno potrebbe dover decidere se concedere permessi o altro a Donato Bilancia, visto che già da due anni ha superato la metà della pena. Sono scelte affidate a esseri umani, che possono sbagliare. Ma il prezzo dei loro errori, qualche volta, è davvero troppo alto. Giustizia: il magistrato Otello Lupacchini "non si scontano mai le pene realmente inflitte" di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015 Prima ci sono state una serie di amnistie e indulti, poi i decreti "svuota-carceri" dei vari governi. A seguire, gli atti normativi che spacchettano i reati e indeboliscono le pene. Otello Lupacchini, sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma e giudice istruttore dell'operazione che nell'aprile del 1993 ha sgominato la Banda della Magliana, li ha vissuti tutti questi interventi legislativi. Risultato: "Le pene realmente inflitte non si scontano mai", dice il giudice. E ne identifica anche la conseguenza più grave: "Quasi mai si registra un processo di rieducazione vera. A questa la pena tende, in linea di principio. Ma non esistono strumenti realmente validi per accertarne l'effettività. Non stupisce pertanto che l'asserita rieducazione venga contraddetta dal fatto che in tanti, lasciata la cella, cadono nella recidiva". Si parla quindi di sgravio della pena… "Negli anni 70 e 80, ad esempio, ci sono state molte amnistie e altrettanti indulti che, se per un verso consentivano la deflazione dei processi e lo svuotamento delle carceri, per l'altro impedivano che si completasse il percorso rieducativo del condannato, con la conseguenza che i beneficiari tornavano a delinquere". Con gli anni la politica ha continuato in questa direzione? "Ci sono stati diversi decreti cosiddetti "svuota-carceri", l'ultimo quello voluto fortemente da Napolitano, per l'adeguamento della situazione penitenziaria italiana alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dopo la condanna inflitta al nostro Paese dalla Corte europea (Sentenza Torreggiani, ndr). Non sempre, dunque, le scarcerazioni sono avvenute all'esito di un reale percorso rieducativo. Con l'ultimo "svuota-carceri", peraltro, c'è stata una modifica della disciplina della liberazione anticipata: una volta c'erano 45 giorni di sconto-pena ogni sei mesi; ora i giorni sono diventati addirittura 75 per ogni semestre". Quindi amnistia e indulto prima, "svuota-carceri" poi. Cos'altro influisce sulla diminuzione della pena da scontare? "Ci sono anche istituti come la semi-libertà o l'affidamento ai servizi sociali, legati all'entità o alla pena da scontare, ai quali consegue, di fatto, una consistente attenuazione dell'afflittività della pena stessa ed una sostanziale riconquista anticipata della libertà, grazie magari, ad una mai riuscita rieducazione, tuttavia sapientemente simulata. E questo a tacere di benefici, come i cosiddetti permessi premio, concessi a chi tenga un comportamento corretto. Non sempre, tuttavia, le aspettative degli organi preposti alla valutazione della buona condotta del detenuto destinatario dei benefici si realizzano". Ad esempio? "Mi viene in mente il caso di Marcello Colafigli, il quale all'esito di un permesso premio non fece rientro all'ospedale psichiatrico giudiziario dove era ristretto: durante la relativa latitanza si vendicò di pretesi torti patiti assassinando Enrico De Pedis. Anche Angelo Izzo, noto per essere uno dei tre autori del "massacro del Circeo", approfittò, se mal non ricordo, di un permesso premio per fuggirsene all'estero. Rientrato dopo breve latitanza in carcere, approfittò di ulteriori benefici penitenziari per intessere discutibili relazioni, circostanza che provocò il suo trasferimento ad altro istituto di pena. Per quello che potremmo chiamare un difetto di comunicazione tra gli organi amministrativi e giudiziari competenti, tornato inopinatamente nell'originario luogo di detenzione, si rese responsabile, mentre era di nuovo in semilibertà, di un efferato duplice omicidio". Lei ha indagato per anni sulla Banda della Magliana. Quanti dei personaggi, da lei inquisiti, hanno ottenuto lo sconto di pena? "Ritengo che tutti siano usciti dal carcere. Sicuramente coloro che furono condannati per associazione a delinquere, non aggravata dalla mafiosità, hanno beneficiato di sconti di pena e di condoni". È demoralizzante per voi magistrati tutto ciò? "Almeno per quanto mi riguarda, scoraggiamento o frustrazione non mi appartengono: vi sono le leggi ed esse vanno rispettate. È evidente, però, che esiste un problema di politica criminale. Il sistema quindi deve essere ripensato". Giustizia: omicidio stradale; il ddl è pronto, pena minima prevista è otto anni di carcere di Sonia Oranges Il Messaggero, 18 maggio 2015 Domani, o al massimo entro la fine della settimana, la commissione Giustizia di Palazzo Madama dovrebbe approvare il testo del ddl sugli omicidi stradale, che aprirà le porte del carcere a chi si macchia di questa colpa. Le pene edittali previste, infatti, sono molto alte: da 8 a 12 anni di reclusione, con la certezza della detenzione, visto che il legislatore ha posto assai in alto l'asticella per la pena minima. Il relatore del testo, il democratico Giuseppe Cucca, ha già riformulato i primi articoli, cercando di armonizzare gli emendamenti presentati dalle altre forze politiche, per tracciare definitivamente i reati di incidente stradale e lesioni personali stradali. Ma è soprattutto sull'articolo 6, sulle pene accessorie, che stanno lavorando i senatori, riscrivendo totalmente l'impianto di quello che lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe voluto fosse un "ergastolo della patente". La revoca definitiva, però, poneva dubbi di costituzionalità a causa del suo carattere definitivo, oltre al concreto rischio di estinzione in caso di riabilitazione: una volta scontata la pena, se riabilitati, i condannati per omicidio stradale avrebbero potuto tranquillamente sostenere l'esame per riottenere la patente. E proprio sulla possibilità di accedere al test è intervenuto il legislatore, inibendola per 12 anni (che probabilmente saranno alzati a 15) per chi, guidando, provoca la morte di una persona, se non ci sono aggravanti; pena accessoria che sale a 20 anni se il conducente è già stato condannato per guida in stato di ebbrezza, e arriva a 30 anni se si è messo al volante ubriaco, sotto l'effetto di stupefacenti o se l'incidente è stato causato dal mancato rispetto dei limiti di velocità. Un caso, quest'ultimo che, pur non essendo tecnicamente un daspo della patente, gli assomiglia molto. Anni cui va aggiunto il periodo di sospensione della patente previsto dal prefetto, da 5 a 10 anni. Un impianto che è stato ampiamente condiviso dalle forze politiche che ora devono solamente smussare gli spigoli. C'è chi, come il forzista Ciro Falanga, nel caso di fuga del conducente vorrebbero vincolare l'aggravante alla consapevolezza della fuga. Modifica che il relatore non vede di buon occhio, temendo che l'aggiunta della parola "consapevolmente" possa aprire il varco a interpretazioni della norma che vadano nel senso opposto allo spirito della legge. Come pure Cucca è parso poco propenso a rimodulare il sistema delle pene accessorie, alleggerendo la severità della pena a chi è alla prima condanna: "Non possiamo certo consentire che si ammazzi due volte", prima di poter intervenire duramente. Ma, come confermato dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, che ha seguito il dossier in via Arenula, più che in Parlamento è soprattutto dall'esterno che arrivano le maggiori pressioni affinché il testo contenga il maggior numero di fattispecie possibili, tra le aggravanti. Sono soprattutto le associazioni delle vittime della strada ad aver insistito per inserire come aggravanti, oltre all'abuso di alcol e l'uso di sostanze stupefacenti, anche il superamento dei limiti di velocità, la guida contromano e il mancato rispetto del semaforo rosso. Elenco al quale vorrebbero fosse aggiunto anche l'utilizzo del cellulare. Modifiche che potrebbero anche intervenire in aula, dove il testo potrebbe approvare dopo le regionali, per essere approvato prima dell'estate. Giustizia: eco-reati, con questa legge basta impuniti di Luigi Di Maio* Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015 Mai più sentenze come per la Eternit. Mai più Bussi. Lo abbiamo ripetuto per mesi, non da soli ma sostenuti dalle principali associazioni ambientaliste. E adesso, finalmente, siamo a un passo dal realizzarlo. Noi che viviamo vicino alle discariche, agli inceneritori, alle industrie che hanno avvelenato i nostri territori, noi che non possiamo usare l'acqua dei rubinetti, che i nostri terreni sono irrimediabilmente compromessi. Tutti noi sappiamo che non si può più aspettare: questa legge è necessaria. Ed è necessario approvarla ora. Il disegno di legge sugli eco-reati, da domani in quarta e speriamo definitiva lettura al Senato, ha innanzitutto il grande pregio di introdurre per la prima volta nel codice penale i reati commessi contro l'ambiente. Trasforma molti degli attuali reati contravvenzionali (con pene da pochi mesi ad un massimo di tre anni) in delitti con pene che possono arrivare, con le aggravanti, fino a venti anni. Allunga fino a raddoppiarli i tempi di prescrizione. Consente l'utilizzazione di strumenti fondamentali per le indagini come le intercettazioni. Introduce nuovi importanti reati come l'omessa bonifica e l'impedimento al controllo ambientale, l'inquinamento e il disastro ambientale. Su questo testo ci sono interpretazioni favorevoli e contrarie, al netto della malafede di chi sta con gli inquinatori e di chi ha interessi elettorali nel sabotare una legge che il Paese aspetta da 20 anni. Tra i suoi padri promotori c'è anche il Movimento 5 stelle, con la prima firma di Salvatore Micillo, e in due anni di battaglie nelle commissioni Ambiente e Giustizia di Camera e Senato il Movimento ha ottenuto tantissimi risultati, rendendo il testo migliore, non perfetto, forse, ma importantissimo. Le polemiche sollevate ci hanno consentito di confrontarci ancora di più con i magistrati, non da ultimi coloro che sono in prima linea nella Dda, e abbiamo rafforzato la nostra convinzione sul testo. L'avverbio "abusivamente", il passaggio più citato da chi critica la legge, è un falso problema. Occorreva inserire una formulazione rispettosa del principio di tassatività della norma (nessuno può essere punito se non viola una legge) e si è ottenuto che fosse utilizzata quella più ampia: l'abuso si verifica anche quando la condotta viola i principi generali a tutela del bene protetto. È una formula ben più ampia rispetto a "in specifiche violazioni normative", contenuta in disegni di legge presentati in passato. Nelle audizioni abbiamo ascoltato tutti i pareri, le sentenze in giurisprudenza (come quella della Cassazione del 2008) ci hanno rafforzato nell'intento di perseguire la via migliore possibile, ci siamo confrontati con i magistrati, le "toghe verdi" che negli ultimi venti anni hanno colmato, con sentenze coraggiose e interpretative, il vuoto normativo in tema di delitti ambientali causato proprio da coloro che non sono stati in grado, per decenni, di approvare una legge sugli eco-reati e che oggi ad un passo dall'approvazione ne criticano l'impianto. Il ravvedimento operoso prevede uno sconto di pena per i reati colposi: il M5s non lo voleva così alto, ma sarebbe stato ancora più favorevole agli inquinatori se i nostri parlamentari non si fossero battuti per ridurne la percentuale. Grazie al M5s è stato inserito anche l'aggravante ambientale e il dolo eventuale (quando il reo ha considerato probabili gli effetti, ma ha poi deciso di agire ignorandoli). E la prescrizione, spina nel fianco di molti procedimenti, è stata allungata di molto (portata fino a 20 anni). Mai più Eternit, mai più Bussi: lo abbiamo promesso e con questo testo, che diventerà legge grazie all'apporto decisivo del M5S, rispetteremo la parola data. *Vicepresidente della Camera, membro del direttorio M5S Giustizia: meno dirigenti con la spending review, ma adesso servono più magistrati Italia Oggi, 18 maggio 2015 Riorganizzare la giustizia si può fare anche partendo dal suo dicastero. O almeno è quello che pensa il governo, che ha dato recentemente il via all'iter per la nuova organizzazione del ministero della Giustizia prevedendo una drastica riduzione degli uffici dirigenziali. Una vera e propria dieta, quella del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 marzo, che punta portare un risparmio corrispondente a circa 64 milioni di euro. Un provvedimento che per Pierfrancesco Marone sembra rispondere a quella richiesta di intervento in tema di razionalizzazione della spesa ed efficacia dell'azione amministrativa da tempo atteso. In particolare, "vedo con favore il passaggio di personale dalle Province alle Cancellerie nonché l'assunzione di personale (a dire il vero solamente in numero di "96 giovani") da inserire nell'organico ma assegnati ad un progetto di abbattimento dell'arretrato. È un primo passo, atteso da anni, ma sicuramente occorre fare di più", commenta l'avvocato aggiungendo che ogni intervento che voglia realisticamente risolvere la piaga dell'arretrato civile così come l'eccessiva durata dei processi non può prescindere dalla destinazione di maggiori risorse al sistema, da azioni tese a garantire una maggiore efficienza dei giudici e un maggior controllo della distribuzione del lavoro tra arretrato di natura contenziosa e non. "Per chi, come noi, ogni giorno si trova a gestire le tante criticità della macchina giustizia", commenta Giuseppe Bonacci, "forse è opportuno evidenziare che, se da un lato un riassetto degli uffici dirigenziali è di certo un fatto positivo, soprattutto se volto ad una migliore razionalizzazione dei costi, dall'altro riteniamo che ciò non sarà sufficiente per ottenere un concreto miglioramento della giustizia italiana che non può che passare dall'aumento del numero dei magistrati e del personale amministrativo e dall'efficace e concreta riforma degli istituti processuali". Da ultimo, l'avvocato di Roedl & Partners segnala che l'entrata in vigore del processo civile telematico "sebbene ancora non scevra da incertezze e inefficienze applicative, è comunque un segnale ed un passo concreto per una giustizia italiana sempre più allineata agli standard di efficienza e modernità di altri sistemi europei". Riforma della carcerazione preventiva, una "custodia" ben motivata di Renato Bricchetti Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2015 "Stop alle manette facili" si è detto per annunciare la legge 47 del 16 aprile 2015, intervenuta sulla disciplina della carcerazione preventiva e delle altre misure cautelari personali, in vigore dall'8 maggio. Naturalmente, come sempre, lo "stop" dipenderà dalla sensibilità "interpretativa" di giudici e pubblici ministeri. Nondimeno, la legge non fa mistero del proposito di richiamare gli interpreti al rispetto dei canoni probatori e all'osservanza degli obblighi motivazionali delle decisioni e di ricordare che il carcere è - come si usa dire - l'extrema ratio. L'intervento normativo investe numerosi temi: tra i più "caldi" quello concernente le esigenze cautelari e i relativi criteri di valutazione; l'ampliamento dell'area applicativa delle misure interdittive; la ridefinizione dei termini del giudizio di riesame e dei poteri decisori di quel giudice. La legge è in larga parte frutto del lavoro della Commissione istituita il 10 giugno 2013, voluta dal precedente ministro della Giustizia e presieduta da Giovanni Canzio; lavoro più ampio e animato, nella parte delle misure cautelari personali, dall'obiettivo di ridimensionare "l'area della restrizione della libertà personale, con speciale riguardo alla custodia cautelare in carcere", per ottemperare sia alle Raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, sia all'umiliante condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'8 gennaio 2013 (Torreggiani c. Italia) e al conseguente, severo monito della Corte costituzionale (sentenza 279/2013) che ribadiscono la necessità e l'obbligo di "una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere". Tra gli interventi più significativi ci sono quelli sull'articolo 274 Cpp, per le disposizioni sulle esigenze cautelari che legittimano l'adozione del carcere preventivo e delle altre misure personali. Il pericolo di reiterazione di determinati delitti dev'essere ora, oltre che concreto, "attuale". Il riferimento all'attualità del pericolo può apparire ridondante ma così non è. Oltre a essere uno dei simboli della ratio dell'intervento normativo, mette a fuoco un altro dei requisiti della motivazione dell'ordinanza applicativa della misura, contenitore trasparente del modo in cui il giudice applica lo standard probatorio definito dalla legge. D'altra parte, più precise sono le regole di valutazione, più si attenua il rischio dell'abuso delle misure cautelari personali (in particolare il rischio che il giudice se ne serva come mezzo per raggiungere la prova o le consideri meritata anticipazione della pena) e la libertà diventa "sicura" (non "provvisoria" come un tempo ormai lontano, quando il legislatore non si nascondeva dietro le parole). La nuova legge ha voluto precisare che "le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell'imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del reato per cui si procede". Si vuole così evitare che la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza assorba di fatto la valutazione delle esigenze cautelari, in relazione alla quale occorre invece una motivazione autonoma e specifica, che tenga conto effettivamente delle circostanze del fatto e della personalità dell'indiziato. Questo certamente è uno dei punti sui quali si misurerà il "successo" della riforma. L'esperienza insegna che, per la congruità della motivazione in ordine alle esigenze cautelari e ai connessi profili di adeguatezza della misura prescelta, i provvedimenti de libertate lasciano spesso a desiderare. Sono frequenti, invero, le prospettazioni che, da un lato, non fuoriescono da un sostanziale tautologico rinvio agli addebiti cautelari rivolti all'indagato, dall'altro, trascurano completamente di esaminare tutta una serie di significative circostanze favorevoli all'indagato, che il ricorrente deve sforzarsi di richiamare puntualmente. Concretezza, attualità e grado delle esigenze cautelari, così come il criterio di adeguatezza, sono temi fondamentali in materia, che non possono essere soffocati in formule stereotipate e generiche ovvero in riferimenti neutri o di non accertata rilevanza. Il problema vero, forse, è che il giudice si avvicina a questa esigenza cautelare come se riguardasse un presunto colpevole, non un presunto innocente che deve ancora avere un giusto processo. E questo spiega, tra l'altro, perché il più delle volte l'esigenza cautelare di impedire la reiterazione dei reati viene in sostanza desunta dalla sussistenza di "gravi" indizi di colpevolezza di un fatto "grave", dal quale si trae la probabilità che l'indagato sia pericoloso. In altre parole: chi ha commesso un fatto grave è pericoloso e può commetterne altri. Affermazione apodittica che mostra la sua arbitrarietà soprattutto quando, come sovente accade, dopo breve tempo e spesso pochi giorni, la misura cautelare viene revocata o attenuata. Gli argini alle ordinanze-fotocopia La legge 47/2015 interviene anche sulla disposizione che descrive requisiti e contenuto dell'ordinanza applicativa di misure cautelari, ponendone le condizioni di validità (articolo 292 Cpp). Il provvedimento, a pena di nullità, deve esporre le specifiche esigenze cautelari e gli indizi posti dal giudice a fondamento della sua adozione e indicare gli elementi di fatto da cui le une e gli altri vengono desunti; vanno inoltre esplicitati i motivi per cui il giudice considera non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, quando si applica la custodia in carcere, le concrete e specifiche ragioni per cui le esigenze cautelari esistenti non possono essere fronteggiate attraverso misure meno afflittive. Si aggiunge poi alla disciplina dell'apparato motivazionale del provvedimento cautelare l'ulteriore obbligo di "autonoma valutazione" degli indizi, delle esigenze cautelari, degli elementi proposti dalla difesa, dell'inadeguatezza di misure meno afflittive. La norma vuole reagire, nell'era del "copia e incolla", al cosiddetto - e spesso denunciato, talora a sproposito - appiattimento del giudice. L'espressa enucleazione del requisito di "autonoma valutazione" trova il suo pendant in un'altra importante scelta: quella di imporre al giudice del riesame di annullare il provvedimento impugnato se la motivazione manca o se non contiene l'"autonoma valutazione" delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa. Si vuole impedire (quantomeno) l'integrazione da parte del giudice del riesame della motivazione apparente e dunque di sanzionare con l'annullamento anche il difetto di motivazione "sostanziale". Tempi certi sulle decisioni anche in fase di riesame di Renato Bricchetti Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2015 Le più rilevanti modifiche apportate dalla legge 47/2015 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 23 aprile e in vigore dall'8 maggio)?all'articolo 309 Cpp riguardano la disciplina dei termini che scandiscono il giudizio di riesame. L'ordinanza applicativa di una misura coercitiva oggetto di impugnazione perde efficacia qualora gli atti sulla base della quale è stata adottata non pervengano al Tribunale entro il quinto giorno successivo a quello in cui sono stati richiesti e comunque se la decisione del giudice del riesame non interviene entro 10 giorni dalla ricezione dei suddetti atti. La disposizione è stata interpretata nel senso che entro il termine perentorio deve intervenire la deliberazione, non il deposito dell'ordinanza, completa della motivazione, che deve avvenire entro 5 giorni dalla deliberazione, termine la cui inosservanza è sfornita di sanzione processuale. I nuovi termini - Questa linea interpretativa ha generato prassi che hanno comportato in molti casi l'eccessiva dilatazione dei tempi di deposito delle motivazioni. Il legislatore, pur scegliendo di mantenere l'assetto originario del giudizio di riesame, ha ora deciso di risolvere il problema configurando un termine perentorio anche per il deposito dell'ordinanza del giudice del riesame, termine quantificato in 30 giorni. Conseguentemente, la caducazione della misura è stata estesa anche all'inosservanza di questo nuovo termine, oltre a quelli contemplati nei commi 5 e 9 dell'articolo 309 Cpp. La congruità di questo nuovo termine è questione di opinioni ed è pertanto facile immaginare che non mancheranno lamentele sulla sua eccessiva dilatazione o denunce sulla sua brevità e sull'impatto che la sua introduzione avrà sulla tenuta della giurisdizione del riesame. I casi - Il legislatore si è posto il problema della compatibilità di questo termine con i tempi necessari all'esame di provvedimenti cautelari spesso assai articolati. E in tal senso ha previsto che, qualora la stesura dell'ordinanza risulti particolarmente complessa in ragione del numero degli "arrestati" o per la gravità delle "imputazioni", il Tribunale possa disporre per il deposito della motivazione un termine più lungo, comunque non eccedente i 15 giorni rispetto ai 30 assegnati in via ordinaria. Il comma 10 dell'articolo 309 non vincola il giudice a disporre la proroga al momento della decisione e appare dunque lecito ipotizzare la facoltà di provvedervi anche in seguito, con decreto, purché depositato in cancelleria in data certa anteriore alla scadenza del termine di trenta giorni. Scelte analoghe sono state compiute dal legislatore con riguardo al deposito della motivazione dell'ordinanza adottata nell'appello cautelare ai sensi del comma 2 dell'articolo 310 Cpp, nel quale parimenti è stato introdotto in tal senso il termine di 30 giorni, eventualmente prorogabile fino a 45 se ricorrono i presupposti illustrati in precedenza. Va peraltro precisato come in questo caso il termine - così come quello di 20 giorni previsto dalla stessa disposizione per la deliberazione - sia meramente ordinatorio, atteso che l'articolo 310 non richiama il comma 10 dell'articolo 309, né prevede in maniera autonoma la perdita di efficacia della misura ovvero altre sanzioni processuali per l'inosservanza dei termini nello stesso previsti. I tempi del rinvio - La volontà di rendere effettivi i termini entro cui deve completarsi il giudizio di riesame ha portato il legislatore a intervenire anche sull'articolo 311 Cpp , nel quale ha inserito il comma 5-bis: dove ha trovato collocazione la disciplina dei tempi del giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento da parte della Cassazione di un provvedimento de libertate. La giurisprudenza di legittimità afferma che nel giudizio di rinvio conseguente all'annullamento di un'ordinanza del Tribunale del riesame non trova applicazione la disciplina dei termini prevista dall'articolo 309 Cpp, bensì quella dettata dall'articolo 127. La ritenuta inesistenza di termini perentori nel giudizio di rinvio la cui inosservanza comporti la caducazione della misura è apparsa al legislatore una stortura cui era necessario porre rimedio. E in tal senso la novella ha stabilito che la decisione e il deposito dell'ordinanza, qualora il rinvio sia stato disposto a seguito di ricorso dell'imputato (con conseguente esclusione degli annullamenti promossi dal pubblico ministero), debbano intervenire, rispettivamente, la prima entro 10 giorni dalla ricezione degli atti trasmessi a seguito dell'annullamento disposto dalla Cassazione e il secondo entro 30 giorni dalla decisione, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. In definitiva, il giudizio di rinvio è stato sostanzialmente equiparato a quello di riesame in ordine alla tempistica e alla sua perentorietà. Colpa medica: il danneggiato deve fornire la prova e il sanitario dimostrare la sua diligenza di Mario Piselli Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 marzo 2015 n. 5590. In tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del contatto sociale) e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, e allegare la colpa della struttura, restando a carico dell'obbligato, sia esso il sanitario o la struttura, la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, rimanendo irrilevante, sotto il profilo della distribuzione dell'onere probatorio, che si tratti o meno di intervento di particolare difficoltà. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 5590 del 20 marzo 2015. Sui danni da responsabilità medica - Sull'argomento relativo ai danni da responsabilità medica la Corte ha chiarito che il termine di prescrizione applicabile al diritto per il quale si agisce dipende dal titolo. Così, al danneggiato che agisce per il danno diretto subito a seguito di un intervento chirurgico nei confronti della struttura sanitaria il termine di prescrizione è decennale, essendo la responsabilità della struttura sanitaria verso i propri pazienti inquadrata nell'ambito della responsabilità contrattuale. La stessa durata permane se il diritto si trasferisce, a causa del decesso della vittima, ai suoi congiunti ed eredi. Invece, il diritto che i congiunti vantano autonomamente a essere risarciti dalla stessa struttura per i danni da loro direttamente subiti a causa dell'esito infausto dell'operazione subita dal danneggiato principale, si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale ed è soggetto al termine di prescrizione quinquennale, ex articolo 2947 del Cc, non potendosi giovare del termine più lungo per far valere i propri diritti di cui gode il danneggiato principale proprio per effetto del diverso inquadramento del rapporto con il soggetto responsabile. Chi ferisce un lavoratore dipendente paga i danni al datore di lavoro di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2015 Tribunale di Genova - Sezione II civile - Sentenza 25 novembre 2014 n. 3787. Chi cagiona delle lesioni personali in danno di un lavoratore dipendente, con la conseguente invalidità temporanea assoluta e impossibilità per quest'ultimo di lavorare, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative. E l'importo è liquidabile sulla base dello stipendio versato al dipendente. Questo è quanto ribadito dal Tribunale di Genova nella sentenza 3787/2014. Il caso - All'origine della vicenda c'è un fatto accaduto presso un casello autostradale dove il guidatore di un'autovettura coinvolta in un sinistro, in quel momento in stato di alterazione per aver assunto sostanze alcoliche, a seguito di una colluttazione con un agente della Polizia di strada intervenuto sul posto, procurava a quest'ultimo delle lesioni spezzandogli il pollice della mano destra. L'agente ferito così si ritrovava nell'impossibilità di lavorare per quasi 4 mesi. A questo punto, Il Ministero dell'Interno, in qualità di datore di lavoro dell'agente infortunato, citava in giudizio l'automobilista per lesione extracontrattuale del diritto di credito, ovvero chiedendo una condanna ex articolo 2043 c.c. al pagamento in suo favore della somma pari a quanto pagato all'agente infortunato a titolo di retribuzione, cioè circa 10 mila euro. Le motivazioni - Il Tribunale ritiene legittima la richiesta del Viminale. Una volta accertata al dinamica dei fatti e la responsabilità del convenuto per la lesione subita dell'agente, per il giudice è pacifico il risarcimento in favore del ministero per la lesione extracontrattuale del diritto di credito dell'ente a fruire della prestazione dell'agente. L'Amministrazione ha subito un danno patrimoniale quantificato nello stipendio versato al suo dipendente in stato di malattia e tale danno è suscettibile di risarcimento. In relazione alla lesione del diritto di credito, il giudice ricorda, infatti, il pacifico orientamento per il quale "il responsabile di lesioni personali in danno di un lavoratore dipendente, con conseguente invalidità temporanea assoluta, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative, la quale integra un ingiusto pregiudizio, liquidabile sulla base dell'ammontare delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, obbligatoriamente pagati durante il periodo di assenza dell'infortunato, salva restando la risarcibilità dell'ulteriore nocumento in caso di comprovata necessità di sostituzione del dipendente". Contenzioso, il caro-cause mette un freno ai ricorsi di Maria Chiara Furlò Italia Oggi, 18 maggio 2015 Sarebbe bello se gli italiani andassero più d'accordo e ricorressero meno ai tribunali ma, almeno per ora, la loro proverbiale tendenza al litigio resta una certezza. Nonostante la riduzione del contenzioso civile riscontrata nell'ultimo anno, gli stessi avvocati, che i loro clienti li conoscono bene, constatano come non sia la litigiosità il motivo della diminuzione delle cause, ma tutti altri argomenti, dalle radici molto più economiche che sociali. Nel 2014, nei Tribunali civili si è passati da 2.139.925 nuovi procedimenti a 1.960.523. Una riduzione che ha riguardato 180mila cause rispetto al 2013. Un trend in discesa che vale anche per l'appello, dove i ricorsi sono calati del 10%, per un totale di quasi 300mila cause in meno. Questi i dati che erano stati illustrati nel corso di una conferenza stampa dal presidente del Consiglio Matteo Renzi e dal Capo del dipartimento per l' Organizzazione giudiziaria Mario Barbuto. Secondo il governo, la diminuzione delle sopravvenienze consentirà di concentrarsi sull'arretrato. Eppure, "gli italiani sono un popolo che non teme il contenzioso, come dimostra il considerevole numero di avvocati in Italia". A dirlo è lo stesso avvocato Danilo Lombardo, socio fondatore dello studio legale Lombardo, che ritiene di poter affermare senza rischio di smentita come "il merito della riduzione del contenzioso civile sia esclusivamente riconducibile all'aumento dei costi connessi all'instaurazione dei giudizi nonché all'introduzione di procedure alternative di soluzione delle controversie ed in parte anche alla crisi economica che sta attraversando il nostro Paese", conclude Lombardo. E i professionisti del diritto intervistati da Affari Legali sono d'accordo con lui. La questione della litigiosità degli italiani è legata a una questione culturale e di informazione "che può essere modificata soltanto nel tempo, anche grazie all'introduzione di norme che facilitino la risoluzione non contenziosa delle controversie". La pensa così Giorgio Grasso, of counsel dello studio legale Simmons & Simmons che sottolinea come il principio dovrebbe essere che si ricorre davanti al giudice soltanto quando è strettamente necessario. "Nell'evenienza in cui le parti non siano riuscite a trovare una soluzione amichevole grazie all'aiuto di un mediatore qualificato che le aiuti a comporre la lite. Inoltre, le cause bagatellari (in primis quelle relative alle mere contestazioni delle contravvenzioni stradali) non dovrebbero arrivare davanti ai tribunali (o addirittura in cassazione) perché la trattazione delle controversie inutili ostacola la celere definizione delle cause veramente importanti". Commenta Grasso, aggiungendo che l'intervento sul contributo unificato si riduce alla fine su un costo - nella maggioranza dei casi - che viene ribaltato sugli avvocati. Piuttosto, secondo lui "i magistrati dovrebbero riconoscere al termine del giudizio un congruo importo a titolo di spese legali in favore della parte vittoriosa, limitando al massimo i casi di compensazione, perché questo scoraggerebbe maggiormente chi agisce pretestuosamente in giudizio". Secondo Ettore Maria Negro managing partner di Negro Lex, il minore numero di cause introdotte nel 2014 rispetto all'anno precedente non può considerarsi significativo e comunque non gli pare espressione "di un sistema più efficiente ed ossequioso del diritto costituzionale di difesa". L'avvocato non dubita che l'aumento dei costi di accesso alla giustizia e la mediazione obbligatoria per determinate materie abbiano contribuito a diminuire il numero delle liti, soprattutto in considerazione della situazione economica generale. Non ritiene tuttavia, che sia il modo per rendere efficiente la funzione giurisdizionale. "Così come mi pare insensato tentare di frenare quella che è diventata un'emergenza cronica ricorrendo a misure straordinarie prive di organicità sistemica, si pensi agli ultimi interventi sul processo civile o all'utilizzo pervasivo di magistrati onorari, in deroga all'art. 102 Cost. Lo Stato non può abdicare alla funzione di amministrare la giustizia, né può renderne più difficile l'accesso", commenta Negro. Anche Mauro Intagliata dello studio legale Rovacchi Intagliata e Associati di Reggio Emilia pensa che se proprio si possa parlare di una diminuzione della litigiosità, lo si debba intendere più come fenomeno giuridico-processuale che sociologico, perché "facendo questa professione il dato che si percepisce e si raccoglie nel quotidiano è che la conflittualità tra persone, a livello socio-psicologico e in generale, è in aumento". Di certo il calo delle cause iniziate nel corso del 2014 - che il professionista considera comunque lieve - è secondo lui da ricondursi, "più che ai maggiori costi processuali previsti, agli effetti in realtà estremamente contenuti della mediazione, che ad oggi ha veramente fallito nel suo intento originario di diminuire il contenzioso giudiziale attraverso l'estensione di procedure conciliative ante-causam". Sicuramente la crisi economica ha dato il suo contributo nel far desistere imprese e privati dal ricorrere al sistema giudiziario per la risoluzione delle controversie o anche solo per recuperare un proprio credito. Ma per Pierfrancesco Marone, fondatore dello studio legale Marone & Ianni, i costi sono da collegare non solamente alle spese vive e legali che l'avvio di un procedimento giurisdizionale comporta, ma anche e soprattutto "al timore di perdere definitivamente il fornitore o il cliente con il quale si decide di aprire un contenzioso, nella consapevolezza che, con l'attuale periodo di crisi, non è assolutamente certo che lo stesso possa essere sostituito con facilità e in tempi rapidi". Marone non pensa però che la causa della riduzione dei contenziosi possa essere individuata solamente nell'aumento del contributo unificato, e spiega "il decreto legge n. 132/2014 è entrato in vigore in giugno e la riduzione delle cause civili sembra essere iniziata prima. Certo, magari ha contribuito a questa tendenza, ma non ritengo possa essere elevata a ragione principe della diminuzione di cui trattasi". Discorso a parte meritano invece gli Adr (Alternative Dispute Resolution) che secondo il professionista sicuramente hanno contribuito e contribuiranno ad inibire l'accesso alla giustizia vera e propria, "mi riferisco alla mediazione obbligatoria così come, in futuro, alla negoziazione assistita". Un interessante dato statistico divulgato dal ministero della Giustizia relativamente ai primi nove mesi del 2014 attesta che la percentuale di successo della mediazione obbligatoria con accordo raggiunto dopo il primo incontro o direttamente in questo è del 48 per cento, seppur con differenze sensibili tra gli organismi di mediazione. Superficiale sarebbe secondo Marone non addentrarsi nel dettaglio di tali statistiche: alla fine della graduatoria dell'esito si collocano i contratti bancari, con appena l'8% di successi, e i risarcimenti danni da responsabilità medica. Invece, attorno al 30% si piazzano le liti su diritti reali e quelle con oggetto il comodato e l'affitto d'azienda. Poco al di sotto, le controversie su locazione, divisione e condominio. Per quanto riguarda il valore della lite, si può sottolineare come la propensione ad accordarsi diminuisca man mano che aumenta il peso economico della vertenza. Si passa infatti da una percentuale di accordi, con aderente comparso, pari al 39% nel range di valore tra 1.000 e 3.000 euro, a una del 10% se la controversia va oltre i 10.000 euro. Cautamente positivo è il commento di Stefano La Porta, partner di La Scala Studio Legale, che crede ci sia una riforma contenuta nella legge professionale e poi ripresa nel nuovo codice deontologico che abbia contribuito alla riduzione del contenzioso civile. Si tratta dell'obbligatorietà (o quasi) di un preventivo scritto. Oggi, secondo La Porta "un cliente che si presenta in studio per la classica ‘questione di principiò, può rendersi subito conto di quanto può arrivare a spendere per il contributo unificato, quanto per le spese giudiziarie, quanto per il proprio avvocato e quanto potrebbe trovarsi a spendere in caso di soccombenza (sia per il proprio avvocato sia per quello della controparte), quanto può costare una consulenza tecnica e quanto può durare il giudizio. Così, spesso e volentieri dopo il primo incontro, se la sua è una pretesa infondata, si alza e se ne va". Inoltre, per La Porta la riduzione delle cause, sia in primo grado che in appello, è dovuta anche ad altre due motivazioni. La prima è il filtro in appello che si applica nella fase di impugnazione, mentre la seconda circostanza è legata al fatto che "oggi, nel momento in cui ci sia una soccombenza, meno facilmente il giudice compensa le spese". Di conseguenza, è più facile che chi abbia perso venga condannato a pagare non solo le spese, ma anche una multa. Infatti, ulteriore deterrente per la proposizione di appelli non giustificati è anche la previsione di una "multa" nel caso in cui l'impugnazione sia manifestamente infondata e inammissibile, così come in caso di rigetto della richiesta di sospensione cautelare dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado. Per Giuseppe Bonacci di Roedl & Partner il decremento di cui parliamo è ancora numericamente troppo esiguo per poter affermare che sarà risolutivo finalmente per lo smaltimento dell'arretrato. "Diciamo che, in ogni caso, è un buon inizio", commenta l'avvocato aggiungendo che questo implica la proporzionale diminuzione del numero dei fascicoli di competenza di ciascun magistrato con la conseguente maggior disponibilità di tempo che ogni giudice potrà dedicare ai fascicoli di propria competenza con una diretta incidenza sullo smaltimento dei ruoli. Bonacci evidenzia, però che "restano importanti divari tra Corti più virtuose e Corti meno virtuose che andrebbero scardinati. Si potrebbe intervenire, innanzitutto, con un aumento dei magistrati in ruolo e del personale amministrativo a supporto. Questo aumento sarebbe un ulteriore modo per incidere direttamente sul rapporto singolo giudice - numero di fascicoli allo stesso assegnati, importantissimo per ottenere maggiore efficienza. Ovviamente, sarebbe opportuno prevedere maggiori controlli e reali sanzioni, laddove da tempo sono cronicizzate situazioni di inefficienza non solo numerica ma anche sostanziale".. Lettere: la globalizzazione della cieca violenza di Giuseppe Cacciatore Roma, 18 maggio 2015 Sono tanti purtroppo i motivi di un'amara riflessione su quella che verrà etichettata come la strage del bucato. Provo ad elencarli, cercando di non cadere negli stereotipi del sociologismo dilettantesco o del moralismo retorico. Il primo riguarda l'ennesima dolorosa conferma di una Napoli perennemente attraversata da una lacerante contraddizione: l'ha colta molto bene Giuseppe Montesano - conoscitore e narratore straordinario del "corpo di Napoli" - quando ha sottolineato come alla vigilia di un atteso e importante appuntamento come l'inaugurazione della stazione della metropolitana (un segno della Napoli centro di cultura e di modernità) si scatenasse nel cuore del degrado della periferia napoletana tanta furia omicida. Ma c'è qualcosa che in parte smentisce quest'analisi e che in verità lo stesso Montesano sottolinea: non si tratta di una ennesima strage di camorra o della periodica resa di conti tra bande criminali. Quello che è successo a Napoli sembra la replica di tanti episodi di insensata follia omicida gratuita di persone che sparano su innocenti passanti o su studenti inermi come tante volte è avvenuto nel nord Europa o in America. Napoli dunque entra a pieno titolo nella globalizzazione della violenza, spesso cieca e gratuita, e perde quell'aura, forse fin troppo enfaticamente esaltata, di calore umano e di solidarietà, anche se smentita drammaticamente dal gesto eroico del capitano dei vigili Bruner immolatosi per proteggere dalle pallottole un passante. Col passare delle ore emergono altri particolari inquietanti: ma come è possibile che un individuo possa tenere in casa un vero e proprio arsenale di armi (persino un Kalashnikov, due machete e migliaia di proiettili) per la maggior parte regolarmente dichiarate? E non è anche questo il segno, uno dei segni, della crisi, non dei valori che sarebbe pretendere troppo, ma del rapporto stesso con la realtà, sostituita dagli idoli peggiori di questa sgangherata postmodernità? L'assassino, infatti, non solo aveva la casa piena di armi, ma frequentava regolarmente il poligono di tiro e aveva una nutrita collezione di film di guerra. Naturalmente, come ormai avviene quasi come un rito dovuto, ora si proporranno rimedi e si avanzeranno proposte: maggiori controlli sulla concessione dei porto d'armi (e anche sui poligoni di tiro che saranno tanti a Napoli vista la diffusione abnorme delle armi e sui loro frequentatori), ma controlli anche sulle effettive esigenze che inducono un cittadino a richiedere la licenza che peraltro dovrebbe essere suffragata da un certificato rilasciato dall'Asl di idoneità psico-fisica e da un certificato di idoneità al maneggio delle armi rilasciato da una sezione di Tiro a Segno. Ho l'impressione però che tutto ciò non sia diventato ordinaria prassi burocratica che si sbriga con un timbro e via. Ma può bastare? Certamente no, se è vero quel che un altro famoso scrittore napoletano, Maurizio De Giovanni, ha osservato: al di là del gesto di follia, ciò che indirettamente lo ha generato è il progressivo allentamento del controllo sociale che nasce dalla convivenza e dalla reciproca conoscenza. Siamo collegati al mondo e comunichiamo col mondo virtuale grazie a una tastiera, ma non sappiamo nulla del mondo reale, della famiglia che abita sul nostro stesso pianerottolo, sul vicino che frettolosamente incrociamo quando usciamo al mattino. Napoli, nella sua storia e nella sua pratica di vita, sembrava essere sfuggita a questa deriva. La strage di via Miano è la triste conferma - come ha lucidamente osservato ancora Montesano - che anch'essa è ormai affetta da una malattia dalla quale sembrava essere immune: l'anomia, la rottura di ogni legame sociale, di ogni spirito di amichevole convivenza. Gli anticorpi tuttavia continuano a prodursi come testimonia il disinteressato gesto di solidarietà verso "l'altro " dei vigili caduti sotto il fuoco omicida. Già, proprio l'altro, come dice lo scrittore, quell'altro che sono me stesso. "Questa verità Napoli l'ha sempre conosciuta e portata con sé come un talismano. Non dovremmo dimenticarla". Lettere: la storia di Iulian Balan.. ma le sentenze della Cedu valgono solo per l'Italia? www.poliziapenitenziaria.it, 18 maggio 2015 Iulian Balan era un ragazzo rumeno di 25 anni che, appena arrivato in Italia, era stato coinvolto, poco più che ventenne da altri suoi compaesani in una brutta storia di prostituzione e sfruttamento. Quindi era stato tratto in arresto e associato, come avviene in questi casi, in una Sezione "Protetti" di un penitenziario italiano. Questo ragazzo dal viso pulito e dall'aria allegra, non aveva certo la caratura di un criminale incallito né convinceva del tutto la tesi che potesse essere uno sfruttatore; proprio non me lo immaginavo nei panni di un pappone, né di uno che potesse ridurre in schiavitù una ragazza costringendola con la forza a prostituirsi. Sensazioni di uno che ne ha conosciuti tanti di criminali in tanti anni di carcere. Iulian era un ragazzo intelligente, approfittava delle opportunità che il sistema penitenziario italiano gli offriva e si iscrisse a scuola; iniziò a parlare e scrivere italiano, frequentò alcuni corsi di formazione, prendendo tra gli altri l'attestato di Aiuto Cuoco, ottenne la liberazione anticipata. Al lavoro era zelante, obbediente, rispettoso delle regole. Su proposta del Comandante di Reparto e del Capo dell'Area Educativa, Il direttore lo aveva premiato ammettendolo all'art. 21. Iulian lavorava al Casellario Detenuti. Era un detenuto di cui ci si poteva fidare: era leale e disponibile, corretto e gentile. Gli assistenti di P.P., addetti al casellario lo avevano adottato idealmente come fosse un "figlio" o uno sfortunato fratello minore. Il suo sorriso era contagioso. Lo ascoltavamo raccontare le storie del suo paese, della sua Romania; si professava innocente ma era rassegnato. Invischiato in un giro più grande di lui, da suo zio…. voleva solo scontare la pena e ritornare al suo paese per aiutare suo padre nei campi e rifarsi, se possibile, una nuova vita. Ci mostrava le foto di sua sorella Corina, una bellissima ragazza mora, le foto della sua casa, dei suoi genitori, appena arrivati con una lettera. Una famiglia umile. Normale. Quando il Comandante passava dal Casellario e lo salutava affettuosamente, i suoi occhi brillavano e quasi gli si riempivano di lacrime per la gioia; la gioia di essere trattato come un essere umano. Iulian aveva trovato, idealmente, una famiglia che gli voleva "bene" e che intendeva aiutarlo, per quello che poteva fare, durante la sua detenzione e chissà... così come era avvenuto per Stoian Vasile, un altro detenuto rumeno, anche fuori dall'Istituto, con un lavoro esterno. Ma arrivò l'estradizione. Iulian dovette ritornare in Romania, nella sua patria. All'apparenza era felice. Credeva che entro pochi mesi sarebbe uscito per riabbracciare i suoi familiari. Non sapeva ancora che le carceri romene non sono paragonabili nemmeno alle peggiori carceri italiane. Non sapeva ancora che non avrebbe trovato un briciolo di umanità tra gli operatori del suo paese. Non sapeva ancora che in alcune carceri romene è molto difficile vivere e addirittura sopravvivere. Non poteva immaginare di scendere all'inferno. A differenza della Sezione Protetti del carcere dove era detenuto, in una cella con altri 4 detenuti e con il bagno all'interno ma separato dalla stanza da una porta, non sapeva che i posti letto delle celle del carcere romeno erano minori dei detenuti che poteva contenere e che, quindi in alcune brande dovevano prendere posto due detenuti. Non poteva sapere, perché era giovane e non era mai stato in galera nella sua Patria (come invece lo era stato Stoian Vasile che, infatti, all'atto della estradizione piangeva disperato, lui che ormai lavorava all'esterno come pasticciere, e temeva fortemente la carcerazione in Patria), che i blindati della sua cella, sarebbero stati chiusi tutto il giorno. Iulian, infine, partì. Lasciò l'Italia, paese condannato, con la sentenza Torreggiani, dalla Cedu per trattamenti inumani e degradanti, per andare in Romania, la sua patria, (anch'essa condannata più volte per trattamenti inumani e degradanti - sentenza Tudor, sentenza Bragadireanu ecc.) ma che, a differenza dell'Italia ancora pare che sia lontana anni luce, dal trattamento riservato dal nostro Paese ai suoi detenuti, italiani o stranieri che siano. E così un giorno di fine gennaio, gli assistenti del Casellario, al quale lui ormai si era affezionato come se fossero stati i suoi fratelli maggiori, ricevettero una lettera dalla Romania. È Iulian che scrive: "22.1.2015, Ciao a tutti assistenti. Di me vi posso dire che sono arrivato in Romania il 18.11.2014 e ancora sono in carcere. Sono andato al Tribunale per la libertà e ancora mi hanno dato 6 mesi. Il 23 maggio ho istanza per la libertà condizionale perché dicono la motivazione che mi devono conoscere in questi 6 mesi. Ho tradotto tutti i documenti di Italia e quello che ho fatto io: scuola, art.21, corsi, giorni (liberazione anticipata n.d.r.). E non ci interessa niente quello che ho fatto io in Italia. Le leggi qui fanno schifo di tutto il mondo. Mi dispiace tanto che sono andato da voi. Meglio stavo da voi in (…) a finire la mia pena. Le condizioni qui in carcere fanno schifo. Mi hanno dato regime di detenzione chiuso. Con i blindi chiusi tutto il giorno, aria solo 2 ore al giorno. Qui sono 6 regimi di detenzione. A me mi hanno dato chiuso perché ho la pena alta. Pure al mio cugino hanno dato 6 mesi. A tutti quelli (detenuti estradati ndr) che vengono da fuori gli danno 6,7,8,9,10 mesi perché dicono che li devono conoscere e io in questi 6 mesi devo frequentare corsi per fare punti. È un casino. Io qua di 8 anni devo fare 5 anni e 4 mesi e se tu come detenuto deva dare che ti sei inserito nella società devi fare tanti sacrifici per uscire. È molto brutto. Si fai un rapporto (se prendi un rapporto disciplinare ndr) fai tutta la galera. La mia famiglia vengono sempre a trovarmi. Mi sono arrivati tutti i soldi del lavoro. Da voi vi ringrazio di tutto cuore. A tutti al Comandante, agli assistenti (…), al direttore. Salutate il Comandante: è una persona buona, un padre di famiglia e tutti voi siete padri di famiglia. Mi sono trovato molto bene da voi con il mio rispetto e il mio comportamento. Grazie di tutto a tutti voi. Un saluto a tutti gli educatori e li ringrazio per tutto quello che hanno fatto per me e un saluto alla professoressa (…) la ringrazio di tutto. Spero che capite la mia lettera perché sono ignorante a scrivere l'italiano. Qua è molto brutto in carcere ma con Dio spero che esco il 23 maggio 2015. In stanza siamo 8 detenuti. Le stanze sono piccole. Vado d'accordo con tutti i detenuti perché qua sono tranquilli perché un rapporto qui ti leva tutto. Qui chiudo la mia lettera e una buona vita a tutti voi. E vi ringrazio a tutti voi". Iulian Balan uscirà dal carcere romeno in una bara e molto prima del 23 maggio 2015. Contrariamente a quanto scritto, deriso dai suoi compagni di cella, non era riuscito a sopportare le angherie, probabilmente le sopraffazioni e lasciato per un momento solo, nel bagno della cella si era impiccato. Non sapremo mai cosa abbia scatenato in Iulian la voglia di farla finita e se questo sia da imputare alle terribili condizioni carcerarie romene; ma anche Stoian che qui da noi era diventato un detenuto modello, arrivato in Romania fu aggredito da altri detenuti, ma a differenza di Iulian, Stoian che già era stato in galera al suo Paese, non si era fatto prevaricare e si era difeso mandando all'ospedale l'aggressore; gesto che sicuramente spense quella luce in fondo al tunnel che invece, in Italia, aveva intravisto. Questo scritto vuole essere solo una testimonianza del lavoro, mai apprezzato, svolto dagli operatori penitenziari nel nostro Paese, sulle "persone" detenute, al fine di dare loro una speranza, salvo poi essere vanificato da sistemi penitenziari per i quali le indicazioni della Cedu sono carta straccia. Fonti: www.balcanicaucaso.org, www.dirittieuropa.it, www.ristretti.it. Lettere: sui "presunti" detenuti che avrebbero preso il sole sul tetto del carcere di Vincenzo Aiello e Giovanni Imparato (Volontari penitenziari) Ristretti Orizzonti, 18 maggio 2015 Al direttore del Corriere del Mezzogiorno, dott. Antonio Polito. Carissimo Direttore, siamo volontari nel carcere di Poggioreale ed abbiamo letto con molta sorpresa e disappunto l'articolo del 13 maggio scorso a firma di Amalia De Simone nel quale si denunciava che alcuni presunti detenuti avrebbero preso la tintarella sdraiandosi sui tetti del penitenziario napoletano. Lo sconcerto nasce innanzitutto dal fatto che si fanno affermazioni senza documentazione, senza aver interpellato prima chi poteva dare una risposta a questa curiosità e con molta superficialità si è costruita una interpretazione molto lontana dalla realtà. Come ha ribadito il direttore del carcere Antonio Fullone, nell'intervista pubblicata il giorno successivo dal Corriere del Mezzogiorno, le persone menzionate nell'articolo sono gli operai della ditta che sta eseguendo lavori di ristrutturazione del padiglione Genova, che durante la pausa pranzo si fermavano per riposare al sole. C'è addirittura chi ha riconosciuto in quei personaggi gli stessi detenuti che passeggiavano durante le ore d'aria nei cortili dei padiglioni: una vera indagine di intelligence! Ma le devo dire che ciò che colpisce di più nell'articolo è la denigrazione dei detenuti che non avrebbero diritto nemmeno a prendere un po' di sole. Forse si pensa che il carcere debba essere ancora luogo di mera punizione, una "gattabuia" dove non deve filtrare un raggio di sole e non un luogo di rieducazione e riabilitazione per chi ha sbagliato. Così come l'immagine del carcere descritto come un lager è ormai vecchia e stereotipata: a Poggioreale è in atto una profonda trasformazione e si sta facendo un grande sforzo di rinnovamento e di umanizzazione. Il forte impegno della direzione, del comandante, del personale civile e di Polizia penitenziaria sta rendendo a poco a poco questo carcere più umano e "normale". L'autrice dell'articolo (e non solo lei) ci ricorda quei giapponesi che sono rimasti nella jungla e non sanno che la guerra è finita. La realtà di Poggioreale oggi è diversa, non si possono ripetere all'infinito dei luoghi comuni per demonizzare questo luogo. Introduzione del cosiddetto "regime aperto" in alcuni padiglioni, con i detenuti che durante le ore del giorno sono liberi di circolare all'interno della sezione, eliminazione delle file dei familiari per i colloqui lungo via Nuova Poggioreale, raddoppio delle ore d'aria ed altro. Sono solo alcune delle misure che sono state intraprese negli ultimi mesi con grandi sforzi e sacrifici da parte degli operatori penitenziari. Così come i volontari cercano di sostenere chi vuole uscire dalle maglie del crimine dando un sostegno ad esistenze tanto spesso segnate da solitudine e degrado. Papa Francesco quando è venuto a visitare i detenuti ha detto che tutti possiamo sbagliare e cadere. Ma l'importante e rialzarsi e "non rimanere caduti". Speriamo che anche il Suo giornale dopo questa caduta di stile sappia tornare ad essere il mezzo di informazione che sotto la Sua guida abbiamo apprezzato. E poi se ha tempo, venga a trovarci per vedere come Poggioreale, anzi la Casa circondariale "Giuseppe Salvia", si sta trasformando da inferno a luogo di speranza. Abruzzo: nomina Garante detenuti, il Radicale Grifoni al decimo giorno di sciopero fame abruzzo24ore.tv, 18 maggio 2015 Giunto al decimo giorno di sciopero della fame, Ariberto Grifoni, esponente di Amnistia Giustizia Libertà - Abruzzi, si rivolge ai presidenti del Consiglio e della Giunta regionale affinché procedano "con coraggio - scrive in una nota - alla pubblicazione del bando relativo al Garante dei detenuti, ricordando quanto Marco Pannella disse nell'Aula dell'Emiciclo in occasione dell'attribuzione della medaglia Aprutium il 9 dicembre scorso. Il bando non andrà deserto perché, per il gravoso compito di Garante dei detenuti c'è già un candidato competente, efficace e di prestigio che è Rita Bernardini", segretario nazionale di Radicali Italiani. "Dal mio smunto corpo - si legge infine nella nota di Grifoni - - torno a sollecitare l'attuazione della norma contenuta nell'art. 6 della l.r. 35/11". "L'azione di lotta nonviolenta intrapresa dallo storico militante radicale teramano - commenta Vincenzo di Nanna, segretario Amnistia Giustizia Libertà - Abruzzi, membro della Giunta di Radicali Italiani - interviene dunque a sostegno dell'iniziativa di denuncia pubblica per l'omessa attuazione della legge regionale istitutiva del garante dei detenuti, condotta da Maurizio Acerbo (rifondazione comunista, membro della segreteria nazionale) e da me, che torniamo a sollecitare il presidente della Giunta Regionale, il Presidente del Consiglio regionale a cui compete l'emanazione del bando e l'Assemblea regionale cui compete l'elezione, affinché provvedano con la doverosa urgenza". Bologna: in liquidazione coatta Altercoop, cooperativa-pilota per reinserimento detenuti di Cristina Degliesposti Il Resto del Carlino, 18 maggio 2015 Debiti per oltre 12 milioni di euro, la società finisce in liquidazione coatta. Capolinea: dopo 30 anni di attività, Altercoop finisce in liquidazione coatta amministrativa. La cooperativa sociale di via del Fonditore, presieduta dall'ex assessore-lampo della giunta Cofferati Elisabetta Calari, è già nelle mani di un commissario - Elis Dall'Olio - nominato in settimana dal Governo. A convincere Legacoop (in quanto organismo di controllo) a chiedere la procedura liquidatoria per la sua associata, i numeri che non lasciavano spazio a interpretazioni: 12 milioni 650.452 euro di attivo circolante a fronte di una massa debitoria di 12 milioni 850.462 e un patrimonio netto negativo di 565.967 euro. Ma se con Altercoop finisce la storia di una delle cooperative pilota per il reinserimento lavorativo di ex carcerati, gli appalti in essere e la quasi totalità dei lavoratori proseguiranno la loro attività con altre realtà economiche. "Dei 96 dipendenti complessivi di Altercoop, 76 sono confluiti già a gennaio in Iris, un'altra coop sociale di tipo B con sede a Bologna che ha preso in affitto il nostro ramo d'azienda, subentrando così nella gestione dei nostri diversi servizi a carattere sociale - spiega Calari. In questo periodo Iris sta definendo la propria classe dirigente, ma il mio percorso si ferma qui insieme a quello di altre sei persone che non hanno accettato il passaggio". L'affitto del ramo d'azienda durerà un anno e dopo Iris potrà presentare la propria offerta d'acquisto. Si salvano così la tipografia all'interno del carcere e il servizio di catalogazione libraria dove vengono impiegati diversi detenuti, la gestione del centro polivalente Villa Serena e i tanti appalti per le pulizie, gestione front office e punti informazione che Altercoop aveva collezionato in regione. Ma questa è solo una parte dell'attività della cooperativa che, con un'altra divisione, commercializzava carta e prodotti di cancelleria per privati e pubbliche amministrazioni. Solo 4 anni fa il consigliere comunale di Forza Italia, Lorenzo Tomassini, aveva sollevato il caso del caro cancelleria in Comune, additando Altercoop di praticare al pubblico prezzi superiori rispetto a quelli riservati a i privati. "Anche in questo caso, una parte dell'attività commerciale e dei suoi dipendenti sono stati assorbiti con un affitto di ramo d'azienda da una srl bolognese - precisa Calari. Quando abbiamo iniziato ad avere i primi segnali che la situazione non si sarebbe risanata, abbiamo cercato soluzioni per salvaguardare i dipendenti e gli inserimenti lavorativi. Negli ultimi tre anni il crollo del settore tipografico e della commercializzazione ha reso impossibile pensare anche solo di governare la situazione con una liquidazione volontaria". Trieste: il velista Berti Bruss, da skipper a detenuto per il furto di un contatore del gas di Corrado Barbacini Il Piccolo, 18 maggio 2015 Sembra la versione triestina di "Detenuto in attesa di giudizio". Al posto di Alberto Sordi ad incappare nelle strette e miopi maglie della giustizia è Berti Bruss, lo skipper della Dolce Vita e di Marinariello. Bruss è a casa, ai domiciliari, dove sta scontando la pena di un anno e dieci mesi senza i benefici, per un reato, che dice di non aver mai commesso: il furto di un contatore dell'AcegasAps. A casa ci rimarrà per altri sei mesi quando potrebbero concedergli la semilibertà. E alla Barcolana potrebbe partecipare solo grazie a un permesso straordinario. Perché a tutti gli effetti è un detenuto. Il paradosso è che Berti Bruss non si è accorto di essere indagato e poi condannato perché era vittima prima delle conseguenze di un grave incidente stradale e poi di un serio esaurimento nervoso conseguente al fallimento della sua ditta di restauri edili. "Ricevevo carte e firmavo ma non capivo. Ero fuori di testa", così la spiega. Altro non può, non riesce a dire. Perché le notifiche gli sono effettivamente arrivate come dimostrano le ricevute di ritorno degli atti inviati dal Tribunale. E poi c'è stata anche la perquisizione. Un giorno nella sua casa di via della Mandria si sono presentati i carabinieri per perquisirla, cercando invano il famoso contatore del gas. Ma lui mai avrebbe pensato di essere indagato per il furto di quella cosa. La storia inizia nel 2011, quando misteriosamente sparisce appunto il contatore del gas di una casa di Santa Croce gestita da Bruss, per conto di un suo cliente. Le indagini dei carabinieri di Aurisina partono immediatamente. Scoprono che l'inquilino (che non paga l'affitto) sospetta di Bruss. Ai militari poi viene riferito che il presunto ladro è uno alto che spesso si vedeva da quelle parti. In breve, come si dice, il cerchio si stringe su proprio Berti Bruss, che mai e poi mai lo sospetta. Lui pensa alle vele e al mare. È reduce da un grave naufragio e dall'incidente avvenuto il 18 ottobre a causa del quale è finito a lungo in rianimazione. Ma soprattutto è reduce del crac della Espirit D'Equipe, la sua ditta di restauri a causa del quale i creditori e lo Stato hanno preso tutti i suoi beni. Così si trova - senza saperlo - accusato di furto. Il procedimento penale lentamente ma inesorabilmente va avanti. Il pm Massimo De Bortoli, dopo le indagini dei carabinieri, gli fa notificare il decreto di citazione diretta. Poi veloce arriva il processo, nessun ritardo. Il giorno fatidico del processo viene fissato. Ma neanche lo sa lo skipper che sulla bacheca dell'aula del secondo piano del tribunale un cancelliere ha scritto il suo nome. Avvocato d'ufficio nominato al momento e poi la prevedibile condanna, senza dubbio esemplare, da parte del giudice onorario Valentina Guercini: 22 mesi senza i benefici e multa di 700 euro. Inammissibile che un presunto ladro non si presenti. La giustizia prosegue. E se il condannato non lo sa (e forse neanche l'avvocato), nessuno pensa all'appello che bloccherebbe l'esecuzione della pena. Per farla breve la sentenza esemplare passa in giudicato ed è pronta per essere eseguita, senza indugi. Ma Berti Bruss continua sempre a non saperne nulla. E in effetti neanche si immagina che dopo poche settimane per lui si apriranno le porte del carcere. Ricorda: "È successo l'8 novembre. Avevo ricominciato a lavorare. All'improvviso sono arrivati due poliziotti. Mi hanno consegnato una carta e solo allora ho capito cosa era accaduto. Mi hanno accompagnato in carcere per scontare la pena". In poco tempo lo skipper finisce in cella assieme a uno stupratore e a trafficante di droga. "Ho navigato al Coroneo per cinque mesi: un incubo in cui ho visto un altro mondo che non avrei mai immaginato. Per fortuna ho reagito e così mi sono dedicato agli altri, a quelli più sfortunati. Ho insegnato italiano e inglese e alla fine lo stesso ministero mi ha inviato un encomio". In aprile - finalmente - è scarcerato. Il giudice di sorveglianza ha accolto la richiesta del difensore di fiducia, l'avvocato William Crivellari e gli ha concesso i domiciliari. La pena la sta scontando a casa in via della Mandria da dove non può allontanarsi: "Forse è il destino. Nella vita bisogna sempre pagare qualcosa. Sicuramente ho fatto tanti errori, ma non certo quello di rubare un contatore del gas". E poi, con saggezza e rassegnazione aggiunge: "Aspettiamo che finisca la tempesta". Alghero: soppressi corsi Istituto Alberghiero in carcere, manca numero minimo iscritti di Gabriella Grimaldi La Nuova Sardegna, 18 maggio 2015 Docenti dell'Alberghiero in rivolta per la soppressione delle classi che non raggiungono il numero minimo di studenti. Finisce così, a causa dell'applicazione di un freddo calcolo matematico, un'esperienza di alta civiltà fatta all'interno del carcere di Alghero. L'ufficio scolastico regionale ha infatti cancellato con un colpo di spugna le classi dell'Alberghiero che dal 2000 erano attive all'interno dell'istituto di reclusione. Diplomi a pieni voti, laboratori all'interno delle mura carcerarie e stage all'esterno, in bar e ristoranti e anche alcuni posti di lavoro per chi ha scontato la pena ed è finalmente libero, ma soprattutto la speranza che ci possa essere un futuro e una riabilitazione vera dopo la reclusione. La denuncia arriva dai docenti dell'istituto Alberghiero, sette dei quali hanno ricevuto già la lettera in cui li si avvisa che sono "in esubero" in quella scuola. Naturalmente è subito scattata la mobilitazione per fare di tutto affinché le classi all'interno del carcere di Alghero vengano salvate. Il Collegio docenti chiede che "il dirigente scolastico e gli organismi di governo della scuola attivino tutti gli atti amministrativi, politici e di sensibilizzazione sociale necessari per ripristinare la classi dell'Ipsar". La sezione dell'Ipsar nella casa circondariale di Alghero è stata istituita nell'anno scolastico 2000-2001 e si è trattato del primo inserimento in assoluto, in Sardegna, di un istituto di istruzione superiore all'interno di una struttura penitenziaria. L'idea, fortemente sostenuta anche dal ministero di Grazia e Giustizia e dalle autorità carcerarie, si fondava sul principio, garantito dalla Costituzione, della rieducazione del condannato (art. 27) e sulla necessità, in base alla riforma penitenziaria del 1975, di considerare il lavoro come elemento cardine del reinserimento sociale del detenuto. "Da subito, la scuola alberghiera è stata frequentata con entusiasmo e con notevole impegno e profitto dalla maggior parte degli studenti e con grande soddisfazione dei docenti. Diversi sono stati gli studenti che hanno conseguito il diploma, anche brillantemente. Alcuni di essi hanno avuto la possibilità di lavorare presso aziende del territorio nel settore della ristorazione ed è stata loro data anche l'opportunità di frequentare le lezioni al corso serale, favorendo in questo modo il reinserimento. Negli anni 2011 e 2012 alcuni di loro hanno partecipato al progetto "Bellas horas", serate a tema con cena organizzate all'interno della scuola, avendo la possibilità di confrontarsi con il personale della scuola, gli alunni e i clienti che partecipavano agli eventi. Diversi sono stati inoltre i progetti sulla legalità per gli studenti del corso ordinario, durante lo scorso anno scolastico". Rammarico, se le disposizioni dovessero essere confermate, viene espresso dalla direttrice della casa circondariale Elisa Milanesi: "Mi auguro che si trovi una soluzione positiva - ha detto - perché sarebbe un vero peccato perdere uno strumento di reinserimento e qualificante come questo. La direzione fra l'altro ha promosso con diverse iniziative la formazione dei detenuti-studenti nel quadro del progetto "Barrio" che fa del carcere di Alghero un istituto a vocazione scolastica. Oltre che le classi dell'Alberghiero ospitiamo anche il polo universitario: due detenuti quest'anno si sono laureati, uno nel corso triennale in Agraria e l'altro conseguendo la laurea magistrale in Lettere". Una realtà che viene scelta da tante persone detenute in altri istituti italiani le quali chiedono il trasferimento ad Alghero proprio per poter studiare. Una realtà che però rischia di svanire a causa dei conti che non tornano secondo le disposizioni del ministero per l'Istruzione. "Questa vicenda - afferma Luigi Canalis, segretario di Flc-Cgil che sta seguendo da vicino la vicenda -è, purtroppo, l'ennesima conferma del fatto che, in un Paese che non perde occasione di proclamare il proprio impegno per la tutela dei più deboli, non si vogliano trovare le poche risorse necessarie per garantire l'emancipazione culturale e il reinserimento sociale degli stessi". I docenti affermano infine che "un'esperienza di questa importanza, non può concludersi così, all'improvviso. Né noi possiamo accettare che gli sforzi di tanti colleghi, del personale Ata e dei dirigenti che si sono avvicendati in questi anni, possano essere vanificati". Avellino: agente soccorre detenuto epilettico, ma viene colpito con un pugno al volto ottopagine.it, 18 maggio 2015 Stava fornendo il primo soccorso a un detenuto colpito da crisi epilettiche ma, nella concitazione, un altro ristretto gli ha sferrato un pugno al volto. È accaduto sabato mattina a un Agente di Polizia Penitenziaria in servizio nella Casa circondariale di Avellino. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sabato mattina il poliziotto penitenziario è intervenuto tempestivamente per dare il primo soccorso al detenuto colpito da crisi epilettiche. Un altro ristretto, non se ne comprendono bene ancora le ragioni e i motivi, particolarmente agitato, l'ha colpito proditoriamente al viso ed è dunque scattato l'allarme che ha fatto convergere in quel punto del penitenziario avellinese gli altri Agenti in servizio nella Casa circondariale", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Il nostro Personale, con grande professionalità, ha fornito assistenza al detenuto epilettico, all'Agente ferito ed ha ricondotto alla ragione il detenuto aggressore, in evidente stato di forte agitazione. Al collega ferito va la nostra vicinanza e la nostra solidarietà. Un episodio grave, quello accaduto nel carcere di Avellino, che se pure ha messo in evidenza le grandi capacità operative dei poliziotti penitenziari del carcere irpino, ha dimostrato palesemente una volta di più i pericoli e le difficoltà quotidiane del nostro duro lavoro". Il Sappe rinnova al Ministro della Giustizia Orlando e ai vertici dell'Amministrazione centrale la richiesta "di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray anti aggressione già assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Sono decine e decine le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall'inizio dell'anno. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli Agenti di Polizia Penitenziaria che lavorano in carcere?". Emilio Fattorello, segretario regionale Sappe per la Campania, evidenzia che, nei dodici mesi del 2014, nelle carceri regionali si sono contati "521 episodi di colluttazione e 121 ferimenti. Ad Avellino le colluttazioni sono state 46. Altro che la favola della "vigilanza dinamica" e l'autogestione delle carceri da parte dei detenuti come panacea ai mali penitenziari. Ci siamo persino stufati a dire il perché siamo contrari, e solo chi è in malafede può sostenere il contrario. Le idee e i progetti di chi santifica questa vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto non tengono conto della realtà delle carceri, che non sono collegi per educande, e rispondono alla solita logica "discendente" che "scarica" sui livelli più bassi di governance tutte le responsabilità. E ricadono sulle spalle di noi poliziotti, che stiamo 24 ore al giorno in prima linea nelle sezioni detentive. Intanto i poliziotti continuano a sventare suicidi, a gestire eventi critici come gli atti di autolesionismo, le aggressioni, le risse, a circolare su mezzi vecchi e fatiscenti". Capece torna infine ad evidenziare come il grave episodio critico di Avellino è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena". Torino: Roberti Saviano incontra i detenuti "non c'è nulla di più pericoloso della lettura" di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015 Da un lato il paladino dell'antimafia e della legalità, dall'altro alcuni carcerati comuni dell'istituto penitenziario di Saluzzo, in provincia di Cuneo. Lo scrittore porta letteratura e libri e il dibattito si accende toccando i temi della droga, della corruzione tra i colletti bianchi e dei pezzi deviati dello Stato. "Ma qui non ci sono libri", contesta un ospite dell'istituto che chiede: "Oggi c'è questo evento, ma domani?" "Non c'è nulla di più pericoloso della lettura". Dopo aver parlato ai concorrenti e al pubblico di "Amici" di Maria De Filippi, Roberto Saviano porta la letteratura e i libri ai detenuti dell'istituto penitenziario (Cuneo). Domenica mattina l'autore di "Gomorra" è entrato in carcere per incontrare una cinquantina di reclusi nell'ambito della rassegna "Voltapagina", evento collaterale organizzato da Marco Pautasso per il Salone del Libro di Torino. Parla di Primo Levi, dei "Racconti di Kolyma" di Varlam Salamov, cita i classici greci e latini, ma a loro e a circa duecento "esterni" Saviano presenta "Zero zero zero" (Feltrinelli, 2013) dedicato al narcotraffico. Da un lato un paladino dell'antimafia e della legalità, dall'altro alcuni detenuti comuni, solo una fetta dei 250 ospiti della struttura in cui ci sono anche 150 in regime di alta sicurezza (nessuno dei quali ha potuto partecipare all'incontro). Nonostante la differenza di esperienze tra l'autore e il pubblico non c'è bisogno di rompere il ghiaccio: "Sono stato un cocainomane e la cocaina è perfetta per farti sentire qualcun altro se non ami te stesso", interviene uno di loro. È rimasto colpito dalle prime pagine del libro in cui si fa capire che questa sostanza è più diffusa di quanto si pensi: "Hai centrato il punto - afferma lo scrittore. Il primo moto che ho verso i lettori è: "Non credere che questa storia non ti riguardi". Perché, continua, "la potenza del libro e della letteratura è superare le barriere. Sei lì, diventi altro, diventi tutto". Un altro recluso coglie un senso superiore nelle vicende raccontate: "Tutto è retto dal dio denaro". Questo dà il pretesto per parlare di banche e riciclaggio e spiegare i meccanismi della criminalità dei colletti bianchi, per poi giungere a parlare dei legami con le istituzioni: "È un paradigma errato pensare alla mafia come antistato. Bisogna parlare di una parte dello Stato, come l'ex sottosegretario all'economia (Nicola Consentino, ndr) che secondo la Dda di Napoli è un uomo dei clan. I mafiosi non sono così stupidi da mettere un loro uomo in prima fila. Hanno tanti uomini intorno e piano piano". Secondo un detenuto più anziano Saviano non ha approfondito il tema della legalizzazione delle droghe: "Per me è l'unico modo per togliere loro il profitto. A chi dice che troveranno altre maniere rispondo che non ci sono altri metodi per fare profitti così rapidamente". Un altro non è d'accordo: "Con la legalizzazione togli il fornitore, ma non il consumatore. Non c'è più il traffico, ma resta il secondo problema". "La legalizzazione serve anche a controllare il problema, ma è impossibile pensare che venga eliminato", replica. Poi Saviano affronta la corruzione e il voto di scambio: "La politica è colpevole quando non impedisce che la tangente sia un vantaggio". Spiega il meccanismo della "scheda ballerina" che ha voluto inserire nella serie tv "Gomorra" per illustrare agli spettatori l'influenza criminale sulle elezioni. E infine torna sul rapporto tra libri e piccolo schermo raccontando la sua esperienza al programma di Maria De Filippi : "Mi è capitato di andare ad Amici, che con i libri non c'entra niente. Ho parlato di Dostoevskij ed è stato potentissimo. La letteratura è un territorio a cui tutti possono accedere". Ma la cultura, in certi posti, fatica a entrare. Glielo fa notare un altro detenuto: "Non ho mai trovato un intervento critico sull'esecuzione penitenziaria - premette -. La cultura qui dentro non c'è. Abbiamo una biblioteca che non è fruibile. Oggi c'è questo evento, ma domani? Lei che è la coscienza critica deve fare qualcosa affinché la detenzione diventi produttiva", dice. Saviano ammette di non avere risposte alla questione, ma si dice "contento di venire qui perché comincia un percorso nuovo". Napoli: storie dal carcere, così i detenuti raccontano la speranza in "dieci monologhi" di Donatella Codonesu Corriere della Sera, 18 maggio 2015 La vita vista "da dentro": dal laboratorio di Rebibbia le storie dei carcerati e la speranza di un futuro dignitoso (Teatro Due). Napoli in "Dieci" monologhi al Festival Inventaria (Orologio). La vita a due raccontata nell'aria: il teatro acrobatico di Materiaviva (Furio Camillo). "Mozart e Salieri", genialità e frustrazioni per un duello a colpi di musica (Belli). La vita come un ring: vana lotta per il nulla che ci circonda (TBQ). Se il "Popolo bue" vince la rivoluzione è inutile (Tordinona). "Il carcere è stato inventato per i poveri" di compagnia Instabile Assai, regia Daria Veronese, con i detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia, 23 maggio. A partire dal laboratorio teatrale tenuto presso la Casa di Reclusione Rebibbia, un testo realizzato con l'apporto creativo dei detenuti, attori dello spettacolo. Con la volontà di dare voce al mondo carcerario attraverso le parole di chi "sta dentro": ironia, riflessioni, speranze e il desiderio di non perdere la dignità e la possibilità di un futuro diverso. Ospite speciale al Festival Doit. Info: Teatro Due Roma. "Dieci" di Andrej Longo, regia Elena Dragonetti, Raffaella Tagliabue, con Elena Dragonetti, 19 maggio. Dieci personaggi per raccontare Napoli, non un'area geografica ma una realtà di anime umane. Intitolati ai dieci comandamenti, i monologhi mostrano la città sotto lo sguardo assente di un Dio che è altrove. Comico e tragico sono chiavi narrative per portare in scena le voci delle periferie, dei vicoli abitati da una società con regole spietate. Ma anche la poesia che incredibilmente arriva da donne e bambini così arrabbiati con la vita. Per Inventaria. Info: Teatro Orologio - Festival Inventaria. "Insieme da soli" di e con Roberta Castelluzzo e Luciano Papasso, 22-24 maggio. Teatro acrobatico, esplorazione di spettacolari tecniche circensi messe a servizio dell'espressività. Racconto che usa il corpo come linguaggio e l'aria come spazio scenico. Due corpi vicini, molto vicini, non necessariamente uniti, si cercano senza trovarsi mai davvero, narrando una storia senza tempo né luogo. Info: Teatro Furio Camillo. "Mozart e Salieri" drammaturgia Alberto Oliva e Mino Manni da Aleksandr Puskin, regia Alberto Oliva, con Mino Manni e Davide Lorenzo Palla, 19-31 maggio. Una discesa negli inferi della mediocrità, dell'ambizione artistica tarpata dal senso di inferiorità. Duello a colpi di musica, mentre il fuoco della passione brucia insieme a quello dell'invidia. A partire dal breve, potente testo di Puskin, arricchito di suggestioni originali e altre fonti letterarie, fra cui le lettere di Mozart e i libretti delle sue opere. Dalla stessa opera Peter Shaffer e Milos Forman hanno tratto "Amadeus" (8 Oscar). Info: Teatro Belli. "Boxe attorno al quadrato" di Enrico Ballardini, regia Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, con Filippo Farina, Veronica Lucchesi, Dario Mangiaracina, Mariagrazia Pompei, e altri 22-23 maggio. Un ring, un pugile e il team che lo sostiene. L'unico a combattere, incarna la filosofia di vita e l'etica dell'intera squadra. Ma in un mondo assuefatto alla sconfitta si agisce per inerzia: nessun ideale, solo la volontà di mantenere saldo il sistema. Favola nera di un uomo, rappresentante del nulla che lo circonda, che lotta senza la consapevolezza dell'inevitabile sconfitta. Info: Teatro Biblioteca Quarticciolo "Popolo bue" di Francesco Pompilio, Angelo Libri, Flaminia Chizzola, diretto e interpretato da Francesco Pompilio, 22-24 maggio. Semplice metafora della sempre più assurda attualità: gli animali nella fattoria di Jones sono schiavi degli uomini e privi di diritti. Spinti dall'ennesimo sopruso si ribellano diventando padroni, ma una volta al potere si accorgono che è più facile rovesciare un regime oppressore che vivere da esseri liberi. Info: Teatro Tordinona-Sala Strasberg. Immigrazione: Parigi dice no alle quote dei migranti, timori a Bruxelles per il piano Ue di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 18 maggio 2015 Dopo Gran Bretagna, Ungheria e Polonia, anche la Francia si oppone al sistema di quote di migranti da accogliere in ciascun Paese europeo, proposto dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker per aiutare l'Italia a fare fronte all'emergenza degli sbarchi nel Mediterraneo. Il rifiuto francese è arrivato con le parole del primo ministro Manuel Valls pronunciate sabato non a caso alla frontiera franco-italiana di Mentone (dove tra lunedì e giovedì sono state fermate 944 persone): "Sono contrario all'instaurazione di quote di migranti. Questo non ha mai corrisposto alle proposte francesi. La Francia è invece favorevole a un sistema europeo di guardie di frontiera". Valls ha spiegato ieri di averne parlato in precedenza con il presidente François Hollande, e insieme hanno deciso di intervenire: "Abbiamo considerato che fosse necessario dire le cose ad alta voce perché non ci fosse alcuna ambiguità - ha detto il primo ministro al Journal du Dimanche -. La questione delle quote è fonte di una grande confusione, e non bisognava dare l'impressione che le avremmo accettate". Su un tema cruciale come l'immigrazione, il governo francese vuole rassicurare l'opinione pubblica e ribadire che la politica migratoria resta una prerogativa nazionale, non viene decisa a Bruxelles. È e resterà la Francia - e non l'Unione Europea - a stabilire quanti stranieri Parigi è in grado di accogliere ogni anno. A dire il vero il piano Juncker non ha mai preteso di affrontare la questione dell'immigrazione nel suo complesso, compresi i migranti cosiddetti economici. Né la Commissione vuole arrogarsi il diritto di accogliere o respingere le domande di asilo. Bruxelles ha sostenuto l'idea delle quote solo per rispondere ai casi di emergenza come quelli di questi giorni, quando migliaia di persone sbarcano sulle nostre coste e da più parti, in particolare dall'Italia, si invoca un maggiore ruolo dell'Europa. La confusione che resiste tra migranti economici, domande di asilo e rifugiati selezionati dall'Alto commissariato Onu potrà servire per avere più margine di discussione nei negoziati che continueranno oggi, al vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa a Bruxelles, poi alla riunione dei ministri dell'Interno del 15 giugno a Lussemburgo e infine al summit di Bruxelles del 25 giugno. Se Valls dice no a quote generiche, chiede al tempo stesso una ripartizione "più equa" dei rifugiati: "Questo suppone che si tenga conto degli sforzi già compiuti", ha aggiunto, ricordando che Francia, Italia, Gran Bretagna e Svezia ricevono il 75% dei rifugiati e che la Francia ha già accolto "5 mila siriani e 4.500 iracheni" dal 2012. All'opposizione, anche l'ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy critica il sistema delle quote giudicandolo "una follia", ma per Marine Le Pen non basta mai: la leader del Front National sostiene che "sia Valls sia Sarkozy fingono di opporsi alle quote per ragioni mediatiche ed elettorali, ma entrambi restano sottomessi a Bruxelles". Stati Uniti: solo un soldato americano su 100 sconta eventuali condanne inflitte in Italia congedatifolgore.com, 18 maggio 2015 "I militari americani accusati di atti criminali in Italia spesso evitano la condanna". La denuncia è contenuta in un articolo firmato da Nancy Montgomery uscito su Stars and Stripes. "Negli ultimi cinque anni - dice la giornalista Usa - in Italia ci sono stati 200 processi contro militari americani per vari reati, compresi aggressione, violenza sessuale e omicidio. Ma ad oggi solo un soldato è in carcere in Italia". L'articolo cita intanto il caso del soldato Darius McCullough, condannato il mese scorso a sei anni di carcere per stupro dal tribunale di Vicenza. Tra qualche giorno è prevista la sua partenza per un altro Paese e quindi potrebbe non vedere mai una cella. Nel 2005 il sergente James Michael Brown era stato condannato sempre a Vicenza a sei anni per uno stupro. Ma qualche mese dopo se n'era tornato negli Usa e non è mai più tornato. Uno dei responsabili dell'ufficio legale dell'esercito Usa in Italia, il comandante David Lee, dice che gli Stati Uniti "non hanno l'autorità per impedire a un soldato, se ha finito i 2-3 anni del servizio di leva, di andarsene. A meno che non sia già in galera". Nei casi di reati minori i magistrati italiani non chiedono se un soldato sta per andarsene o meno. E anche nei reati più gravi, una volta informati che l'imputato potrebbe lasciare il Paese, spesso rispondono "Va bene". Anche gli avvocati difensori sono contrari: "Gli imputati se ne vanno - dicono - perché gli Stati Uniti si sentono forti e fanno quello che gli pare". Tra loro Paolo Mele senior, avvocato di Vicenza che ha difeso e difende molti militari americani: "In 23 anni di lavoro come legale di soldati Usa non ho mai sentito un pubblico ministero acconsentire se un imputato lascia l'Italia". Per Mele "se avessero rispetto per la giustizia italiana gli Stati Uniti dovrebbero tenere in caserma i soldati sotto accusa fino alla fine del processo, anche se hanno finito il loro servizio militare". Nicola Canestrini, anche lui legale di un soldato accusato di stupro e sparito in America, parla di "sistema ridicolo": "Che senso ha fare un processo se tanto sai che la condanna non sarà eseguita?". Ovviamente di mezzo c'è anche la cronica lunghezza dei processi in Italia. E su quello non occorre che lo dica Stars and Stripes. Quanto a McCullough (che in questo momento è ai domiciliari), l'esercito Usa ha fatto sapere al tribunale che il militare non può restare nella base oltre la data del trasferimento perché la sua presenza "mina il buon ordine e la disciplina". L'esercito avrebbe anche offerto di mettere McCullough in carcere in Germania, ma il giudice non ha accettato. L'articolo ricorda anche che l'Italia è stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti umani per il trattamento e le condizioni delle carceri. Così su 200 soldati condannati, uno solo è in carcere. Di tratta di Jerelle Gray, accusato con McCullough dello stupro di una 17enne nel 2013. Fuggito dagli arresti domiciliari (era confinato nella caserma Dal Din), dopo essersi ubriacato aveva aggredito due prostitute. Giordania: abusi in carcere; si dimette Ministro dell'Interno, rimosso Capo della Polizia Agi, 18 maggio 2015 Il Re Abdullah di Giordania ha accettato le dimissioni del ministro dell'Interno, Hussein al Majali, in seguito ad uno scandalo per abusi nelle carceri. Rimosso anche il capo della polizia. Le dimissioni del ministro sono state accolte con spari di giubilo a Maan, dove la popolazione locale ha subito un pesante giro di vite da parte della polizia. Un detenuto sarebbe stato addirittura torturato a morte.