Giustizia: le sentenze sono come le salsicce… meglio non sapere come si fanno di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2015 L'altro giorno, commentando lo scoop di Antonio Massari sulla denuncia di alcuni giurati popolari a proposito delle pressioni dei giudici togati nel processo alla Montedison per la discarica di Bussi, abbiamo ricordato un vecchio detto: "Le sentenze sono come le salsicce: meglio non sapere come si fanno". Una massima che entra in crisi dinanzi alla scoperta che - se sarà confermata la testimonianza, raccolta dal Fatto, di due giurate della Corte d'assise di Chieti -dietro un verdetto che salva (in parte con l'assoluzione e in parte con la prescrizione) gli ex dirigenti del colosso industriale accusati di aver avvelenato il territorio e le falde acquifere all'insaputa dei cittadini, si nascondono uno o due giudici che, anziché incoraggiare il collegio a fare giustizia, lo intimidiscono con frasi del tipo: "Se li condanniamo, quelli vi denunciano e vi portano via tutto". A dispetto di chi vede nel giudice la semplice "bocca della legge", cioè una specie di macchinetta sforna-sentenze priva di passioni, di raziocinio e soprattutto del diritto-dovere di interpretare le leggi, la giustizia è umana. Dunque, fallibile. Ma non sempre nel senso che può sbagliare condannando un innocente: anzi, il più delle volte l'errore giudiziario è proprio l'assoluzione del colpevole. Solo che in quel caso non si lamenta nessuno, o meglio: lo fanno le vittime, che però in Italia non hanno voce e non trovano ascolto. E naturalmente non possono fare causa allo Stato contro l'errore giudiziario che ha salvato il colpevole di averle danneggiate e offese. Per convenzione, si è stabilito che l'ultimo verdetto (di solito quello della Cassazione) è quello giusto. Il che è comprensibile: i processi, dopo tante fasi e gradi di giudizio (l'Italia ne ha il record mondiale), devono concludersi con un punto fermo e finale. Ma, se uno viene prima condannato e magari arrestato, e infine assolto, ha il diritto di chiedere i danni allo Stato, anche se non è affatto detto che non siano stati proprio i giudici di Cassazione a sbagliare, e che dunque non sia la sua vittima ad aver diritto a un risarcimento. Però la convenzione "ultima sentenza uguale verità" e l'equazione "ultimo giudice uguale ragione", già limitate di per sé, hanno un senso soltanto se le sentenze sono state emesse in piena libertà, sine spe ac metu. Cioè se la camera di consiglio, oggi segretissima, non è stata condizionata da pressioni esterne (di amici dell'imputato, per esempio) o interne (di uno o più degli stessi giudici). Altrimenti il sistema salta. Un tempo, quando la Giustizia era avvolta da un'aura tanto sacrale quanto ipocrita, era impensabile penetrare nel segreto della camera di consiglio, molto simile alla camera caritatis. Oggi che persino i conclavi lasciano trapelare indiscrezioni sugli schieramenti dei vari cardinali e addirittura sul numero di voti ottenuti dal nuovo Papa e dai suoi concorrenti sconfitti, è forse il caso di rivedere il segreto della camera di consiglio. La società della comunicazione e dell'informazione totale, che allunga il suo occhio dappertutto anche grazie alle nuove tecnologie (gli smartphone immortalano qualsiasi segreto, per non parlare dei marchingegni di ascolto globale di servizi segreti & affini), rischia di lasciare soltanto l'opinione pubblica all'oscuro di segreti che "chi di dovere" trova sempre il modo di conoscere. E magari di usare a scopo di ricatto. Ieri, su La Stampa, Vladimiro Zagrebelsky, ex pm ed ex giudice della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, proprio questo propone: "Via il segreto sul voto dei giudici", tanto per quelli di tribunale, quanto per quelli della Corte costituzionale. Anch'essa decide a maggioranza, ma da qualche anno i suoi membri trovano il modo di far sapere chi vota come. Dell'ultima sentenza che ha spazzato via la legge Fornero, per esempio, è noto che 6 giudici erano per cassarla, 6 per salvarla e alla fine è stato decisivo il voto del presidente Criscuolo. E la cosa, anziché fisiologica, è stata considerata la prova di un verdetto "politico" o "meno valido" soltanto perché la Corte - come innumerevoli altre volte, ma a nostra insaputa - si è spaccata quasi a metà. Senza contare che l'ultimo libro dell'iperattivo ex giudice Sabino Cassese sulla sua esperienza alla Consulta aggira abilmente il segreto per farci sapere come la pensava lui e come la pensavano altri, nel palese tentativo di seguitare a condizionare un'istituzione di cui (per fortuna, a nostro modesto avviso) non fa più parte. Quanto ai giudici togati, basta pensare alle polemiche che hanno accompagnato le sentenze su Berlusconi. Il presidente della Corte d'appello di Milano Enrico Tranfa, messo in minoranza dai giudici a latere nel processo Ruby chiuso con l'assoluzione del Caimano, abbandona polemicamente la magistratura. E il relatore del processo Mediaset in Cassazione, Amedeo Franco, prima firma con gli altri 4 colleghi la condanna del Cavaliere dopo una camera di consiglio infuocata, e poi scrive un altro verdetto che sembra contraddire quello su B. Un giorno, forse, sapremo quali e quante pressioni subì il collegio presieduto da Antonio Esposito nell'estate rovente del 2013, anche se possiamo già immaginarle. E allora bando alle ipocrisie: è venuto il tempo che i cittadini sappiano cosa c'è dentro la salsiccia di ogni sentenza. Si tratterà di trovare un equilibrio fra il dovere di trasparenza e il diritto alla sicurezza di chi giudica (pensiamo soltanto ai processi di mafia e alle conseguenze della pubblicità su chi ha deciso di condannare un boss e chi invece voleva assolverlo). Ma il dibattito - su cui nei prossimi giorni raccoglieremo i pareri degli esperti - è doverosamente spalancato. E siamo felici che sia nato sulle pagine del Fatto. Giustizia: oggi per fare politica serve la "patente di moralità" rilasciata dai pm di Alessandro Barbano Il Mattino, 17 maggio 2015 Sulle riforme promosse dal governo in materia di giustizia l'opinione dell'Associazione Nazionale Magistrati è nota da tempo: queste riforme non piacciono. La materia è delicata, controversa, e costituisce da anni terreno di scontro anche politico: non è sorprendente, dunque, che un processo di riforma, di cui tutti riconoscono peraltro la necessità, incontri resistenze ed ostacoli. Non sorprende neppure che resistenze ed ostacoli provengano dal sindacato di categoria, perché tale di fatto è l'associazione presieduta da Rodolfo Sabelli, anche se spesso si ammanta di un'aura morale che non ha alcun motivo di vantare: né in base al suo statuto, né in base alla sua storia, né soprattutto in base alla Costituzione. Intanto, però, ieri il presidente Sabelli è tornato ad esprimersi, con giudizi che vanno ben al di là del merito delle riforme in materia di prescrizione e di corruzione. Ha sostenuto infatti che "l'interesse verso la questione morale all'interno delle istituzioni pubbliche si affievolisce". Un giudizio che fa il paio con quello pronunciato non molte settimane fa, a proposito di uno Stato che "dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare chi esercita il controllo di legalità", sottintendendo che il governo in carica farebbe invece il contrario. Orbene, da queste parole sembra proprio che per il presidente Sabelli ci sia, di soprattutto, un'istanza morale, incarnata dalla magistratura e in particolare dalla magistratura associata, cui spetta insieme al controllo della legalità anche un superiore controllo di moralità delle istituzioni e del governo. La pensi o no così, certamente le dichiarazioni rese ieri si inseriscono in un simile paradigma narrativo, che va avanti da tempo, e in base al quale non c'è passo che i poteri democratici possano compiere senza aver prima conseguito la patente di moralità rilasciata da pm e giudici. Qui infatti non si tratta di reati, di condanne, di presentabili o di impresentabili: si tratta di un giudizio complessivo sull'azione di governo pronunciato in base a categorie morali che l'Anm si arroga il diritto di applicare in via esclusiva, e con le quali pretende di svuotare o di togliere legittimità alle decisioni dell'Esecutivo. È uno schema che in verità, nella prima età moderna (cioè ormai qualche secolo fa), ha funzionato, quando, di contro a un potere politico sempre più privo di autorità, l'opinione pubblica ha cominciato a far valere i mezzi di una più alta giurisdizione morale che così minava, indirettamente, la legittimità dello Stato assoluto. Poi venne la Rivoluzione francese e la faccia dell'Europa (e del diritto) cambiò. Ma l'indebito allarme morale lanciato ieri dai nuovi Catoni dei nostri tempi sarebbe perlomeno più credibile, se contemporaneamente l'Associazione dei magistrati tuonasse contro le pratiche elusive messe in atto in molti Tribunali contro la riduzione delle ferie da 45 a 30 giorni stabilita per legge. Non è questione morale questa? E se non lo è, che cos'è? Il fatto che questa indecorosa maniera di aggirare le decisioni di governo e Parlamento non susciti nessuna riprovazione da parte dei vertici del sindacato dei magistrati lascia temere che tutta la roboante retorica spesa in queste circostanze non difenda nobili prerogative costituzionali, ma copra solo bassi privilegi corporativi. Il peggio che possa fare una democrazia è non accorgersi di questa ambigua asimmetria tra il dire e il fare e consegnarsi a coloro che assumono la patente pubblica dei moralisti. Il rischio è un cedimento aun conformismo strisciante e vagamente totalitario, che nulla ha a che vedere con la lotta al malaffare e all'illegalità, e che punta a inquinare e, alla fine, ipotecare le relazioni pubbliche e la dimensione civile. Se ne odono tutti i segni in questa campagna elettorale per le elezioni regionali, giocata sulla rivendicazione di presentabilità o impresentabilità politica, riconosciute o piuttosto negate da sedicenti certificatori di illibatezza morale. Se la risposta al rischio di un voto inquinato è un tale inquinamento di poteri, non c'è proprio da essere ottimisti. Giustizia: don Ettore Cannavera "mi dimetto, perché tenere minori in cella non ha senso" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 17 maggio 2015 "Ho deciso così perché non riesco più a riconoscere nel carcere un luogo di recupero educativo e di reinserimento". Il carcere minorile non ha più senso di esistere, per questo si dimette. Un fortissimo gesto simbolico quello di don Ettore Cannavera, il cappellano del carcere minorile di Cagliari. Dopo ben 23 anni di attività ha deciso di non essere più complice di un sistema che non condivide. Una decisione sofferta e a lungo ponderata, ma ormai inevitabile, dopo il declino dell'Istituto sardo negli ultimi due anni. Ma anche un gesto simbolico, per sottolineare l'inadeguatezza del sistema penitenziario minorile italiano: "Impostato solo sulla custodia dei ragazzi e non su una visione realmente pedagogica e rieducativa", ha così spiegato il cappellano. Dimissioni che saranno, si spera, destinate a far discutere. Storico esponente del mondo del sociale e da oltre quarant'anni uno dei punti di riferimento in Italia sui temi della giustizia minorile, Cannavera è anche il fondatore della comunità "La collina di Serdiana", in provincia di Cagliari, che permette il reinserimento dei minori che hanno avuto problemi con la legge. Le dimissioni da cappellano, sono state presentate il 12 maggio ma don Ettore continuerà il suo servizio fino a fine mese, quando sarà nominato il suo successore. "Non è stato facile per me, dopo ventitré anni, prendere questa decisione, ma ho dovuto farlo - ha spiegato. Innanzitutto per lo stato di abbandono in cui versa l'istituto di Quartucciu da due anni, da quando, cioè, è stato allontanato il direttore Giuseppe Zoccheddu - continua. Da allora ho deciso di diradare gradualmente la mia presenza perché non riuscivo più a riconoscervi un luogo dove si svolga quell'opera di recupero educativo e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla pena. Nel nostro carcere minorile si pratica una pedagogia penitenziaria che non riesco più a condividere". La struttura di Quartucciu, nata ai tempi della stagione del terrorismo in Italia, è secondo Cannavera "inadeguata per i minori perché troppo grande e pensata per gli adulti, ma anche perché ormai è mal gestita - continua -. Non c'è più una direzione locale, periodicamente viene un dirigente da Roma a controllare ma niente di più. Ai ragazzi non viene offerta una reale risposta educativa, sono parcheggiati lì per qualche giorno in attesa di essere affidati a una comunità". Anche i trasferimenti da un istituto all'altro derivano da "motivi disciplinari o di sovraffollamento e non da un progetto educativo - denuncia il cappellano. I ragazzi sono trattati come pacchi da destinare a una collocazione più contenitiva, e si trascura di instaurare con loro una relazione educativa che sia di cura". Prima di arrivare alle dimissioni Cannavera aveva inviato, il 7 maggio scorso, una lettera-appello alle istituzioni: dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, alla direttrice del Dipartimento di Giustizia minorile, Annamaria Palma fino alla presidente della Camera Laura Boldrini e alcuni senatori della Repubblica, tra cui Luigi Manconi. "Il carcere minorile in Italia è un'istituzione che non ha più senso di esistere - ha affermato don Ettore -. In molte nazioni non c'è perché si è compreso che sono altre le risposte che si devono dare ai ragazzi che hanno commesso un reato. Mentre il nostro ordinamento minorile è identico a quello degli adulti, e per questo inefficace - spiega. Ma oltre a non servire è anche molto costoso: un minore in carcere costa 1000 euro al giorno, un minore in comunità 600 euro al mese". Secondo don Ettore dunque gli istituti minorili andrebbero chiusi. Mentre il sistema di rieducazione dovrebbe basarsi sulle comunità di accoglienza, in cui portare avanti percorsi di reinserimento sociale pensati per i ragazzi. "Solo così si potrebbe abbattere davvero la recidiva - ha aggiunto. Sono cose che ho detto e ripetuto continuamente, ma non ho ricevuto risposta. Ho deciso di fare questo gesto simbolico, quindi, anche per chiedere un intervento delle istituzioni, innanzitutto del ministro Orlando. Sono anni che si parla di impostare in maniera diversa il sistema ma niente si muove, con la conseguenza di uno spreco di risorse finanziarie e umane". Il clamoroso gesto simbolico del cappellano si va ad aggiungere alle ultime affermazioni di Papa Bergoglio durante un udienza con i bambini delle scuole primarie. Ha evocato l'inutilità delle carceri minorili perché - secondo lui- è solamente una soluzione facile. Ma che cos'è il carcere minorile? È un luogo di detenzione dei minori condannati per un reato commesso - oppure in attesa di giudizio - ed è separato dal carcere dei maggiorenni. La struttura è resa necessaria dal fatto che soltanto il minore di quattordici anni non è penalmente punibile, mentre il tribunale per i minorenni può infliggere, a chi ha compiuto i quattordici anni e non ha ancora raggiunto la maggiore età, anche pene detentive. Con la riforma del processo minorile del 1989 si è cercato di tenere i giovani il più possibile lontani dal carcere, sostituendolo con misure alternative (affidamento a servizi sociali, istituti di semilibertà, comunità). A causa dei tagli nei confronti dei servizi sociali, comunità terapeutiche e il mancato automatismo per le pene alternative visto che sono sempre a discrezione dei magistrati di sorveglianza, la riforma non ha purtroppo raggiunto i suoi obiettivi di rieducazione che mira al completo superamento della detenzione minorile. Un ruolo fondamentale per far intraprendere una adeguata riforma l'ha giocato la convenzione europea sui diritti umani, la quale recita :"Un modello di giustizia minorile agile e veloce pensato per un contesto istituzionale di forte presenza di servizi educativi del territorio a cui fare ricorso in alternativa al giudizio. Un modello basato sulla rapida uscita dal circuito penale e sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attraverso forme di confronto con la vittima". Un dato positivo - da quando è stato introdotto il nuovo codice di procedura penale per minorenni - però c'è stato: si è passati dagli oltre 7.000 ingressi annui del passato a una presenza media attuale di 452. Accanto a questo dato però vi sono dati sconfortanti: c'è un'accentuata discriminazione nei confronti dei ragazzi del Mezzogiorno e gli immigrati. Nel sud Italia vi è un certo numero di ragazzi e ragazze italiane con sentenza definitiva tenuti nelle carceri minorili fino al 21° anno di età per essere poi trasferiti nelle carceri per adulti. Per queste persone la giustizia minorile non prevede tentativi di "recupero", bensì accentua la funzione di criminalizzazione svolta dal carcere preparando un'esistenza fatta di continui ingressi nelle patrie galere. Poi c'è la carcerazione dei minori immigrati. A parità di reato, i minori immigrati sono più spesso condannati, ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive, rimangono per più tempo in carcere, mentre con molta meno frequenza sono destinatari di misure diverse, quali ad esempio il collocamento in comunità-alloggio o in famiglia. Il carcere minorile ha lo stesso identico problema di quello per gli adulti, e non solo per quanto riguarda la discriminazione e l'aumento della percentuale dei baby-detenuti di provenienza straniera: secondo un rapporto di Antigone, come per gli adulti, anche i detenuti minorenni reclusi, in gran parte, stanno dentro non a scontare la pena, ma in attesa di giudizio. Il 61,6% del totale è in carcerazione preventiva. Anche per i minori vale il detto giustizialista: "Meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà". Un altro motivo in più per contemplare la sua completa abolizione. Giustizia: si può abolire il carcere senza dover rinunciare alla sicurezza sociale? di Carlo Muscatello Il Piccolo, 17 maggio 2015 Chi ruba miliardi spesso la fa franca, ma per chi ruba una mela, ahinoi, non c'è scampo. Vecchia e disincantata saggezza popolare, che potrebbe finire in soffitta, almeno nella seconda parte dell'assunto. Grazie a una nuova norma, che comincia a essere applicata nelle aule dei nostri tribunali. Pochi giorni fa una donna, denunciata per il furto di un paio di ciabatte del valore di 12 euro, è stata infatti assolta a Trieste grazie all'applicazione di un nuovo istituto giuridico: la non punibilità per particolare tenuità dell'offesa. Con il Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, "Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto", è stato introdotto l'articolo 131 bis del codice penale. La norma, che ha lo scopo di alleggerire il carico di lavoro dei tribunali, sembra anche ispirata a una logica di buon senso, introduce di fatto una depenalizzazione. E riguarda i reati puniti con pena detentiva non superiore a cinque anni o con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. La novità si applica a tutte le contravvenzioni e a molti delitti. Tra questi: violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia aggravata, alcuni delitti contro l'inviolabilità del domicilio e numerosi reati contro il patrimonio (furto semplice, danneggiamento, truffa, appropriazione indebita). Condizioni per l'applicazione della nuova norma: essere in presenza di un reato che provoca un'offesa di particolare tenuità e il fatto che il comportamento del reo dev'essere non abituale. Ma la fattispecie citata potrebbe rappresentare l'inizio di una nuova stagione giuridica. All'insegna dell'abolizione del carcere. Potrebbe sembrare una provocazione. Ma si ricordi che anche quando, proprio da Trieste e Gorizia, Franco Basaglia lanciò la sua battaglia per la chiusura dei manicomi, sfociata nel 1978 nella legge 180, nota come "Legge Basaglia", beh, anche quella all'inizio sembrò a molti una provocazione. In questi giorni è arrivato nelle librerie un saggio che analizza questi temi: "Abolire il carcere - Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini" (pagg. 121, euro 12, edizioni Chiarelettere), che comprende i contributi di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Partiamo da alcuni dati. In Francia e in Inghilterra soltanto il 24% dei condannati va in carcere, in Italia siamo ancora all'82%. Ma perché i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l'area della carcerazione? Non certo per lassismo, o per un permissivismo quanto mai fuori luogo. La carcerazione va ridotta ai casi strettamente necessari, e in ultima analisi bisogna andare verso l'abolizione delle carceri, per il semplice e comprovato motivo che queste ultime servono soltanto a riprodurre crimini e criminali. E inoltre tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Che all'articolo 27, dopo aver ricordato che "la responsabilità penale è personale", che "l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva", e prima di aver confermato che "non è ammessa la pena di morte", nel terzo comma recita "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Rieducazione, sì. Le nostre prigioni, al di là dei serissimi problemi dovuti al sovraffollamento, sono delle vere e proprie università del crimine. Nelle quali chi ruba in un supermercato finora divide la cella con chi ha commesso crimini efferati. Poi, quando si esce, spesso ci si ricasca. La percentuale di recidiva è infatti altissima. Le statistiche dimostrano che chi ha scontato la pena in carcere torna a delinquere nel 68% dei casi. E con una frequenza maggiore rispetto a chi invece abbia beneficiato di misure alternative o comunque di sanzioni diverse dalla reclusione. Nel saggio si sostiene che la detenzione in strutture spesso fatiscenti e quasi sempre sovraffollate deve essere dunque abolita. E sostituita possibilmente da misure alternative più adeguate, efficaci e tutto sommato anche più economiche. Gli autori sono consapevoli del fatto che in questa partita di confrontano due esigenze diverse, ma solo apparentemente opposte: da un lato quella di soddisfare la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori dei reati più gravi (che fra l'altro sono soltanto una piccola percentuale del popolo dei detenuti), dall'altro il diritto del condannato al reinserimento sociale al termine della pena. Attualmente disatteso. "Perché - si domanda nel libro Luigi Manconi, sociologo, parlamentare Pd, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato - fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all'infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente". Ancora Manconi: "Il carcere va abolito pure perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che e quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali. Sono passati più di trent'anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per liberarsi dalla necessità del carcere". Avverte Gustavo Zagrebelsky nella postfazione del libro: "La Costituzione non identifica la pena con il carcere, anche se le "restrizioni alla libertà personale" e la "carcerazione preventiva" dell'articolo 13 mostrano che, sullo sfondo, stava anche allora l'idea che la società non possa esistere senza appoggiarsi al carcere. Ma la pena carceraria non è certamente un istituto "costituzionalmente necessario", né, per così dire, la "prima scelta" in materia di pene. È una possibilità giuridica alla quale si può attingere per necessità". Oppure fare una scelta diversa. Una scelta di civiltà. Giustizia: l'ex magistrato Gherardo Colombo "il carcere? è inumano e non serve a nulla" di Luca Molinari Gazzetta di Parma, 17 maggio 2015 Consegnato ieri dal presidente della fondazione Bruno Rossi. L'ex pm: "Il 68% dei detenuti scarcerati torna in cella. Il sistema non è efficace". "Il carcere non serve". È il messaggio lanciato dall'ex magistrato Gherardo Colombo ieri mattina, in occasione della consegna del premio Mario Tommasini 2015. "Il 68% di chi esce dal carcere torna al suo interno perché commette nuove azioni criminose - ha dichiarato. È chiaro che questo sistema non è efficace. Inoltre il concetto della punizione è in contrasto con il riconoscimento della dignità delle persone. Il sistema carcerario non è coerente con i principi dell'umanità". "Il premio Tommasini - ha aggiunto - è un incentivo a portare avanti queste idee". A consegnare il riconoscimento - durante la cerimonia svoltasi all'auditorium Don Gnocchi, in piazzale dei Servi - Bruno Rossi, presidente della Fondazione Tommasini, e Barbara Tommasini, figlia di Mario. "Diversi concetti legano l'opera di Tommasini - ha dichiarato Rossi - con le idee di Gherardo Colombo, soprattutto sul tema del carcere. Tommasini diceva che bisognava far uscire almeno per qualche ora i detenuti dal carcere, mentre Gherardo Colombo afferma che il carcere non serve". "Questa importante personalità - ha aggiunto Barbara Tommasini - incarna l'idea di libertà della persona che animava anche mio padre". La cerimonia di consegna è stata anticipata dall'introduzione di Maristella Galli, vicepresidente della Fondazione Tommasini, che ha sottolineato come Gherardo Colombo, lasciata l'attività professionale, abbia dedicato il suo tempo ed energie alla valorizzazione della cultura del rispetto e alla divulgazione dell'esercizio di una giustizia riparativa, per il recupero di una relazione che si è interrotta con la società e la conquista di un posto utile e rispettato nella comunità. All'incontro erano presenti anche alcune classi del liceo delle Scienze Umane Sanvitale che hanno preso parte al progetto Fuga d'affetto. Per l'occasione il liceo ha ricevuto una targa per l'impegno sul tema del carcere che gli studenti svolgono da alcuni anni con la Cooperativa Sirio. La Fondazione Tommasini nasce per iniziativa di un gruppo di persone, amici, studiosi, politici e religiosi, determinati a conservare la memoria dell'uomo e del politico, ma soprattutto a creare un laboratorio di riflessioni e idee in grado di accrescere e sviluppare i principi ispiratori della vita di Mario Tommasini. All'iniziativa hanno aderito le principali istituzioni di Parma e provincia, oltre ai comuni del territorio parmense che hanno sostenuto le iniziative di Tommasini. Giustizia: la riforma delle prescrizione? fatela scrivere a noi magistrati di Errico Novi Il Garantista, 17 maggio 2015 Ai magistrati non vanno giù i correttivi sulla prescrizione, ma il laico del Csm Fanfani dice: eccesive le critiche al governo. E un'offensiva in grande stile. Venerdì la proposta di parere con cui il Consiglio superiore della magistratura ha avanzato perplessità sulla legge anticorruzione. Ieri la replica, affidata all'Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe, che ha liquidato come "deboli compromessi" gli ultimi correttivi alla riforma della prescrizione. Che è poi il vero terreno di scontro tra i giudici da una parte e la maggioranza di governo dall'altra. La nuova stroncatura arriva per voce del presidente dell'Anm Rodolfo Sabellì, che interviene al Comitato direttivo centrale dell'associazione: "Le decisioni adottate dalla politica" sono "troppo spesso caratterizzate da timidezza riformatrice, incoerenza, scelte di compromesso nascoste dietro interventi deboli" sulle quali, secondo Sabelli, l'Anni "non può esimersi dall'intervenire e dall'elaborare proposte che suggeriscano soluzioni ragionevoli". Il compromesso è appunto la nuova intesa sulla prescrizione favorita dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e ora allo studio dei responsabili in materia di Pd e Ncd, rispettivamente David Ermini e Nico D'Ascola. In soldoni, l'obiettivo è abbassare appena i termini massimi di durata dei processi per corruzione. Nel caso del reato di corruzione propria si passerebbe dai quasi 23 anni previsti ora a un appena meno disumano termine di estinzione di 18 anni. Uno scandalo per i pm, che vorrebbero margini sostanzialmente indeterminati, in modo da poter condurre lunghissime indagini e tenere in scacco gli indagati. Adesso Sabelli preannuncia "proposte ragionevoli", che verranno rappresentate il 22 maggio al guardasigilli Orlando. Quel giorno infatti una delegazione dell'Anni, con rappresentanti di tutte le correnti, sarà ricevuta dal ministro. In una lettera, il vertice del sindacato dei giudici aveva già espresso a Orlando "forte disagio per le ben note disfunzioni che affliggono la giustizia". Oltre che di riforme da rivedere, sì parlerà anche di sicurezza nei tribunali. Un piano d'attacco, dunque, per rimediare a quello che Sabelli definisce il "travagliato iter di approvazione dei disegni di legge su corruzione e prescrizione, die segnano interventi innovativi ma anche segnali di arretramento, con un dibattito pubblico che insiste meno sull'azione di contrasto e più sulla riforma delle intercettazioni". Altro segnale per il governo: non è il caso di mettere mano anche a nuove regole sulla pubblicazione degli atti giudiziari, e soprattutto degli "ascolti". Sula linea di forte critica ai provvedimenti in materia di giustizia potrebbero ricomporsi le divergenze nel sindacato delle toghe. Alcuni gruppi si sono schierati per lo sciopero, quelli "politicamente" meno distanti dall'esecutivo, Unicost e Area, sono rimasti contrari alla protesta estrema. Si vedrà fino a che punto le tensioni potranno stemperarsi, considerato che alle viste c'è un congresso dell'Anni. Proprio ieri Sabelli ha annunciato data e luogo delle assise; dal 23 al 25 ottobre a Bari. Dì sicuro non sarà semplice gestire il confronto all'interno del Csm. Dove, oltre alle correnti della magistratura associata, siedono anche membri laici. Come il consigliere Giuseppe Fanfani, che proviene dal Pd e che ieri si è pur diplomaticamente dissociato dalla stroncatura del ddl anticorruzione approvata in sesta commissione il giorno prima: quel testo, ha detto Fanfani, "è il frutto di una prima ristretta valutazione, nella quale si confrontano sensibilità diverse, è la sintesi di divergenti modi di vedere che poi si offrono alla valutazione del plenum, ed è proprio questa caratteristica di provvisorietà che spesso non giustifica testi alternativi o votazioni diversificate". Al plenum insomma sarà battaglia tra laici e togati, con il vicepresidente Giuseppe Legnini che, come ricorda Fanfani, ha già ridimensionato le critiche del documento approvato in commissione. Stati generali del carcere al via In un clima di nuovo elettrico attorno alla riforma della giustizia, il ministro Orlando si appresta a inaugurare dopodomani nel carcere di Bollate gli Stati generali dell'esecuzione penale. Si tratterà, spiega una nota di Via Arenula, di "un percorso semestrale di riflessione e approfondimento sulle tematiche legate al carcere per arrivare nel prossimo autunno all'elaborazione di un articolato progetto di riforma". Martedì si comincia con un evento arricchito dall'esposizione dei teli realizzati dai detenuti in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Brera, con il contributo artistico di Dario Fo, il coordinamento del direttore di Radio3 Rai Marino Sinibaldi e con interventi di rappresentanti della cultura e delle istituzioni, a cominciare dal presidente emerito Giorgio Napolitano. Giustizia: l'attacco dei magistrati sulla legge anticorruzione "scelte di compromesso" di Dino Martirano Corriere della Sera, 17 maggio 2015 Dopo l'affondo della VI commissione del Csm, criticato però dal vicepresidente Giovanni Legnini, che alla riunione del plenum si aspetta una valutazione differente, anche il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, ridimensiona le leggi in materia di lotta alla corruzione e di prescrizione: "Timidezza riformatrice", "incoerenza", "scelte di compromesso nascoste dietro interventi deboli che troppo spesso hanno caratterizzato le decisioni adottate dalla politica". E davanti a tutto questo, "l'Anm non può esimersi dall'elaborare proposte che suggeriscano soluzioni ragionevoli". Proposte che però vanno oltre il compromesso raggiunto tra Pd e Ap sulla prescrizione che, secondo Sabelli, "è del tutto insufficiente: non basta sospendere temporaneamente la prescrizione dopo la condanna di primo grado ma bisogna sterilizzare i suoi effetti negativi bloccandola definitivamente almeno con la sentenza di primo grado". Anche con questo carico di osservazioni l'Anm, che terrà il congresso il 23 ottobre a Bari, venerdì incontrerà il ministro Andrea Orlando per fare il punto sulle "ben note disfunzioni che affliggono la giustizia". Intervenendo al "parlamentino" dell'Anm, Sabelli ha fatto riferimento alla legge sulla lotta alla corruzione (alla Camera il voto finale sarà quasi in contemporanea con il plenum del Csm di mercoledì in cui si discute il parere della VI commissione) e quella che rimodula la prescrizione: "Si tratta di interventi innovativi ma che danno anche segnali di arretramento, con proposte che insistono meno sull'azione di contrasto e più sulla riforma delle intercettazioni. Nelle istituzioni cresce una timidezza che limita gli effetti delle riforme e riduce l'impegno contro la corruzione". La magistratura associata, però, ha anche un'anima di governo che ora ha preso coraggio con il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (che è anche il leader della corrente di centrodestra delle toghe): "Nessuna timidezza da parte del governo ma determinazione ad affrontare e risolvere i problemi con risposte concrete". E anche Giuseppe Fanfani, laico del Csm del Pd, elogia "l'azione del governo che dopo un ventennio di oscurantismo legislativo ha avuto la forza di mettere mano alla modifica di temi sui quali si basa la civiltà giuridica di un popolo: contrasto alla corruzione e ripristino e diffusione della legalità". Giustizia;: Cantone "la critica del Csm sbaglia bersaglio, il testo è una buona mediazione" di Dino Martirano Corriere della Sera, 17 maggio 2015 Analizzata dalla plancia di comando dell'Anac, l'Autorità nazionale anticorruzione guidata dal magistrato fuori ruolo Raffaele Cantone, la ricetta del governo per contrastare il malaffare dei "colletti bianchi" spazia ben oltre i palazzi di giustizia e il codice penale: "Attendere solo l'effetto salvifico della norma repressiva contro la corruzione è una pia illusione perché un Codice degli appalti fatto bene o una buona riforma della Pubblica amministrazione contano più 100 interventi sulla sfera penale". Seguendo questa impostazione, però, l'ex pm anticamorra Cantone, chiamato da Matteo Renzi all'Anac ad aprile del 2014, ora si ritrova inevitabilmente in rotta di collisione con i suoi ex colleghi che non fanno sconti all'esecutivo: "Certo, nello stesso giorno, dover argomentare sulle prese di posizione del Csm e dell'Anm non è poco...". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che "le decisioni adottate dalla politica sulla giustizia sono state troppo spesso caratterizzate da timidezza riformatrice, incoerenza, scelte di compromesso nascoste dietro interventi deboli...". È un'invasione di campo da parte del "sindacato" dei magistrati? "Sono certo che queste frasi sono state estrapolate da un contesto. Troppo spesso ho partecipato a dibattiti con il presidente Sabelli e le sue posizioni in materia di lotta alla corruzione, per esempio, non mi sono mai sembrate lontane dai contenuti poi inseriti nella nuova legge". Se la base dell'Anm è in subbuglio, la leadership del "sindacato" è in qualche modo costretta ad alzare la voce contro la politica? Stimando Sabelli, vorrei credere che l'analisi sia frutto di dietrologia senza fondamento". La VI commissione del Csm, presieduta dall'ex gip di Palermo Pier Giorgio Morosini, ha proposto un parere per il ministro in cui gli interventi contro la corruzione sono definiti "sporadici, frammentari, insufficienti...". "Il parere della VI commissione, un testo che il plenum potrà certamente raffinare, va inteso non solo come critica ma anche come stimolo. Certo, non bisogna essere ingenerosi con questo Parlamento al quale all'inizio nessuno dava credito. Eppure ora abbiamo il reato di auto-riciclaggio, quello di voto di scambio politico mafioso e sono in arrivo il falso in bilancio e gli incentivi per chi collabora per fatti corruzione". Il suo giudizio sul ddl Grasso riveduto e corretto è positivo, dunque? "Il testo è buono anche grazie alla mediazione del ministro Orlando. Ci potrebbe essere anche qualche miglioramento - magari con la previsione dell'agente infiltrato, una sorta di microspia vivente diverso dall'agente provocatore fondamentale per le inchieste sulla corruzione - ma il Csm dovrebbe comunque apprezzare lo sforzo di mediazione fatto dal Parlamento. Mi sento di dire che le critiche contenute nel parere della commissione hanno sbagliato bersaglio". Sulla prescrizione Anm e Csm puntano all'interruzione della decorrenza dei termini dopo la sentenza di primo grado. Concorda? "Vado contro corrente. Ma da sempre sostengo che ci vuole un termine temporale fisso - fatti salvi l'omicidio volontario e la strage - oltre il quale non è ragionevole per lo Stato processare un soggetto che magari è profondamente cambiato nel corso degli anni. È il principio della ragionevole durata del processo, per cui in caso di condanna di primo grado o in appello è giusto ipotizzare un rallentamento della prescrizione, più che un suo congelamento". Sulla prescrizione della corruzione veniamo dall'anno zero con 7,5 anni (legge Cirielli) poi portati a 10 per celebrare processi molto complessi. Dove va posizionata l'asticella? "Tornare alla situazione pre Cirielli, 15 anni, o qualcosa di più, è ampiamente ragionevole". Le intercettazioni, con tutte le implicazioni per la privacy sui terzi non indagati, sono irrinunciabili nella lotta alla corruzione? "Le intercettazioni sono uno strumento investigativo molto invasivo ma fondamentale per le indagini. Detto questo, ben venga l'udienza filtro nella quale, in contradditorio, si selezionano le intercettazioni penalmente rilevanti e dunque pubblicabili". Gli impresentabili alle elezioni: i partiti potrebbero fare di più per garantire liste pulite? "Ci vorrebbero tre filtri successivi per affrontare un fenomeno certamente non nuovo. Il primo: la legge regola le incandidabilità per fatti gravi. Il secondo: un codice etico adottato dai partiti che stabiliscono davanti agli elettori qual è il livello dell'offerta politica in materia di onorabilità dei candidati. Il terzo: regole di opportunità politica che inducano a fare attenzione, con le dovute garanzie, se ci si trova davanti parenti stretti dei condannati per fatti gravi e a bloccare operazioni indecenti di trasformismo". E le piccole liste fiancheggiatrici per le quali molte di queste regole vengono meno? "In Campania, come altrove, si può vincere o perdere per una manciata di voti. Per cui le leggi elettorali che favoriscono le grandi ammucchiate andrebbero stemperate. Nel mio paese, Giugliano, ora si vota per il Comune: da noi sono 500 i candidati inseriti nelle liste". Giustizia: sulle norme anti-corruzione alti richiami, ma regole e scelte dal basso di Danilo Paolini Avvenire, 17 maggio 2015 La corruzione da devianza a "concezione" della vita. Un pessimo salto di qualità, se così si può dire, che il capo dello Stato Sergio Mattarella ha segnalato con preoccupazione qualche giorno fa a Torino, per contrasto rispetto alla bella realtà di generosità e condivisione che stava visitando: l'"Arsenale della pace" di Ernesto Olivero. Una "concezione rapinatoria", ha detto per la precisione il presidente della Repubblica, che si è ormai diffusa come gramigna nella politica, nell'economia, nella società. Inasprire le pene - come si accinge a fare il Parlamento nella settimana che comincia domani -sicuramente non è uno sbaglio, ma difficilmente sarà risolutivo. E non perché, come ha scritto una commissione del Consiglio superiore della magistratura in un parere che mercoledì dovrà passare l'esame del plenum, manca un intervento legislativo organico. Ma perché norme e sanzioni rischiano di non bastare. Innanzi tutto per una ragione banalmente pratica: per punire severamente un crimine bisogna prima scoprirlo e individuarne in tempi rapidi i responsabili. Altrimenti, la severità resta sulla carta, trasformandosi nella caricatura dell'impunità. È un po' quello che accade per certi reati considerati a torto "minori" ma di grande impatto sociale, come i furti di veicoli e quelli in casa, per i quali di tanto in tanto si alza l'asticella della punizione senza che ciò comporti la minima scalfittura nelle statistiche delle condanne. Né si può pretendere, tornando ai reati di corruzione e affini, di supplire a tali difficoltà investigative espandendo in maniera abnorme i tempi di prescrizione, com'era nelle intenzioni di una parte della maggioranza di governo. La quale bene ha fatto a ridimensionare (per il momento solo al tavolo della trattativa con gli alleati) i fattori di calcolo, nell'ambito di quest'altra importante riforma in materia processuale. Mentre è plausibile congelare il decorso dei termini per un tempo limitato dopo i processi di primo e secondo grado, infatti, non è pensabile che un delitto contro la pubblica amministrazione punito nel massimo con 10 anni di reclusione si prescriva dopo 18 o 21 anni: la ragionevole durata del processo, che è un principio contenuto in Costituzione, è infatti un pilastro dello Stato di diritto tanto quanto la necessità di garantire la certezza della pena. Inoltre, non si può dare per scontato che il cittadino sotto inchiesta sia per ciò stesso colpevole e che sia quindi una forma di giustizia preventiva lasciarlo per vent'anni ad attendere la sentenza. La norma (costituzionale anche questa) è la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, non il suo contrario. Detto ciò, è evidente che per sperare di sconfiggere un fenomeno che "blocca il Paese e lo sviluppo" - parole del presidente dell'Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone - serve un salto di qualità maggiore, ovviamente in positivo, rispetto a quello di cui si parlava. Una svolta culturale, innanzi tutto, che cominci in famiglia, a scuola, in parrocchia, nei circoli sportivi o con iniziative come la "Notte bianca della legalità" che si è svolta ieri al Tribunale di Roma: chi bara non è furbo e sveglio, è solo un disonesto e come tale va trattato. Ma per non passare da ingenui, oltre a preparare un futuro migliore occorre aggredire con energia il presente: vanno disboscate senza riguardi consorterie, burocrazie, concentrazioni di potere politico ed economico. Soprattutto a livello locale, dove spesso la "concezione rapinatoria" non si esaurisce nel penale. Come definire altrimenti certe normative sui rimborsi e sui vitalizi ai consiglieri regionali a cui, soltanto ora e solo in alcuni casi, si sta cercando di porre rimedio? Come lo spreco dei fondi destinati alla formazione professionale, la giungla di municipalizzate dai misteriosi bilanci, l'uso sfacciato dell'autonomia da parte di alcune Regioni a statuto speciale, l'ipertrofia diffusa di quelle a statuto ordinario? A fine mese si voterà per il rinnovo dei Consigli (e quindi delle giunte) di ben sette Regioni. È un grande banco di prova per la credibilità, già largamente compromessa, della politica: i partiti, tutti, dovranno dimostrare di sapere (e volere) tradurre in pratica sul territorio quanto predicano a livello nazionale. Giustizia: Tribunali del fisco, così la mediazione lascia le stanze dell'Agenzia delle Entrate di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2015 La mediazione dice addio alle stanze dell'agenzia delle Entrate per traslocare direttamente nelle Commissioni tributarie. Anzi, nei nuovi tribunali tributari che, insieme alle corti d'appello dedicate alla materia fiscale, andranno a sostituire rispettivamente le attuali Commissioni provinciali e regionali. Più spazio alla conciliazione giudiziale che debutta anche in secondo grado. E per spingere fisco e contribuenti a trovare comunque un accordo per tagliare le liti si studiano sconti differenziati sulle sanzioni. Se poi la violazione oggetto della lite è scaturita dall'incertezza della norma o da una sua corretta applicazione perché è oggettivamente "sbagliata", i giudici tributari potranno disapplicare le sanzioni amministrative. Il penale non si tocca. Sono soltanto alcune delle principali novità della riforma del contenzioso tributario che sta muovendo i suoi primi passi nel complesso cantiere dell'attuazione della delega fiscale. L'obiettivo del Governo è di portare in Cdm i decreti di riforma del processo e della macchina della giustizia tributaria per la metà di giugno quando presenterà l'intero pacchetto per rendere operativa la delega, tra cui le norme sulla revisione delle sanzioni penali (quelle già presentate e poi ritirate con la soglia di non punibilità del 3%) e amministrative. La riforma in arrivo - oggetto ora di un serrato confronto tra l'amministrazione finanziaria, Palazzo Chigi e il Mef - punta, dunque, a potenziare la mediazione tributaria, che non sarà più gestita dalle strutture dell'Agenzia ma avrà una sezione ad hoc all'interno del nuovo tribunale tributario, destinato - come detto - a sostituire almeno nel nome la Commissione provinciale. La "sezione mediazione", che deciderà come fosse una sorta di collegio arbitrale, sarà composta da un giudice onorario del Tribunale tributario, da un funzionario delle Entrate (ma solo con una determinata qualifica e con esperienza professionale di almeno due anni presso gli uffici legali dell'Agenzia) e da un professionista abilitato con esperienza nel settore e anzianità di iscrizione all'albo di almeno due anni. Queste due figure saranno inserite in elenchi tenuti dal Tribunale tributario. Per i giudici monocratici e per quelli che fanno parte della sezione mediazione si pensa di introdurre un compenso aggiuntivo. Sui trattamenti economici, tema da sempre caldo della giustizia tributaria, si prevede comunque un rinvio a un futuro decreto della Presidenza con cui saranno fissati gli emolumenti mensili secondo criteri che tengano conto della qualifica e delle funzioni svolte. Rivisti anche i poteri dei giudici tributari. Tra questi la novità di maggior rilievo riguarda la prova testimoniale che con la riforma in arrivo sarà ammessa con valore di presunzione semplice. Restano espressamente esclusi invece l'interrogatorio formale e il giuramento. Il giudice tributario, inoltre, nei casi più complessi potrà avvalersi di consulenti tecnici. E soprattutto, per verificare la verità, il giudice può esercitare i poteri istruttori di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e di chiarimenti riconosciuti dalla legge ai soggetti che hanno emesso gli oggetto d'impugnazione. Il reclamo e la mediazione potranno essere utilizzati dai contribuenti per liti di valore non superiore a 20mila euro e relative ad atti emessi dall'agenzia delle Entrate. Alla luce dei principi espressi dalla delega che puntano a introdurre strumenti deflattivi del contenzioso, non è escluso che sulla mediazione il Governo provi a osare di più proprio sulla mediazione, magari elevando l'attuale limite di 20mila euro e l'allargamento anche ad altri atti oltre a quelli emessi dalle Entrate. Allo studio c'è comunque anche una penalizzazione per chi va avanti e poi soccombe nelle liti fino a 20mila euro: chi perde è infatti condannato a restituire, oltre alle spese di giudizio, anche una somma pari al 50% delle spese di giustizia come rimborso degli oneri sostenuti per il procedimento legato al reclamo e alla successiva mediazione evidentemente non andata a buon fine. Nello spirito della riforma si prevede dunque un giudice monocratico per le liti fino a 20mila euro. Per le cause più elevate il giudizio sarà sempre e solo collegiale. Tra le proposte avanzate dai tecnici in questa fase c'è anche quella di prevedere dei giudici tributari professionisti. Ma le implicazioni che questa vera e propria rivoluzione potrebbe comportare sia in termini di costi che di soggetti interessati (dal Guardasigilli al Csm) potrebbero affossare fin da subito l'idea di dotare i nuovi tribunali tributari di giudici professionisti. Per ridurre le liti fiscali, lo schema di decreto sulla riforma del processo tributario prevede che la conciliazione in pendenza di giudizio potrà essere "ricercata" anche in Corte d'appello nel caso in cui il giudizio in primo grado si sia concluso con una sentenza di parziale accoglimento del ricorso. La conciliazione potrà essere raggiunta solo nei procedimenti discussi in sede collegiale e l'accordo per definire in tutto o in parte la controversia dovrà arrivare non oltre "i 10 giorni liberi" prima dell'udienza fissata per la discussione. Questo varrà sia in primo che in secondo grado. E per spingere alla chiusura anticipata delle liti si punterebbe a prevedere in caso di conciliazione tra fisco e contribuenti la riduzione differenziata delle sanzioni amministrative: in primo grado la penalità sarà pari a un terzo delle somme irrogabili in rapporto all'ammontare del tributo che emerge dalla conciliazione e comunque non inferiore a un terzo dei minimi edittali; se l'accordo viene raggiunto in Corte d'appello le sanzioni amministrative saranno pari al 40% delle somme irrogabili in rapporto dell'ammontare del tributo che emerge dalla conciliazione. Giustizia: strage di Napoli; il degrado non c'entra, non sappiamo più riconoscere la follia di Conchita Sannino La Repubblica, 17 maggio 2015 Il giallista Maurizio De Giovanni sul caso dell'uomo che dal proprio balcone a Napoli ha sparato all'impazzata uccidendo 4 persone: "Ora non venitemi a dire che questo massacro esplode per una lite sui panni da stendere". Le ossessioni invisibili che deragliano in tragedia, le nascoste nevrosi che sfociano nel sangue, lo appassionano da sempre. Maurizio De Giovanni, il giallista di culto, l'ex impiegato di banca diventato caso letterario, l'autore che ha dato vita al malinconico Ricciardi, commissario anni Trenta che "vede i morti", o all'inquieto e contemporaneo ispettore Lojacono, stavolta però parla "da cittadino". De Giovanni, se un infermiere incensurato si trasforma in un cecchino che spara dal balcone, non c'è altro colpevole? "Non è vero, siamo tutti colpevoli. Una follia del genere non esplode senza segni. È impossibile che non ci sia stata mai una manifestazione di malessere. Dobbiamo dirci che non esiste più quello che chiamavamo "controllo sociale". Chi è in grado, chi ha voglia, dal vicino di casa al familiare, di penetrare il grado di prostrazione in cui scivola una persona? Siamo attaccati alle tastiere, collegati col mondo ma, più di ieri, non sappiamo l'altro cosa abbia dentro. Frettolosi: perché in fondo scoprire quel pensiero costerebbe fatica, o disagio. Allora meglio parlare tanto, in 140 caratteri o con le faccine, e non aprirsi mai. Tutti presi da cose prevalentemente inutili da "taggare", "postare". Questa è la prima sensazione. Poi c'è un'altra riflessione da fare". Si riferisce alle armi detenute legalmente? "Sì, questo fa spavento. Noi non siamo in America, dove il modello delle armi per tutti è legato alle lobby di chi le vende. Io penso che non può bastare neanche una fedina penale pulita e una documentazione impeccabile a concedere la possibilità di avere un'arma. Dovrebbe accadere in casi molto rari, e su robuste motivazioni. Perché quel possesso implica l'elevata possibilità che il fucile a pompa o la pistola vengano usati, anche in un eccesso di legittima difesa. E soprattutto: chi è autorizzato dovrebbe essere sottoposto a controlli rigorosi, ma affidati a strutture sanitarie, ad esperti psichiatri. Si fa, questo? O la norma prescrive solo un burocratico rinnovo?". De Giovanni, forse suona insolito, stavolta Napoli è uno sfondo come tanti? "Di più, voglio essere drastico. Nessuno osi collegare questa strage allo stereotipo del degrado. Penso al carabiniere che nel cosentino uccise la moglie e si suicidò, alla madre albanese che a Lecco ammazzò i suoi tre figli. Napoli conta purtroppo, tra le sue anime, anche una strutturata dimensione criminale, ma qui non c'entra: qui assistiamo a una follia individuale, che esplode dentro quel deserto a cui somigliano sempre di più condomìni, metropoli. Con i disagi stipati sotto, nel fondo delle nostre vite iper-connesse". Giustizia: strage di Napoli, gli armieri e i collezionisti "sparano" contro il governo Di Maurizio Gallo Il Tempo, 17 maggio 2015 Dopo la tragedia di Napoli è polemica sulle restrizioni al porto di pistola. Insorgono esperti e addetti di un settore che fattura mezzo punto di Pil. "Ho fatto una cazzata...". Queste le parole di Giulio Murolo subito dopo l'arresto. L'infermiere di 45 anni autore della strage di Napoli non aveva solo armi legali, detenute probabilmente grazie a una licenza di caccia, ma anche un Kalashnikov "clandestino" (con i numeri di matricola abrasi) sotto al letto. La sparatoria ha sollevato il solito nuvolone di polemiche sul possesso di armi da fuoco. "L'accesso alle armi è troppo facile. Bisogna rendere molto più difficile il percorso per arrivare a possederle, servono valutazioni ben più approfondite - osserva lo psichiatra Claudio Mencacci. La logica deve essere quella di concedere armi a pochissime persone, perché anche il possesso per uso sportivo rischia di diventare pericoloso". Di diverso avviso il responsabile del Viminale: "Il nostro è un Paese che non ha un particolare favore normativo" per le armi - dichiara Angelino Alfano - "si tratta di un tema sul quale riflettere bene per prendere decisioni che non siano dettate dall'emotività". Il timore degli addetti, invece, è che queste tragedie portino a una stretta "ideologica" sulla concessione di permessi, già resa più difficile dalla recente modifica della normativa esistente. È un settore che conta 94.000 addetti, 2.200 aziende e fattura mezzo punto di Pil all'anno. La sua produzione stimata vale circa 800 milioni di euro e l'Italia è la prima al mondo per esportazioni, con il 90% della "merce" che va all'estero e copre il 70% dell'offerta comunitaria. Ma quello delle armi da fuoco è un tema spesso strumentalizzato in occasione di episodi di "nera", come quello di venerdì a Napoli, o di timori per la sicurezza collettiva, come quello di attentati terroristici. Una paura diventata psicosi con la nascita dell'Isis e l'entrata in scena dei cosiddetti foreign fighters. Ed è proprio con il decreto antiterrorismo, modificato recentemente ed entrato in vigore il 21 aprile, che il governo ha introdotto limitazioni per i possessori di pistole e fucili. Limiti considerati "assurdi e insensati" da armieri e appassionati, che hanno creato un comitato e raccolto migliaia di firme per evitare un sicuro danno economico, oltre a disagi e spese extra per i cittadini. La nuova legge Ma vediamo che dice la nuova legge. Due articoli disciplinano l'acquisto e la detenzione di armi da fuoco e caricatori. Uno colpisce indiscriminatamente le armi "soggette ad autorizzazione" secondo la Direttiva europea e identificate con la sigla "B7", cioè simili a quelle militari, come il Kalashnikov. Anche se, ovviamente, hanno solo l'aspetto di un vero Ak47, ma non sparano a raffica, non lanciano granate e sono utilizzate per il tiro a bersaglio nei poligoni e a caccia. Entro il 4 novembre, poi, vanno denunciati (con spese per carte da bollo per gli utenti, e lavoro aggiuntivo per polizia e carabinieri) i caricatori di pistola che contengono più di 15 cartucce e quelli per fucile con più di 5. Qual è il senso? Quale lo scopo? Non si capisce. Di certo, ha poco a che fare con il terrorismo. "Sono norme che complicano una legislazione già poco chiara e frammentaria e mettono in ginocchio l'intero settore perché quel tipo di armi è quello più usato dai tiratori - osserva Andrea Gallinari, collezionista e uno dei coordinatori del "Comitato Direttiva 477". È un attacco ideologico che non cambia niente dal punto di vista della sicurezza, anche perché i reati con armi legali sono il 6,5% di tutti quelli commessi con un'arma, mentre pistole, fucili e mitra illegali sono tantissimi. Sul mercato clandestino un Ak47 con due caricatori costa appena 150 euro. Infine il decreto contrasta con la Direttiva Ue 477, che non ritiene i caricatori parte dell'arma". "Norme inutili" Per Massimiliano Burri, perito balistico, consulente del Tribunale di Roma e titolare di "Maxarmi" a San Giovanni, è una legge "inutile, fatta da gente incompetente". Un altro esempio? "Allo scopo di tracciare gli acquisti della polvere da sparo, con cui gli appassionati ricaricano le cartucce, dobbiamo comunicare il codice dell'etichetta al commissariato - spiega Burri - Ma le pare che il miliziano dell'Isis va a comprare gli esplosivi in armeria? Queste norme non servono a prevenire né attentati, né omicidi. A parte il fatto che in Italia di armi non ce ne sono 11 ogni 100 persone, contro le 45 in Finlandia, le 31 in Francia e le 30 in Germania". Ma l'infermiere di Napoli aveva un porto d'armi o comunque la licenza di caccia. "Aveva anche un Ak45 con i numeri di matricola abrasi - sottolinea Burri - Il concetto, comunque, è che a sparare non è l'arma, ma l'uomo che c'è dietro. Il ghanese Kabobo uccise tre persone con un piccone per strada, allora vietiamo tutti i picconi? L'infermiere, se non fosse stato armato, poteva far esplodere una bombola e far saltare il palazzo. Allora daremmo la colpa alle bombole del gas? L'arma è una potenzialità in più, non la causa di queste tragedie. Il problema sono i controlli e noi siamo i primi a chiedere che vengano intensificati". Secondo Angelo, titolare dell'armeria "Shooter" a Montesacro e anche lui membro del Comitato, "che ha già raccolto migliaia di firme", quello delle armi "fotocopia" di quelle militari è il settore che tira di più: "Rappresenta quasi l'80% del giro d'affari - precisa - e già abbiamo previsto il 40% del fatturato in meno con le nuove regole. Tutti sanno che i detentori legali di armi sono i primi a rispettare la legge e se ti beccano ubriaco alla guida, oltre alla patente, ti tolgono subito anche l'arma. Ci vuole molto a capire che non è una pistola che fa il killer?". Tiro a volo Mentre negli anni sono diminuite le licenze per uso caccia e difesa personale, sono cresciute quelle per "tiro a volo", licenze sportive per sparare nei poligoni, sottoposte allo stesso genere di controlli di polizia: nel 2002 erano 127.187, salite a 352.149 nel 2011, a 373.693 nel 2012, a 397.751 l'anno seguente e a 397.384 nel 2014. E su queste incombe un'altra "minaccia", non contenuta però nel decreto. Dopo la strage di Milano, si è fatta insistente la voce di nuove limitazioni anche in questo campo. L'idea è di affidare la detenzione delle armi da tiro ai poligoni. Una follia, visto che nel 2008 (dati Istat) in Italia c'erano circa 10 milioni di "pezzi" e 4 milioni di famiglie erano armate. "È una cosa irrealizzabile - afferma Burri - Dove metti tutta quella roba? Come la custodisci? Come ti organizzi per il carico e scarico?". "Il deposito coatto nei poligoni non risolverebbe nulla - spiega Gallinari - E poi che c'entra la strage di Milano? Lì sono mancati i controlli. La verità è che il Viminale è in enorme ritardo con l'informatizzazione delle denunce e l'archivio armi. Hanno ancora i faldoni legati con lo spago...". Savona: Sappe; carcere di Sant'Agostino "poco sicuro", protesta degli agenti penitenziari La Stampa, 17 maggio 2015 Un carcere poco sicuro con agenti-donna della penitenziaria impiegate nel servizio di ronda tra le celle, e i colleghi maschi invece piazzati in portineria. Con i telefonini cellulari del personale civile dell'amministrazione che vengono autorizzati ad essere portati all'interno della struttura. E inoltre l'eliminazione, "negli ultimi tempi" del personale addetto alla vigilanza del "passeggio" e dei colloqui dei detenuti. Oltre alla carenza cronica di personale e all'assegnazione di mansioni e incarichi tra il personale "che per motivi di privacy e sicurezza non potrebbero accedere ad una determinata documentazione". "Sono mancanze molto gravi che mettono a repentaglio la sicurezza di tutto l'istituto a partire dal personale di polizia penitenziaria fino a riguardare i visitatori esterni" è quanto segnala il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. "La situazione va sempre più degenerando". È lo scenario che ha delineato Vincenzo Coletto, segretario provinciale del Sappe in una lettera dello scorso 11 maggio al direttore del carcere Sant'Agostino di piazza Monticello, Paola Penco, in cui viene contestata l'organizzazione interna. Non solo della vigilanza. "Cambi turni improvvisi e spesso inconcepibili", dicono i sindacati. Un clima di tensione è quello che si respira all'interno del Sant'Agostino, dove ieri la direttrice Penco raggiunta al telefono non ha voluto commentare per via della sua assenza da Savona per motivi familiari. Anche il comandante della polizia penitenziaria in piazza Monti-cello, Andrea Tonellotto, che con la Penco è in servizio anche a Chiavari, ieri non ha voluto rilasciare dichiarazioni in merito. Intanto il personale ieri ha sollevato anche il caso della difficile gestione di detenuti in isolamento con sospetta tbc. Padova: guardie corrotte, 6 imputati scelgono di patteggiare con pene fino 4 anni e 9 mesi Il Mattino di Padova, 17 maggio 2015 Sei richieste di patteggiamento, 9 riti abbreviati e 16 richieste di rinvio a giudizio. È l'esito dell'udienza preliminare fiume di ieri (giudice Domenica Gambardella, pubblico ministero Sergio Dini) in merito all'inchiesta dell'estate scorsa che ha sconvolto il carcere Due Palazzi con agenti di Polizia Penitenziaria accusati di aver portato all'interno delle celle droga e telefonini. L'aula della Corte d'Assise è stata stipata per ore da avvocati, imputati e da un piccolo esercito di agenti di Polizia penitenziaria, chiamati a scortare anche dei loro colleghi. L'udienza è stata rinviata al 26 maggio per la definizione di quanto deciso. Tra i sei che patteggiano ci sono Luca Bellino, 38 anni, originario di San Paolo di Civitate (Foggia), residente a Padova, pena concordata 4 anni e 9 mesi, Raffaele Telesca, 36 anni, toscano di Albignasego, 4 anni e 6 mesi. Tra i 9 che hanno scelto il rito abbreviato figura Pietro Rega, 48 anni, originario di Mariglianella (Napoli) e residente a Mirano, Roberto Di Profio, 45 anni, originario di Chieti e residente a Abano, Giandonato Laterza, 31 anni, di Matera e domiciliato a Piazzola sul Brenta e l'avvocato polesano Michela Marangon di Porto Viro. L'indagine era iniziata nell'estate 2013, mentre la polizia stava intercettando dei marocchini sospettati di un traffico di droga. Dalle telefonate era emerso del particolare traffico nella casa penale del Due Palazzi. L'inchiesta venne coordinata dal pubblico ministero Segio Dini e si è allargata a macchia d'olio. Fino a pochi giorni fa quando sono stati rinvenuti altri 5 telefonini muniti di sim card all'interno delle celle della Casa di reclusione. Scavando più a fondo la Mobile della Questura ha scoperto che c'era un vasto ed organizzato gruppo di agenti in servizio che erano dediti a fini di lucro ed in pianta stabile, in concorso con familiari ed ex detenuti, ad un sistema illecito finalizzato all'introduzione in carcere di droga (eroina, cocaina, hashish, metadone), materiale tecnologico (telefonini, schede sim, chiavette usb, palmari) ai detenuti accontentandoli per altre richieste. Chi era in cella e poteva pagare - tramite dei famigliari - poteva avere di tutto, in cella. Come detto pare che questa prima azione della magistratura non abbia però debellato il fenomeno. Treviso: attività in carcere per 120 studenti, scambio di esperienze con i giovani dell'Ipm La Tribuna di Treviso, 17 maggio 2015 Incontrarsi in carcere per andare oltre le sbarre dei pregiudizi. È la parola d'ordine che ha aperto le porte dell'istituto penale per minori della Casa circondariale di Santa Bona a ben 120 studenti trevigiani, arrivati negli ultimi sei mesi per stringere la mano e trascorrere un po' di tempo insieme ai giovani reclusi. È l'anima del progetto "Voci di fuori, voci di dentro" nato 13 anni fa dalla collaborazione tra l'associazione Volontarinsieme, l'Ufficio scolastico provinciale e il carcere minorile di Treviso. Quest'anno hanno accolto l'invito sei classi quarte degli istituti Riccati, Mazzini, Pio X e Mazzotti e dell'Isiss Casagrande di Pieve di Soligo. Ieri nell'aula magna del Mazzotti la conclusione dell'esperienza vissuta dagli studenti con una testimonial d'eccezione, la musicista e cantautrice trevigiana Erica Boschiero: "Nel momento in cui si entra in carcere si capisce che ogni giovane recluso ha la sua storia. E la chiave che apre all'incontro è il rispetto", ha confidato la giovane artista che ieri ha incontrato con la chitarra tra le mani pure i giovani del carcere. L'incontro proposto agli studenti va ben oltre la visita di cortesia. La riflessione approda anche in classe con l'aiuto degli educatori e dei volontari che nel percorso accompagnano gli studenti. Ecco che di carcere si può cominciare a parlare a cuore aperto, senza dover puntare per forza il dito. "All'inizio ero un po' scettica", racconta Benedetta, studentessa del liceo delle scienze umane dell'istituto paritario Mazzini. "Mi chiedevo: come mi devo comportare? Poi sono stati loro i primi ad accoglierci e a farci sentire a casa". Ad oggi sono 15 i giovani ristretti nella struttura penitenziaria del minorile alle porte della città. L'unica in tutto il Nordest in grado di accogliere giovani che hanno commesso un reato ancora minorenni: "Ci tendiamo la mano per poterci incontrare", spiega un'altra studentessa, Victoria. "Per loro è un momento di svago trascorso fuori delle loro celle. Siamo noi a dover entrare in punta di piedi dentro le loro giornate. E questo lo considero un privilegio. Il tempo poi vola e non sento il bisogno di guardare l'orologio". All'interno del carcere minorile ha trovato casa da qualche anno pure un laboratorio di teatro e la pubblicazione di un giornalino titolato: "Innocenti Evasioni". Sono una decina gli studenti trevigiani volontari pronti a dar man forte ogni settimana all'impegno preso dai ragazzi detenuti. Roma: il 20 maggio presentazione del nuovo working paper di 2wel sulla Coop Giotto di Lorenzo Bandera secondowelfare.it, 17 maggio 2015 Il 20 maggio a Regina Coeli la presentazione del nuovo working paper di 2wel sulla Giotto di Padova. Frutto di un interesse che nasce Oltreoceano. Perché negli Stati Uniti dovrebbero essere interessati al sistema carcerario italiano? Facciamo alcune ipotesi. I due sistemi, forse, sono simili per quel che riguarda il numero di detenuti? Secondo gli ultimi dati del Bureau of Justice Statistics, nel 2013 gli Stati Uniti avevano una popolazione carceraria di 2.227.500 di persone - suddivise tra prigioni locali, statali e federali - ovvero 910 ogni 100.000 residenti. Nello stesso periodo, secondo l'Istat, in Italia risultavano incarcerate 62.536 persone, ovvero 104 ogni 100.000 residenti. Quindi no, da un punto di vista prettamente numerico i due modelli non si somigliano affatto ma, anzi, presentano differenze abissali. Allora gli Stati Uniti saranno forse interessati alla governance del sistema italiano? Probabilmente no visto che - nonostante i reclusi nelle carceri italiane siano 35 volte meno di quelli americani e la percentuale di detenuti in rapporto alla popolazione residente sia inferiore di quasi 9 volte - il nostro Paese negli ultimi anni ha incontrato grandi difficoltà nella gestione della propria popolazione carceraria. A più riprese, come molti ricorderanno, il nostro Governo è stato condannato dalla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo per il sovraffollamento delle proprie strutture - la cui capienza massima è di circa 45mila posti - e per le pessime condizioni in cui scontano la pena coloro i quali vi sono detenuti. Vorranno capire da cosa derivi la nostra capacità di evitare la recidiva del reato? Forse il nostro sistema detentivo, nonostante le pecche sopra accennate, è capace di garantire una piena rieducazione (come tra l'altro esplicitamente previsto nell'articolo 27 comma 3 della nostra Costituzione) dei detenuti! Anche in questo caso propendiamo per il no, dato che su questo fronte Stati Uniti e Italia hanno, più o meno, gli stessi problemi. Pur sottolineando che per entrambi i contesti i dati a disposizione sono spesso vecchi e incompleti, le statistiche dei due Paesi sul tasso di recidiva risultano infatti abbastanza simili. Negli Usa il 77% delle persone rilasciate vengono arrestate nuovamente nei 5 anni seguenti (rilevazioni su 30 Stati riferite al periodo 2005-2010). In Italia (dati del Ministero della Giustizia pubblicati nel 2007 in riferimento all'indulto del 2006) la percentuale di ex-detenuti tornati a delinquere è pari al 68% ma, poiché solo il 21% dei reati denunciati si risolve con l'individuazione del colpevole, si stima che il tasso effettivo si attesti tra l'80 e il 90%. Tanto nel caso americano quanto in quello italiano, dunque, almeno 7 ex-detenuti su 10 tornano a delinquere dopo aver scontato la pena. Le cooperative, best practice del sistema carcerario italiano. Eppure, a ben guardare, il nostro sistema sul fronte della rieducazione e riabilitazione dei detenuti, anche in un'ottica di abbattimento della recidiva, presenta alcune best practice che non sono assolutamente da sottovalutare. Stiamo parlando di quelle cooperative sociali che, grazie anche alle disposizioni della Legge Smuraglia (legge 193/2000), da diversi anni favoriscono l'attività lavorativa dei detenuti all'interno delle carceri italiane, permettendo loro di intraprendere percorsi di reale riabilitazione in vista di un loro reinserimento nella società. Come già vi avevamo raccontato, queste cooperative - in particolare quelle che insegnano un mestiere all'interno delle mura del carcere - consentono infatti di limitare le difficoltà inerenti la ricerca di un impiego successivamente alla liberazione, garantiscono ai detenuti uno stipendio attraverso cui possono contribuire al sostentamento delle proprie famiglie e, soprattutto, determinano la ri-rinascita, la fioritura e il mantenimento di forme di umanità che il carcere inevitabilmente tende a soffocare. La Cooperativa Giotto e quell'interesse che viene da Oltreoceano. Proprio una di queste realtà cooperative ha suscitato l'interesse di un'importante realtà filantropica americana, il Fetzer Institute, che - in collaborazione con il Cesen dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Percorsi di secondo welfare - ha avviato un lavoro di ricerca dedicato alla Cooperativa Giotto di Padova. È così nato il nuovo working paper della collana 2WEL "Lavoro e perdono dietro le sbarre. La cooperativa Giotto nel carcere due palazzi di Padova" curato da Andrea Perrone, Tommaso Bardelli, Pauline Bernard e Rachele Greco. Il lavoro - disponibile sia in italiano che in inglese - analizza la storia più che ventennale della Cooperativa Giotto, le diverse attività svolte all'interno della struttura penitenziaria e le best practice sviluppate nel campo della riabilitazione dei detenuti. Il paper propone inoltre i risultati di una serie di interviste semi-strutturate ad alcuni detenuti attualmente in organico alla Cooperativa, grazie alle quali è stato possibile far emergere alcuni dei tratti che contraddistinguono il "modello Giotto". Appuntamento il 20 maggio a Regina Coeli La presentazione del working paper si svolgerà il prossimo 20 maggio a Roma in un contesto tutt'altro che scontato: il carcere Regina Coeli. L'evento, coordinato dal giornalista Luciano Ghelfi, sarà introdotto da Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Dopo la presentazione della ricerca da parte di Andrea Perrone, ordinario di Diritto commerciale all'Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Cesen di Milano, seguiranno tre interventi in cui saranno discussi altrettante esperienze innovative di riabilitazione attuate in Brasile, Germania e Stati Uniti. Interverranno il magistrato brasiliano Luiz Carlos Rezende E Santos, già membro del Consejo Nacional de Justicia; Jürgen Hillmer dell'Università di Brema e Senator für Justiz und Verfassung; e Thomas J. Dart, sceriffo della Contea di Cook (Chicago). Concluderà i lavori Paola Severino, Prorettore vicario della Luiss ed ex-Ministro della Giustizia della Repubblica Italiana. Roma: "notte bianca" a piazzale Clodio, i liceali vanno a scuola di legalità di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 17 maggio 2015 Presenti 800 studenti. Il messaggio di Mattarella: tutti si impegnino. Alle toilette, per l'occasione, riappare anche il sapone liquido rosa. I carabinieri presidiano l'insieme dei corridoi del Tribunale (non solo le aule più arroventate). E il piazzale interno appare libero da transenne e calcinacci che hanno riempito l'inverno del consueto scontento. In decorosa indigenza, la cittadella di piazzale Clodio si è aperta alla Notte Bianca della Legalità, l'iniziativa organizzata dall'associazione nazionale dei Magistrati per promuovere una cultura della giustizia a partire dalle scuole. Prospettiva apprezzabilmente temeraria visto il malinconico scorcio d'epoca, nel quale, inchieste nuove con protagonisti vecchi (ma senza la goffaggine che ne accompagnava i primi illeciti), scoprono élite cronicamente ammalate e una società assai meno civile di quanto sperato. Basti pensare, senza bisogno di scomodare le prime risultanze investigative di Mafia Capitale, agli approfondimenti sull'evasione fiscale che riguardano dirigenti di società petrolifere o le tangenti capillari nei municipi romani, fino alla scoperta di un micro sfruttamento domestico dell'extracomunitario nelle "okkupazioni" come all'"Angelo Mai". Seicento studenti delle scuole di tutta Italia - gli zaini sul selciato del piazzale - ascoltano il suggerimento del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: "Leggete la Costituzione, invito i giovani a leggerla e i loro insegnanti a farla leggere". Tutti ringraziano per il regalo: una copia del codice appartenuta a Giovanni Falcone. Niente selfie in cortile ma scatti da groupie ai convenuti sul palco, dove il gip, Giacomo Ebner, legge (applaudito) anche i meno rock fra i saluti istituzionali. Parla Caterina Chinnici, figlia del giudice Rocco Chinnici, ucciso da Cosa Nostra: "Grazie a lui ho conosciuto, da bambina, la stagione che ha dato il via alle indagini culminate nel maxi processo di Palermo alla mafia". Il presidente della Corte d'appello Luciano Panzani ringrazia i lavoratori della cittadella giudiziaria. Tra i presenti, Ignazio Marino, Alfonso Sabella e una rappresentanza del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. "Le riforme devono nutrirsi della sensibilità per i valori del nostro Stato costituzionale democratico" ammonisce il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel telegramma inviato. Le aule del collegiale ospitano laboratori, discussioni, interviste. Il pm Mario Palazzi e la giornalista Federica Angeli raccolgono l'"indagine" di alcuni studenti su episodi di corruzione di cui sono a conoscenza. Nell'aula Occorsio il pm Erminio Amelio e la collega Maria Assunta Cocomello interpretano una rapida piece. Storia di un truffatore di studenti che s'improvvisa bagarino per la Notte Bianca della Legalità: a processo. In un pomeriggio così, il pop è sempre in agguato. Così, quando sul piazzale s'incontrano il simbolo di Mani Pulite, Gherardo Colombo (in zainetto), il penalista Franco Coppi e il cantautore Antonello Venditti (dopo aver cantato sul palco "Notte prima degli esami"), scatta la foto di gruppo. Verona: sfida ai fornelli per i detenuti di Montorio con l'istituto alberghiero Angelo Berti www.tgverona.it, 17 maggio 2015 Un menù composto da quattro portate. Altrettante squadre a destreggiarsi dietro ai fuochi e un giuria, severa quanto basta. A cucinare degli chef certamente non tradizionali, ossia i detenuti del carcere di Montorio che hanno animato l'iniziativa "Sfida ai Fornelli…il ritorno", progetto voluto dalla camera penale veronese, in collaborazione con la direzione della Casa circondariale di Verona e l'istituto alberghiero Angelo Berti. Una competizione sui generis, con i detenuti iscritti alla classe 1 M Interna all'istituto di Pena, a sfidarsi con i colleghi del Berti, del corso curricolare. Quattro i piatti in gara: Tortino di polipi e patate come antipasto, un risotto con zafferano, cozze e coulis di peperoni, trancio di salmone croccante su vellutata con asparagi verdi per secondo e infine il dolce, un budino di ricotta all'amaretto con coulis di fragole. Una sfida tra i fornelli che, al di la delle capacità acquisite dai detenuti, ha anche in se un valore di speranza ed evasione, quanto meno mentale, per queste persone che stanno facendo i conti con i propri errori. Un progetto, questo, che vuole sottolineare quello che dovrebbe essere l'obiettivo del sistema penitenziario, ossia la riabilitazione sociale dei detenuti. Capaci di tornare alla società con qualcosa da offrire di importante. I soldi raccolti durante questa seconda edizione della Sfida ai fornelli andranno all'impresa sociale CLV che potrà così far guidare ai detenuti questi risciò fotovoltaici in giro per la città, ad accompagnare i turisti. Roma: calciotto; "Memorial Day" a Rebibbia, in campo poliziotti, detenuti e vip www.ostiatv.it, 17 maggio 2015 Il torneo di calciotto, che si svolgerà domani, sabato 16 maggio, vedrà scendere in campo anche una squadra femminile nell'istituto penitenziario. Un torneo di calciotto che vede insieme poliziotti e detenuti, oltre ad una squadra femminile e a testimonial famosi come Enzo Salvi, per superare tutte le barriere e soprattutto commemorare e ricordare le vittime del dovere, del terrorismo e della criminalità nell'ambito della 23° edizione del Memorial Day 2015 organizzato dal Sindacato autonomo di polizia. L'iniziativa, che si svolgerà il 16 maggio, a partire dalle ore 10.30, all'interno dell'istituto penitenziario di Rebibbia a Roma, vede come protagonista la Segreteria Regionale Sap del Lazio guidata da Francesco Paolo Russo. Il mini torneo di calcio, che si svolge nel reparto G8 di Rebibbia, vedrà impegnata una rappresentativa del Sap Lazio, la Nazionale Rebibbia Detenuti e la formazione G.S. Rebibbia Calcio-Polizia Penitenziaria, con la partecipazione straordinaria di alcune atlete della squadra di calcio femminile Res Roma, militante nel campionato nazionale di Serie A femminile. Ospiti d'eccezione l'attore Enzo Salvi assieme al suo storico compagno di scena Mariano D'Angelo e il cantante romano Sandro Presta che interpreterà tra l'altro alcuni brandi dell'indimenticato Franco Califano. "Lo sport, così come l'arte - spiega Francesco Paolo Russo, Segretario Regionale Sap Lazio - è un diritto di tutti e, soprattutto, rappresenta un riferimento immediato per una migliore qualità della vita, da affermare sia negli impianti tradizionali, sia in ambienti diversi. Lo sport non è più solo pratica, passione o cultura, ma diventa, in questi contesti così difficili, un pretesto per promuovere la persona, per valorizzare competenze, esperienze di vita, per creare relazioni e fare comunità, scavalcando difficoltà e barriere. Un evento che unisce quest'anno alla commemorazione del Memorial Day e che assume pertanto una valenza speciale". Libri: Maurizio Torchio "i miei Cattivi rinchiusi in carcere ma innamorati delle parole" di Vera Schiavazzi La Repubblica, 17 maggio 2015 "La mia voce narrante è in cella di isolamento e da lì cerca di capire cosa accada agli altri". "Cattivi" è l'ultimo romanzo pubblicato, con Einaudi, da Maurizio Torchio, scrittore torinese che lavora all'Archivio Storico della Fiat. Maurizio Torchio ama molto documentarsi (non a caso lavora all'Archivio Storico della Fiat), e lo ha fatto con passione prima e durante la stesura di "Cattivi", il suo ultimo romanzo per Einaudi. Non essendo - come si suppone e l'interessato conferma - Torchio mai stato detenuto, la cosa era del resto indispensabile per un romanzo ambientato per intero "di dentro". Come le è venuta l'idea? "Un po' per caso. Ho ascoltato a lungo "Radio carcere", una trasmissione di Radio Radicale che mi ha fatto nascere la fascinazione per quello che succede alle parole in un luogo così chiuso e vuoto, dove non c'è presente ma solo passato e futuro, E ho iniziato a cercare nei documenti, che sono vastissimi sia in Italia sia nel mondo, e ad andare in carcere, soprattutto a Bollate. E lì ha iniziato a costruirsi il grande puzzle". Personaggi dominanti? "Soprattutto uno, che per molti aspetti è stata la voce narrante e che vive chiuso in una cella di isolamento, da dove cerca di capire che cosa accade agli altri. È entrato in prigione la prima volta da giovanissimo, perché ha rapito una persona. E nel racconto del rapimento mi sono lasciato andare, unica volta nel libro, a toni un po' idilliaci, fiabeschi, perché anche quando sei rapito il mondo si ferma. Invece, ho preferito non prendere quasi nulla dal gergo carcerario, perché volevo che i detenuti parlassero nel modo migliore per loro possibile". Ci sono dei colpevoli? "Tutti lo sono, e tutti sono spesso vittime dello Stato, che trasgredisce le sue stesse leggi, e trattando così i carcerati non rende favore neppure a chi ne è stata la vittima. Restano comunque dei casi, pochi, in cui nel carcere si può crescere, e acquisire un amore per le parole". Come visiterà il Salone? Che cosa si aspetta? "Per me sarà un'esperienza del tutto prescolare. Verrò per la prima volta assieme a mio figlio, che ha 4 anni. E quindi quello che mi aspetto è di scoprire con lui tutto quello che una manifestazione di questo genere ha da offrire ai lettori di meno di sei. Immagino che sia molto". Libri: "Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia", lezione sulla lotta alla mafia recensione di Agnese Moro La Stampa, 17 maggio 2015 "La mafia non è un fenomeno di classi subalterne destinate a ricevere e non a dare la legge, e quindi escluse da ogni accordo di potere, ma è un fenomeno di classi dirigenti. I membri della mafia rappresentano una sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi possono anche entrare in contraddizione, nello svolgimento dei fatti, con aspetti dell'attività della mafia stessa. Noi concepiamo la lotta alla mafia come un aspetto della più generale battaglia di risanamento e rinnovamento democratico della società italiana". Questa illuminante frase di Pio La Torre è un po' il filo conduttore della ricostruzione della sua figura e della sua vita che il figlio Franco ha voluto donarci con il suo bel libro "Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia" (Melampo Editore) uscito nei giorni scorsi, in concomitanza con l'anniversario dell'uccisione di Pio, avvenuta a Palermo il 20 aprile 1982. Filo conduttore: cambiare con l'impegno democratico di massa destini altrimenti segnati da poteri - tra cui la mafia - che difendono i propri privilegi. Franco ci porta nel passato, raccontando il cammino di emancipazione personale di suo padre, attraverso lo studio; la nascita del suo impegno per organizzare, con la Cgil e con il Pci, le lotte dei braccianti per l'uso delle terre nel palermitano, per fronteggiare le quali vengono utilizzati dai proprietari terrieri sia le forze dell'ordine che la mafia; il suo instancabile impegno contro la politica compromessa con gli interessi particolari e con l'illegalità; il suo contributo alla lotta alla mafia con una legge che ha fornito strumenti davvero efficaci; il suo schierarsi contro l'uso militare di Comiso. Il libro di Franco, pieno di schiva tenerezza per suo padre, ci porta anche nel presente, nell'analisi lucida della tiepidezza della classe politica - anche di sinistra - nei confronti di una reale lotta alla criminalità organizzata e nella sottovalutazione di quella antimafia sociale, che mobilita, ad esempio nella associazione Libera, migliaia di persone - tante della quali giovani o giovanissime -, lavorando per costruire senso civico, responsabilità sociale, senso dei diritti. Ma il libro di Franco ci fa affacciare anche sul futuro, ponendo una serie di domande cruciali sulla "battaglia di risanamento e rinnovamento" che è di fronte a noi. Urgente cercare tutti insieme delle risposte. Libri: la missione di Nawal è salvare i profughi, da Catania segnala le barche alla deriva di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 maggio 2015 Maysan e Rashid sono siriani, hanno pagato 1500 euro a testa per ritrovarsi in mezzo al mare in burrasca su una barca alla deriva stipata all'inverosimile. Pensano di essere spacciati quando gli viene in mente quel numero di telefono che qualcuno gli aveva dato prima di partire. Prendono il telefono satellitare e chiamano "Madam! Aiutooo! Ci sono le onde alte, imbarchiamo acqua, sta piovendo, una ragazza sta partorendo! Madam, aiuto!". Dall'altro capo del filo c'è Nawal, una ragazza di origine marocchina di 27 anni, nota ai migranti come Lady Sos perché dal 2013 vive con il cellulare sempre all'orecchio per segnalare alla guardia costiera italiana le coordinate dei profughi alla deriva. "Se mi rendo conto che qualcuno non ce la farà - racconta - quando vedo le salme coperte da un telo nero dopo essere state recuperate, o sento famiglie che mi dicono di aver perso in mare i propri cari, provo rabbia e dolore. Sono emozioni talmente forti che non riesco a gestirle. Spesso mi capita di sbattere la mano da qualche parte, su un muro o su una porta, ma il dolore fisico è inesistente in quei momenti, perché è il cuore che fa male. Potrebbero essere stati mio padre, mia madre, i miei fratelli". Nawal è arrivata a Catania quando non aveva nemmeno un mese. Suo padre voleva farle fare le elementari in Marocco ma lei ha voluto frequentare la scuola italiana. Determinata ad aiutare gli altri, oggi fa sì che migliaia di profughi sopravvivano al viaggio della speranza nel Mediterraneo e, all'arrivo in Italia, insegna loro a non cedere al racket degli "scafisti di terra". Passa giornate intere alla stazione ferroviaria di Catania per accogliere i migranti i di passaggio verso il Nord Europa dove sperano di recuperare dignità e voglia di vivere. La sua storia è raccontata in un libro, che uscirà lunedì 18 maggio, scritto da Daniele Biella per le Edizioni Paoline. Il titolo è "Nawal, l'angelo dei profughi". "Sono impegnata nel sociale da quando avevo 14 anni - racconta la ragazza. Ho anche un lavoro vero, faccio l'interprete presso tribunali e carceri siciliani. La prima barca con profughi siriani è arrivata in Sicilia tra il luglio e l'agosto 2013: li ho incontrati davanti al Cpa, ho preparato vestiti per i bimbi, ho spiegato loro quali erano i loro diritti e cosa fare per evitare gli scafisti di terra" L'amore per il prossimo sembra essere il motore che la guida. Nel 2010 apre, insieme ad altri volontari, una mensa per i senzatetto nella Casa della Mercede dell'Ordine dei Cavalieri di Malta. L'esperimento ha grande successo ma il quartiere protesta e, in breve tempo, la mensa chiude. "Se solo una delle persone che si opponevano fosse scesa una volta a conoscere un senzatetto che aiutavamo sarebbe stato perfetto - spiega nel libro. Magari poi avrebbe deciso comunque di chiamare una pattuglia ma non sarebbe stato un problema, l'importante era parlarci, stabilire un contatto con chi è ai margini della società. Questo non è mai accaduto e quando ci ripenso provo ancora sconforto". Quando esplode la rivolta contro Assad in Siria la ragazza non resiste e decide di andare a vedere con i suoi stessi occhi l'orrore della guerra. Il viaggio ad Aleppo la prova profondamente ed è da allora che comincia ad aiutare i migranti. "Bisogna alzarsi in piedi e, ognuno con i propri mezzi, gridare la contrarietà alle guerre mentre queste accadono, perché una strage deve essere evitata e non commemorarla". Nawal riceve decine di telefonate al giorno, con grande sangue freddo si fa dare le coordinate dai profughi in preda al panico. Poi avverte la Guardia Costiera e corre al porto ad accogliere chi arriva, fornendo cibo, acqua, vestiti, pannolini per bambini, contatti utili. È stata lei a segnalare l'arrivo della maggior parte delle imbarcazioni lanciate contro le coste italiane dagli scafisti, dal 28 settembre a oggi. "Per passione - racconta - mi sono messa a studiare tutti i dialetti del mondo arabo, per questo capita anche che la Guardia costiera mi faccia partecipare a telefonate di gruppo con i migranti per quale sia la situazione a bordo". La sua storia merita di essere letta. Corte Europea: Polonia condannata per le "extraordinary rendition" della Cia di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 17 maggio 2015 Corte europea. Ok a sentenza di condanna per le "extraordinary rendition" della Cia. 100 mila dollari al palestinese Abu Zubaydah e 130 mila al saudita Al-Nashiri. La Polonia ha deciso di rispettare uno dei punti della sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo. Varsavia ha infatti accettato di pagare un risarcimento a due detenuti a Guantánamo, vittime del programma di consegne straordinarie della Cia durante l'amministrazione Bush jr. La Polonia, che eleggerà il suo presidente al ballottaggio di domenica prossima, resta infatti l'unico paese europeo ad aver aperto un'inchiesta sui black sites gestiti dall'intelligenza americana. Al palestinese Abu Zubaydah, arrestato in Pakistan e torturato poi da agenti della Cia in territorio polacco, andranno 100.000 dollari. Il saudita Al-Nashiri, considerato l'architetto dell'attentato esplosivo contro il cacciatorpediniere Uss Cole affondato nel Golfo di Aden il 12 ottobre 2000, riceverà un versamento di 130.000 dollari. Entrambi erano transitati in un "buco nero" detentivo, eretto a Stare Kiejkuty, un villaggio nella regione della Terra dei laghi della Masuria. Una struttura finanziata dagli americani anche grazie ai 15 milioni di dollari che due agenti della Cia avrebbero consegnato con le proprie mani in una valigia diplomatica a un funzionario polacco dell'Agencja Wywiadu (AW). Oltre a confermare indirettamente le violazioni compiute sul suo territorio, la scelta di pagare da parte di Varsavia stride con la precedente decisione di fare ricorso alla Grande Camera della corte. Pur rifiutandosi di collaborare con Strasburgo, il governo aveva giudicato prematuro il verdetto del tribunale emesso a luglio scorso in virtù del fatto che Varsavia non ha ancora concluso le proprie indagini. Una mossa priva di coerenza che suona come un'ammissione di colpevolezza, ma spiegabile con il fatto che la Polonia ha abbandonato ogni speranza di rovesciare la sentenza. Inoltre, il governo non ha alcuna fretta di chiudere una lunghissima inchiesta avviata 7 anni fa e coperta da segreto di Stato. Intanto Varsavia nella propria versione ufficiale ha sempre continuato a negare l'esistenza del sito di Stare Kiejkuty. Si tratta comunque di una piccola vittoria anche per Mikolaj Pietrzak, avvocato pro bono di Al Nashiri, tenuto al dovere di segretezza e riservatezza nei confronti del saudita. Non è ancora stato chiarito in quale modo il denaro sarà trasferito al saudita ancora detenuto nella base navale americana. Ma secondo Pietrzak il risarcimento non è il punto chiave della sentenza. "Vedremo se il governo terrà davvero fede ai propri impegni. La compensazione pecunaria è il punto meno importante tra quelli indicati nella sentenza di Strasburgo. La Polonia dovrebbe compiere ogni sforzo diplomatico per scongiurare che Al Nashiri sia condannato a morte negli Stati Uniti, nonché impegnarsi nel rendere più efficace e trasparente la propria indagine", ha spiegato al manifesto Pietrzak. Stati Uniti: impossibile crepare nel braccio della morte di Giampiero Gramaglia Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2015 Il ceceno della strage di Boston si prepara all'attesa: oltre alla moratoria, manca il farmaco per l'iniezione letale. Per le sue vittime, la morte, inattesa, improvvisa, incompresa, fu un baleno. E un boato. Per lui, sarà un'agonia di anni, senza alternativa, ma lentissima e contorta: un'agonia che talora i condannati cercano d'abbreviare tagliando gli appelli. Uscire vivi dal braccio della morte è privilegio da graziati. Uscirne ammazzati è un iter interminabile. Ma farla in barba alla giustizia, specie quando è ingiustamente inumana, non è facile. Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due autori della strage alla maratona di Boston nel 2012 - tre i morti, fra cui un bambino, 260 i feriti - è stato condannato a morte. I giudici l'hanno deciso all'unanimità. La giuria, 7 donne e 5 uomini, aveva già decretato il giovane - 21 anni, d'origine cecena - colpevole di tutti e 30 i capi di accusa (17 passibili della pena capitale). La tesi della difesa, che Dzhokhar sarebbe stato plagiato dall'altro terrorista, il fratello maggiore Tamerlan, ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia, non ha fatto breccia. Per l'accusa, e per la giuria, il giovane è "un terrorista": merita la morte per avere provocato una carneficina. La pena capitale non è popolare nel Massachusetts dove nessuno era più stato condannato a morte dal 1947. Ma questo è un processo federale davanti a una corte federale per un delitto federale: non valgono gli usi dello Stato. E se c'è in ballo una condanna a morte, la legge prevede che i giurati non possano essere contrari per principio alla pena capitale. Alla lettura del verdetto c'erano superstiti e parenti delle vittime, anche i genitori di Martin Richard, il bambino di 8 anni ucciso. La sentenza è stata definita "adeguata" dal ministro della Giustizia federale, Loretta Lynch, una afroamericana da poco in carica. Per Dzhokhar, la condanna sarà eseguita con un'iniezione letale. Forse. E non si sa quando. Ci sarà il ricorso in appello, quasi scontato. E c'è la lentezza delle procedure: su 80 condanne a morte pronunciate da tribunali federali dal 1988, da quando cioè la pena capitale è stata reinserita nel codice penale federale, solo tre sono state eseguite. Tra cui quella di Timothy McVeigh, un veterano della Guerra del Golfo, sostenitore della supremazia bianca con - dannato per l'attentato contro un edificio federale di Oklahoma City, il 19 aprile 1995: morirono 168 persone, fra cui molti bimbi d'un asilo nido. Per finirla in fretta, McVeigh rinunciò agli appelli: fu messo a morte nel giugno del 2001, in un carcere federale di Terre Haute, Indiana. Con il giovane ceceno, sono 62 i condannati a morte in attesa di esecuzione federale. Oltre la metà da almeno un decennio, una decina da oltre 15 anni. E le cose non paiono potersi accelerare nel breve termine, perché in questo momento è in atto una moratoria delle esecuzioni federali disposta dal dipartimento di Giustizia per riesaminare le procedure d'attuazione dell'inie - zione letale, contestatissima da medici e attivisti dei diritti umani. E se pure la revisione dovesse confermare le attuali procedure, rimane il problema dei farmaci da usare per l'iniezione letale. Anche le camere della morte federali, come quelle degli Stati che praticano la pena capitale, non hanno più dosi di alcuni farmaci usati per il cocktail letale: l'Ue ne blocca l'export proprio per impedire che vengano usati per le esecuzioni. Gli Stati tornano ai vecchi metodi, la sedia elettrica, o addirittura il plotone d'esecuzione; oppure, ricorrono a farmaci alternativi, come il midazolam, sotto accusa perché provocherebbe la morte dopo atroci sofferenze. La Corte Suprema Usa sta vagliando la legittimità dell'uso del midazolam. Per Dzhokhar e gli altri 61 condannati federali, il boia non sta ancora preparando l'ago. Egitto: ex presidente Morsi condannato a morte con altri 100 imputati per maxi evasione Askanews, 17 maggio 2015 L'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, deposto dall'esercito nel luglio 2013, è stato condannato a morte oggi in prima istanza, assieme a un centinaio di altri imputati, con l'accusa di evasione dal carcere e violenze durante la rivolta del 2011 contro Hosni Mubarak. L'ex presidente islamico, 64 anni, che era presente alla lettura della sentenza, seduto nella gabbia con l'uniforme blu dei detenuti, ha sollevato i pugni in segno di sfida quando il giudice ha letto il verdetto. Tra gli altri condannati a morte anche Mohamed Badei, il leader dei Fratelli musulmani, che era già stato condannato alla pena capitale in un altro processo, e il suo vice Khairat al-Shater. L'autorevole leader religioso islamico Yusuf al-Qaradawi, che risiede in Qatar, è stato condannato a morte in contumacia. Morsi, il primo presidente democraticamente eletto dell'Egitto, è stato al potere per solo un anno prima dell'intervento dei militari, comandati dall'attuale presidente Al Sisi, che lo hanno deposto e arrestato nel luglio 2013, assieme a centinaia di esponenti del movimento. Secondo la legge egiziana, le condanne a morte devono passare al vaglio del mufti, interprete del governo della legge islamica, che svolge un ruolo consultivo. Gli imputati possono fare appello anche dopo la raccomandazione del mufti. Per un altro capitolo del processo, relativo alle accuse di spionaggio e collusione con potenze straniere (Hamas, Hezbollah e Iran) per destabilizzare l'Egitto, il tribunale ha emesso 16 condanne a morte, fra questa anche una donna, ma per Morsi ed altri imputati si pronuncerà il 2 giugno. In un precedente processo, tre settimane fa, Morsi era già stato condannato a 20 anni di carcere per la repressione di manifestanti fuori dal palazzo presidenziale del Cairo nel dicembre 2012, durante la sua presidenza. Avvocato: condanna a morte sentenza attesa Era una "sentenza attesa" la condanna a morte emessa oggi dal Tribunale penale del Cairo nei confronti del deposto presidente egiziano Mohammed Morsi, in carcere dalla sua destituzione il 3 luglio del 2013. Lo riferisce ad Aki - Adnkronos International il portavoce del Fronte egiziano della coscienza, movimento vicino ai Fratelli musulmani, Amro Abdelhadi. "Questa era una sentenza che ci aspettavamo dopo l'uccisione in carcere di Ismayl", ha detto l'avvocato Abdelhadi. Il riferimento è alla morte avvenuta mercoledì in cella di un alto dirigente dei Fratelli musulmani, Farid Ismayl, ufficialmente colto da un malore mentre era detenuto nel carcere egiziano di al Zaqaziq. Secondo l'emittente televisiva al Jazeera, il politico egiziano era entrato in coma nei giorni scorsi a causa dei maltrattamenti subiti in carcere e che hanno peggiorato il suo stato di salute. "Questa sentenza contro Morsi - ha proseguito Abdelhadi - dimostra che la magistratura considera Hamas come un nemico. È come se questa sentenza fosse stata emessa da una magistratura israeliana". Il riferimento a Hamas segue il fatto che, insieme a Morsi, il 28 gennaio 2011 evasero altri 30 detenuti, mentre oltre 20mila fuggirono da altri carceri dell'Egitto, tra cui membri del movimento libanese di Hezbollah e militanti palestinesi di Hamas. Per il momento, secondo Abdelhadi "non ci aspettiamo una reazione forte" da parte dei sostenitori di Morsi, che ci sarà invece nel caso in cui "la condanna a morte venisse eseguita". Egitto: Shahira Amin "la condanna a morte di Morsi alimenta solo violenza e odio" di Pietro Vernizzi ilsussidiario.net, 17 maggio 2015 L'ex presidente egiziano Mohamed Morsi è stato condannato a morte ieri dal tribunale del Cairo. L'accusa principale è quella di avere favorito un'evasione di massa dal carcere nel 2011, ai tempi della rivoluzione contro Mubarak. La condanna dovrà essere confermata dal Gran Muftì, che in Egitto rappresenta l'interprete ufficiale della legge islamica. La sentenza definitiva è prevista per il 2 giugno. "È una sentenza scioccante e politicamente motivata", afferma Shahira Amin, una delle giornalista televisive più note in Egitto, nonché una delle poche ad avere intervistato personalmente il leader dei Fratelli musulmani durante la sua presidenza nel dicembre 2012. "Morsi era un incompetente e un politico incapace, ma non un terrorista né un assassino, e nessuna delle accuse che gli sono state rivolte sono state dimostrate fondate". Per Amin, "i fatti più recenti in Medio Oriente nascono dal fatto che le monarchie del Golfo temono di essere travolte da una rivoluzione. Proprio per questo non possono accettare un Egitto democratico, perché sarebbe la prima pedina del domino che le farebbero cadere, e nello stesso tempo strumentalizzano l'Isis per creare il terrore e fermare sul nascere ogni dissenso". Che cosa ne pensa della condanna a morte di Morsi? L'obiettivo di questa sentenza è dare il colpo finale ai Fratelli musulmani ed estrometterli dalla vita politica. Tra le motivazioni della condanna a morte c'è l'accusa di avere favorito l'evasione di alcuni prigionieri nel 2011, in una fase in cui lo stesso Morsi si trovava in carcere. Non riesco a comprendere come possa essere responsabile per questo reato quando non poteva in alcun modo aiutare i detenuti a fuggire. Chi c'era dietro quell'evasione di massa dal carcere? All'epoca c'erano le proteste per le strade. Subito dopo la rivoluzione abbiamo visto alla tv egiziana degli ufficiali di polizia che hanno affermato di avere ricevuto dal ministro dell'Interno (all'epoca legato a Mubarak, ndr) l'ordine di aprire le celle e lasciare uscire i criminali. La gente però ha la memoria corta. Ora che cosa accadrà? La condanna a morte di Morsi non è definitiva in quanto l'ultima parola spetterà al Gran Muftì. Il vero obiettivo è vedere quale sarà la reazione degli egiziani. Questa sentenza pacifica l'Egitto o lo rende ancora più lacerato? L'Egitto ne esce polarizzato. Questa sentenza alimenta l'odio e la violenza. Nessuno ne esce vincitore, nessuno ne beneficerà. Qual è stata la reazione degli egiziani dopo l'annuncio della condanna? I sostenitori di Al-Sisi se ne rallegrano, in quanto i media raccontano loro che i Fratelli musulmani sono terroristi e pensano quindi che Morsi abbia ricevuto ciò che si merita. I sostenitori dei Fratelli musulmani sono invece totalmente sotto shock e da parte loro c'è molta rabbia. La gente comune invece è troppo presa dai problemi di una vita quotidiana sempre più difficile per occuparsi di politica. Al Cairo però non ci sono manifestazioni, la reazione di chi non condivide questa sentenza è visibile soltanto sui social media. Basta leggere Facebook del resto per vedere quanto è polarizzata l'opinione pubblica. Lei ha intervistato personalmente Morsi nel 2012. Che ricordo ha di quell'incontro? La mia impressione fu che l'uomo che avevo di fronte non era né un terrorista né un assassino né un brutale dittatore. Quando gli chiesi che cosa ne pensasse del fatto che io mi ritengo una donna liberale, e se avrebbe voluto costringermi a indossare il velo, lui mi rispose che era una mia libera scelta. Come si spiega che Morsi da presidente sia stato così contestato? Diversi egiziani erano molto preoccupati per l'ascesa al potere di Morsi, perché erano convinti che i Fratelli musulmani avrebbero adottato un approccio graduale per islamizzare il Paese. Durante la presidenza di Morsi però non è stata adottata alcuna decisione che io abbia percepito come pericolosa per la mia identità di donna laica e liberale. Tutte le accuse contro Morsi sono infondate? L'unica accusa che si può fare a Morsi è quella di essere stato un politico incompetente e incapace di gestire un Paese complesso come l'Egitto. I Fratelli musulmani sono rimasti a lungo in clandestinità ed erano privi di esperienza, e d'altra parte magistratura, polizia e media erano tutti contro Morsi. L'immagine di Al-Sisi in Italia è quella di un presidente laico e contrario a ogni estremismo religioso. È realmente così? Al-Sisi ama mostrarsi come un riformatore del pensiero islamico e vuole far credere che Isis e Fratelli musulmani possano essere messi sullo stesso piano. Ritengo però che i due gruppi non possano essere equiparati, in quanto i Fratelli musulmani sono un gruppo moderato che ha rinunciato alla violenza fin dagli anni 70 del secolo scorso. Durante la presidenza Morsi inoltre non hanno mostrato alcun segno di radicalismo. Al-Sisi però è uno dei leader più attivi nel combattere l'Isis… Il problema è che i leader arabi, e non mi riferisco ad Al-Sisi in particolare, stanno sfruttando l'Isis per creare il panico in Occidente. Ma soprattutto si vuole arrestare la spinta verso la democrazia. Le monarchie del Golfo sono terrorizzate dall'idea di una rivoluzione, e sono convinte che se in Egitto si affermasse la democrazia ciò provocherebbe di riflesso una caduta dei loro stessi regimi. Stanno quindi facendo di tutto per fermare l'onda della democratizzazione, e usano l'Isis come uno spettro per creare paura.