"Insieme nel nome del Cardinale Martini", gli incontri segreti tra ex terroristi e vittime di Piero Colaprico La Repubblica, 16 maggio 2015 Era già molto malato, il cardinale Carlo Maria Martini, ma appoggiandosi al bastone arrivò nella sala dove l'aspettavano in tanti. Come ogni anno, aveva in faccia quella sua espressione che si può riassumere nel semplice "Come posso rendermi utile?". E scattarono una foto, destinata a restare segreta. C'è il cardinale in camicia e maglione azzurro, lo si vede al centro dell'immagine. Ma intorno a lui, a Viboldone, vicino Gallarate, dove Martini morirà nel 2012, sono riconoscibili alcune persone che in quest'Italia di divisioni e fazioni, di rancori e vendette, non ti aspetteresti mai di vedere insieme negli stessi pochi metri quadrati. Il primo a sinistra, con la mano sul fianco, è Franco Bonisoli, ex brigatista rosso, direzione strategica, uno che nel 1978 partecipò alla strage di via Fani, in cui venne uccisa la scorta di Aldo Moro, e il presidente della Dc rapito. Vicino a Bonisoli, con la sciarpa bianca, c'è però Antonio Iosa, 82 anni, che dei brigatisti fu vittima: venne gambizzato, insieme ad altri tre, il martedì santo del 1980, e trentaquattro operazioni non gli tolgono ancora i dolori, quando cammina. Dietro i due, spunta Mario Ferrandi. È forse il principale protagonista di una giornata simbolo, il 14 maggio 1977, in cui venne scattata la foto del giovane mascherato che in via De Amicis a Milano spara ad altezza d'uomo. Morì l'agente Antonio Custra, e a sparargli, dopo aver dato l'ordine d'attacco "Romana fuori", fu proprio Ferrandi. A destra nella fotografia con il cardinale malato, ma ben felice di essere là, perché anche quella era la sua vita, sono riconoscibili altri due uomini. Uno, più anziano, è un volto noto per ogni giornalista che abbia avuto a che fare con la stagione delle stragi e delle morti per terrorismo: Manlio Milani, sopravvissuto all'attentato fascista di piazza della Loggia a Brescia, 1974, in cui morì, tra gli altri, sua moglie Livia. Ultimo, invece, uno che non amava troppo mostrarsi in pubblico, Giorgio Semeria, ex capo brigatista, considerato il successore di Renato Curcio. Primo arresto nel 1972, passaggio alla clandestinità, omicidi, rivolte nelle carceri. Semeria è morto da poco, per un brutto tumore sbocciato nella stessa zona del corpo dove un detective gli sparò: "Mi hai sparato mentre ero ammanettato", gli gridò al processo. Chissà, ma Semeria era molto cambiato, faceva catechesi, e chi l'ha visto morire dice che "se n'è andato sereno". Tutte queste persone, e altre ancora, uomini e donne, rossi e neri, credenti e atei, a Roma come a Milano e in giro per l'Italia, sono sei, sette anni che s'incontrano di nascosto. L'hanno fatto sotto "l'ombrello" di Martini, già entrato nella storia moderna come "cardinale del dialogo". Dialogo con i non-credenti, con l'ebraismo, con l'Islam, con i corrotti di Tangentopoli, ma anche con i terroristi. E protagonista di un episodio che molti ex, come Sergio Segio, considerano fondamentale: quando la formazione combattente Prima Linea decise che "era finita", dove consegnò l'arsenale? In Arcivescovado, a Milano, a un sacerdote fedelissimo del cardinale, nella tarda primavera del 1984. C'è chi chiama questi dialoghi tra vittime e autori di reato "giustizia riparativa". Chi parla di "mediazione". Chi evoca il Sudafrica, dove il presidente e premio Nobel Nelson Mandela chiese e ottenne l'amnistia in cambio delle testimonianze veritiere di chi, bianchi o neri, avevano partecipato a stragi e delitti, e alle lotte per la democrazia. Nel trascorrere degli anni, nel va e vieni dei processi, nel mondo della carta sostituito da Internet, a Milano c'è stato un criminologo dell'università Bicocca, Adolfo Ceretti, che d'accordo con i gesuiti milanesi (Martini era gesuita, come papa Francesco) ha provato a organizzare una lunga serie di appuntamenti per aiutare a discutere chi aveva sparato e chi aveva subito il lutto, chi non s'era mai perdonato e chi non avrebbe mai voluto perdonare. Ognuno dei partecipanti s'è vincolato al silenzio con l'esterno, al rispetto reciproco di quanto accaduto, e in qualche modo "verbalizzato", dietro le quinte. Anche perché, basta fermarsi a riflettere, non è facile affrontare la tempesta di sentimenti che può scatenare un dialogo naturale - come questo, già successo - tra due persone: "Allora sei tu hai ucciso mio padre?". "Sì, ti dico com'è andata", ha risposto Mario Ferrandi ad Antonia Custra, figlia del poliziotto che uccise in via De Amicis. E insieme (era il 2007) sono andati sotto la lapide del padre, che lei non ha mai conosciuto. Va detto che questa foto con Martini, con le vittime e con gli ex terroristi, questa immagine che mostra un piccolo mondo in larga parte dimenticato, compare negli atti dell'ordinanza con cui lo stesso Ferrandi ottiene dal tribunale di sorveglianza, presieduto dal giudice Guido Brambilla, di potersi riprendere il diritto di votare. Diritto che gli viene concesso, perché "ha dato prove effettive e costanti di buona condotta". Anche altri hanno lasciato qualche traccia del loro "incontro", come Franco Bonisoli e Agnese Moro, figlia dello statista ammazzato. Si sono visti più volte - e gli ex terroristi sono anche andati alla tomba di famiglia di Moro, dove in passato è stato sconsigliato ad alcuni democristiani eccellenti d'accostarsi - e poi hanno parlato in pubblico di quello che hanno visto, fatto, provato. La prima volta in una scuola di Verona, nel marzo 2011, con gli studenti. Poi a Genova, a un festival organizzato dal Comune. Poi a Oristano, dove l'arcivescovo Ignazio Sanna ha detto che "il perdono, soprattutto l'accettazione del perdono stesso, li ha fatti diventare amici". Amici: anche Martini usava questa parola, tanto con le vittime, quanto con gli assassini. E guardando la foto, se uno non sa nulla, a questo forse pensa: saranno amici del cardinale, che di gente che gli voleva bene ne aveva tanta, e dovunque. Giustizia: riforma della prescrizione, ecco perché il piano del governo va ribaltato di Vincenzo Vitale Il Garantista, 16 maggio 2015 Avete mai sentito parlare di volontà di potenza? Era quella di cui si sentiva parlare a scuola quando il professore di filosofia spiegava il pensiero di Nietzsche, che oggi sembra tornato prepotentemente alla ribalta. L'uomo che infatti fosse dotato di questa volontà indomita capace di dominare su tutti gli altri uomini era destinato a governare il mondo, trasformandolo secondo il proprio modo di vedere e di sentire le cose: egli non poteva e non doveva trovare ostacoli alla realizzazione dei propri scopi. Il legislatore italiano sembra aver seguito questo insegnamento, dotandosi di una immaginaria volontà di potenza in forza della quale si ritiene arbitro del bene e del male, depositario del potere di stabilire - esso soltanto - cosa sia giusto e cosa ingiusto. Questo modo di ragionare, anzi di non ragionare, conduce di filato a negare ogni attenzione per il mondo, per la realtà delle cose, per lo spessore ontologico dei fatti e delle relazioni umane, perché ogni cosa viene naturalmente sovrastata dalla potenza di quella volontà. Ne è oggi probante esempio il modo in cui il Parlamento sta trattando, per riformarla, la disciplina della prescrizione. È un modo espressivo proprio di quella volontà di potenza di cui si parlava prima, ma che anche fornisce un aspetto a suo modo comico, perché fa della prescrizione dei reati una sorta di vittima di un letto di Procuste, ove essa viene allungata o accorciata a seconda del clima storico, dell'opportunità, della cangiante opinione di chi di volta in volta detenga la maggioranza parlamentare. Insomma, il governo e maggioranza parlamentare che lo appoggia non hanno la minima idea di cosa in realtà sia la prescrizione dei reati, di come vada trattata, di cosa rappresenti nel quadro complessivo del sistema penale italiano. Non si sa per esempio che la prescrizione della cosiddetta pretesa punitiva dello Stato (ammesso che di pretesa possa davvero parlarsi) non può che essere strettamente legata alla qualità del fatto contestato e non certo all'emozione sociale che esso sia capace di suscitare in un certo periodo anziché in un altro. Un omicidio rimane sempre un omicidio, anche se in un certo momento storico la statistica degli omicidi si innalzi e in un altro si abbassi drasticamente ed anche se l'opinione pubblica è portata, in forza di noti fenomeni della psicologia delle masse, a scandalizzarsene più o meno che in altri contesti. Egualmente si dica di tutti gli altri reati, piccoli o grandi, gravi e meno gravi. Eppure il legislatore, credendo di essere totipotente - cioè dotato di quella volontà di potenza di cui si diceva - in realtà si fa schiavo delle emozioni sociali, se ne fa dominare, le subisce passivamente. Da qui la legislazione a fisarmonica - sul tipo del letto di Procuste - pronta ad allungare o accorciare in modo artificioso e fantasmatico tutto ciò che è suscettibile di essere allungato o accorciato. Se il Parlamento e il governo pensassero con la propria testa, facendo molta attenzione alla realtà, invece di inseguire favole della volontà, capirebbero agevolmente che allungare a dismisura la prescrizione di alcuni reati - fino al doppio - avrà una conseguenza certa, certissima: allungare in modo proporzionale la durata dei processi, dei quali non potrà certo temersi la fine per prescrizione del reato. Così, invece che sei o sette anni, un processo per corruzione potrà anche durare dodici o tredici anni, senza che si pongano problemi del genere: un bel risultato davvero e complimenti a chi fa le leggi. L'unica cosa seria che si dovrebbe rapidamente fare, allo scopo di contribuire alla riforma dell'intero sistema penale sta invece in due misure semplici, ma determinanti: una massiccia depenalizzazione e una riduzione dei tempi di prescrizione dei reati. Come si vede, l'esatto opposto di ciò che l'attuale governo sta facendo. Garantisco - e non solo perché scrivo su questo giornale - che oltre un terzo dei reati come tali previsti dal codice penale o da leggi speciali sono vere sciocchezze che potrebbero benissimo essere sanzionate con una semplice misura di tipo amministrativo: si pensi a molti reati ambientali, a molti illeciti edilizi, ad alcuni reati di tipo lavoristico, a certi reati di falso praticamene inoffensivi etc. La società non ne sarebbe per nulla scalfita, ma Tribunali e Corti sarebbero molto alleggeriti da un tale - inutile -lavoro, potendo così dedicarsi ai reati veri, a quelli che meritano davvero di essere portati davanti a un giudice. Di conseguenza, la prescrizione dei rati dovrebbe - e potrebbe - essere convenientemente abbreviata, in modo da garantire che in due o tre anni un processo possa essere celebrato. Son quasi sicuro che mai queste due semplici misure saranno adottate: proprio qui sta la pericolosa volontà di potenza di questo governo. Giustizia: libertà e autonomia dell'informazione? ma se in Tv ci sono solo Renzi e Salvini! di Valter Vecellio Il Garantista, 16 maggio 2015 Periodicamente vengono rese note delle classifiche nelle quali l'Italia, figura ai posti più bassi per quel che riguarda libertà e autonomia dell'informazione, e della conoscenza che viene fornita ai cittadini. Non c'è dubbio che sia così, anche se questa "fotografia" si ricava soprattutto dal numero di denunce, di querele intimidatorie, di processi, di provvedimenti legislativi punitivi che vengono posti in essere. È un criterio; ma non il solo; e forse neppure quello che meglio "fotografa" la situazione. L'8 ottobre 2013 Giorgio Napolitano, all'epoca presidente effettivo della Repubblica, avvalendosi delle prerogative previste dalla Costituzione, invia un formale messaggio alle Camere. È il primo e sarà anche l'unico; riguarda la questione della giustizia e delle carceri. È un messaggio articolato, "pesante", senz'altro frutto di meditate e riflessioni, di un percorso di consapevolezza sofferto e riconosciuto, che vince legittime e comprensibili perplessità, e (forse) giustificabili esitazioni; un messaggio che pochi, a giudicare dalle reazioni con cui è stato accolto, conoscono (hanno voluto conoscere) nella sua integrità e colgono nella sua importanza. Il Presidente, ricorda nel modo più solenne che gli viene consentito, che l'Italia è condannata più volte dalle giurisdizioni nazionali ed europee per violazione dei diritti dell'uomo; ed "è fatto obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino". "Fatto obbligo". Due parole che non possono essere più "pesanti" e definitive nella loro secca chiarezza. Di questo autorevole messaggio, nella forma e nella sostanza non si è parlato, discusso, non c'è stato dibattito. Non lo hanno fatto le istituzioni, Camera e Senato, non lo hanno fatto le forze politiche. Non lo ha fatto nessuno dei tanti che pure discutono e riflettono di tutto e su tutto, nei giornali e nelle televisioni. Ancora: "È doloroso che su principi di tale natura debbia verificarsi uno scontro drammatico piuttosto che una generale unità. Per questo ci appelliamo pubblicamente al presidente della Repubblica, ai presidenti delle Camere, al Parlamento perché sia subito scongiurato il grave rischio esistente di irresponsabili sottovalutazioni o elusioni di fronte al problema che i radicali propongono". Era il 1976, quell'appello si apriva con le firme di Ferruccio Parri, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Umberto Terracini, Alberto Moravia, Ignazio Silone, Elena Croce, Leonardo Sciascia, Arrigo Benedetti, Riccardo Lombardi, Loris Fortuna, Vittorio Gorresio, Dacia Maraini, Franco Fortini, Jean Paul Sartre, Simone De Beauvoir, decine e decine di altri. E Pier Paolo Pasolini, dalle colonne del "Corriere della Sera", scrive un articolo intitolato: "Apriamo un dibattito sul caso Pannella", là dove il "caso" era appunto la censura di cui si parla nell'appello appena letto. Quel dibattito si apre, su tutti i giornali, per molte settimane, e ancora oggi andrebbe letto per la qualità degli intervenuti e degli interventi. Oggi non è diverso da ieri; anzi, la cortina del silenzio e della censura è più spessa, impenetrabile. A differenza di allora, c'è da registrare il silenzio di molti che potrebbero levare la loro voce, e ancora non lo fanno. In questi mesi Marco Pannella e alcuni radicali sono impegnati nella realizzazione di quella che convenzionalmente chiamiamo "Bruxelles due", un'assise che è la prosecuzione di una precedente assise, che al suo centro ha una iniziativa ancora in corso, quella per incardinare il diritto umano alla conoscenza; c'è una novità, e un'evoluzione: l'adesione di autorevoli esponenti del mondo arabo, disposti a lavorare per una transizione, che sarà lunga, non sarà facile, ma è comunque un inizio, per approdare anche in quei paesi a regimi democratici. Un processo che dovrebbe essere aiutato, sostenuto, non fosse altro per falciare l'erba sotto i piedi di fondamentalisti e terroristi. E un modo per aiutare questo processo, per sostenerlo, è quello di parlarne, rifletterci sopra. Sembra che la cosa non interessi nessuno. E ora: qualcuno sa dire chi sia il segretario dell'Ugl? Probabilmente uno o due su dieci. E neppure prima, dieci anni fa, si sapeva. Poi un giorno è venuto Giovanni Floris con il suo "Ballarò", e ci siamo accorti che esiste anche Renata Polverini. Onore al merito, una scoperta di Floris; gli altri si accodano, e Polverini diventa una star dei salotti televisivi: ascoltata, apprezzata, considerata. Sicuramente lo merita, ma per anni è nessuno, qualunque cosa dicesse o facesse; improvvisamente diventa "oro" tutto quello che tocca; e ancora ci vive. La Polverini di oggi si chiama Matteo Salvini; con le sue felpe e il suo linguaggio da trivio o il suo apparente "buon senso", a seconda delle occasioni, è il prezzemolo presente in ogni trasmissione televisiva; come l'altro Matteo, impazza e deborda da ogni canale, ovunque e su qualunque questione. Presenze martellanti, ossessive. Si raggiungerà prima o poi quella soglia che determina un inevitabile rigetto. Intanto la situazione è questa: slogan, "comunicazioni", promesse. È con martellanti presenze che si creano personaggi che finiscono con l'essere uno stampella dell'altro, uno la migliore polizza assicurativa dell'altro; e per chi non fa parte del "club", al massimo qualche briciola di pan duro. In sostanza, diritto negato. Diritto negato a conoscere. Diritto negato a essere conosciuti. Quando si dice che spazi di democrazia sono praticamente inesistenti, e i margini di agibilità sono sempre più ridotti, si parla di cose concrete, è quella che possiamo definire una teoria di fatti. Un po' tutti citano, di questi tempi, papa Bergoglio. Lo voglio fare anch'io: qualche tempo fa ha osservato che stranamente non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere che cosa succede. Ci ricorda inoltre che nell'antico Israele, ogni sette anni sabatici, nel Giubileo era prescritta la liberazione dei prigionieri, la cancellazione dei debiti e la restituzione delle terre agli antichi proprietari. Se ce lo ha voluto ricordare, una buona ragione ci sarà. Anche su questo nessuno che rifletta ragioni, esprima consenso o dissenso che sia. Giustizia: per le "Vittime della Giustizia e del Fisco" c'è l'esigenza di una doppia amnistia di Arturo Diaconale L'Opinione, 16 maggio 2015 "Vittime della Giustizia e del Fisco" si presenta alle elezioni regionali campane con uno spot duro, violento, provocatorio. Che ricorda, citando alcuni casi particolari, le tante, troppe persone che non hanno avuto la forza di reggere il peso di un sistema giudiziario ingiusto e di una pressione fiscale iniqua ed insopportabile. Quei momenti di debolezza e di abbandono ad una sorte considerata ineludibile possono capitare a tutti. Ma è proprio per questo motivo che è necessario reagire alle persecuzioni di uno stato burocratico e clientelare che si preoccupa solo della sopravvivenza delle proprie strutture elefantiache. E dare uno sbocco politico al malessere che monta sempre più prepotentemente nella società nazionale, evitando che la protesta sfoci in un ribellismo inutile e controproducente. "Vittime della Giustizia e del Fisco" si propone questo obiettivo. E lo persegue non solo con la provocazione di uno spot televisivo carico di drammaticità, ma anche con una serie di iniziative concrete tese ad andare incontro alle esigenze più immediate della stragrande massa dei cittadini vessata da una crisi economica sempre più pesante ed incontenibile che accentua al massimo le deviazioni del sistema fiscale e giudiziario. Le iniziative, che hanno preso corpo con le proposte di legge presentate in Parlamento dal senatore Giovanni Mauro, riguardano la richiesta di una doppia amnistia giudiziaria e fiscale destinata ad alleggerire la pressione a cui sono sottoposte le fasce meno protette della società italiana ed a creare le condizioni indispensabili per le due grandi riforme, quella giudiziaria e quella fiscale, da cui dipende la ripresa ed il futuro del Paese. Le caratteristiche di questa doppia amnistia sono semplici. Quella giudiziaria deve scattare per i reati che comportano pene inferiori ai tre anni. E, quindi, deve escludere i reati maggiori e di più accentuata pericolosità sociale, ma deve riguardare tutte quelle fattispecie minori che un eccesso di legislazione ispirata ad un ottuso giustizialismo ha moltiplicato oltre ogni misura colpendo non l'illegalità consapevole, ma la devianza inconsapevole di ampie fette di normali cittadini. Gli effetti di una amnistia giudiziaria di questo tipo non sono lo "svuota carceri" ed il "tana libera tutti", ma la riduzione drastica della doppia pressione che grava sui Tribunali e sulle strutture e gli uomini dell'intero sistema giudiziario e sull'intera società italiana. Con questa misura non si aiutano criminali e corruttori, ma si creano le condizioni indispensabili, anche in termini di riduzione di costi, per dare vita ad una riforma reale e profonda della giustizia. L'amnistia fiscale, che deve azzerare tutti i debiti che i cittadini hanno contratto a vario titolo nei confronti dello Stato sotto i cinquantamila euro, ha finalità simili ma un'esigenza ancora più impellente e drammatica. Quella di liberare i cittadini più deboli, meno protetti, più esposti, dagli effetti perversi di una pressione fiscale incontrollata e che rende la loro esistenza sempre più difficile e precaria. Ogni anno più di cinquecentomila italiani si trovano costretti a rateizzare i propri debiti fiscali che dipendono essenzialmente da tasse locali eccessive, multe dalle sanzioni esasperate, da forme di usura inaccettabili ma rese legali dallo stato predatore. Più le rateizzazioni si moltiplicano a causa non della volontà di eludere ma di una ripresa economica che non parte, più le rate non possono venire rispettate e più scattano misure odiose come i pignoramenti, i fallimenti e le vendite giudiziarie. Porre un freno a questa deriva che produce non solo disperazione ma anche rabbia e voglia di ribellione è ormai urgentissimo. Serve abbassare la tensione. E solo dopo si potrà dare vita ad una riforma fiscale incentrata su un solo ed inderogabile principio, quello che stabilisce "un terzo allo Stato e due terzi al cittadino", principio senza il quale l'individuo torna ad essere un suddito di epoca medioevale e la democrazia liberale uno stato assoluto. Giustizia: Sappe; norma su reato tortura troppo generica, bloccherebbe lavoro nelle carceri Ansa, 16 maggio 2015 "L'ipotesi di introduzione del reato di tortura ci sta preoccupando tantissimo. Così come è formulata la norma ci crea grossi problemi: il fatto che i trattamenti inumani e degradanti diventino fattispecie autonoma di qualificazione del reato blocca il lavoro all'interno delle carceri, perché basterebbe l'applicazione di una sanzione disciplinare oppure un provvedimento a tutela del detenuto (quando per esempio tenta il suicidio) per diventare un problema dal quale scaturisce un'ipotesi di reato". Lo ha detto Giovanni Battista Durante, della segreteria del Sappe, durante la visita alla casa circondariale di Bologna. Il rappresentate del sindacato di polizia penitenziaria chiede "che questa ipotesi di reato venga modificata, e che quantomeno ci lasci le condizioni minime per poter lavorare nel carcere. Noi rispetto alle altre forze di polizia abbiamo un problema maggiore, perché custodiamo quotidianamente detenuti. Mentre gli altri colleghi si limitano all'arresto, noi dobbiamo gestire tutti i giorni le carceri, dove ancora (nonostante il sovraffollamento si sia ridotto moltissimo) ci sono ancora condizioni difficili". Durante si è detto convinto che l'introduzione del nuovo reato di tortura dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell' uomo sia ineludibile, anche se ha ribadito che non sarebbe necessario visto che l'attuale codice contiene norme per sanzionare comportamenti delittuosi dei rappresentanti delle forze dell'ordine, "ma la nuova norma va formulata in maniera diversa, non in modo così generico, che lascia tutto alla interpretazione del magistrato". Giustizia: responsabilità civile dei magistrati; da Verona il primo ricorso alla Consulta di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 maggio 2015 In vigore da appena 2 mesi, la legge che amplia la responsabilità civile dei magistrati finisce già alla Consulta. Perché non solo nei mega processi, ma persino in un decreto ingiuntivo da 149.000 euro tra due aziende agricole, la sua incostituzionalità (prospettata dal Tribunale civile di Verona) rischia di "consentire di censurare qualsiasi valutazione del giudice che risulti non gradita o sfavorevole". Il giudice Massimo Vaccari parte dalla sentenza della Consulta del 1989, che, nel dare l'ok all'allora legge Vassalli perché "tassativi" erano i casi di colpa grave che in essa fondavano la responsabilità civile, precisò che comunque "debbono ritenersi influenti sul giudizio" le norme che attengono alla "protezione" dell'esercizio della funzione del giudice nella quale i doveri si accompagnano ai diritti", e che perciò sono "destinate ad influire su ogni processo pendente" davanti a lui. A questo punto Vaccari si collega alla nuova legge, che ai casi di colpa grave aggiunge il "travisamento del fatto o delle prove": nozione per lui viziata da "equivocità e indefinibilità" (mantenute dal legislatore nonostante la segnalazione "dei senatori Palma e Colletti)", e foriere di "ampia possibilità di condizionare l'esercizio della funzione", e "di determinare di riflesso l'indefinito ampliamento della possibilità di un sindacato disciplinare sui provvedimenti". La nuova legge, inoltre, abolisce il filtro di inammissibilità delle infondate azioni civili contro i magistrati, ma non del dovere del Pg della Cassazione di esercitare ogni volta l'azione disciplinare: e poiché "non può essere considerata una svista del legislatore", il risultato è che la legge "attribuisce ad una parte la possibilità di influire indebitamente sul corso del giudizio o sulla serenità del giudice, senza preventiva verifica dei suoi assunti". Giustizia: "via il segreto sul voto dei giudici"… una proposta da valutare con attenzione di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 maggio 2015 È dell'altro giorno la notizia che due giudici popolari in un grave processo di Corte di Assise finito con il proscioglimento degli imputati, hanno rivelato di essere stati indebitamente influenzati dai due magistrati che con i sei giudici popolari componevano il collegio giudicante, evocando il rischio di enormi danni civili da pagare agli imputati in caso di condanna. Vero, falso o esagerato che sia, si tratta di violazione del segreto imposto dalla legge. E tuttavia sarebbe bene conoscere la verità. Della recente sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni si sa chi e come ha votato ed anche che è stato decisivo il voto del presidente. Che così sia andata è probabile, ma non si può sapere se sia vera la posizione attribuita ai singoli giudici. Casi diversissimi. Protagonisti, contesti, ragioni incomparabili. Ma un filo li unisce. Il segreto delle camere di consiglio non tiene più. Il dialogo con l'opinione pubblica nell'attuale società ha assunto un'importanza che prevale sulle norme e sul costume su cui il segreto si fonda(va). Il diritto all'informazione - che con il corrispondente diritto di espressione costituisce uno dei pilastri della democrazia - preme contro i portoni chiusi dei palazzi del potere: del potere giudiziario come di quello politico, dei poteri pubblici, come di quelli economici privati. E quindi il segreto è regolarmente forzato, violato, aggirato. Naturalmente l'amministrazione della giustizia, nei suoi vari livelli e forme, non si sottrae a questo movimento, a questa realtà. E allora occorre chiedersi perché e fin dove debba essere mantenuta la segretezza e quando invece sia meglio aprire il comportamento dei giudici alla conoscenza diretta della pubblica opinione, sostituendo trasparenza e corretta informazione alle fughe interessate e incontrollabili, agli spifferi, alle insinuazioni, alle false informazioni. La segretezza delle deliberazioni giudiziarie e la conseguente impersonalità delle decisioni sono solitamente giustificate con l'esigenza di garantire l'indipendenza dei giudici, la loro serenità nel giudicare, la loro protezione rispetto a possibili ritorsioni. Ragioni che possono valere in taluni casi, ma non nella normalità della funzione giudiziaria. Infatti la Costituzione, con le sue norme a garanzie della indipendenza dei giudici, non impone né la collegialità delle decisioni, né la segretezza delle deliberazioni e delle eventuali opinioni dissenzienti, come mezzi per assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della decisione. Anzi, in piena contraddizione di quelle ragioni del segreto, è espressamente prevista la figura di giudici monocratici, le cui decisioni non sono impersonali e la cui competenza è sempre più allargata dal legislatore, a scapito di quella collegiale. In ogni caso le ragioni di protezione del giudice attraverso il segreto garantito all'opinione che esprime nel collegio giudicante valgono quando si tratta di valutare le prove, ricostruire il fatto, superare, in penale, la presunzione di innocenza. Ma perché dovrebbero valere quando si tratta di interpretare il diritto? Non a caso nei sistemi in cui opera la giuria popolare, questa si esprime in segreto solo sul fatto e, senza fornire motivazioni, risponde sì o no alla domanda del giudice sulla responsabilità dell'imputato. Il diritto invece è dichiarato dal giudice, che spiega e argomenta personalmente in pubblico. Qui viene in luce la ragione profonda dell'impersonalità della decisione, assicurata dalla collegialità e dal segreto. Il cuore della scelta di imporre il segreto risiede nell'impersonalità che si vuole assegnare alla decisione giudiziaria, non viceversa. E l'impersonalità è il riflesso necessario della concezione illuministica di una legge che è chiara, che non richiede interpretazione, che non ammette opinioni divergenti. Un'idea che assegna alle Corti supreme il compito di enunciare l'interpretazione "esatta" della legge. Esatta l'una, tutte le altre sono errate. Ecco allora che la persona del singolo giudice giurista non conta più e anzi deve essere cancellata. Non potendosi cancellare il suo nome e cognome, lo si nasconde dentro il collegio giudicante, che decide in segreto. La vera ragione dell'impersonalità delle decisioni giudiziarie, cui sono funzionali la collegialità e il segreto, è ideologica. Si continua a credere - o piuttosto a far credere - che è la legge che parla, non le persone dei giudici. I giudici tuttavia non sono inanimate bocche della legge, ma teste pensanti. Teste che non solo pensano, ma anche argomentano, sostengono tesi, rispondono a obiezioni, mutano opinione se vengono convinti e sempre, comunque giustificano con una motivazione la posizione che assumono. Fino a quando si manterrà il sistema per cui il diritto viene enunciato da corti impersonali, l'opinione pubblica non avvertita continuerà a credere che il diritto sia uno solo, ad essere sconcertata dal susseguirsi di sentenze diverse nei diversi gradi di giudizio e a chiedersi quale sia sbagliata. Si farebbe un passo avanti verso la verità e la possibilità di correggere i difetti del sistema, se ai cittadini si facesse vedere quanto l'interpretazione e applicazione del diritto risenta della personalità dei singoli giudici, del loro orientamento non solo tecnico-giuridico, ma anche di quello sociale e culturale. Naturalmente questo mette in questione le qualità che il giudice deve possedere. In quest'ordine di idee è benvenuto il diario di nove anni alla Corte Costituzionale, che il giudice Sabino Cassese ha ora pubblicato al termine del suo mandato. Talora abilmente sgusciando tra le maglie delle regole del segreto, egli ci rende noto il pensiero su molte questioni, che presumibilmente ha fatto valere nella corso della deliberazione della Corte. E ci informa sulle altre opinioni che circolavano alla Corte, risultando alla fine maggioritarie oppure soccombenti. Una sorta di opinione separata - e prevalentemente dissidente - che Cassese rende pubblica in mancanza e in attesa che la Corte finalmente ammetta ciò che altrove è pratica naturale, come alla Corte europea dei diritti umani o, in altra forma, nel processo anglosassone. Mentre la Corte Costituzionale nemmeno verbalizza le discussioni in camera di consiglio e così seppellisce per sempre gli argomenti che la minoranza ha sviluppato o li condanna ad avvilente gossip. Cassese, sfidando il segreto, ci invita a fare un passo avanti sul terreno della consapevolezza di ciò che è il diritto, della sua opinabilità, della forza che gli deriva dalla persuasività degli argomenti che lo sorreggono, messi a confronto con quelli che li contrastano ed esposti alla discussione pubblica. Giustizia: il Csm è critico sul ddl anticorruzione "illogico, intempestivo, sconcertante" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2015 Riporta indietro le lancette del tempo, ad altre stagioni di conflitto tra politica e magistratura, la reazione della maggioranza di governo al parere del Csm (ancora da votare da parte del plenum) che affronta sì il disegno di legge di riforma del processo penale, ma non risparmia pesanti critiche sui temi oggetto di provvedimenti ormai vicini al varo definitivo. Dalla corruzione, sulla quale l'intervento che verrà approvato definitivamente dalla Camera la prossima settimana è insufficiente, alla prescrizione, per la quale si sollecita il blocco dopo l'esercizio dell'azione penale o, almeno, la condanna di primo grado, alle intercettazioni delle quali non va vietata la pubblicazione per sintesi. Il testo è stato messo a punto dal Consigliere di Area Piergiorgio Morosini, già segretario di Magistratura democratica, ed è stato approvato all'unanimità in commissione per essere votato in plenum mercoledì prossimo, alla vigilia del via libera finale al disegno di legge anticorruzione. Ne prende però le distanze il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini per il quale il disegno di legge sui reati contro la pubblica amministrazione (che rivede anche il falso in bilancio) rappresenta "un indiscutibile passo avanti". Nel merito, il parere chiede di affrontare senza timidezze un'emergenza criminale come la corruzione, contro la quale un semplice aumento delle sanzioni non è sufficiente. Servono anche misure sulle pene accessorie, come l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e interventi premiali per chi collabora. Sotto tiro anche il falso in bilancio, per il quale le sanzioni previste per le società non quotate escludono ilo ricorso alle intercettazioni. Durissima la reazione dal fronte della maggioranza. David Ermini, responsabile Giustizia del Pd e relatore del disegno di legge anticorruzione, si dice "sorpreso, anzi sconcertato. Il giudizio proposto al vaglio del plenum dalla sesta sezione del Csm è incomprensibile e va in senso contrario a quello espresso da magistrati in prima linea, come Raffaele Cantone e Francesco Greco, e da associazioni autorevoli come Libera e Transparency International". E poi Ermini contrattacca: "Tutti lavoriamo perché questo Paese esca dalla palude, ognuno faccia la sua parte: ad esempio, dal Csm ci aspettiamo solerzia, a quasi un anno dall'approvazione della Legge Madia, nella deliberazione e pubblicazione dei bandi per la copertura degli incarichi direttivi che rimarranno scoperti il 31 dicembre 2015". Si aggiunge la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti che bolla il testo del parere come intempestivo, "visto che le misure anticorruzione diventeranno legge la prossima settimana" e illogico, "visto che accusa il Parlamento di disorganicità, proprio quando stiamo varando una legge organica e di sistema". Al ministero della Giustizia, nel silenzio di Andrea Orlando, si fa sentire la voce del viceministro Raffaele Costa (Ncd) che agita il bastone: "ogni giorno che passa si rafforza l'esigenza di riformare il Csm. Le invasioni di campo sono solo una sfumatura delle criticità che sono sotto gli occhi di tutti". Giustizia: su corruzione e prescrizione, le "timidezze" del Pd di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2015 Dal Csm schiaffo al governo: "nelle riforme della giustizia, interventi sporadici e insufficienti". E con gli alfaniani è trattativa al ribasso. È uno schiaffo al governo quello che arriva dalla Sesta commissione del Csm, competente per i pareri sulle leggi. Ha infatti approvato all'unanimità un documento sulle riforme della Giustizia, in particolare sulla corruzione, scritto dal presidente Piergiorgio Morosini (togato di Area) che critica quanto finora è stato fatto o solo promesso: "I singoli, sporadici e frammentari interventi realizzati, e in gran parte attualmente solo annunciati dal legislatore" per il contrasto alla corruzione "risulta - no per la loro disorganicità insufficienti". E ancora: la norma "si limita a proporre l'aumento della pena, misura che dal punto di vista della strategia complessiva di repressione del fenomeno pare largamente insufficiente e come tale inidonea a colmare le lacune e le incertezze interpretative che già scaturivano" dalla legge Severino. Proprio sul piano strettamente sanzionatorio, andrebbe "ripensato l'intero sistema delle pene accessorie, prevedendo come obbligatoria l'interdizione perpetua per ogni fattispecie corruttiva e introducendo una disposizione speciale che non consenta la sospensione quantomeno di questa peculiare ipotesi di pena accessoria". Manca anche un intervento sulla corruzione privata: c'è "un crescente ricorso a procedure di tipo privatistico... ciò rende ineludibile un pieno contrasto della corruzione in campo privato". Quanto alla prescrizione, il presidente Morosini scrive che al di là dei tempi più lunghi per il reato di corruzione ci vuole "una riforma organica, prevedendo il definitivo arresto del decorso del termine prescrizionale una volta che sia stata esercitata l'azione penale (dopo il rinvio a giudizio, ndr) o, almeno, sia stata pronunciata la sentenza di primo grado". Nel documento, che sarà votato dal plenum mercoledì prossimo, si chiede "una piena assunzione di responsabilità e il superamento di cautele e timidezze che troppo spesso hanno intralciato il cammino per contrastare efficacemente un fenomeno criminale di siffatta ampiezza, pervasività e ramificazione, e i conseguenti intollerabili costi sociali in termini di risorse e di effettività della funzione democratica dello Stato". Risentito il responsabile Giustizia del Pd, David Ermini: "Sono sorpreso, anzi sconcertato. Il giudizio è incomprensibile e va in senso contrario a quello espresso da magistrati in prima linea, come Raffaele Cantone e Francesco Greco, e da associazioni autorevoli come Libera e Transparency International che ne sollecitano una rapida approvazione". Il Pd vuole assolutamente portare a casa la legge sulla corruzione e sul falso in bilancio da spendersi in campagna elettorale per le Regionali senza alcuna modifica e in cambio sta trattando, al ribasso, con Area Popolare (Ncd più Udc) sulla prescrizione. "Prima votiamo venerdì la legge e poi ci si sposta al Senato per rivedere la prescrizione", dicono dal partito di Matteo Renzi. Ma intanto i democratici hanno già fatto un passo indietro perché al Senato i voti dei centristi al governo sono importanti, specialmente in vista della discussione sull'Italicum. Solo nel marzo scorso in commissione Giustizia della Camera si è votato un sistema di prescrizione per la corruzione che arrivava a 21 anni e 9 mesi, considerate le pause tecniche processuali. Ora, la proposta della presidente della Commissione giustizia Donatella Ferranti (Pd) non va più bene. Soprattutto Ncd ha puntato i piedi e quindi i vertici del Pd si sono detti disposti a ridurla. Al momento siamo fermi a 15 anni più 3 anni se c'è una condanna in primo grado e scatta il congelamento temporaneo della prescrizione. Ma non è detto che non si scenda ancora. Nella maggioranza ognuno va per conto suo. Ermini assicura che non si scende sotto i 18 e "l'impianto resta integro: ci saranno le sospensioni di due anni e un anno dopo le condanne in primo grado e in appello". Ma il senatore Nino D'Ascola di Ap insiste sull'accorciare i tempi: "Abbiamo trovato un accordo per l'istituzione di un tavolo che dovrà esaminare le modifiche per ridurre i termini di prescrizione". La presidente Ferranti, che sembra non aver digerito questo pre-accordo tra il suo partito e Ap, ha dichiarato che se quello del Senato non sarà un testo soddisfacente "in linea con le richieste dell'Europa, ci sarà sempre il tempo di sistemarlo alla Camera". Ieri, proprio su prescrizione e corruzione è intervenuto il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: "Così come sono ora i termini di prescrizione non vanno assolutamente bene. Per esempio la sospensione dopo la condanna di primo grado sarebbe già un grande vantaggio. Io preferirei un'altra soluzione, quella di bloccare la prescrizione nel momento in cui c'è il rinvio a giudizio. Oggi con i tempi di prescrizione che abbiamo c'è una falcidie di oltre il 30 per cento dei processi e sono anche processi per corruzione i cui reati vengono estinti come conseguenza della prescrizione". Quanto alla lotta alla corruzione, Roberti ha chiesto gli stessi strumenti previsti per la lotta alle mafie: "Tutti, nessuno escluso, compresi gli agenti sotto copertura". Giustizia: la mediazione civile taglia le cause del 12% di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2015 La conciliazione comincia a dare qualche segnale di efficacia. Il numero di cause iscritte nelle materie oggetto della procedura diminuisce nel 2014 di circa il 15% rispetto all'anno precedente, a fronte di un generale calo del contenzioso civile di nuovo ingresso del 3%: l'impatto stimato della mediazione obbligatoria si attesta, dunque, al 12 per cento. I dati ufficiali del ministero della Giustizia su un anno intero di applicazione della mediazione 2.0 sono stati presentati ieri a Milano nel corso di un convegno cui hanno partecipato tra gli altri il sottosegretario Cosimo Maria Ferri, il presidente della Corte d'appello di Milano Giovanni Canzio, l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, Remo Danovi, presidente dell'Ordine degli avvocati milanese e il presidente di Adr center Giuseppe De Palo. Il numero delle di iscrizioni di mediazioni con proiezione nazionale è, al 4° trimestre del 2014, di 56.949, il valore più alto mai raggiunto nei trimestri degli ultimi tre anni. Nel confronto tra il secondo trimestre e il quarto trimestre 2014, si assiste a un aumento pari al 36% delle iscrizioni di mediazioni. Di pari passo con l'aumento del numero di iscrizioni di mediazioni, il 2014 segna anche un aumento del tasso di successo registrando un 24% (raggiunge però il valore del 47% se si escludono le mediazioni in cui gli aderenti hanno partecipato solo al primo incontro), valore superiore sia al 42,4% del 2013, sia al 39,6% del 2012. Si assiste a un costante aumento del tasso di comparizione: nel quarto trimestre 2014 raggiunge il 43,4%; la percentuale di non comparizione al 56,7% mette in evidenza come non siano sufficienti gli incentivi del legislatore e le sanzioni del giudice. La maggior parte delle iscrizioni è relativa ai contratti bancari, un quarto abbondante (25,1%); a seguire i diritti reali con il 13 per cento. Nel dibattito sia Vietti sia Canzio si sono detti d'accordo sull'allargamento del perimetro delle materie oggetto della conciliazione obbligatorie, nel nome di un realismo che vede un contenzioso in crescita e soprattutto da risolvere in tempi più rapidi del passato. Per Vietti, nella giustizia civile, hanno ormai preso forma due diversi circuiti, quello della tradizionale giurisdizione e quello con una pluralità di soluzioni alternative, dove però il primo concorre con l'altro in maniera sleale. Per Ferri invece l'accenno va messo anche su un aumento degli incentivi che renda un po' più appetibili le Adr. Lettere: la galera serve a chi sta fuori di Ascanio Celestini Left, 16 maggio 2015 "Tutti parlano di reati. Reati commessi per davvero o inventati. Reati passati, ma anche futuri. Quelli che faranno appena escono. Se mettono i microfoni nelle celle ci danno l'ergastolo a tutti". Questo mi racconta un detenuto siciliano. "Quando m'hanno messo dentro ho detto al direttore: voglio stare in cella con un italiano! E quello m'ha fatto: sei di Palermo, ti metto con un catanese. Adesso sto tranquillo, mi faccio la mia pena". Il detenuto siciliano parla così, ma non lo so se è vero quello che dice. Veramente ha parlato col direttore del carcere e quello l'ha trattato come un confratello massone? Anzi sono sicuro che s'è vantato e basta. Mi ha detto solo scemenze che fanno il paio coi suoi muscoli pompati. "Qui siamo peggio delle femmine" mi dice un anziano che mi indicano come appartenente alla famosa banda della Magliana. Significa che ci tengono all'aspetto. Sbarbati, profumati, abiti puliti e possibilmente un po' di marca. Niente di costoso perché qui sono quasi tutti senza una lira, ma hanno una dignità che somiglia a quella di certi abitanti di borgata che girano in tuta da ginnastica, ma non quella scarsa del mercatino. Questa è gente che si stira le mutande con la moka scaldata sul fornelletto nell'angolo della cella accanto al cesso. Cos'altro dovrebbero fare durante il giorno se per loro lo stato spende quotidianamente poco più di 5 euro per il cosiddetto trattamentale? Sarebbe un pezzo di quel lavoro che dovrebbe riportarli nella società, ma in quella banconota verdina ci devi mettere i trasferimenti da e per i tribunali, gli impacchettamenti e gli spacchettamenti per portarti in altre galere. Appena entrano in carcere comincia il loro teatro. Si mettono un costume di scena e incominciano a recitare. I reati veri o finti sono parte della stessa recita. Il capello tagliato alla moda e la maglia colorata con la virgola della Nike, il tatuaggio impeccabile accanto a quello fatto in cella con l'inchiostro della penna. Nella commedia del carcere ognuno ha il suo personaggio. La società gliel'ha insegnato. Stanno lì dentro per recitare la parte dei cattivi. Serve a quelli che restano fuori che altrimenti non riuscirebbero a sentirsi buoni. L'articolo 27 è uno dei tanti che riempie le prime pagine della Costituzione con i suoi geroglifici non decodificabili. In Italia quelle prime pagine fanno ridere, figuriamoci in questo ghetto sbarrato. Chi sta in galera conosce un'altra legge. Gli chiedi ignorantemente "perché stai dentro?" e ti rispondono "per un errore. Un errore mio o del giudice" e ridono. Ma il carcere lo conoscono meglio di tutti. Meglio dei cittadini pagatori di tasse che vorrebbero vedere tutti dietro al blindato. Meglio dei politici che ogni tanto ci finiscono e nonostante quest'esperienza non imparano nulla e si sentono pure perseguitati (una volta i padri costituzionalisti si vantavano di aver conosciuto la prigione!). Meglio dei giudici che ce li mandano e pure delle guardie che li controllano pensando che la prigionia sia tutta gestita da loro. No, la galera è un fatto personale. Il detenuto se ne rende conto dopo poche ore. È fatta di droga se ti serve e c'hai i soldi, psicofarmaci a pioggia, un po' di sesso da solo o con qualcun altro se non ti fa troppo schifo. In cella cerchi di farti tutto, costruisci il frigo col ghiaccio della ghiacciaia comune e il tetrapack del latte. La grappa con la serpentina di penne Bic mezze squagliate, il vino con l'uva marcita. La cocaina e l'eroina arriva nei maglioni messi a mollo nell'acqua con la robba. Il parente te l'asciuga e tu te lo rimetti a mollo per fartela. Chiedo a uno che in carcere ci ha passato una vita "ma la maggior parte sì perde?" "No, per niente" risponde lui indicandomi la percentuale stimata di robba recuperata. Pure la frutta e la verdura gli hanno sequestrato una volta perché la siringavano di acidi. La galera è così. "Abolire il carcere" è un libro da regalare a quelli che straparlano al bar con la preghiera di leggerselo per davvero e smettere di dire sciocchezze. Ogni riga ribadisce in maniera incontestabile l'inutilità di questa istituzione stupida e nazista. Renzi sostiene che l'articolo 18 della legge 300 è vecchio, lo paragona al gettone nell'era dell'iPhone. Figuriamoci la galera! Una robba inventata molto prima del telefono di Meticci. Perché il Renzi non se ne disfa come del gettone? Forse la galera gli serve. Serve a lui che ha il Paese dalla parte del manico e a tutti quelli, di destra e sinistra, che stanno fuori. Ammazzare la gente mettendola in queste tombe per i vivi serve ai cittadini per non sentirsi morti del tutto. Lettere: le ali della libertà costruite in un carcere di Paolo Cacciari Il Garantista, 16 maggio 2015 Solo poche centinaia di tossicodipendenti si trovano in strutture riabilitative. E almeno 20.000 nelle "carceri ordinarie". Sicuramente non c'è nulla di più simbolico ed evocativo che costruire un aereo in carcere. Ci sono riusciti all'Istituto a Custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze di Lauro di Nola, uno dei pochissimi esistenti in Italia. Con una sana dose di autoironia lo hanno chiamato Social Flight One. È un prodotto prestigioso, un biposto ultraleggero in legno con doppi comandi e sarà esposto all'Expo di Milano. Il primo esemplare - si spera - di una flotta aerea destinata a servizi di ricognizione ambientali, sorvoli archeologici, oltre che ad usi turistici e di diporto. Costo: 80.000 euro, circa. Frutto di un progetto denominalo "Ali della libertà", nato in carcere grazie al lavoro degli operatori del Consorzio di cooperative sociali e associazioni del volontariato Mediterraneo Sociale di Napoli, della Caritas di Avellino e finanziato dalla Regione Campania. Beppe Battaglia, della associazione II Pioppo, è uno degli operatori che assieme al maestro falegname dell'officina del carcere e a Giovanni, Ciro e Angelo hanno costruito il prototipo, ci racconta: "È il primo aereo al mondo costruito non per evadere ma per riabilitarsi! Abbiamo voluto rompere il pregiudizio secondo cui i lavori in carcere sono sempre squalificati e squalificanti, fatti per ammazzare il tempo e in condizione di sfruttamento. Abbiamo dimostrato invece che una possibilità vera di re-inclusione nella vita sociale passa attraverso un lavoro dignitoso e qualificante. Il lavoro in carcere come mezzo formidabile per snidare potenzialità, risorse silenti, realizzare sogni". Peccato che in Italia, grazie alle leggi Fini-Giovanardi e Cirielli sulla "recidiva", vi siano almeno 20.000 persone con reati legati all'uso di sostanze stupefacenti che marciscono nelle "carceri ordinarie", disattendendo l'Ordinamento penitenziario che prevede trattamenti differenziati. Gli Istituti specializzati come quello di Lauro per la detenzione dei tossicodipendenti sono pochissimi e ospitano solo qualche centinaio di persone. In vista delle prossime commesse Ali della libertà si è costituita in cooperativa, ha acquisito nell'area dell'avio superficie di reggiano (Sa) un terreno e un hangar con officina di manutenzione, pronta a dare lavoro a chi dal carcere esce. Uno straordinario caso di welfare generativo di imprese economiche e socialità. Lettere: Cantone, la Diaz e i deboli anticorpi della polizia di Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) Il Manifesto, 16 maggio 2015 Caro Manifesto, ho letto con preoccupazione la lettera di Raffaele Cantone pubblicata il 15 maggio. Il capo dell'Autorità Anticrimine, per spiegare meglio una sua recente (e a mio avviso infelice) uscita sulla sentenza della Corte europea di Strasburgo sulle torture alla Diaz, dice a un certo punto, dopo avere menzionato e definito "vergognosi" i casi Diaz, Aldrovandi e Cucchi, che "in Italia non si sono coperti questi fatti, li si è perseguiti - a volte con difficoltà ma comunque in modo da raggiungere quasi sempre la verità - giungendo anche, nelle vicende che riguardano Genova, a condanne e successive espulsioni dalla polizia di soggetti destinati anche a radiose carriere". Il dottor Cantone nei suoi interventi sembra mosso dall'intenzione - lodevole - di tutelare il buon nome e la credibilità della polizia di stato, ma probabilmente non ha seguito nel tempo i processi sul G8 di Genova e non ricorda la pervicace, persistente azione di ostacolo al lavoro della magistratura condotta dalla polizia e dai suoi vertici e denunciata a più riprese dai pubblici ministeri, che non hanno esitato a parlare di omertà. Voglio ricordare, fra i tanti episodi, la mancata identificazione del quattordicesimo firmatario - la cui grafia era illeggibile - del falso verbale d'arresto per la Diaz, la mancata identificazione del poliziotto coi capelli a coda di cavallo ripreso in un filmato mentre pesta selvaggiamente uno dei 93 malcapitati ospiti della scuola o la vicenda del processo per falsa testimonianza a carico dell'ex questore Colucci sul ruolo avuto nella vicenda da Gianni De Gennaro. La sentenza di Strasburgo, poi, non si limita a qualificare come tortura le violenze compiute alla Diaz ma punta il dito su aspetti addirittura più gravi, cioè le menzogne costruite per coprire i fatti e la protezione garantita ai responsabili dell'operazione, che sono rimasti pressoché impuniti. L'Italia è stata condannata da Strasburgo più per il dopo Diaz che per l'episodio Diaz. Gli autori dei pestaggi non sono stati identificati; i responsabili gerarchici dell'operazione non sono stati sospesi al momento del rinvio a giudizio (come la giurisprudenza della Corte dispone) e nemmeno dopo le condanne; tutti hanno beneficiato dell'indulto, privilegio che la Corte rifiuta per chi vìoli l'articolo 3 della Convenzione sui diritti umani (trattamenti inumani e degradanti e tortura). Le interdizioni dai pubblici uffici cui si riferisce il dottor Cantone quando parla di "espulsioni", sono un effetto delle condanne penali e riguardano solo i reati non prescritti. La polizia di stato, di sua iniziativa, non ha mosso un dito e il governo italiano ha addirittura lasciato senza risposta la formale richiesta di informazioni, trasmessa dalla Corte di Strasburgo, sui provvedimenti disciplinari avviati dopo il caso Diaz. Il governo ha taciuto, a costo di infrangere anche una elementare regola di bon ton, per l'imbarazzo di dover ammettere la propria inazione (che avrebbe anche evidenziato le promozioni ottenute nel tempo da alcuni dei protagonisti del blitz alla Diaz). Alcuni dei condannati nel processo Diaz si apprestano a riprendere servizio grazie a uno "sconto" sull'interdizione, altri potrebbero farlo alla scadenza dei 5 anni. Potrei continuare a lungo, ma preferisco concludere dicendo che non si rende un buon servizio alla polizia di stato e alla sua dignità e credibilità minimizzando la gravità della condotta tenuta nei giorni, nei mesi e negli anni successivi ai "vergognosi" episodi che abbiamo registrato da Genova G8 in poi. In nessun caso le forze dell'ordine hanno avuto un ruolo attivo e positivo nella ricerca e nella punizione dei responsabili, è anzi prevalsa la tendenza a sviare e ostacolare la ricerca della verità. La polizia di stato ha dimostrato di avere deboli anticorpi di fronte ad abusi anche clamorosi compiuti dai suoi uomini: la sua capacità di autocritica e autocorrezione è ai minimi termini. Perciò dev'essere aiutata a cambiare registro e questo è un compito che spetterebbe alla società civile e al parlamento (oggi in verità piuttosto passivi e quasi impotenti di fronte all'offensiva del "partito della polizia"). Ci vorrebbe ad esempio una vera legge sulla tortura (non il testo minimalista e per certi aspetti paradossale approvato alla Camera) in grado d'essere percepita come il primo atto di una generale riforma democratica delle forze dell'ordine. Cioè l'esatto contrario di quel che sta avvenendo. Calabria: Nicola Irto (Pd); istituire Garante regionale, uno strumento utile per i detenuti Ansa, 16 maggio 2015 Il presidente della quarta Commissione del Consiglio regionale, Nicola Irto, del Pd, ha presentato una proposta di legge regionale per istituire l'Ufficio del "Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive limitative della libertà personale". L'iniziativa è stata illustrata nel corso di una conferenza stampa, coordinata dalla giornalista Luisa Lombardo, alla presenza degli avvocati Emanuele Genovese, presidente della Camera penale di Reggio Calabria, Gianpaolo Catanzariti, referente territoriale dell'Osservatorio carcere dell'Unione Camere Penali, e Renato Vigna. "È una proposta di legge - ha detto Irto - cui teniamo molto, considerato che la nostra regione non ha ancora varato la figura del Garante, mentre ciò è avvenuto in altri quattordici enti regionali. Nelle nostre intenzioni, non intendiamo che l'Ufficio del Garante, per i profili particolari e delicati della sua funzione, possa diventare una sorta di ‘parcheggiò per politici trombati, ma debba essere incarnato da personalità di indubbia capacità, cristalline, in grado comunque di sapere interfacciare proficuamente altri delicati organi dello Stato, come il Tribunale di Sorveglianza". "Mi auguro - ha proseguito Irto - che il provvedimento sia al più presto trasmesso alla Commissione competente, e che il Consiglio regionale possa velocemente analizzarne il testo ed approvarlo. Va da se che si tratta di un testo aperto al confronto per gli eventuali miglioramenti, ma credo che le finalità di questa proposta di legge siano assolutamente coerenti e rispondano agli inviti ed ai moniti che in più di un'occasione autorità civili e religiose hanno voluto indirizzare alla politica affinché negli istituti penitenziari non siano negati i diritti essenziali dell'uomo anche alla luce delle reiterate denunce che l'Italia ha subito in sede europea". Abruzzo: in sciopero della fame per insediamento ed elezione del Garante dei detenuti di Ariberto Grifoni (Comitato Nazionale di Radicali Italiani) radicali.it, 16 maggio 2015 Egregi Presidenti, come forse avrete saputo, sono in sciopero della fame dalla mezzanotte di venerdì 8 aprile per evidenziare l'indifferibile necessità che il nostro Paese, a maggior ragione per la crisi economica che l'attanaglia, adotti provvedimenti di riforma della giustizia indicati come obbligatori dal Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano già l'8 ottobre di due anni or sono, col suo solenne messaggio al Parlamento. La sensibilità sull'argomento, Vostra e del Consiglio regionale dell'Abruzzo, dopo un digiuno di 41 giorni a cui diedi corpo nel corso della scorsa estate, si manifestò con l'approvazione il 16 settembre della risoluzione urgente su Satyagraha, riforma della giustizia, amnistia, indulto e situazioni delle carceri abruzzesi. A questa importante presa di posizione politica della massima istituzione rappresentativa dei nostri territori ha fatto seguito esattamente un mese dopo, la definizione del Protocollo d'intesa sottoscritto dal Ministro della Giustizia, dal Presidente della Regione Abruzzo, dal Presidente dell'Anci Abruzzo e dal presidente del Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila. Nonostante tutto ciò, le persone detenute, insieme alle centinaia di migliaia di cittadini alle prese con processi penali o civili, le cui pratiche ingolfano nel numero di 10 milioni complessivamente le scrivanie dei magistrati, non riescono ad ottenere che la giustizia sia amministrata in modo civile, neanche nel forte e gentile Abruzzo. Senza soffermarsi qui sui casi che riempiono le prime pagine in questi giorni - valga per tutti il processo di Bussi - dobbiamo ammettere che l'indecente situazione non può essere tollerata: va data qualche concreta risposta, almeno per le situazioni più acute rappresentate, da ultimo, dal disperato tentativo di suicidio nel carcere di Lanciano avvenuto nella notte tra sabato e domenica scorsi. Il Consiglio regionale ha la possibilità d'istituire l'Ufficio del Garante, data la previsione di legge regionale risalente al 2011 che, purtroppo finora, è rimasta lettera morta. Siamo a conoscenza delle esortazioni che sono state puntualmente rivolte dal Tribunale di Sorveglianza affinché d'urgenza sia insediato il Garante, senza confonderlo con la figura del difensore civico, perché c'è già tanto da fare nel martoriato mondo delle carceri in Abruzzo. Presento a Voi, illustri Presidenti, nelle rispettive funzioni sia di direzione dell'indirizzo politico dell'attività dell'Istituzione regionale che di competenza tecnica per l'attuazione della richiamata norma contenuta nell'art. 6 della Legge Regionale 35/11, quest'istanza accompagnata dal mio smunto corpo, affinché procediate con coraggio alla pubblicazione del bando relativo al Garante, ricordando quanto Marco Pannella disse nell'Aula dell'Emiciclo in occasione dell'attribuzione della medaglia Aprutium il 9 dicembre scorso: il bando non andrà deserto perché per il gravoso compito di Garante dei detenuti c'è già un candidato competente, efficace e di prestigio che è Rita Bernardini, riconosciuta nel mondo delle carceri e che, aggiungo, ha il merito di aver presentato nei giorni scorsi un importante documento-memoria al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sulla sentenza Torreggiani. Sono, ovviamente, disponibile a qualsiasi interlocuzione nelle prossime ore, anche per il tramite di Ricardo Chiavaroli, il quale ha già avuto modo di scambiare informazioni a riguardo col funzionario regionale, Gino Milano. Procedete, illustri Presidenti, avanti sulla strada maestra tracciata e istruita: non Vi mancherà il nostro appoggio. Abruzzo: una Rems nell'ospedale di Guardiagrele? il Tar demanda decisione al ministero Il Centro, 16 maggio 2015 Il Tar Abruzzo, nell'udienza di mercoledì scorso sul ricorso presentato contro la collocazione della Rems (Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza) nell'ospedale Santissima Immacolata, si è pronunciato con l'ordinanza n. 85/2015 con la quale ha demandato al ministero della Giustizia la nomina di una commissione di tre membri per verificare la compatibilità della struttura con il presidio ospedaliero. Il provvedimento del tribunale invita la Asl a non procedere oltre nei lavori. Il Tar ha ritenuto inoltre necessario verificare se sia vantaggioso procedere in una operazione provvisoria in vista della definitiva collocazione della Rems a Ripa Teatina. "Condividiamo la battaglia di civiltà per l'eliminazione degli Opg", osserva il candidato sindaco Simone Dal Pozzo, "ma sappiamo anche che le misure provvisorie sono in discussione a livello nazionale. Non tutte le Rems sono state infatti attivate. Anzi, si parla di un ripensamento, visto che il numero delle persone coinvolte è inferiore alle stime iniziali". La commissione ministeriale dovrà riferire al Tar entro luglio e il ricorso sarà discusso a settembre. "Poiché abbiamo sempre ritenuto che la vicenda della Rems è connessa al destino del nostro ospedale", continua Dal Pozzo, "utilizzeremo questo mese per riprendere il dialogo con la Regione, a cui fa capo la programmazione sanitaria in vista dell'auspicata uscita dal commissariamento. La difesa dell'ospedale", conclude Dal Pozzo, "è la difesa del diritto alla salute, in un'area in cui la soppressione dei posti letto, senza l'attivazione dei servizi necessari e senza la garanzia di servizi di pronto soccorso ed emergenza h 24, significherebbe mortificare il diritto alla salute". Per il sindaco Sandro Salvi: "I giudici hanno compreso a pieno quanto da noi impugnato. Ho sempre sostenuto l'incompatibilità della Rems con le strutture sanitarie. Per cui la nomina di tre Ctu ci rende tranquilli e sicuri per il futuro sviluppo del giudizio". Emilia Romagna: Sappe; c'è attenzione al tema "carceri", ma solo per i diritti dei detenuti Ansa, 16 maggio 2015 "Qui in Emilia-Romagna c'è sicuramente maggiore attenzione al tema delle carceri a livello istituzionale rivolto ai detenuti però, non alla Polizia penitenziaria. Ma va bene così, alla penitenziaria ci pensiamo noi". Così il segretario aggiunto del Sappe Giovanni Battista Durante nella conferenza stampa in carcere a Bologna. Un accenno che però ha dato il via a una elencazione delle disattenzioni verso le esigenze del personale di polizia penitenziaria da parte di quasi tutti gli agenti che avevano scelto di assistere alla conferenza stampa. Disattenzioni che a Bologna, ha ribadito il Sappe, non sono imputabili alla direzione del carcere, con cui anzi ha ribadito esserci un dialogo proficuo. Tra le misure che maggiormente sono sgradite dagli agenti il fatto di dover pagare l'alloggio in carcere. A Bologna per circa 50 euro, una cifra non esosa, concordano, ma sintomatica di una condizione. "E le dovreste vedere: lì i tre metri quadri previsti nella sentenza Torreggiani proprio non ci sono" ha detto un agente, riferendosi ad uno di parametri indicati nella sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che condannò l'Italia per il sovraffollamento dei detenuti. Ma nell'assenza di misure a sostegno del benessere dei dipendenti il Sappe lamenta pure la mancanza di una biblioteca (gli agenti non possono accedere al prestito da quella dei detenuti), o che non siano previsti screening sanitari, nonostante i rischi professionali. Per non parlare del supporto psicologico "totalmente assente" ha spiegato Durante. D'altronde "se veniamo aggrediti in servizio non abbiamo la copertura delle spese mediche dall'Inail" ha aggiunto. "Non è un caso ne in 10 anni si sono suicidati 120 poliziotti penitenziari". Ma basterebbe poter fare un po' di sport gratis, aggiunge il Sappe. "Fino a pochi anni fa qui a Bologna avevamo in campetto da calcio, è completamente abbandonato. Con 10.000 euro - hanno spiegato i poliziotti - si potrebbe rimettere a posto. È dagli anni 90 c'è una area di 35.000 mq vicino al carcere che è stata requisita a un privato. Ci si potrebbe fare una zona sportiva, aperta anche a tutta la città". Liguria: la Uil-Pa Penitenziari lancia protesta sit-in "votare scheda bianca alle regionali" Il Velino, 16 maggio 2015 "Abbiamo deciso di dire basta al deserto di ascolto e al mare dell'indifferenza che connota l'azione amministrativa e politica rispetto alle enormi difficoltà operative e logistiche che oberano la polizia penitenziaria". Lo ha dichiarato Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, annunciando il sit-in di protesta "in ogni luogo dove avremo notizia della presenza del Ministro Orlando e/o dei vertici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria". La decisione è arrivata dopo l'Esecutivo Nazionale della Uil-Pa Penitenziari, convocato il 12 e 13 maggio a Grottaferrata (Rm) e al termine di un intenso e animato dibattito sulle condizioni operative del Corpo di Polizia Penitenziaria, ha deliberato un percorso di proteste e sensibilizzazione con particolare riferimento ad alcuni aspetti che si ritengono prioritari e la cui soluzione non comporta alcun onere economico. "Si comincerà da martedì 19 maggio - ha spiegato Sarno - davanti alla Casa di Reclusione di Bollate (Mi) dove il Ministro della Giustizia ha convocato gli Stati Generali della Esecuzione Penale. Non solo per restituire l'indifferenza della politica verso i baschi azzurri abbiamo deciso che nella prossima tornata elettorale che toccherà sette Regioni voteremo scheda bianca". Per la Uil-Pa Penitenziari: "È necessario rivendicare un ruolo primario nel raggiungimento degli obiettivi che hanno consentito all'Italia di superare le riserve sullo stato della detenzione formulate dall'Europa ma non può non sottolineare amaramente e criticamente come sia stato soprattutto il Corpo di Polizia Penitenziaria a pagare un duro dazio". Sarno ha poi chiarito che: "Premesso che la civiltà della detenzione non si misura con i metraggi ad personam, è vero che il numero dei suicidi di detenuti si è ridotto drasticamente (nel 2015 sono 8 a fronte dei 12 del 2014 e dei 15 del 2013 rilevati nello stesso periodo). Ma è anche vero che in questi primi 5 mesi del 2015 la polizia penitenziaria ha salvato in extremis ben 26 detenuti da tentati suicidi e, soprattutto, dal 1 Gennaio 2015 ad oggi sono 85 gli agenti penitenziari feriti a seguito di aggressioni da parte di soggetti detenuti e ben 56 gli agenti intossicati a seguito degli incendi appiccati alle celle. Però questi numeri così allarmanti pare non destino alcuna preoccupazione nei vertici politici e dipartimentali. Si era deciso - sottolinea Sarno - di attivare in tutte le regioni sezioni detentive dove allocare detenuti responsabili di aggressioni e violenze, ma come tante direttive anche questa è rimasta praticamente lettera morta. Anzi. In qualche caso dopo aver aggredito e ferito il personale il detenuto non solo è tornato nella sezione di origine ma ad essere trasferito in altro luogo di lavoro è stato il poliziotto ferito". Cagliari: don Ettore Cannavera lascia Ipm Quartucciu dopo 23 anni, scoppia caso politico Ansa, 16 maggio 2015 Don Ettore Cannavera lascia dopo 23 anni di servizio come cappellano il carcere minorile di Quartucciu con una comunicazione firmata il 12 maggio e il caso diventa subito politico. Il deputato di Sel, Michele Piras, annuncia un'interrogazione al ministro della Giustizia. In una precedente lettera del 7 maggio al ministro della Giustizia e alle istituzioni don Cannavera spiegava di non riconoscere nel carcere minorile "ancora un luogo ove si svolga quell'opera di recupero educativo e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla pena". Don Ettore parlava di ragazzi trattati come "pacchi da destinare a una collocazione più contenitiva", di "esigenze del trattamento e della sicurezza" che "prevalgono ancora su uno "spazio pedagogico penitenziario" e di una struttura "sempre più fatiscente". "La lettera di dimissioni di don Ettore Cannavera da Cappellano del carcere minorile di Quartucciu è un durissimo atto d'accusa nei confronti del sistema carcerario italiano - osserva Piras. La nostra Costituzione attribuisce alla pena una funzione rieducativa, e se questo sappiamo essere quotidianamente contraddetto nelle carceri italiane, è sconcertante scoprire che altrettanto accade nelle carceri minorili. Sconcertante sapere che in questo paese non si dotano i ragazzi che hanno sbagliato degli strumenti utili a costruirsi una seconda possibilità. La denuncia circa lo stato di fatiscenza della struttura, il trattamento riservato ai ragazzi e l'assenza di una pedagogia coerente con quanto previsto dal dettato costituzionale mostrano una condizione non degna di un Paese come il nostro ed il fatto che a denunciare queste cose sia un uomo che vive da sempre sulla linea del fronte e che da sempre lavora con dedizione al recupero dei giovani ed al loro pieno reinserimento nella società - conclude Piras - rende questa vicenda ancor più amara e degna di un interessamento dei livelli nazionali". Cagliari: don Cannavera "ragazzi trattati come pacchi, impossibile il recupero educativo" Ristretti Orizzonti, 16 maggio 2015 Don Ettore Cannavera si dimette dopo 23 anni dall'incarico di cappellano del carcere minorile di Quartucciu. Lo fa con una lettera molto amara nella quale lancia tra le righe pesanti accuse, come quella che nel carcere i ragazzi "vengono trattati come pacchi". Ecco la lettera di addio di Don Cannavera. "Signor Ministro, signora Direttrice del Dipartimento Giustizia Minorile, sento il dovere di mettere a conoscenza voi e gli altri rappresentanti delle istituzioni in indirizzo - particolarmente attenti alle problematiche del carcere - di quanto, dal mio osservatorio, constato riguardo alla conduzione del vissuto quotidiano dei ragazzi accolti nell'Istituto penale minorile di Quartucciu, dove opero come cappellano. Ritengo doveroso rendere tutti voi partecipi delle osservazioni che mi accingo a esprimere nell'intento di assicurare il rispetto dei bisogni dei ragazzi, di cui il comportamento deviante è espressione. Desidero inoltre segnalare la scarsa attenzione nei confronti della rieducazione e del recupero dei ragazzi affidatici dalla Magistratura da parte degli enti che hanno in carico la supervisione dello stesso carcere: il D.G.M e il Centro di Giustizia Minorile di Cagliari. Sottolineo inoltre le condizioni di abbandono in cui versa l'edificio stesso del carcere, circostanza che insieme alle altre condiziona pesantemente il progetto educativo già di per sé di difficile attuazione. Dopo ventitré anni di servizio volontario e di presenza assidua nel carcere di Quartucciu, negli ultimi due ho deciso di diradare gradualmente la mia presenza per l'incapacità di riconoscervi ancora un luogo ove si svolga quell'opera di recupero educativo e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla pena (art. 27). Nel nostro carcere minorile si pratica una pedagogia penitenziaria che non riesco più a condividere. Scrive Gabrio Forti che una giustizia penale è democratica "in quanto mai disgiunta dall'impegno a generare solide risposte educative alla trasgressione". Questo deve essere l'impegno di quanti operano attorno alla colpa, alla pena, alla riconciliazione. Nel carcere di Quartucciu, invece, le risposte pedagogiche latitano: tutto o quasi è subordinato alle sole esigenze di custodia e di sicurezza. Constato così che il D.G.M. trasferisce i ragazzi da un carcere all'altro per motivi disciplinari o di sovraffollamento e non per un progetto educativo, che invece richiederebbe la permanenza del ragazzo nell'istituto di pena nonostante il comportamento "aggressivo" o similari. I ragazzi sono spesso trattati come "pacchi" da destinare a una collocazione più contenitiva, e si trascura di instaurare con loro una relazione educativa che sia "di cura". Relazione che dovrebbe instaurarsi con la creazione di una équipe educativa che coinvolga tutti gli adulti che operano all'interno del carcere: cuoca e portinaio compresi. Nel carcere minorile di Quartucciu le esigenze del "trattamento" e della "sicurezza" prevalgono ancora su uno "spazio pedagogico penitenziario", con l'effetto di piegare il tempo a ritmi di attività periodiche e occasionali lontane da quella pedagogia che si fonda principalmente sulla relazione costante e quotidiana dei ragazzi con gli educatori. Le preziose potenzialità pedagogiche di questi ultimi si riducono invece a un'attività da "impiegato" cui spetta il compito di riferire all'autorità giudiziaria. Un ruolo quindi privo di una progettualità educativa che si eserciti nella condivisione del vissuto quotidiano dei ragazzi nelle ore di servizio e in tutto il tempo della settimana. Educare è rompere ogni resistenza alla relazione di fiducia con l'altro, e questo può accadere solo se l'adulto che vuole definirsi educatore condivide con il ragazzo gli spazi e il tempo in cui il ragazzo è più autenticamente se stesso: l'intera quotidianità, i luoghi e i momenti di convivialità e di lavoro. Formalismo nelle relazioni e tempo ridotto dedicato ad esse allontanano dal ragazzo consapevolezza e responsabilizzazione, unici agenti efficaci di cambiamento di sé. Com'è possibile allora "riscattare" ciò che è imprigionato nel ragazzo, nell'angoscia e nell'illusione? Che strumenti gli diamo per mutare l'immagine negativa di sé, se lo priviamo della possibilità di sperimentare relazioni d'affetto significative e senso della vita in un'età così ricca di possibile progettualità? Queste osservazioni valgono per l'istituto di cui ho diretta esperienza. L'impostazione pedagogica della Direzione del C.G.M., corresponsabile della gestione del carcere attuata dal nuovo direttore dopo l'allontanamento del precedente direttore Giuseppe Zoccheddu (completamente scagionato da quanto gli veniva imputato), mi sembra lontana dall'impostazione che qui ho cercato di riassumere. La presenza degli educatori, spesso privi di una prospettiva pedagogica condivisa, mi sembra non rispondere alle necessità relazionali ed educative dei ragazzi. L'allargamento a 25 anni dell'età di coabitazione con i minori, in mancanza di una diversa progettualità educativa, mi sembra nocivo più che educativo. In questi ultimi tempi si è poi rafforzata in me l'impressione che la vita all'interno del carcere sia modulata dai detenuti più grandi piuttosto che da una "scansione" temporale educativa. La struttura sempre più fatiscente rende il carcere di Quartucciu ancora più estraneo all'obiettivo pedagogico che si prefigge, ed è lecito domandarsi se le cospicue risorse economiche destinate all'organizzazione di incontri e convegni su temi attinenti al disagio e alla devianza giovanile non potrebbero essere destinate a migliorarne la vivibilità per gli adolescenti che passano i loro giorni tra le sue mura. Il costo giornaliero attuale per ogni minore detenuto a Quartucciu supera ormai i mille euro e non ci si preoccupa minimamente di reperire altre strutture meno costose per la collettività e più adeguate a una efficace relazione educativa coi ragazzi. Si predica il risparmio e si esorta a spendere ragionevolmente. Ma allora perché non risparmiare risorse nominando alla direzione del Centro Giustizia Minorile per la Sardegna uno dei tanti operatori sardi competenti? Perché spendere in viaggi e alloggi costosi per chi viene a "colonizzarci" da Roma anziché impiegare un operatore locale qualificato? Perché retribuire come direttore Giuseppe Zoccheddu, inutilizzato al Centro, invece che restituirgli il riconoscimento professionale che gli spetta? Non possiamo più essere complici silenziosi di questa ingiustizia per paura di ritorsioni nei confronti di chi sa e ha difficoltà a parlare. Cosa insegniamo ai nostri ragazzi, se noi adulti ci comportiamo da complici di "reati" economicamente ben più gravosi? Sentendomi impotente di fronte a queste dinamiche, sto maturando l'intenzione di non assecondare oltre con il mio ruolo di cappellano questa gestione, lontana sia da quanto affermiamo in convegni e dibattiti sia da quanto sostiene la letteratura corrente in materia di pedagogia penitenziaria minorile. Ho accennato solo ad alcune carenze, consapevole che ve ne sono ben altre sia da me conosciute superficialmente sia a me sconosciute in un sistema che addirittura si fregia del termine "Giustizia". Per il futuro intendo dedicare il mio tempo ai detenuti del carcere di Uta e di altre carceri per adulti in Sardegna, come già faccio nel tempo residuale all'impegno nell'Ipm e nella Comunità La Collina di cui sono responsabile. E lo farò senza alcun ruolo istituzionale ma in quanto semplice volontario, come del resto ho fatto a Quartucciu in questi ventitré anni in cui ho rifiutato qualsiasi retribuzione per il ruolo di cappellano o contributo economico per le varie attività religiose, ricreative e culturali organizzate insieme al gruppo di volontari dell'associazione "Oltre le sbarre", che ho aiutato a nascere e di cui faccio e continuerò a fare parte. La giustizia minorile, nel piccolo settore di cui mi sono occupato per oltre quarant'anni e di cui continuerò ad occuparmi da esterno col "fare" e spero col "dire", rimarrà al centro dei miei interessi, nell'ottica di contribuire al miglioramento di un'autentica pedagogia penitenziaria. Resto perciò disponibile, quando non impegnato in altre carceri, a contribuire a un'opera di riflessione e di proposta orientata a una detenzione che sia pedagogicamente significativa, come le nostre leggi e norme richiedono". Don Ettore Cannavera Cappellano dell'Istituto Penale Minorile di Quartucciu Modena: Garante regionale; per lavoro in carcere coinvolgere imprese alimentari territorio Ristretti Orizzonti, 16 maggio 2015 È Italo Giorgio Minguzzi, l'ideatore del progetto "Fare impresa in Dozza", che ha permesso di avviare un'attività di officina meccanica all'interno della Casa circondariale di Bologna - il carcere della Dozza, appunto, la prima persona che la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha incontrato, insieme alla direttrice del carcere di Modena, Rosa Alba Casella, per cercare di risolvere il problema della carenza di attività lavorative per i detenuti all'interno della struttura modenese. L'obiettivo è "il coinvolgimento di imprese operanti nel territorio", spiega la Garante dopo il colloquio con Minguzzi, professore universitario di Diritto all'Università di Bologna, avvenuto durante una visita di Bruno al carcere di Modena la scorsa settimana. Per rispettare la vocazione delle attività presenti nell'istituto, nonché del territorio, l'intenzione è quella di valutare progetti nel settore alimentare. In linea con gli altri dati regionali, anche a Modena si può considerare conclusa l'emergenza del sovraffollamento: a fronte di una capienza regolamentare di 373 unità infatti i presenti sono 380, di cui 28 donne. Più della metà sono stranieri, per la maggior parte provenienti dal Nord Africa e dall'Est Europa. Sono 212 i condannati in via definitiva, 69 quelli in attesa di primo giudizio, 32 gli appellanti e 46 i ricorrenti; 18 gli ammessi al lavoro all'esterno, un semilibero, un semidetenuto. Si registra attualmente una forte presenza di detenuti autori di reati sessuali, 95, per cui però "mancano puntuali progetti terapeutici atti a prevenire il rischio di recidiva". All'interno del carcere, fa notare Bruno, "vengono applicate correttamente tutte le disposizioni: dal servizio di accoglienza dei nuovi ingressi, con spazi per gli screening sanitari in attesa dell'assegnazione, alla separazione fra imputati e condannati in via definitiva, fino alla sezione per i detenuti dimittendi, con spazi dedicati alla scuola e ai corsi di formazione". Non solo, prosegue la Garante; "È poi pienamente operativo il regime a celle aperte, con i detenuti che passano più di otto ore al giorno all'esterno della cella, ma soprattutto continua la sperimentazione relativa alla sezione Ulisse, una esperienza unica a livello regionale: circa 50 detenuti, selezionati dalla direzione tra chi ha un grado di pericolosità lieve, trascorrono quotidianamente sei ore in ambienti comuni organizzati per la socializzazione e per la frequentazione dei corsi scolastici, del tutto separati da quelli in cui ci sono le camere di pernottamento". Al momento, segnala Bruno, tutte le attività previste, oltre alla scuola, sono possibili grazie al contributo del volontariato. Grande parte della visita, conclude la Garante, è stata dedicata ai colloqui con le persone detenute, durante i quali è stata sollevata, in particolare, "la questione relativa al mancato rispetto del principio di territorialità della pena, con molti detenuti che non sono nell'istituto più vicino alla loro famiglia". Savona: ministro Orlando; Scuola di Polizia penitenziaria di Cairo Montenotte resta tale Ansa, 16 maggio 2015 "Un carcere al posto della scuola penitenziaria di Cairo Montenotte? Non credo proprio. La scuola ha un grande ruolo e una grande potenzialità nell'ambito della formazione. Può essere concepito anche per funzioni di protezione civile e integrarsi maggiormente col territorio". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando questo pomeriggio a Cairo Montenotte per sostenere la corsa alle Regionali del candidato Mauro Righello del Pd. "Il nuovo carcere resta tra i nostri obiettivi - ha detto ancora orlando - e nonostante dobbiamo lavorare in un quadro di ristrettezze economiche la realizzazione di una nuova e moderna struttura penitenziaria nel savonese rimane una delle opere da programmare e fare, anche per la situazione davvero fatiscente dell'attuale carcere a Savona". Napoli: operai in pausa pranzo le persone avvistate sul tetto del carcere a prendere il sole Corriere del Mezzogiorno, 16 maggio 2015 Tintarella sui tetti di Poggioreale. Ha destato scalpore la video inchiesta del Corriere del Mezzogiorno che ritrae diverse persone intente a prendere il sole sul tetto di uno dei tanti padiglioni del carcere napoletano. Un fatto che non è passato di certo inosservato, anche agli addetti ai lavori. Clamore che ha spinto la parlamentare del Pd Michela Rostan, membro della commissione Giustizia della Camera, a presentare un'interrogazione parlamentare affinché venga fatta chiarezza sul caso del "solarium" ricavato sul tetto del carcere. "È davvero incomprensibile ed intollerabile il fatto che il tetto di un carcere, casa circondariale peraltro gravata da un elevato grado di sovraffollamento e dove le condizioni dei detenuti sono difficilissime - ha osservato Rostan - possa trasformarsi in un luogo dove si prende la tintarella. Si tratta di uno schiaffo a chi, appena a pochi metri, è costretto a vivere 22 ore in una cella. La vicenda pone anche inquietanti interrogativi sui potenziali rischi per la sicurezza. Occorre immediatamente fare luce sull'episodio - ha concluso - ed evitare che casi del genere possano verificarsi in futuro". Ma il direttore del carcere di Poggioreale Antonio Fullone interpellato sull'argomento ci racconta che "nella maniera più assoluta le persone ritratte nel video sono ospiti dell'istituto penitenziario. E d'altronde - prosegue il direttore - non potrebbe nemmeno trattarsi di detenuti in quanto il padiglione "Genova" sul cui tetto sono stati immortalati i soggetti, è chiuso da circa un anno, dalla fine della scora estate per la precisione, per lavori di ristrutturazione". E allora chi erano e cosa ci facevano li sopra. "Semplice anche la risposta a questa domanda: erano gli operai della ditta Edil Erica intenti nei lavori di riqualificazione della struttura che nella loro pausa pranzo salgono sul tetto per consumare il pasto, fumare una sigaretta e rilassarsi dalla mole di lavoro che c'è da fare. Nessuno scandalo, dunque". E sulla questione delle "comunicazioni" che avverrebbero tra alcuni edifici del Centro direzione e il carcere? Su questo specifico argomento il direttore Fullone non esclude nulla. "Certo - precisa - ci sono alcuni edifici della struttura che sono esposti, il carcere d'altronde è in piena città. Con i palazzi tutt'intorno. Non lo posso escludere, dunque", aggiunge, "anche se dalla mia esperienza anche in altre strutture penitenziare italiane, mi sembra francamente molto, ma molto difficile intavolare una conversazione tra le celle e le torri del Centro direzionale: la distanze che ci sono lo impedirebbero". E poi ci racconta qualche aneddoto dettato dai suoi passati incarichi: "Ne ho viste di tutti i colori dagli specchietti, ai segnali di fumo. Addirittura, in un penitenziario di cui non faccio il nome, mi è capitato di scoprire che alcuni parenti di carcerati avevano affittato i balconi delle case attigue alla struttura. Dico questo - aggiunge ancora Fullone - per ribadire che può accadere a Napoli così come può accadere in qualsiasi altro carcere italiano. E comunque il controllo da parte del personale della Polizia Penitenziaria è altissimo: c'è una vigilanza armata sul muro di cinta 24 ore su 24 e qualsiasi tentativo di comunicazione sarebbe immediatamente individuato e interrotto". Roma: il 30 maggio il Papa accoglierà il "Treno dei Bambini" con i figli dei detenuti Adnkronos, 16 maggio 2015 Papa Francesco accoglierà sabato 30 maggio nella stazione vaticana il "Treno dei Bambini" organizzato ogni anno dal Cortile dei Gentili, guidato dal cardinale Gianfranco Ravasi presidente del Pontificio Consiglio della cultura, con le Ferrovie dello Stato italiane e rivolto a bambini coinvolti in situazioni disagiate. Quest'anno, il treno vedrà a bordo i figli di detenuti provenienti dalle carceri di Roma, Civitavecchia, Latina, Bari e Trani, grazie alla collaborazione del Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. "Quest'anno il Cortile ha scelto come tema quello del volo - spiega una nota del Cortile dei Gentili - perché vuole offrire ai più piccoli che vivono con le loro madri una quotidianità fatta di carcere e allontanamento dagli altri fratelli e a quelli che vivono la separazione dalla loro mamma detenuta, una giornata per volare via ed evadere con la fantasia dalla realtà con cui sono costretti a fare i conti". Il treno raggiungerà la stazione del Vaticano intorno alle 10.40 e i piccoli con i loro accompagnatori raggiungeranno l'Aula Paolo VI dove a mezzogiorno saluteranno Papa Francesco con tanti aquiloni colorati che, come ricorda il cardinale Ravasi, "sono il simbolo dei possibili passaggi tra l'interno del carcere dove vivono le mamme e l'esterno dove stanno i figli". Televisione: "Colpevole di essere innocente", oggi pomeriggio in "A sua immagine" (Rai1) Adnkronos, 16 maggio 2015 Nella puntata di "A Sua Immagine" in onda oggi pomeriggio alle 17.15 su Rai1 Lorena Bianchetti ospiterà Roberto Giannoni, che racconterà come - grazie all'amicizia con il cappellano del carcere di Sollicciano don Danilo Cubattoli - il suo calvario sia finito con un'assoluzione piena e con un'esplosione di solidarietà nei confronti di chi è rimasto in prigione. Dodici mesi di calvario laico, di detenzione per un'accusa che non reggeva. E oltre sei anni di incertezza e di battaglie legali per riprendersi la vita, dopo averla vista interrompersi per colpa di un errore di sistema. Racconterà quando è incominciato il suo calvario, il 10 giugno 1992. Lui è il direttore di una filiale bancaria in un piccolo paesino del livornese, in Toscana, una vita normale, tranquilla, da uomo mite quale egli è. All'improvviso, in piena notte, dodici poliziotti suonano alla sua porta. Il padre Otello apre e corre a chiamare il figlio, che sarà portato via con l'accusa terribile, infamante, di essere "il vertice finanziario della mafia in Toscana". Da qui inizia un dramma che non spezza la vita di Roberto, ma se possibile la rinforza. Grazie al sostegno della fede, che lo porta a tornare "dietro le sbarre" come volontario proprio per i detenuti. Alle 17.30 andrà in onda il consueto appuntamento con "Le Ragioni della Speranza". Questa settimana don Gino Rigoldi, che per la sua ultima puntata di commento al Vangelo è nella Casa della Carità di Milano, guidata fin dalla sua fondazione da don Virginio Colmegna. La Casa della Carità offre ogni giorno ospitalità gratuita a 150 persone in difficoltà, e in questi dieci anni ha ospitato oltre 2500 persone che sono fuggite da guerre, miseria e ingiustizie. Immigrazione: "Mare nostrum", "Triton", "Poseidon", le risposte a un fenomeno epocale di Guido Biancardi radicali.it, 16 maggio 2015 Mare nostrum, Triton, Poseidon, sono le risposte che sino ad ora sono state abbozzate a fronte del fenomeno, annunziato da decenni almeno, delle migrazioni di massa da Africa, Medio ed Estremo oriente e dai paesi dell'ex Urss. Verso l'Europa, geografica ma soprattutto politica ed economica. Sull'ineluttabile dramma epocale, almeno come ce lo vogliono vendere, i nostri governanti, come in un balletto osceno danzano avanzando di qualche passo per regredire poi di altrettanti col solo intento comune di dimostrare ai propri governati di occuparsi della questione per loro esclusivi interessi: ovvero di schermare i propri popoli dall'urto sociale al quale sono impreparati, di schermirsi di fronte alle evidenze di ritardi ed approssimazioni furbesche, di schernire impuniti, in fondo, le opinioni pubbliche dando loro a bere di volta in volta qualche slogan, da aggiornare magari, ma da ribadire in ogni caso di interrogazione seria sulle loro reali intenzioni e possibilità. I medici hanno il loro giuramento ad Ippocrate; i governanti il loro, "ad Ipocrita". La conoscenza, ed ancora prima l'informazione che ne costituisce il materiale di costruzione, sono negati al cittadino come diritti. Al massimo vengono loro elargite, ottriate graziosamente da manutengoli del potere antidemocratico travestiti da intellettuali e scrittori, filosofi, giornalisti; e dalla massa compatte degli officianti del Bene, esponenti di confessioni, organizzazioni, comunità, aggregate a sostegno e difesa del loro "terzo settore", quello del Volontariato tanto più attivo (sponsorizzante, persino) sovente, quanto interessato e coinvolto in indichiarabili interessi. Ed oggi, che la Nostra Signora Pesc, Mogherini, torna vincitrice da Bruxelles recando il successo storico del primo coinvolgimento ufficialmente preteso dagli organi dell'Unione (su basi proporzionali rispetto a dimensione e condizione dei singoli Paesi), cogente in quanto richiesto da una situazione dichiarata ufficialmente come emergenziale per alcuni (!?) dei Paesi Ue "del Mediterraneo", siamo attoniti ad interrogarci su quali siano stati i processi reali che ci hanno condotto ed un tale groviglio di mediazioni e concessioni" multipolarmente reciproche" e così opportunisticamente mediate. Le percentuali assegnate a ciascun Paese, di ricollocazione ed assegnazione, sono magicamente comparse per dar conto di qualche numero più concreto; in sintesi sono il pietoso, illusorio tentativo di ridurre la valanga alla palla di neve originaria (20mila da accogliere a fronte dei 170mila, in tumultuosa crescita, giunti negli ultimi mesi). Ma sono le motivazioni dell'intervento, gonfio e stillante di umanità solidale nelle dichiarazioni, che scandalizzano: guerra ai nuovi schiavisti, mercanti di morte, agli "scafisti" di mare e cielo e terra; con, prima di tutti, l'obiettivo di realizzare la distruzione dei "barconi", ovvero dei mezzi utilizzati per traghettare carne umana ancora appena sopravvivente da una costa ad un confine; ed oltre. Ma è lampante che il vero obiettivo autoassegnatosi dai nostri illuminati governanti sensibili solo agli" easing" quantitativi di risorse finanziarie per povere banche debilitata per eccesso di credito inesigibile (con previa, più magica che sacra e salvifica, autorizzazione Onu o meno se l'intervento è a bassa intensità militare e distruttiva; quasi fossero da "ganasce delle eliche" ai barconi parcheggiati "in sosta vietata" nei porti della Libia; o, invece, di confisca- prelievo e distruzione di probabili mezzi di trasporto di eventuali corpi umani inermi e insieme di già accertati corpi di reato) è quello di impedire le partenza dei disperati e opportunisti, a volte equivoci, a spese magari di Paesi e Regimi i meno adatti ad eseguirlo nel rispetto di una anche solo parvenza di umanità. In tempi di Expo e di concorsi gastroistrionomici" EatMediterranian" sarebbe già e continuerebbe ad esserlo, un ottimo marchio per promuovere la bontà, inconfondibile, del pesce, accuratamente tracciabile come non d'allevamento, dei nostri mari se non riusciremo ad immettere un poco di sincerità e di rette intenzioni (ricordate la proposta Radicale di un nuovo piano Marshall di delocalizzazione incentivata e garantita di emigranti artigiani e piccoli imprenditori agricoli italiani sulle coste africane e del medio oriente per contrastare le morti per fame, sete e guerre? E per prevenire le emigrazioni bibliche che ne sarebbero derivate?), e davvero sinceramente: sono gli unici a così elevato tasso di nutrizione con carne umana. Immigrazione: perché è illusorio pensare di fermare i popoli che emigrano di Roberto Toscano La Stampa, 16 maggio 2015 Si parla tanto di globalizzazione - o meglio, per usare la più calzante espressione francese, di mondializzazione - ma poi finiscono sempre per prevalere le analisi limitate, autoreferenziali. Analisi che ci fanno perdere di vista la vera natura ed entità dei problemi, e anche il fatto che non solo è impossibile sottrarci a quelle sfide, ma che potremo affrontarle sono in chiave realmente e non retoricamente globale. È vero anche per le migrazioni, quegli spostamenti apparentemente incontrollabili di grandi e dolente masse umane che cercano di sottrarsi alla violenza e alla fame. Che sia così dovrebbero ricordarcelo le cifre: dei 45 milioni di rifugiati attualmente registrati dagli organismi dell'Onu soltanto una minima parte è ospitata in Paesi sviluppati, mentre la maggioranza si trova in campi - spesso vere e proprie città - situati in Africa, Asia, Medio Oriente. In altri termini, in Paesi che molto meno dei nostri possono permettersi di dedicare le loro scarse risorse a un impegno umanitario di tali dimensioni. E anche le migrazioni economiche avvengono in gran parte in direzione Sud-Sud piuttosto che Sud-Nord: dai bangladesi in India ai congolesi in Sudafrica. Ma se non vogliamo guardare alle cifre, in questi giorni dovrebbe bastare aprire la televisione e vedere il tragico spettacolo di gente alla deriva su imbarcazioni di fortuna. No, non vengono dal Nord Africa, e non si dirigono verso le nostre coste. Appartengono a una minoranza musulmana di Myanmar, che cerca di sottrarsi a discriminazioni e persecuzioni che rendono la loro vita impossibile, e si dirigono verso Tailandia, Indonesia, Malaysia. Paesi che non stanno certo gestendo operazioni come "Mare Nostrum" (un capitolo che, sarebbe bene non dimenticarlo, ci fa onore),ma anzi li respingono mettendone al rischio la sopravvivenza, dato che spesso quando si avvicinano alle coste hanno terminato sia viveri che acqua. Gli scettici, che non mancano anche su questo drammatico tema, dicono che la miseria è sempre esistita e che ogni Paese dovrebbe farsi carico dei propri problemi, delle proprie miserie. Che il nostro "buonismo" è disastrosamente autolesionista e ci espone a insostenibili danni economici e a rischi per la nostra stessa sicurezza. Dimenticano che in materia di rifugiati esistono norme internazionali, da applicare magari aggiornandole, come sta oggi cercando di fare l'Europa, alle esigenze del nostro tempo, ben diverse da quelle che avevano ispirato, nel 1951, la Convenzione sull'asilo politico, basata su casi individuali di persecuzione politica piuttosto che su spostamenti di grandi masse umane. Ma oltre le norme dovremmo anche considerare la realtà del mondo contemporaneo. Un mondo in cui è diventato illusorio applicare la libera circolazione ai capitali e impedirla per gli esseri umani, i cui spostamenti sono invece simili all'effetto del principio fisico dei vasi comunicanti. Ormai, per citare Zygmunt Bauman, anche le popolazioni sono "liquide" e difficili da fermare. Non ci riescono gli americani, difficilmente accusabili di essere "buonisti" ma incapaci di impedire il passaggio di migranti illegali dal Messico e dal Centro America. E, per quanto riguarda l'Europa, non esiste solo il transito mediterraneo, ma i migranti arrivano anche via terra, spesso con lunghi percorsi che attraversano Turchia, Grecia, Albania, Kosovo per puntare verso la Germania e la Scandinavia. È un flusso che va regolato, certo - come ormai sembra evidente che andrebbe fatto anche per quanto riguarda la finanza - ma in un modo che rispetti la legalità internazionale e l'umanità. E nello stesso tempo cercando di collaborare per affrontare alla radice gli squilibri politici ed economici che producono queste traumatiche e massicce migrazioni. Davvero siamo sorpresi che si cerchi disperatamente di fuggire dalla Siria, dall'Eritrea, dalla Somalia, da Myanmar? Un duplice compito certamente difficile, ma ineludibile. Nel Mediterraneo, ma non solo. Droghe: Polizia perquisisce l'abitazione di Rita Bernardini e sequestra 56 piante cannabis radicali.it, 16 maggio 2015 La segretaria di Radicali Italiani dichiara: "Lo rifarò, fino alla legalizzazione" Su mandato della Procura della Repubblica di Roma (Sost. Proc. Dott.ssa Silvia Sereni), questa mattina alle ore 9 la Squadra mobile della capitale ha perquisito l'abitazione della Segretaria di Radicali italiani e provveduto al sequestro della sua piantagione di cannabis (56 piante). Bernardini è indagata per il reato previsto dall'art. 73 d.p.r. 309/90 (divieto di coltivazione di piante di marijuana). Tutti gli atti (mandato di perquisizione e sequestro, nomina del difensore di fiducia e del domicilio, verbale di perquisizione e verbale di sequestro) verranno entro oggi postati sul profilo Facebook di Rita Bernardini che ha dichiarato: "Mi meraviglio che nei miei confronti non si sia proceduto all'arresto, come accade ogni giorno in tutta Italia a tantissimi incolpevoli che preferiscono coltivarsi la marijuana per non rifornirsi al mercato criminale che si arricchisce grazie al proibizionismo. Che si voglia silenziare la nostra quarantennale lotta per la legalizzazione così come si è silenziata la relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia che si è espressa chiarissimamente per la depenalizzazione della cannabis? In ogni caso, il mio impegno è quello di continuare a disobbedire fino alla legalizzazione completa dei derivati della cannabis". "Questa coltivazione - oggi sequestrata - era destinata, come le precedenti tre (oggetto di altrettante disobbedienze civili), ai malati di gravi patologie che, nonostante la legge lo consenta, non riescono ad avere accesso alla cannabis per curare e attenuare le sofferenze provocate dalla loro malattia. Come Radicali abbiamo voluto corrispondere all'impegno e alla lotta condotta dal leader antiproibizionista Andrea Trisciuoglio, segretario dell'Associazione LapianTiamo di Racale. Andrea, affetto da sclerosi multipla è fra i 60 italiani fortunati che hanno la disponibilità del farmaco Bedrocan tramite la ASL, ma non vuole essere un privilegiato e perciò lotta per tutti gli altri". "Aggiungo che questa mattina nel corso dell'operazione di polizia presso la mia abitazione ho reso dichiarazioni spontanee per specificare le finalità della mia coltivazione e per chiamare in correità il leader radicale Marco Pannella e l'ex Presidente di Radicali italiani Laura Arconti, attuale membro della Direzione del Movimento". Droghe: Rita Bernardini "legalizziamo la cannabis, solo così batteremo la mafia" di Pietro De Leo Il Tempo, 16 maggio 2015 Radicali e cannabis. Connubio ormai ben noto nel nostro scenario politico. Con la campagna pro liberalizzazione che sfocia, per tradizione pannelliana, nel "vissuto in prima persona" del gesto politico, attraverso iniziative eclatanti. Di cui si conta un'ampia antologia che comprende, per fare un esempio tra i più recenti, il tentativo di cedere pubblicamente alcune bustine di marijuana a un malato di sclerosi durante l'ultimo congresso di Chianciano Terme. Gesto finito con un sequestro da parte della polizia. Ieri, altro sequestro. Stavolta delle piantine che la segretaria dei Radicali, Rita Bernardini, coltivava nella sua abitazione. A dare la notizia è stata lei stessa, sul suo profilo Facebook, dove ha anche postato le foto dei relativi atti giudiziari. "Stamattina (ieri per chi legge ndr) uscendo di casa ho trovato dei funzionari di polizia che mi hanno chiesto chi fossi e dove fosse un determinato interno". Racconta Rita Bernardini a Il Tempo . "Siccome l'interno era il mio, li ho fatti subito entrare in casa e hanno iniziato la perquisizione. E poi proceduto al sequestro delle cinquantasei piantine di marijuana che coltivavo". E pensare che una di queste l'aveva persino messa all'asta su internet. "Sequestrata pure quella. Ma noi lo facciamo apposta. È disobbedienza civile". Quanta possibilità c'è di un "effetto contrario" da vicende come quella di ieri, cioè che la vostra campagna possa essere rilanciata? "Credo sia un effetto inevitabile, visto che nel nostro Paese ci sono quattro milioni di consumatori di cannabis. Secondo i dati forniti dalla Direzione Nazionale Antimafia, il consumo della cannabis raggiunge i livelli di alcol e tabacco. Con una differenza, però: quello della cannabis è gestito dalla criminalità organizzata. La Direzione, nella relazione di quest'anno, 2015, dice che bisogna procedere alla sua legalizzazione, perché loro non riescono a fronteggiare un fenomeno così diffuso. In pratica, è lo stesso concetto espresso da Pannella quarant'anni fa, quando fumò il famoso spinello in pubblico e finì in galera. È una notizia clamorosa, ma nessuno ne parla. Secondo me è uno scandalo". Legalizzare non sarebbe una specie di resa dello Stato? "La resa dello Stato c'è già oggi, ed è tutta nelle argomentazioni della Direzione Nazionale Antimafia. Lo dicono loro che non riescono a far fronte al fenomeno! Qui si tratta di governarlo, visto che ormai ha assunto una dimensione sociale. È un po' come accadde per gli aborti. Regolamentandoli, e anche lì fu una nostra storica battaglia, si sono ridotti di moltissimo. Nel caso della cannabis, inoltre, la regolamentazione può essere severa. Le sigarette, ad esempio, non possono essere vendute ai minorenni. Se tu regolamenti, puoi fare campagne di informazione, o dissuasive, spiegando quali conseguenze comporta il consumo o l'abuso di una determinata sostanza. Così com'è ora rimane tutto in mano alla criminalità organizzata, e le campagne dissuasive chi le fa poi, la mafia?". Gli altri partiti sono sensibili al vostro messaggio? "Sì, c'è un intergruppo parlamentare che comprende tutti gli schieramenti, di cui è promotore il senatore Benedetto Della Vedova, che è iscritto al Partito Radicale e nel 1995 fece insieme a me e a Pannella un'iniziativa di disobbedienza civile a Porta Portese". Dal governo vi è mai arrivato qualche segnale? "Magari vorremmo vedere segnali di fumo di qualche canna! No, a parte gli scherzi, niente segnali". Droghe: la Colombia smetterà di irrorare diserbante cancerogeno sui campi di coca ilpost.it, 16 maggio 2015 Da vent'anni il governo, sostenuto dagli Stati Uniti, irrorava le coltivazioni per danneggiarle usando una sostanza nociva e cancerogena. Il governo della Colombia ha deciso di fermare l'irrorazione aerea di un particolare diserbante sulle piantagioni di cocaina perché provocherebbe il cancro: l'irrorazione era un importante strumento del programma antidroga del paese, sostenuto anche dagli Stati Uniti, e andava avanti da più di vent'anni. Il New York Times scrive che il cambiamento di strategia potrebbe portare a nuove tensioni tra Colombia e Stati Uniti dopo che la scorsa settimana i funzionari statunitensi avevano avvertito che la quantità di terreno utilizzato per la coltivazione di coca nel paese dell'America Latina era cresciuto del 39 per cento rispetto all'anno scorso. Il presidente Juan Manuel Santos che lo scorso 11 maggio aveva detto in tv: "Dobbiamo trovare nuove strategie per combattere la coltivazione di coca, che siano più efficaci e causino meno danni all'ambiente e alla salute". Lo scorso marzo l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'OMS (Iarc) aveva definito la sostanza utilizzata, il glifosato, "probabilmente cancerogeno per l'uomo". Il ministero della Sanità colombiano ne aveva dunque raccomandato la "sospensione immediata" basandosi anche su ricerche interne che avevano segnalato conseguenze come mal di testa, vomito, irritazioni agli occhi, eruzioni cutanee e bruciature, aborti spontanei, perdita di capelli, problemi respiratori e, infine, il cancro. L'uso del glifosato aveva lo scopo di far morire le piante di cocaina e dunque di arginare il commercio illegale. Durante le operazioni di nebulizzazione venivano però colpite anche case, persone, animali e terreni agricoli. Il glifosato è il principio attivo dell'erbicida "Roundup", prodotto dalla multinazionale Monsanto. La Colombia è l'unico paese in cui si produce cocaina che utilizzi degli arerei per spruzzare diserbante e danneggiare il raccolto. Gli altri principali paesi produttori, Perù e Bolivia, hanno finora evitato questa pratica. Da tempo i critici dell'irrorazione sostengono che si tratta di una tecnica dannosa per la salute dei residenti e anche dell'ambiente. I sostenitori ritengono invece che la fine dell'irrorazione potrebbe portare a un aumento della produzione di cocaina e favorire i trafficanti di droga e anche le Farc, i cui finanziamenti dipendono in gran parte dal commercio illegale di stupefacenti. Hanno inoltre sottolineato che l'alternativa di sradicare le piante a mano è altamente pericolosa perché comporta l'invio di truppe di terra in zone spesso controllate dai trafficanti e dalla guerriglia. La pratica di irrorare glifosato da aerei - che secondo quanto scrive il Guardian sono pilotati da cittadini americani, perché i colombiani non sarebbero abbastanza esperti - è iniziata su piccola scala nel 1990. Dopo dieci anni era diventato lo strumento centrale del cosiddetto "Plan Colombia", un programma di lotta alla droga finanziato dagli Stati Uniti. Nel 2006 sono stati irrorati più di 405.000 ettari di terreno, secondo i dati elaborati per la Casa Bianca dall'Office of National Drug Control Policy. L'anno scorso l'irrorazione ha riguardato 137.000 ettari ma la quantità di terreno coltivato ??a cocaina è aumentato arrivando a 276.758 ettari contro i 198.919 ettari dell'anno precedente. Secondo Daniel Mejía, direttore di un centro di studi per la sicurezza e la droga con sede a Bogotà, l'irrorazione è stata finora inefficiente e controproducente. Stati Uniti: con cannato a morte l'attentatore di Boston, inutili gli appelli alla clemenza di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 16 maggio 2015 Non si è tenuto conto dell'influenza del fratello maggiore sul giovane ceceno. Condanna a morte per Dzhokhar Tsarnaev, l'attentatore della maratona di Boston di due anni fa. L'aveva chiesta Eric Holder, ormai ex ministro della Giustizia progressista di un'amministrazione, quella di Barack Obama, che di certo non sostiene a spada tratta la pena capitale. E il patibolo è stato da tempo abolito in Massachusetts: lo Stato nel quale è avvenuta la strage e nel quale Tsarnaev è stato giudicato. Ma quello commesso è stato classificato come un reato federale e come tale il caso è stato giudicato, prescindendo dalle normative locali. E le circostanze del massacro devono essere apparse a tutti talmente orrendamente gravi da escludere l'alternativa che era stata offerta ai giurati: condannare l'imputato, che era già stato giudicato colpevole, all'ergastolo senza possibilità di ricevere sconti di pena. Paradossalmente, la sentenza di morte consentirà a Dzhokhar - e alle sue accuse di maltrattamento dei musulmani rivolte all'America - di tornare periodicamente sui media per i prossimi vent'anni: tanto dovrebbe durare il gioco dei ricorsi ai vari livelli di giudizio che viene messo in moto da ogni sentenza di morte. Con una condanna all'ergastolo, invece, Tsarnaev sarebbe finito in qualche carcere remoto e sarebbe stato ben presto dimenticato. Forse la soluzione peggiore, dal suo punto di vista. Ma i giurati, non hanno fatto calcoli mediatici così sofisticati: arrivare a una condanna a morte non era facile, sia per la diffusa contrarietà alla pena capitale della popolazione locale, sia perché per una decisione così estrema era necessaria l'unanimità di tutti i 12 giurati (7 donne e 5 uomini). Tsarnaev era stato già giudicato colpevole per tutti i 30 capi d'imputazione federale che gli erano stati contestati durante il processo, 17 dei quali potevano comportare la pena di morte. I giurati hanno riflettuto per due giorni, 15 ore di camera di consiglio, complessivamente. Alla fine hanno deciso che la particolare efferatezza dei crimini commessi, la determinazione di Dzhokhar, già maggiorenne (anche se non di molto) al momento dell'attentato, l'evidente premeditazione e la sua motivazione ideologica giustificavano la condanna più dura: morte per iniezione letale. In quel maledetto 15 aprile di due anni fa i fratelli Tsarnaev depositarono gli zaini contenenti le loro bombe rudimentali in prossimità del traguardo della maratona. Le due esplosioni, a poca distanza l'una dall'altra, fecero tre vittime falciando gambe e braccia di molti altri spettatori. Tre giorni dopo i due fratelli si scontrarono con un poliziotto addetto alla sorveglianza del Mit, la celebre università tecnologica di Boston. L'agente venne ucciso con un colpo probabilmente sparato da Tamerlan, il fratello maggiore di Dzhokhar, che morirà poco dopo nella caccia all'uomo scatenata dalla polizia per le vie di Cambridge, la cittadella universitaria alla spalle della metropoli della East Coast. Ancora un giorno di ricerche e Dzhokhar, ferito, venne trovato nascosto nello scafo di una barca da diporto parcheggiata nel prato di un villino, non lontano dal luogo delle sparatorie. Intorno a lui i biglietti, insanguinati, sui quali aveva scritto la sua rabbia nei confronti dell'America e rivendicava il sanguinoso attentato contro innocenti come una rappresaglia per i maltrattamenti ai quali i musulmani sarebbero sottoposti negli Stati Uniti. Una giustificazione ideologica dello stragismo col quale questo ragazzo ha firmato la sua condanna a morte. Stati Uniti: carcere di Guantánamo verso chiusura, repubblicani accettano compromessi Ansa, 16 maggio 2015 I repubblicani ammorbidiscono la loro posizione sulla chiusura del supercarcere nella base militare Usa di Guantánamo Bay. Il senatore John McCain ha fatto sapere che nel prossimo National Defense Authorization Act (Ndaa), il provvedimento che approva il budget per la Difesa, è contenuto un capitolo bipartisan che autorizzerebbe il presidente Obama a chiudere il carcere di massima sicurezza a Cuba. Ma a condizione che ci sia un piano dettagliato per la chiusura, e soprattutto su dove trasferire i 122 detenuti che sono ancora nella struttura, e che sia approvato dal Congresso. "La cosa importante - ha spiegato McCain - è che questa legge apre ad un compromesso bipartisan sul carcere di Guantánamo. Ma richiede che l'amministrazione offra un piano comprensivo al Congresso su come si intende chiuderlo. Se questo piano verrà approvato il presidente avrà l'autorità di chiudere il carcere". McCain, da veterano del Vietnam e ex prigioniero di guerra, da tempo sostiene la chiusura di Gitmo, mentre la Casa Bianca ha sempre puntato il dito contro l'ostracismo dei parlamentari, in particolar modo repubblicani, che ha impedito al presidente di mantenere la promessa che fece sin dalla sua campagna elettorale nel 2008 di chiudere la struttura. Dei 122 detenuti di Guantánamo, 57 sono stati giudicati idonei al trasferimento in altri Paesi, mentre gli altri arriverebbero negli Stati Uniti e sarebbero detenuti dal ministero della Difesa sotto le stesse condizioni del supercarcere della base a Cuba.