Giustizia: il Papa e i detenuti; il suo messaggio resterà inascoltato, come per Napolitano? di Valter Vecellio lindro.it, 14 maggio 2015 Per l'Anno Santo Papa Francesco ribadisce il "no" all'ergastolo. Ci si era lasciati, la settimana scorsa, con la notizia che papa Francesco aveva in animo di indire, nell'ambito dell'Anno Santo, un particolare Anno Santo dedicato ai detenuti e in generale a tutta la comunità penitenziaria. Occasione, chissà, per seguire le orme di un altro pontefice, quel Giovanni Paolo II che accolto a Montecitorio dalle Camere per l'occasione riunite in seduta comune, ne approfitta per chiedere un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Atto che, molto dopo, e dopo aver superato infinite resistenze, si concreta in un provvedimento zoppo: solo l'indulto, che non viene accompagnato dalla contestuale e necessaria amnistia: da una parte si è alleggerita la pressione nelle carceri, dove i detenuti vivevano stretti come sardine; dall'altra non si faceva nulla per liberare le scrivanie dei magistrati di centinaia di fascicoli bagatellari, destinati comunque a finire carta straccia per via delle inevitabili prescrizioni. Soprattutto non si è saputa cogliere l'occasione di quella provvidenziale boccata d'ossigeno per fare quelle riforme necessarie in tema di giustizia da anni invocate, da anni lasciate lettera morta. Anche Bergoglio chiede clemenza; e in più di un'occasione dà il buon esempio: appena insediato nel trono che fu di Pietro, abolisce la pena di morte in Vaticano, e introduce il reato di tortura; è evidente che in Vaticano da tempo il ruolo che fu di Mastro Titta è vacante; e anche per quel che riguarda la tortura, è altamente improbabile che, all'atto pratico, sia uno di quei reati da perseguire, in Vaticano. Ma è il gesto che conta; perché i ‘gestì hanno valore, significato, importanza; e chissà, come sussurrano i più introdotti nel cerchio magico bergogliano, che quel giorno dell'Anno Santo dei detenuti il Papa non se ne inventi una delle sue, che lo hanno reso così popolare e benvoluto. Il Papa venuto da quasi la fine del mondo sembra intenzionato a percorrere questa strada fino in fondo. Una delle sue prime uscite, appena eletto pontefice è andare a trovare i ragazzi detenuti a Casal del Marmo, il carcere minorile di Roma. A un ragazzo che gli ha poi scritto, papa Bergoglio risponde che "tutti sbagliamo. La nostra vittoria è rialzarci e aiutare gli altri a non rimanere caduti. È più facile scartare una persona che ha avuto uno sbaglio brutto, condannarlo a morte con l'ergastolo. Il lavoro deve essere sempre quello di aiutarlo a rialzarsi, a reinserirsi". Il Pontefice affronta questo tema anche nella recente Bolla d'indizione del Giubileo Straordinario; spiega finalità e modi di attuazione dell'Anno Santo: "Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine ma l'inizio della conversione. Ciò non significa svalutare la giustizia ma Dio la ingloba in un evento superiore dove si sperimenta l'amore che è fondamento di una vera giustizia"; premessa per il cuore del messaggio che si intende lanciare: "Nell'antico Israele, ogni sette anni sabatici, nel Giubileo era prescritta la liberazione dei prigionieri, la cancellazione dei debiti e la restituzione delle terre agli antichi proprietari". Restiamo nei dintorni del Vaticano. Che fine ha fatto il reato di tortura? Se lo chiede Mario Chiavano su Avvenire, quotidiano ufficiale della Conferenza Episcopale dei Vescovi Italiani. "Sarà la volta buona? Così s'era detto non molte settimane fa, dopo la sferzata venuta dall'Europa per gli incresciosi fatti del 2001, con l'auspicio che la sentenza desse un'accelerata decisiva per tradurre in legge norme che si attendono dal novembre 1988". Già, perché sono trascorsi ben diciassette anni da quando il Parlamento dà il via libera alla ratifica della "Convenzione contro la tortura ed altre pene e trattamenti, crudeli, disumani e degradanti", firmata a New York, sotto l'egida dell'Onu, il 10 dicembre 1984. Come riconoscono (a parole) un po' tutti, prevedere finalmente un crimine esplicitamente denominato tortura ha un alto significato, non solo simbolico. I nodi da dirimere, però, sono tanti: l'articolo 4 della Convenzione chiede agli Stati di "vigilare…affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni…passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità"; non entra, però, nei dettagli sul modo in cui formulare le relative norme incriminatrici; si limita, con parecchie clausole, di scongiurare qualsiasi forma di impunità per i responsabili, escludendo scappatoie che li sottraggano alle sanzioni dovute. Se ne ricava che la Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo pone sul banco d'accusa l'intero nostro intero sistema di giustizia penale: che "si è rivelato inadeguato in rapporto all'esigenza di sanzionare gli atti di tortura compiuti e privo dell'effetto dissuasivo necessario a prevenire altre violazioni del genere". Ecco perché è necessaria una nuova legge, con buona pace di quanti hanno voluto, più o meno strumentalmente, accendere polemiche e fare demagogia. "Né si dica", osserva il quotidiano dei vescovi, "che la severità, in questo campo, costituisce un atto di sfiducia nelle forze dell'ordine o addirittura un incentivo ai comportamenti violenti degli antagonisti. Il fatto è che le violenze di piazza erano e sono, sì, da reprimere per le vie legali, e da contrastare sul campo, se necessario, anche con la forza, salvaguardando i poteri affidati alla polizia dal vigente codice penale; ma non possono scusare certe reazioni, compiute "a freddo" su persone, almeno in quel momento, inermi". Chiarissimo segnale che viene da oltretevere. Chissà se da Palazzo Chigi e dintorni lo vorranno recepire e si comporteranno di conseguenza. È stato lasciato cadere il solenne messaggio alle Camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il primo e anche unico messaggio inviato da Napolitano alle Camere, e riguarda la questione della giustizia e delle carceri. Un messaggio articolato, pesante, frutto di meditate e riflessioni, di un percorso di consapevolezza sofferto e riconosciuto, che vince legittime e comprensibili perplessità, e (forse) giustificabili esitazioni. Il Presidente ricorda nel modo più solenne che l'Italia è condannata più volte dalle giurisdizioni nazionali ed europee per violazione dei diritti dell'uomo; ed "è fatto obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino". "Fatto obbligo". Due parole che non possono essere più pesanti e definitive nella loro secca chiarezza. Di questo autorevole messaggio, nella forma e nella sostanza non si è parlato, discusso, non c'è stato dibattito. Non lo hanno fatto le istituzioni, Camera e Senato, non lo hanno fatto le forze politiche. Non lo ha fatto nessuno dei tanti che pure discutono e riflettono di tutto e su tutto, nei giornali e nelle televisioni. Accadrà la stessa cosa con papa Bergoglio? Ora una notizia che a prima vista fa sorridere, e che tuttavia pone un problema reale, effettivo: un detenuto, sottoposto al regime del 41-bis a Marino del Tronto, ingaggia una battaglia giudiziaria per soddisfare la sua umana debolezza: chiede di poter ottenere il permesso che gli siano inviati giornali porno; richiesta respinta. Il detenuto in questione annuncia ricorso alla procura di Ascoli e a quella di Roma. Nell'ambito del 41-bis si possono chiedere e ottenere deroghe per piccole cose, come un menù personalizzato se si hanno problemi di salute, o abbracciare i propri figli senza che restino al di là del vetro durante gli incontri con i familiari. La decisione, però, deve essere vistata e presa dal magistrato di sorveglianza. Deroghe sono state ottenute anche per tre detenuti che hanno chiesto di poter sfogliare una rivista pornografica. Il Dipartimento per l'Amministrazione Penitenziaria, però, è di diverso avviso, ha fatto ricorso e deciso di non applicare la sentenza. Il ricorso è stato poi bocciato, ma per il Dap conta poco: i giornali pornografici in carcere non entrano. Nuovo ricorso dei detenuti, e chissà come andrà a finire il braccio di ferro. Sembra uno scherzo, ma intanto quanto costa questo ping pong tra procure e Dap, quante risorse e persone tiene impegnate una cosa del genere? E comunque che fondamento ha un simile diniego? Giustizia: Stefano Rodotà denuncia "con la scusa del terrorismo ci tolgono i diritti" di Antonio Rossano L'Espresso, 14 maggio 2015 Francia e Spagna hanno appena approvato due leggi che limitano la libertà di espressione e autorizzano la vigilanza di massa, mentre il caso Nsa continua a scatenare polemiche. Parla il giurista e già garante della privacy. Che punta il dito contro la politica. Dal giugno del 2013, quando The Washington Post ed The Guardian pubblicarono le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di intercettazione e sorveglianza a tappeto messe in atto dalla Nsa, che il termine "sorveglianza di massa" è entrato nella discussione pubblica e nella consapevolezza collettiva. Se da un lato è proprio di questi ultimi giorni la notizia che una Corte Federale di New York ha dichiarato "illegali" queste attività di sorveglianza, dall'altro, proprio in Europa, dopo gli attentati terroristici di Parigi, i governi di Francia e Spagna, sostenuti dai rispettivi parlamenti, hanno avviato un'attività di legiferazione mirata a censurare la libertà di espressione e ad attivare meccanismi giuridici e tecnologici volti a controllare massivamente i cittadini e le loro comunicazioni. Con grave pericolo per la democrazia di quei paesi. Ma anche con il timore che quella che sta diventando una vera e propria deriva autoritaria, possa espandersi ad altri paesi del vecchio continente o comunque minarne l'integrità e la fragile unità istituzionale. Per Stefano Rodotà è un momento di importante verifica della tenuta delle istituzioni ed ordinamenti europei da cui potrebbe nascere, sul piano della democrazia, un'Europa a due velocità. Professor Rodotà, in Francia e Spagna la democrazia e la libertà di espressione sembrano a rischio. Cosa sta accadendo nel cuore dell'Europa? "Sta accadendo, e non è la prima volta, che utilizzando come argomento, o meglio, come pretesto, fatti riguardanti il terrorismo o la criminalità organizzata si dice "l'unico modo per tutelare la sicurezza è quello di diminuire le garanzie e di aumentare le possibilità di controllo che le tecnologie rendono sempre più possibile". E questo è sempre avvenuto, è avvenuto in particolare dopo l'11 settembre, vicenda che ho vissuto in prima persona perché all'epoca presiedevo i garanti europei e ho avuto una serie di contatti continui con gli Stati Uniti che chiedevano un'infinità di informazioni da parte dell'Europa, cui abbiamo in parte resistito. Questa volta si tratta di una spinta molto interna. Però mi consenta di fare una notazione perché in questi anni si è parlato infinite volte di "morte della privacy": questa è una vecchia storia, perché già negli anni ‘90 l'amministratore delegato di Sun Microsistems Scott McNealy diceva , riferendosi alla potenza della tecnologia: "Voi avete zero privacy, rassegnatevi". La verità è che il rischio non viene dalla tecnologia, viene dalla politica, dalla pretesa di una politica autoritaria di usare tutte le occasioni per poter aumentare il controllo sui cittadini. Controllo di massa, non controllo mirato. Politica in senso lato. Perché sono i governi, le agenzie governative di sicurezza che in questo modo cercano di impadronirsi della maggior quantità di potere possibile". C'è un "pericolo democrazia"? "Questo momento rappresenta un passaggio istituzionale importante, vi è una prepotenza governativa, rispetto alla quale i parlamenti non se la sentono di resistere: tanto in Spagna quanto in Francia, in sostanza c'è una accettazione sia della maggioranza che dell'opposizione. In Francia addirittura l'iniziativa è di un governo socialista, anche se sappiamo chi è Manuel Valls e perché è stato scelto. Tutto questo sta spostando l'attenzione e le garanzie nella direzione degli organismi di controllo giurisdizionali, cioè gli organismi che vegliano sulla legittimità di queste leggi dal punto di vista del rispetto delle garanzie costituzionali. Che sono le Corti Costituzionali in Europa e negli Stati Uniti le Corti Federali. Non vorrei che si dicesse "Eh cari miei voi la privacy l'avete già perduta perché la tecnologia in ogni momento vi segue e vi controlla", perché la verità è che l'attentato ai diritti fondamentali legati alle informazioni viene dalla politica e questo è il punto. Non è la tecnologia". La motivazione che viene proposta dai governi è sempre di voler individuare i criminali, non spiare i cittadini e con la tecnologia è possibile farlo… "Non tutto ciò che è tecnologicamente possibile è politicamente ammissibile e giuridicamente accettabile. C'è un momento in cui la politica si deve assumere le sue responsabilità e non può dire "ma la tecnologia già rende disponibile tutto questo". La legge spagnola e la legge francese mettono radicalmente in discussione la libertà di manifestazione del pensiero. Finora commettere un reato nell'accesso ad un sito era previsto solo per la pedopornografia. Adesso in Spagna è previsto "l'indottrinamento passivo": il semplice fatto che io vada su un certo sito può essere reato. D'altro canto, nella norma francese in discussione si è introdotta la possibilità di mettere in rete strumenti che consentono di seguire continuamente l'attività delle persone. Nella legge francese si usa addirittura l'espressione "boîtes noires" per definire dei congegni che riducono le persone ad oggetti, utilizzando un apparato tecnologico per verificarne minuto per minuto, il comportamento. E qui c'è una trasformazione stessa del senso della persona, della sua autonomia, del suo vivere libero. La Germania ha stabilito che non è possibile farlo, esiste una privacy dell'apparato tecnologico che si utilizza, estendendo l'idea di privacy dalla persona alla strumentazione di cui si serve. Inoltre, relativamente alla possibilità di entrare all'interno dell'apparato tecnologico dell'utente, che è una delle ipotesi al vaglio del legislatore, la Corte costituzionale tedesca recentemente ed ancor più recentemente la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno affermato che non è legittimo. Se la Francia porta avanti questa discussione e la Germania resta ferma sui principi enunciati dalla sua Corte Costituzionale allora avremo nuovamente un'Europa a due velocità, dove i cittadini francesi perdono velocità, perdendo diritti". Ma ormai forniamo, consapevolmente o meno, i nostri dati ovunque, in rete. Non è già andata perduta la nostra privacy? "Io so che se uso la carta di credito in quel momento sono localizzato, viene individuato che tipo di transazione viene effettuata e quindi si sa qualcosa sui miei gusti, sulle mie disponibilità finanziarie e così via. Però questo argomento non giustifica il fatto che poi, la conseguenziale raccolta delle informazioni implichi che chiunque se ne possa impadronire impunemente. Anzi il problema di uno stato democratico è quello di rendere compatibile la tecnologia con la democrazia. È questo il punto. Uno stato che dice di voler mantenere il suo carattere democratico non dice "visto che ho una tecnologia disponibile la uso in ogni caso". Il problema ulteriore è che si sta determinando un'alleanza di fatto tra soggetti che trattano i dati per ragioni economiche e agenzie di sicurezza che li trattano per finalità di controllo. Perché, dopo l'11 settembre in particolare, l'accesso ai dati raccolti dalle grandi società da parte dei servizi di intelligence c'era e c'è stato solo l'accenno a qualche timida reazione, ad esempio, da parte di Google. Sappiamo che in quel momento si sedettero allo stesso tavolo gli "Over the Top" (intendendo con questo termine le grandi multinazionali dell'ICT - ndr) ed i responsabili delle agenzie di sicurezza". Ma oltre la questione giuridica vi è la necessità di una maggiore consapevolezza degli utenti, che si rendano conto anche di cosa accade, di come sono gestiti i propri dati che capiscano l'uso che ne viene fatto… "Assolutamente d'accordo. C'è un grande problema culturale. È un problema che investe il sistema dell'istruzione ed il sistema dei media. Molte delle sentenze che ho citato, infatti, provengono da richieste di semplici cittadini o di associazioni che hanno portato davanti alle corti questi comportamenti. Quindi non c'è dubbio che oggi il problema, in largo senso, della "consapevolezza civile" è un problema fondamentale. I cittadini non sanno ad esempio, che possono rivolgersi persino al ministero dell'Interno per sapere se vi sono trattamenti in corso sul proprio conto. Addirittura in Italia, tramite il Garante, il cittadino in alcuni casi può accedere ai dati trattati dai servizi di intelligence che lo riguardano". Giustizia: Garante Privacy "fermate il processo mediatico, si uccide dignità delle persone" di Enrico Novi Il Garantista, 14 maggio 2015 C'è una parola che Antonello Soro, Garante della Privacy, non si stanca di ripetere: "Dignità". A un certo punto tocca chiedergli: Presidente, ma com'è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l'Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s'intende. "E una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un'interpretazione un po' radicale delle proprie funzioni. C'è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d'innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza". Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata? "Non credo che per spiegare le esasperazioni dell'incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico". Beh, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola. "È il risultato di atteggiamenti -che pure non rappresentano la norma - sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall'esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri". È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni. "Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l'utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all'informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all'informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe". E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no? "No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c'è una variabile moltiplicatrice". Quale? "La rete. È un tema tutt'altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile". Qual è l'aspetto più pericoloso, da questo punto di vista? "Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest'ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone". La gogna della rete costituisce insomma un "fine pena mai" a prescindere da come finisce un processo. "È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone". È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura. "Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema". Com'è possibile che abbiamo rinunciato? "Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l'uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all'informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona". Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio. "Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull'acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo". Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore. "Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico". Vogliamo fare il nome di un'inchiesta a caso? Quella su Ettore Incalza che è costata il ministero a Lupi, per esempio? "Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l'esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere". Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva. "Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all'informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell'informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato". Negli ultimi anni l'inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand'era troppo tardi. "E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante". E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. "Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell'arresto, all' audio dell'interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza". Come se ne esce? "Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice". Cosa intende? "Chi siede in una Corte viene inondato da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c'è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l'esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà". Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediati-co perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso? "Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po' il consenso dell'intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato". Giustizia: verso gli "Stati generali dell'esecuzione penale", Orlando incontra i Radicali Ansa, 14 maggio 2015 I Radicali sono da sempre uno dei movimenti in prima linea nella difesa dei diritti dei detenuti. Per questo in vista degli "Stati generali dell'esecuzione penale", un semestre dedicato all'approfondimento delle tematiche legate la carcere, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha voluto incontrare propri i Radicali e il loro leader storico Marco Pannella, che sabato ha interrotto lo sciopero della fame. L'incontro di stamani al ministero è durato circa un'ora. Al centro la questione carceraria, ma anche la giustizia civile e penale. "Ho ritenuto giusto invitare i Radicali - sottolinea il ministro - perché sta per avviarsi un ambizioso percorso che abbiamo definito "Stati generali dell'esecuzione penale" e che lanceremo il prossimo 19 maggio dal carcere di Bollate. Mi sembrava quindi doveroso avere un confronto con chi del tema delle carceri si è sempre occupato con grande impegno e anche coerenza. Nelle prossime settimane ci confronteremo anche con altri soggetti, componenti culturali e associazioni, che potranno darci un contributo importante nell'elaborazione complessiva, che verrà fuori in questi mesi, dal lavoro degli Stati generali che concluderemo nel prossimo autunno". Oltre a Pannella, c'erano Matteo Angioli, responsabile della campagna per il riconoscimento in sede Onu del diritto umano alla conoscenza, Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani, Deborah Cianfanelli, componente Direzione Radicali Italiani, Sergio D'Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, e ancora Laura Harth, Giuseppe Rossodivita, Elisabetta Zamparutti. Gli Stati generali si apriranno con una mattinata-evento, dalle 10 alle 14, a cui parteciperanno tra gli altri don Luigi Ciotti, presidente di Gruppo Abele e di Libera; il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida; l'artista Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura, l'attrice Valentina Lodovini, la giornalista e scrittrice Marcelle Padovani, il giurista e filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, il direttore di RadioTre Marino Sinibaldi, il presidente del comitato scientifico degli Stati generali Glauco Giostra. Anche Giorgio Napolitano, che da Presidente della Repubblica fece numerosi appelli e richiami sulle carceri, invierà un messaggio. Radicali: continuano i suicidi nelle carceri, problemi non risolti "I problemi all'interno delle nostre carceri sono tutt'altro che risolti: nei primi cinque mesi del 2015 l'illegalità delle strutture penitenziarie ha provocato la morte di 42 detenuti, 17 dei quali per suicidio". Dopo l'ultimo suicidio all'interno del carcere fiorentino di Sollicciano, sono intervenuti così Maurizio Buzzegoli e Massimo Lensi, segretario e presidente dell'Associazione "Andrea Tamburi". I due esponenti radicali si sono soffermati sulle responsabilità degli enti locali: "Esiste un'ipocrisia dilagante, acuita durante le campagne elettorali, che sicuramente non è efficiente per la risoluzione del problema: con i vari concerti, aperitivi e mostre all'interno degli istituti si risolve un problema di socialità per una sera, mentre servirebbe un impegno costante per migliorare le condizioni di vita dei detenuti soprattutto dal punto di vista sanitario, psichiatrico e di reintroduzione nella società". Buzzegoli e Lensi, infine, ricordano l'impegno radicale sul tema della giustizia: "Sono anni che come radicali proponiamo le soluzioni di amnistia e indulto riscuotendo il sostegno delle massime autorità nazionali e internazionali, a partire dal Presidente emerito Napolitano, ma la classe dirigente italiana preferisce seguire le indicazioni degli spin doctor e dei sondaggisti piuttosto che ripristinare nel Paese lo stato di diritto e la legalità". Giustizia: la Delibera del Csm sul processo telematico "servono più fondi e più addetti" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2015 Il Csm, in una delibera assai articolata approvata ieri dal plenum, chiede più risorse per il processo telematico. E il ministero della Giustizia a stretto giro di posta diffonde un comunicato per annunciare uno stanziamento di 19 milioni. La delibera, esito di un monitoraggio condotto negli uffici giudiziari, sollecita un aumento delle risorse nell'intero sistema di funzionamento e supporto al processo digitale con un riferimento particolare al miglioramento delle forniture di hardware, alla completa evoluzione dei sistemi di software e degli applicativi, al rafforzamento delle infrastrutture e delle reti, all'incremento dei livelli di assistenza. I ranghi del personale amministrativo dovrebbero poi essere resi più folti con l'assunzione di addetti qualificati alle mansioni richieste dal digitale e, in ogni caso, personale togato e amministrativo andrebbe formato in maniera costante. Di più. La delibera chiede anche la conservazione del doppio binario, carta-digitale, con la prima che resta "imprescindibile" soprattutto per la lettura e lo studio degli atti. Servono quindi norme o regolamenti che permettano di preservare il fascicolo cartaceo, prevedendo la sistematica riproduzione a stampa degli atti e consentendo la stampa dei documenti oppure il loro deposito in forma cartacea su disposizione del giudice. Necessarie sono poi anche norme, sia di natura primaria sia secondaria, che sciolgano le situazioni più intricate sul piano giuridico. Tra queste quelle relative al regolare instaurarsi del contraddittorio per le ipotesi delle comunicazioni telematiche obbligatorie di cancelleria o per le, ora possibili, notifiche telematiche. Da parte del Csm viene poi messa sul tappeto la questione dell'appello telematico: dal 30 giugno prossimo diventerà obbligatorio il deposito degli atti "endoprocessuali" nella fase di secondo grado, analogamente a quanto già previsto per i processi di primo grado davanti ai Tribunali dal 30 giugno 2014. Meglio sarebbe pensare a uno slittamento visti gli esiti del monitoraggio condotto a fine 2014 sulla trasmissione alla Corte d'appello dei fascicoli telematici di primo grado. Le risposte hanno coinvolto 116 uffici di primo grado: una cinquantina di uffici ( pertanto un numero molto alto) ha evidenziato che la trasmissione non viene in alcun modo garantita; altri 39 uffici hanno risposto che riproducono a stampa gli atti e li trasmettono; 32 uffici (quindi solo il 28%) utilizzano le funzioni dei registri e trasmettono copia a stampa degli atti telematici. E l'8 giugno potrebbe tenersi il plenum presieduto dal Capo dello Stato per l'avvio dell'esame delle proposte di autoriforma del regolamento interno del Csm. Oltre 19 milioni per potenziamento pct Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato nei giorni scorsi il decreto di variazione di bilancio con il quale vengono assegnate risorse del Fondo unico giustizia (Fug), per complessivi 30,53 milioni di euro, al finanziamento di prioritari interventi strategici dell'amministrazione giudiziaria e penitenziaria quali lo sviluppo e l'implementazione del processo telematico (19,53 milioni), il rafforzamento delle misure di sicurezza degli uffici giudiziari (3 milioni), il potenziamento degli Uffici per la esecuzione penale esterna (0,5 milioni), il miglioramento delle strutture penitenziarie (3 milioni) e l'ammodernamento degli automezzi destinati al trasporto dei detenuti (2,5 milioni) nonché per garantire lo svolgimento delle missioni nazionali del personale del Corpo di polizia penitenziaria (2 milioni). Il decreto sarà pubblicato sul sito giustizia non appena vistato dal competente organo di controllo. Prosegue, quindi, l'opera già avviata dal Ministro tesa all'ammodernamento e al recupero di efficienza delle strutture giudiziarie e penitenziarie, avvalendosi delle risorse rivenienti dal Fug, da destinare, ai sensi della vigente normativa, al funzionamento ed al potenziamento degli uffici giudiziari e degli altri servizi istituzionali, come previsto dall'articolo 2, comma 7, del D.L. 143/2008. Giustizia: Associazione Antigone "nuovo freno in Senato per la legge sul reato di tortura" Ristretti Orizzonti, 14 maggio 2015 "Così l'Italia va fuori dalla comunità internazionale. Purtroppo ieri in Senato - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - il dibattito intorno all'introduzione del delitto di tortura nel codice penale ha segnato la contrarietà dei responsabili delle forze di Polizia. Nei giorni precedenti c'erano stati gli interventi contrari di esponenti del Centrodestra e di Forza Italia. Dopo la sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Diaz il premier Renzi aveva detto che la risposta politica dell'Italia sarebbe stata l'introduzione del delitto di tortura. Ancora una volta invece si assiste a un arretramento nel dibattito. Con l'introduzione del crimine nel codice non si stigmatizza o mette a rischio il lavoro delle forse dell'ordine. Il reato è una garanzia per tutti quelli che si muovono nel solco della legalità. Ci appelliamo a tutti i parlamentari - forti anche delle 50.000 firme raccolte finora da una nostra petizione - affinché approvino subito una legge senza la quale saremo condannati all'isolamento dalla comunità internazionale". Giustizia: le Polizie contro il reato di tortura "problemi con ordine pubblico e immigrati" di Luca Rocca Il Tempo, 14 maggio 2015 Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza si ribellano all'introduzione del reato di tortura. L'introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, divenuta urgente dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo per le violenze commesse alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, rischia di legare le mani alle forze dell'ordine. E lo fa dopo che la Camera, il 9 aprile scorso, anche accogliendo degli emendamenti proposti dal governo, ha radicalmente modificato il testo del Senato. I vertici di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, e anche i senatori, di fronte a delle norme che porrebbero portare all'impossibilità di mantenere l'ordine pubblico, hanno chiesto delle modifiche radicali. Ad occuparsene, in questi giorni, è la commissione Giustizia del Senato, i cui membri, a prescindere dall'appartenenza politica, esprimono più di una perplessità. Il perché è presto detto. Tortura e Forze dell'ordine Il testo della Camera prevede, fra le altre cose, la configurabilità del reato anche in presenza di un unico atto di violenza o minaccia; l'inasprimento delle pene; il venir meno del requisito della gravità della condotta; l'ampliamento delle condizioni di divieto di espulsione e di respingimento, estese oltre il rischio della tortura, nello Stato ricevente. Di fronte a norme così concepite, due giorni fa, in commissione Giustizia, il Capo della polizia, Alessandro Pansa, il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, e quello della Finanza, Saverio Capolupo, hanno lasciato intendere che se il reato di tortura fosse varato così com'è, il rischio sarebbe un devastante caos. I vertici delle forze dell'ordine hanno, dunque, suggerito che il reato sia configurabile solo quando la condotta presenti elementi di gravità tali da non integrare altre ipotesi di reato contro la persona che si connotano per una minore rilevanza penale; il mantenimento della fattispecie come reato comune; l'introduzione di un testo aderente alla Convenzione Onu circa la configurabilità del reato quando la sofferenza fisica e psichica derivi dall'esecuzione di misure legittime; la previsione, per la configurabilità della tortura, di azioni plurime connotate da gravità. Denunce strumentali Senza queste modifiche si assisterebbe inevitabilmente a "denunce strumentali" in grado di causare, ha aggiunto Pansa, "danni potenziali sull'ordinario sistema di prevenzione e sicurezza". Anche perché, se le norme approvate dal Senato introducevano la tortura come un "reato comune" con aggravanti per il pubblico ufficiale, gli incaricati di pubblico servizio e i "privati" (ad esempio gli appartenenti alle organizzazioni criminali), in quello licenziato dalla Camera si fa quasi esclusivo riferimento ai pubblici ufficiali. Circostanza definita da Carlo Giovanardi, membro della commissione Giustizia, "inaccettabile". Stessa preoccupazione è stata espressa dal senatore del Pd, Giuseppe Lumia. Delitto ambiguo Il presidente della Commissione giustizia, Nitto Palma, ha poi contestalo l'articolo 613-bis del codice penale che, così come modificato, punirebbe "chiunque, con. violenza o minaccia ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona alni affidata o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche". Una formulazione che, secondo Palma, configura "il delitto di tortura in termini incerti ed ambigui, al confine tra reato proprio e rea to comune". Non è tutto. Lo stesso Giovanardi ha criticato anche "l'aver previsto da uno a sei anni di carcere per il pubblico ufficiale che privatamente istiga altro pubblico ufficiale a commettere il delitto di tortura" anche se "l'istigazione non è accolta" oppure "il delitto non è commesso". Espulsioni impossibili I vertici delle forze dell'ordine, come detto, hanno chiesto di modificare, insieme agli altri, la parte in cui si legge che "in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzioni per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di convinzioni personali o sociali o oggetto di tortura". Polizia, carabinieri e Finanza, infatti, hanno chiesto la riformulazione dell'articolo 4 perché il testo della Camera "assume una portata così estesa, tenuto conto dell'attuale contesto geopolitico, da porre seri ostacoli all'attività di allontanamento", e pertanto sarebbe urgente introdurre "un emendamento per circoscrivere al solo rischio di esposizione a tortura il divieto di espulsione". Più precisamente, il testo proposto suonerebbe così: "Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora sussistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura". Per Giovanardi, senza modifiche, saremmo di fronte alla "resa dell'Italia all'invasione di milioni di persone dall'Africa e dal Medio Oriente che avrebbero la garanzia di poter rimanere in Italia, visto che nei loro paesi d'origine questi diritti non sono garantiti". Giovanardi versus governo "I capi delle forze dell'ordine, sentiti in commissione Giustizia, hanno detto cose davvero scioccanti". A dirlo al Tempo è proprio Giovanardi, che ha aggiunto: "Secondo il testo della Camera, infatti, affinché si configuri il reato di tortura, basta solo una minaccia che provoca un'acuta sofferenza psichica. Questo significa che di fronte alla resistenza di un detenuto, oppure di un delinquente violento, nel momento in cui si tenterà di contenerlo, sarà difficile evitare una denuncia per procurata sofferenza psichica acuta, e quindi la sospensione dal servizio e il processo. Non solo. "Il testo della Camera, nella parte in cui, venendo meno la possibilità di respingere, apre le porte a tutti i clandestini del mondo, deriva da un emendamento presentato dal governo. Il provvedimento, infatti, è stato seguito dal ministero della Giustizia. Mi domando se quello dell'Interno sia stato informato. E mi domando il governo cosa voglia fare sull'ordine pubblico e sull'immigrazione". Manifesto ideologico e resistenza Letto il testo della Camera, Gianni Tonelli, segretario nazionale del Sap, ha parlato di "manifesto ideologico", spiegando che con le nuove norme "se un magistrato dice a un delinquente che se non collabora gli fa passare un brutto momento, può essere accusato di tortura", e "se un agente ferma un black bloc con delle molotov e gli chiede dove sono le altre, pena un brutto quarto d'ora, il rischio è lo stesso". Le norme così come volute dalla Camera, infine, considerano torturatore chi "causa una sofferenza acuta" allo scopo di "vincere una resistenza". Ma il codice penale prevede esattamente l'opposto, e cioè che alla polizia spetta proprio il compito di "vincere resistenze illegittime" attraverso il legittimo uso delle armi o della forza. Più che una legge, un vero pasticcio messo sotto accusa anche da Lega Nord, M5S e Unione camere penali. Giustizia: intercettazioni tra business e rischio di infiltrazioni mafiose di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2015 "Compare… a quell'amico nostro nell'albero… avevano un posto con una capannina che facevano le mangiate no? Si sono accorti sapete come? Si è staccata là dall'alberello e l'hanno vista appesa e là se hanno voluto registrare". È l'8 aprile 2010 e quando il "saggio" della ‘ndrangheta di San Luca (Reggio Calabria) Giuseppe Pelle racconta un vecchio episodio della "cimice" caduta dal ramo che rischiava di mandare di traverso l'abituale abboffata di pranzo, non sa, paradossalmente, di essere intercettato. Pensava di essere più scaltro della polizia giudiziaria che, oramai, è in grado di piazzare telecamere e microspie nei posti più impensabili. Le "cimici" invisibili Le "cimici" di ultima generazione sono rilevabili solo dagli esperti del settore: pressoché invisibili, registrano e trasmettono i dati solo quando dalla centrale di ascolto della Procura decidono di scaricare il materiale perché gli ambienti "attaccati" (come si dice in gergo) sono liberi da presenze umane. Senza intercettazioni, telefoniche ed ambientali, le indagini, a partire da quelle per corruzione, mafia e terrorismo, sarebbero impossibili o trascinate per molto tempo su un binario morto. La figura del maresciallo di paese che raccoglie sussurri e grida per poi dipanare certosinamente le indagini resiste ormai solo in datati libri gialli o nei film in bianco e nero. Il paradosso è che, al crescere dell'importanza di questo strumento di intelligence e investigativo, aumenta la confusione nel momento in cui il servizio viene affidato all'esterno. Il che è ormai una prassi, visto che Polizia scientifica e Ros dei Carabinieri, che un tempo acquistavano e piazzavano in proprio le microspie, lo fanno eccezionalmente. Senza legge di riferimento In Italia non esiste una legge che regolamenti l'attività delle imprese che mettono la propria professionalità nelle mani delle Procure. "Manca una disciplina organica - racconta Tommaso Palombo, presidente di Iliia, l'associazione di riferimento delle società che offrono servizi e materiali per le attività di intelligence e intercettazioni - e per la magistratura siamo consulenti, anche se questo è vero solo in parte. Il tecnico che opera a fianco degli investigatori viene infatti nominato ausiliario di polizia giudiziaria e tenuto quindi a segretezza e riservatezza". L'unico riferimento possibile è un regio decreto del 18 giugno 1931. Un altro mondo ed infatti non compare mai la disciplina delle attività di produzione e detenzione di apparecchiature elettroniche finalizzate a intercettazione e bonifica da parte delle forze di polizia. In questo vuoto normativo alcune prefetture chiedono il rilascio delle licenza considerando quelle attività omologabili alla fabbricazione o detenzione di armi o materiali esplosivi. Quando non ci pensano le prefetture a interpretare in ordine sparso le norme ci pensa la polizia postale, che, in una provincia del nord, è giunta a sequestrare microspie che viaggiavano su frequenze militari oppure alcune Procure che, prima di assegnare l'incarico, hanno richiesto il nulla osta di sicurezza personale per poter trattare informazioni, documenti o materiali classificati come "segretissimi", "segreti", "riservatissimi" o "riservati", con o senza una qualifica di sicurezza internazionale. Lettere: "Adelante con juicio", la lunghezza dei processi e la magistratura di Renato Balduzzi Avvenire, 14 maggio 2015 Nell'art. 111 della Costituzione sta scritto che la legge assicura la ragionevole durata di ogni processo: in effetti, i cittadini onesti pagano due volte le conseguenze della lunghezza dei processi, una prima volta in quanto danneggiati da una giustizia ritardata e una seconda volta quando lo Stato viene chiamato a risarcire il relativo danno patrimoniale e non patrimoniale. In questi giorni vi sono state due notizie, una buona e una meno buona. La buona notizia viene dalle classifiche stilate dall'Osservatorio sugli effetti economici delle riforme della giustizia, con l'apporto decisivo dell'ex presidente del Tribunale di Torino Mario Barbuto. Vi sono molti tribunali, anche nel Sud, che hanno avviato percorsi virtuosi, il che dimostra che il contesto non è un ostacolo insuperabile. Non è vero che i tribunali più efficienti sono quelli piccoli e con bassi carichi, il che ribadisce la ragionevolezza della riforma della geografia giudiziaria del 2012. Non vi sarebbe un legame automatico tra scoperture di organico e bassi risultati, il che confermerebbe la praticabilità di un miglioramento fondato su logiche organizzative. Più in generale, le "pagelle", se fatte con criteri seri (e aver distinto tra giacenza fisiologica e arretrato patologico lo è) sono utili e attraverso di esse anche la giustizia comincia a conoscersi e a misurare i risultati, come fa da anni la sanità. Certo, vanno affinati gli indicatori per abbinare al dato quantitativo quello qualitativo: studi recenti dimostrano che basse performance quantitative rimano con bassa qualità delle sentenze. La notizia meno buona è data dalla lentezza della disseminazione delle buone pratiche nei tanti tribunali ancora meno virtuosi. Qui il ruolo del Csm, che proprio ieri ha approvato un'importante delibera nella quale sceglie con decisione la via della progressiva estensione del processo civile telematico, è strategico. Si tratta di mettere la sfida della buona organizzazione al primo posto e di avviare un lavoro condiviso con il Ministero e con gli uffici giudiziari. Al cocchiere (anzi, ai cocchieri) della giustizia verrebbe da dire: datevi una mossa. Certo, muovetevi con prudenza, perché alla diminuzione della quantità si affianchi il più possibile un aumento della qualità, ma muovetevi: ne va della credibilità dell'intero sistema giudiziario e, dunque, del patto di fiducia tra cittadini. Emilia Romagna: la sfida della regione per migliorare l'assistenza sanitaria ai detenuti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 14 maggio 2015 La riforma del 2008 prevede lo stesso trattamento fuori e dentro il carcere, ma i problemi restano tanti. L'Emilia Romagna vuole migliorare l'assistenza sanitaria per i detenuti. Da un lato, vuole migliorare ulteriormente la qualità e la sicurezza delle cure rivolte alle persone detenute. Dall'altro, fornire indicazioni per la gestione clinica dei farmaci negli istituti penitenziari di tutta l'Emilia-Romagna e uniformare le procedure seguite nelle carceri dalle aziende Usl. Con questi obiettivi, la Regione Emilia-Romagna ha realizzato le "Linee di indirizzo per la gestione clinica dei farmaci negli Istituti penitenziari dell'Emilia-Romagna". Il documento, rivolto a tutte le aziende Usl, viene presentato con un seminario organizzato per lunedì prossimo a Bologna. Le linee di indirizzo sono state elaborate da un gruppo di lavoro multidisciplinare, composto da professionisti delle aziende sanitarie, della Regione e degli Istituti penitenziari, a partire dalle linee ministeriali sulla sicurezza nell'uso dei farmaci, recepite nella nostra regione con le "Linee di indirizzo per la gestione clinica dei farmaci" rivolte alle strutture del Servizio sanitario regionale. Nella stesura del documento, si è tenuto conto di alcuni aspetti peculiari dell'assistenza alle persone detenute in Emilia-Romagna: il fatto che sia già strutturato un percorso clinico di assistenza alle persone detenute; e che sia in fase di sperimentazione, a livello locale negli ambulatori di alcuni istituti penitenziari, l'uso di sistemi informatizzati per la somministrazione di terapie farmacologiche. Le linee di indirizzo, oltre a individuare gli obiettivi e a descrivere le attività che riguardano la gestione dei farmaci in carcere, affrontano i temi della continuità assistenziale (per esempio nel passaggio da un istituto di pena all'altro oppure nella dimissione dal carcere agli arresti domiciliari o in comunità oppure quando la persona torna in libertà), dell'approvvigionamento dei farmaci e della gestione delle scorte, della preparazione della terapia farmacologica. Alla base del documento, la necessità di stabilire una relazione efficace tra l'equipe sanitaria e la persona detenuta, in modo che l'intervento assistenziale sia appropriato e rispettoso della volontà della persona e per rendere più sicuro l'intervento stesso. Il coinvolgimento diretto del paziente va ricercato sia nella fase della prescrizione dei farmaci, sia nel momento della somministrazione dei medicinali. Inoltre alla persona deve essere fornita la completa informazione sulla cura proposta (sugli effetti ricercati con la terapia, sui possibili effetti collaterali, sulle relazioni con il cibo assunto). Il riferimento, nell'uso e nell'erogazione dei farmaci, è il Prontuario terapeutico di Area Vasta, che contiene un elenco di medicinali e una serie di schede di valutazione, pareri, raccomandazioni relativi ai farmaci da utilizzare nelle strutture sanitarie. I prontuari terapeutici in Emilia-Romagna sono così articolati: Area Vasta Emilia-Nord (Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena), Area vasta Emilia Centro (Bologna, Ferrara), Area vasta Romagna (Forlì-Cesena, Ravenna, Rimini). Le Aziende Usl, sulla base del documento regionale, dovranno ora elaborare procedure locali che tengano conto delle necessità specifiche e dei contesti organizzativi, individuando compiti e responsabilità delle figure professionali, tempi di attuazione delle linee di indirizzo e azioni di monitoraggio dei risultati. Nelle carceri il diritto alla salute è ancora un problema irrisolto nonostante la riforma epocale del passaggio al servizio sanitario nazionale, completata nel 2008. E infatti ancora forte il ruolo dell'amministrazione penitenziaria nel campo della salute e della sua tutela, avendole anzi, la riforma attribuito un compito organizzativo e di raccordo, di "garante" della qualità del servizio reso dall'amministrazione sanitaria, che non deve essere di livello inferiore a quello reso al cittadino libero. La riforma attualmente ancora però non sta dando i frutti sperati. La prima motivazione è il mancato passaggio culturale che i due sistemi devono compiere per avvicinarsi e collaborare: da una parte richiede all'amministrazione penitenziaria di abbandonare il modello verticisti-co che l'ha sinora caratterizzata e, dall'altra, chiede ai servizi sanitari di comprendere un concetto di sicurezza sino ad oggi a loro sconosciuto. Il secondo motivo è ancora il mancato adeguamento di alcune regioni e quindi un trattamento diverso a seconda il luogo. Secondo l'ultimo rapporto del comitato nazionale di Bioetica "il diritto alla salute in carcere, non si esaurisce nell'offerta di prestazioni sanitarie adeguate: particolare attenzione deve essere prestata alle componenti ambientali, assicurando alle persone ristrette condizioni di vita e regimi carcerari accettabili, che permettano una vita dignitosa e pienamente umana. Perciò, problemi quali il sovraffollamento, l'inadeguatezza delle condizioni igieniche, la carenza di attività e di opportunità di lavoro e di studio, la permanenza per la gran parte della giornata in cella, la difficoltà a mantenere relazioni affettive e contatti col mondo esterno, sono da considerarsi ostacoli determinanti all'esercizio del diritto alla salute: il servizio sanitario dovrebbe farsi carico di questi aspetti, al fine di combatterli in un'ottica preventiva". Calabria: il Consigliere Nicola Irto presenta ddl per istituzione del Garante dei detenuti Giornale di Calabria, 14 maggio 2015 Venerdì prossimo, 15 maggio, alle ore 10.30, nell'Aula "Levato" di Palazzo Campanella, il consigliere regionale e presidente della quarta Commissione, Nicola Irto presenterà ai giornalisti una sua proposta di legge per l'istituzione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. "L'elaborato normativo, realizzato in collaborazione con la Commissione carcere della Camera Penale di Reggio "Gaetano Sardiello", - spiega - punta ad istituire anche nella legislazione regionale calabrese una figura di riferimento per la garanzia di condizioni detentive dignitose e che - sottolinea Nicola Irto - contribuisca ad affrontare, con senso di umanità e giustizia, le continue emergenze del settore carcerario". "La proposta normativa, che mi auguro possa incontrare la sensibilità di tutti i consiglieri indipendentemente dal colore politico - conclude il consigliere regionale del Pd - si fa interprete dei moniti espressi in varie occasioni dalle più alte personalità civili e religiose affinché negli istituti penitenziari non siano negati i diritti essenziali dell'uomo anche alla luce delle reiterate pronunce di condanna subite dall'Italia in sede europea". Alla conferenza stampa parteciperanno anche l'avvocato Emanuele Genovese, Presidente della Camera Penale di Reggio Calabria, l'avvocato Gianpaolo Catanzariti, referente territoriale dell'Osservatorio carcere Ucpi, l'avvocato Renato Vigna dell'Osservatorio Carcere Ucpi. Abruzzo: il Radicale Grifoni in sciopero fame, chiede l'elezione del Garante dei detenuti emmelle.it, 14 maggio 2015 L'esponente radicale è al quinto giorno di protesta per ottenere dalla Regione l'elezione. Mentre Marco Pannella viene ricevuto in queste ore dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per l'emergenza delle carceri italiane, a Teramo il radicale Ariberto Grifoni è al quinto giorno di sciopero della fame per ottenere dalla Regione l'elezione del Garante dei detenuti. Per farlo, in Consiglio, sarà necessaria la maggioranza qualificata e sin qui, nonostante la legge risalga a 4 anni fa, è stata solo approvata una risoluzione, nello scorso mese di settembre, che non ha avuto seguito. In tutt'Italia, con diverse richieste sempre relative alle condizioni di vita in carcere e all'urgenza di nuove leggi, in molti si alternano nella dimostrazione dello sciopero della fame, come Grifoni. A questo proposito, secondo lo stesso, oggi i detenuti del carcere di Castrogno saranno informati della sua protesta. Liguria: il richiamo del Sappe ai candidati "più attenzione alla sicurezza e alle carceri" di Giò Barbera riviera24.it, 14 maggio 2015 Le carceri di Imperia e Sanremo sono sovraffollati con troppi detenuti e agenti spesso costretti a fare da medici, infermieri e psicologi per evitare suicidi (numerosi quelli sventati lo scorso anno in tutta la regione ndr). Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe richiama allora l'attenzione dei candidati presidenti e candidati consiglieri alle regionali. "In questi giorni di campagna elettorale - sottolinea il sindacalista dei baschi azzurri. Ho notato troppa superficialità e poca attenzione, forse perché nessuno dei candidati conosce bene l'argomento. Ma il problema delle carceri e più in generale della sicurezza non va sottovalutato". Ecco allora che l'intenzione del Sappe è quella di presentare e far sottoscrivere un documento col quale i candidati si impegnano ad avere un occhio di riguardo verso le condizioni di vita degli istituti di pena e più in generale per la sicurezza. "Nei programmi elettorali - avverte Michele Lorenzo - non ho letto nulla né in quelli dei candidati di centro, né di sinistra e di destra. Eppure si tratta di un argomento "scottante" e di grande attualità che deve essere affrontato prima che la situazione possa davvero sfuggire di mano". Il Sappe invita gli stessi candidati a visitare le carceri di Savona e del resto della regione "affinché si rendano conto delle carenze organiche e strutturali". Brescia: Luisa Ravagnani è la nuova Garante comunale dei diritti dei detenuti www.quibrescia.it, 14 maggio 2015 È stato nominato il nuovo Garante dei detenuti di Brescia. La scelta è stata effettuata nel corso della seduta del Consiglio comunale di martedì 12 maggio. Astenuti dal voto di Forza Italia, Lega, X Brescia Civica. La nuova garante dei diritti delle persone private della libertà è la dottoressa Luisa Ravagnani, ricercatrice presso l'Università degli Studi di Brescia, Dipartimento di Giurisprudenza. Unica candidata presentata dai presidenti delle Associazioni Carcere e Territorio e Volontariato Carcere e sostenuta da Comunità Fraternità, Fraternità Impronta, Cooperativa di Bessimo, Coop Sociale gli Acrobati, Coop Sociale il Calabrone, Confcooperative Brescia e Acli Bresciane. Ravagnani succede nella carica a Emilio Quaranta, scomparso recentemente. Belluno: nel carcere di Baldenich ha aperto una sezione per gli infermi psichici di Paola Dall'Anese Corriere delle Alpi, 14 maggio 2015 Prende il posto di quella femminile che all'inizio di quest'anno è stata trasferita Novità sulla gestione sanitaria: cambia l'orario dell'assistenza infermieristica. Novità alla casa circondariale di Baldenich. Entro la fine dell'anno (o al massimo a inizio 2016) sorgerà una sezione per l'accoglienza dei "detenuti con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione e dei detenuti con pena diminuita per vizio parziale di mente". Si tratta, in pratica, della messa in atto della legge 81/2014, che prevede il superamento degli ospedali psichiatrici. La sezione (tra le poche in Veneto, tanto che il personale carcerario e sanitario andranno a visitarne una simile in un'altra provincia per capire come funziona) ospiterà sei celle singole con un sistema di controllo interno ed esterno ad hoc e prenderà il posto di quella femminile, spostata altrove. Una novità che preoccupa l'Usl 1, chiamata a gestire la parte sanitaria del carcere. L'azienda, infatti, deve fare i conti con un budget che non riesce a coprire tutte le spese. E l'arrivo di soggetti così problematici potrebbe mettere in crisi la struttura sanitaria. "In base al carico assistenziale", precisa il responsabile dell'Unità operativa di sanità penitenziaria, Marco Cristofoletti, "l'istituto penitenziario di Belluno viene classificato "a basso carico". La struttura, infatti, ha una presenza media annua di circa 122 detenuti, anche se il decreto "svuota carceri" ha portato le presenze al di sotto delle cento unità. Per questa attività, ci vengono trasferiti 271 mila euro l'anno a fronte di una spesa effettiva di 480 mila euro. Dal prossimo anno Venezia ha annunciato che aggiungerà 40 mila euro". Spiccioli, di fronte a un gap di 200 mila euro, che viene coperto dall'Usl con risorse proprie. "Una spesa così elevata", prosegue Cristofoletti, "è dovuta al fatto che il nostro carcere è l'unico in Veneto ad avere la sezione per transessuali, persone che richiedono un'alta intensità di cura e soprattutto un elevato consumo di farmaci (ormoni, farmaci psicotici). Non vorremmo trovarci con le forze attuali a dover gestire detenuti con problemi psichiatrici pesanti". Intanto, all'interno del carcere è partita una nuova organizzazione del servizio sanitario, che interessa soprattutto l'attività infermieristica. Il servizio, appaltato alla cooperativa sociale Croce Blu, funziona otto ore per 365 giorni, quattro al mattino e quattro al pomeriggio. Ma per motivi organizzativi è stato chiesto all'infermiere di spostare più avanti al pomeriggio la sua presenza, soprattutto in corrispondenza della somministrazione di determinati farmaci che devono essere assunti dai detenuti in presenza degli agenti penitenziari. L'infermiere, quindi, sarà presente dalle 18.30 alle 23.30 (prima era 16-20.30). Alessandria: il pane prodotto dai detenuti del carcere di San Michele approda ad Expo di Eleonora Anello ambiente.tiscali.it, 14 maggio 2015 "Buono come il pane", "Dacci oggi il nostro pane quotidiano". Sono solo alcuni dei modi di dire che sottolineano l'importanza simbolica del pane, non solo come alimento. Proprio riferendosi alla preghiera, in occasione dell'apertura dell'Expo, Papa Francesco ha ribadito l'importanza di assicurare cibo sano e giusto a tutta la popolazione. E la stessa fiera internazionale deve essere un'occasione e una vetrina per aiutare le persone più deboli e chi si trova in difficoltà, anche solo momentaneamente. Cercando di realizzare tale obiettivo, l'Expo in corso a Milano ha aperto le sue porte al lavoro dei detenuti. È purtroppo ormai risaputo che le carceri italiane versano in tragiche condizioni. Vari appelli si sono succeduti affinché la situazione migliori. Anche i media hanno fatto la loro parte documentando il sovraffollamento, la precarietà, l'assoluta assenza dei più basilari diritti. Eppure, in questo scenario drammatico, esistono realtà in cui le istituzioni riescono ad assicurare una vita dignitosa ai reclusi. È il caso della Casa Circondariale San Michele di Alessandria in Piemonte. Qui, fra i diversi progetti educativi, da anni è attivo "Pane Quotidiano", laboratorio promosso dalla Cooperativa Pausa Cafè che vede proprio i detenuti produrre pane che viene commercializzato nei punti vendita Coop di Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria. La cooperativa sociale con sede a Torino produce eccellenze alimentari, tra cui anche birra e caffè, si occupa di commercio equo e solidale e fa parte della rete di Slow Food. Dopo la presenza a Eataly e al Salone del Gusto, in occasione dell'esposizione universale di Milano interamente dedicata all'alimentazione, il forno alessandrino rifornisce anche 20 ristoranti regionali presenti in fiera all'Expo di Milano. Potrete trovare questo pane nei ristoranti gestiti da Cir (Cooperativa Italiana di Ristorazione). Colpiti da questa lodevole iniziativa, abbiamo rivolto qualche domanda a Marco Ferrero di Pausa Cafè. Marco, raccontaci di questo panificio un po' speciale... "Il panificio di San Michele nasce nel 2012 con l'idea di produrre un "Pane quotidiano", realizzato con materie prime bio e prodotte rispettando l'ambiente, riscoprendo una modalità di produzione antica e salubre, a lievitazione naturale con il lievito madre, cotto in un forno a legna tra i più grandi del Piemonte. Il pane è prodotto da personale detenuto accompagnato da esperti panificatori della cooperativa. Attualmente vi lavorano 14 persone detenute e 5 formatori". Immaginiamo che i panettieri siano molto contenti di questa nuova collaborazione... "I ragazzi in carcere sono contenti perché hanno l'opportunità attraverso il lavoro di dare maggiore dignità alla loro persona. Inoltre, questo lavoro permette loro di guadagnare un salario ed essere indipendenti, aiutando le loro famiglie. I detenuti del forno apprendono un lavoro utile da utilizzare a fine pena e assumono consapevolezza delle capacità e delle potenzialità che possiedono". E all'Expo cosa si dice di questo pane? "L'accettazione da parte sia degli chef che lo utilizzano che del pubblico è straordinaria. Tra gli addetti ai lavori più entusiasti cito Andrea Ribaldone, lo chef de "I due buoi" di Alessandria che gestisce "Identità golose", un ristorante presente all'Expo. Per quanto riguarda il lavoro dei panettieri, il nostro pane dimostra che è possibile nutrire il pianeta con prodotti sani, di alto valore organolettico e portatori di valori di solidarietà. "Cum panis", ovvero il companatico, prendere il pane insieme, riconoscendosi figli di una stessa umanità e riconoscendo nell'altro un compagno, anche se quest'altro è all'interno di un carcere". Il pane è un alimento presente ogni giorno sulle tavole, che ben si addice a un contesto carcerario che ha come scopo ultimo quello della rieducazione. Il lavoro in carcere, infatti, abbassa la recidiva e offre una professione da spendere una volta scontata la pena. Sfornare pagnotte bio è dunque un modo educativo per ridare dignità e la presenza di questo progetto a Expo rappresenta un'occasione importante per dare visibilità e valore all'economia carceraria. Modena: i detenuti curano il verde pubblico, un progetto del "Gruppo Carcere-Città" modenaonline.info, 14 maggio 2015 Si occupano della manutenzione del verde nelle rotonde davanti a San Cataldo e a Sant'Anna. È cominciata, con lo sfalcio dell'erba, nella mattinata di lunedì 11 maggio e proseguirà anche nei prossimi mesi l'attività di manutenzione del verde che vede al lavoro un gruppo di detenuti del carcere di Sant'Anna in tre rotonde nella zona del carcere e di San Cataldo. Il progetto è curato dal "Gruppo Carcere-Città", con il coordinamento dei volontari del verde dell'associazione Sant'Anna che hanno messo a disposizione sia gli strumenti necessari che la loro esperienza, e si è sviluppato attraverso un accordo di collaborazione per sponsorizzazione di verde pubblico concluso con il Comune di Modena. Obiettivo principale dell'iniziativa, come sottolinea l'assessore comunale all'Ambiente Giulio Guerzoni, è "collaborare con il gruppo Carcere - città per offrire un'opportunità in più di sostegno, operativo e formativo, per il reinserimento nella società delle persone detenute in carcere. Un grazie particolare va al gruppo dei volontari dell'associazione Sant'Anna per il loro sostegno determinante". I detenuti, a coppie o in piccoli gruppi, intervengono sulle rotatorie tra le vie Neviani, Razzaboni e Sant'Anna; tra via Neviani e strada San Cataldo; tra strada San Cataldo e via Breda, per ripulire, falciare l'erba e, entro l'estate, piantumare nuove essenze. Una volta terminato il lavoro, installeranno anche i cartelli informativi che dichiarano l'adozione da parte del Gruppo Carcere - città delle tre rotatorie. Pavia: "Torre Gallo in rete", un progetto per educare i detenuti alla legalità di Lara Morano Il Giorno, 14 maggio 2015 "Torre Gallo in rete", è il nome del progetto che riunisce educatori e professionisti attorno ai detenuti per educare alla legalità, in un'ottica di reinserimento che passa attraverso un percorso educativo nel quale sono state coinvolte alcune associazioni del Centro servizi volontariato di Pavia. Il Protocollo d'intesa tra il Comune di Pavia e la casa circondariale è stato siglato ieri mattina a Palazzo Mezzabarba, e riconferma una collaborazione già esistente da diversi anni, la cui vocazione è il valore riparatorio. "Il carcere non deve essere visto come un parcheggio - ha dichiarato l'assessore alle Politiche sociali Alice Moggi - ma come un punto di partenza di un percorso educativo che guarda all'immediato dopo carcere". L'obiettivo è spostare idealmente la struttura da una posizione decentrata e farla avvicinare sempre più alla città "per favorire l'integrazione e scongiurare il rischio della recidiva", ha affermato il sindaco Massimo Depaoli. I percorsi integrativi prevedono anche incontri con le famiglie, e per lo scopo potrebbero essere messi a disposizione degli spazi comunali, e un contatto sempre più diretto tra detenuto e società civile in vista di un futuro reinserimento nel mondo del lavoro. All'incontro erano presenti la direttrice della casa circondariale Iolanda Vitale, la responsabile dell'area trattamentale Daniela Bagarotti e Gianni Mittino, responsabile Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna). Taranto: Sappe; un detenuto con problemi psichiatrici ferisce operatore sociale e agenti Gazzetta del Mezzogiorno, 14 maggio 2015 Un detenuto italiano 40enne con problemi psichiatrici, recluso nel carcere di Taranto, ha ferito al volto con un pezzo di vetro un operatore sociale e si è scagliato contro sette agenti di Polizia penitenziaria intervenuti per bloccarlo, tutti rimasti contusi. Lo rende noto Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), secondo il quale l'aggressione, avvenuta nella tarda mattinata di oggi, "avrebbe potuto avere un bilancio assai drammatico". Il detenuto, che ha precedenti per reati contro il patrimonio, era a colloquio con un operatore sociale quando, secondo Pilagatti, all'improvviso gli ha provocato un taglio al volto con un pezzo di vetro. Immediatamente è intervenuto un agente che ha "gettato per terra il detenuto e contemporaneamente ha lanciato l'allarme". Sono quindi accorsi altri poliziotti penitenziari che hanno immobilizzato l'esagitato. "Purtroppo - osserva Pilagatti - alla fine si contano sette agenti, oltre ai civili, che sono dovuti ricorrere alle cure del Pronto soccorso dell'ospedale di Taranto per lesioni e contusioni varie dovute ai calci, ai graffi e al vetro che il detenuto teneva in mano. Così non si può andare avanti, questo fatto era stato ampiamente denunciato dal Sappe poiché ormai le carceri, con la chiusura degli ospedali psichiatrici, sono diventati dei veri e propri manicomi". Lanciano (Ch): Sappe; agente aggredito, servono provvedimenti urgenti per il carcere www.lanciano24.it, 14 maggio 2015 Il segretario generale Capece: "Assurdo che da tre anni manchino un direttore titolare e 30 unità in organico". Dopo l'episodio avvenuto nel carcere di Villa Stanazzo, dove un detenuto ha aggredito un agente della polizia penitenziaria che lo aveva appena salvato dal suicidio, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) sollecita il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e i vertici dell'amministrazione penitenziaria ad assumere provvedimenti urgenti per la struttura di Lanciano. "È assurdo che questo carcere da più di tre anni sia senza un direttore titolare, e che il reparto di polizia penitenziaria sia carente di 30 unità senza alcuna integrazione", dichiara il segretario generale del Sappe, Donato Capece. "L'aggressione di Lanciano è avvenuta a distanza di pochi giorni da altri atti violenti contro diversi poliziotti in altre carceri", aggiunge Capece, "ed è sintomatica di come che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia siano costanti". "A poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario", continua il segretario generale, "come ad esempio l'espulsione dei detenuti stranieri, specie quelli protagonisti di eventi critici durante la detenzione, oppure la creazione di circuiti penitenziari differenziati per chi ha evidenti problemi psichiatrici". Giuseppe Ninu, segretario regionale per l'Abruzzo, evidenzia inoltre che "nel 2014, nelle carceri abruzzesi, si sono contati il suicidio di un detenuto, 89 atti di autolesionismo, 17 tentati suicidi sventati dalla polizia penitenziaria, 67 colluttazioni e 30 ferimenti; in particolare nel carcere di Lanciano ci sono stati 8 episodi di colluttazione, 2 ferimenti e 4 colluttazioni". Il Sappe rinnova la richiesta, indirizzata al ministero della Giustizia e ai vertici dell'amministrazione centrale, di dotare la polizia penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come gli spray anti-aggressione già assegnati in fase sperimentale a polizia di Stato e Carabinieri. Avellino: l'Osapp protesta "mezzi inadeguati, difficile il trasporto dei detenuti" Quotidiano del Sud, 14 maggio 2015 L'Osapp torna a sollevare un caso già evidenziato da tempo. L'Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, "nonostante le nostre numerose e non riscontrate precedenti missive in merito", sostiene di continuare a ricevere segnalazioni da parte di Personale di Polizia Penitenziaria iscritto e non, "sulla mancata esecuzione delle visite ambulatoriali da parte del competente N.O.T.P. di stanza presso la Casa Circondariale di Bellizzi Irpino, distante circa 60 Km, dall'Istituto Penitenziario Arianese". Nella nota del sindacato si legge: "Solo alla fine dello scorso anno, dopo numerose sollecitazioni di questa O.S. è stato assegnato un automezzo per il trasporto dei detenuti presso la C.C. di Ariano Irpino, per far fronte alle quotidiane esigenze di servizio, solo dopo qualche giorno, è diventato inutilizzabile a seguito del guasto al radiatore, verificatosi, sembrerebbe da notizie assunte, a causa delle temperature invernali registrate in quel periodo ed alla mancanza di liquido antigelo nel circuito di raffreddamento. Dopo ciò, il furgone restava fermo e ricoverato in autofficina, per i necessari interventi di ripristino per diversi mesi, dovendo sostituire il radiatore, che è stato fornito dalla stessa Direzione, recuperato da un fuori uso di un altro simile automezzo presso il N.O.T.P. di Avellino. Dopo poco tempo dagli interventi di cui sopra, si è appreso che il furgone è di nuovo inutilizzabile perché ha delle perdite di liquido dal circuito di raffreddamento, pertanto fuori uso in sede. Da voci sembrerebbe che questa volta l'automezzo debba essere portato al centro servizi presso il Prap di Napoli, come ci arriverà? Mediante il trasferimento con il carro soccorso, percorrendo circa 260 Km A/R da Ariano Irpino a Napoli o su strada con il rischio che lungo il tragitto possa aggravarsi lo stato di efficienza dell'automezzo, comportando un aggravio di danni e successivi costi per il rispristino dell'automezzo?". La domanda del sindacato, attraverso il delegato regionale Ettore Sommariva: " Non sarebbe più logico e meno dispendioso, riportarlo presso l'autofficina che ha già effettuati i precedenti lavori, che potrebbe darsi che l'attuale danno sia una diretta conseguenza e pertanto rientrano in lavori di garanzia? Attualmente non vi sono altri automezzi idonei a poter svolgere quotidianamente, le traduzioni dei detenuti presso i luoghi esterni di cura e tutto ciò avviene mediante autovettura del Corpo per il trasporto del Personale e priva di qualsiasi divisorio nell'abitacolo tra l'allocazione del detenuto e della relativa scorta, rispetto all'autista ed al Capo scorta, del tipo in uso alle altre FF.OO., rastrellando al momento Personale di Polizia Penitenziaria da altri posti di servizio, senza che vi sia una programmazione antecedente di tali servizi, con individuazione di Personale da impiegare ad hoc, anche in via continuativa, pertanto si sollecitano le Autorità Penitenziarie di prendere in esame l'istituzione di un Nucleo locale Traduzioni e Piantonamenti, cosi come previsto dal Nuovo modello organizzativo delle traduzioni e piantonamenti, al fine di sopperire con minor dispendio di Risorse Umane ed economiche alle quotidiane esigenze dell'Amministrazione Penitenziaria ed in particolar modo dell'Istituto Penitenziario Arianese. Non ci resta dopo queste considerazioni, confidare nella sensibilità delle autorità in indirizzo affinché ognuno per quando di propria competenza possano intervenire al fine di trovare la soluzione più efficace e economicamente vantaggiosa per l'Amministrazione Penitenziaria, in virtù della grave crisi economica che sta attraversando il nostro Paese in questi ultimi anni". Scansano (Gr): con "Il tè del venerdì" in biblioteca si parla di carcere e rieducazione grossetonotizie.com, 14 maggio 2015 Il carcere come istituto di riabilitazione e non solo di pena. È di questo che si parla venerdì 15 maggio, alle 17, alla biblioteca "Aldo Busatti" di Scansano per il ciclo di incontri "Il Tè del venerdì", attraverso la presentazione di due volumi: "Ne vale la pena" di Carlo Mazzerbo e Gregorio Catalano (edizioni Nutrimenti) e "Ricette al fresco" a cura di Giovanna Baldini (Edizioni Ets). Carlo Mazzerbo, nell'amministrazione penitenziaria da oltre 30 anni, è stato dal 1994 al 2008 direttore della casa di reclusione di Gorgona. Insieme al giornalista Gregorio Catalano - firma di Paese Sera, L'Occhio, il Messaggero e Corriere della Sera - venerdì ripercorrerà la sua esperienza di inserimento e contrasto all'emarginazione dei detenuti. Sulla piccola isola, perla dell'Arcipelago toscano, si è sperimentato, infatti, un modo di inserimento dei detenuti attraverso pesca, acquacoltura, agricoltura e allevamento. Attività che hanno favorito lo sviluppo economico e la creazione di legami con la popolazione locale: detenuti e abitanti dell'isola hanno studiato insieme per sostenere l'esame di licenzia media, formato un gruppo musicale e un armo di canottaggio. Mazzerbo e Catalano racconteranno quindi questa esperienza, che realizza il principio di rieducazione dei carcerati, sancito dall'articolo 27 della Costituzione. A seguire sarà presentato anche il volume "Ricette al fresco" a cura di Giovanna Baldini. L'esperienza è stata seguita anche da un'insegnate volontaria del carcere, Daniela Conviti, scansanese residente a Pisa. In "Ricette al fresco" sono raccolte 85 ricette inventate dai detenuti del penitenziario toscano che, a partire da pochi ingredienti a loro disposizione, hanno saputo creare piatti sorprendenti. Attraverso il lavoro insieme e la condivisione di gusti e sapori, il cibo diventa un modo per creare legami, conoscere, sperimentare una forma di libertà creativa. L'evento è promosso dal Coeso Società della salute, che gestisce i servizi bibliotecari, e dal Comune di Scansano, in collaborazione con le associazioni del territorio Auser, Tante Quante, Caritas e Macramè. Nuoro: le fiabe dei detenuti per la pediatria, "gemellaggio" tra il carcere e l'ospedale La Nuova Sardegna, 14 maggio 2015 "Con gli occhi che ho" va dal carcere all'ospedale. Otto detenuti hanno scritto, composto, colorato e disegnato delle storie per i pazienti del reparto di pediatria. È un modo di mandare la colpa incontro all'innocenza, quindi forse è un modo di guarire e di curare". Bastano queste poche pennellate per capire la natura e lo spirito di questo nuovo libro uscito dal carcere di Badu e Carros, dove è nato e cresciuto. "Con gli occhi che ho" è il titolo; sottotitolo: "Storie da un vicino mondo lontano". Centosedici pagine frutto del progetto "Vorrei essere un melograno" del dipartimento educativo della Fondazione Nivola (con il sostegno del ministero della Giustizia e del Rotary club di Nuoro), un "esercizio di scrittura creativa dedicato all'artista Costantino Nivola e rivolto agli ospiti della Casa circondariale di Badu e Carros di Nuoro". Curato da Sergio Flore e da Veronica Mingioni (progetto grafico di Giovanni Gusai), il libro è stato presentato nel carcere barbaricino e nel reparto di Pediatria dell'ospedale San Francesco. Per l'occasione gli agenti di polizia penitenziaria, al comando di Alessandro Caria, hanno regalato, come ormai da lunga tradizione, una serie di giochi e diverso materiale didattico ad uso e consumo dei piccoli pazienti dell'ospedale. "Si tratta di una esperienza di condivisione spontanea - ha sottolineato la direttrice della Casa circondariale di Badu ‘e Carros, Carla Ciavarella, di un dono che queste persone rinchiuse in carcere, per espiare lunghe pene, hanno avuto desiderio di fare/dare con lo scopo, timido, quasi sussurrato, di portare un sorriso nelle corsie dell'ospedale". "Molti di loro - ha aggiunto Ciavarella - sono anche padri, nonni che soffrono la distanza dai figli e dai loro nipoti, cresciuti lontani". Facile allora capire nel profondo parole come "ogni barlume di luce è un infinito di libertà" ("Gaia e la magia dei colori", fiaba scritta da Luigi). "Se fossi una fresca goccia di pioggia vorrei rinfrescare la terra con una semplice gocciolina" ("Se fossi", fiaba scritta da Francesco). "Vorrei pitturare i vostri cuori con miriadi di fiori, con specie diverse dai mille colori per alleviare i dolori delle vite sospese" ("Bambini e fiori", fiaba scritta da Antonio). ""Con gli occhi che ho" è un tentativo - si legge ancora nel libro firmato dagli otto detenuti di Badu ‘e Carros. Cerca di dare voce e aspetto innocente a chi innocente pensava di non poterlo essere mai più. È un incontro fra persone che hanno bisogno di una cura. È lo sguardo di un mondo verso un altro, come se una finestra desse direttamente sul soggiorno della casa accanto". Ferrara: a Masi presentazione dei lavori artistici dei detenuti alla Casa circondariale estense.com, 14 maggio 2015 Il "Maggio culturale a Masi" verrà inaugurato venerdì 15 maggio alle 21 presso la sala consiliare del Comune di Masi Torello. Per il primo appuntamento della rassegna verrà presentato "I lavori dei detenuti", un'opportunità per conoscere e poter apprezzare l'arte sia pittorica, mediante esposizione di tele, che di narrazione, mediante la lettura di racconti e poesie, composte dai detenuti della casa circondariale di Ferrara. L'appuntamento è organizzato dall'amministrazione comunale di Masi Torello, nella persona dell'assessore al Sociale Anna Maria Ballarini, in collaborazione con il direttore della casa circondariale di Ferrara, Paolo Malato, ed il Teatro Nucleo di Ferrara per presentare l'arte nata e sviluppata in carcere. La serata vedrà presenti Marcello Marighelli, garante dei diritti dei detenuti, Horacio Czertok di Teatro Nucleo Ferrara, Iosto Chinelli della rivista Astrolabio, il pittore Raimondo Imbrò, l'insegnante di alfabetizzazione Piera Murador e il musicista Walter Barone. Firenze: l'Uisp e il progetto "Sport in Libertà", così a Sollicciano ha vinto la solidarietà met.provincia.fi.it, 14 maggio 2015 La competizione si è sviluppata lungo le mura perimetrali della struttura penitenziaria. Sabato 9 maggio si è svolta Vivicittà nell'Istituto Penitenziario di Sollicciano l'edizione della corsa podistica dedicata alla popolazione carceraria. Uisp Comitato di Firenze, in accordo con il Comune di Firenze - Direzione cultura turismo e sport, la Regione Toscana (Legge 72), le Direzioni Educative della Casa Circondariale di Sollicciano e dell'Istituto M. Gozzini, intende così rilanciare il suo impegno attraverso una macro offerta sportiva. Il progetto, denominato "Sport il libertà" si colloca nei piani d'azione del Comune di Firenze e prevede interventi di attività sportiva più o meno intensa, singola o di gruppo, come momenti formativi ed educativi. È in questo quadro che rientra Vivicittà in carcere. "Il progetto "Sport in Libertà" trova radicamento nella consapevolezza che la promiscuità e il poco movimento, fisico e mentale, causano il peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti irrigidendo anche i rapporti interpersonali nel sistema carcere". Così Leonardo Sbolci Leonardo, Resp. Area Diritti Sociali. Non saranno resi noti, per motivi di privacy, i nomi dei vincitori, ma quel che è certo è che è stata una giornata ricca di valori dal punto di vista sociale e sportivo. Ancora una volta lo sport dimostra che è uno strumento formidabile per avvicinare, includere e solidarizzare fra mondi lontani e diversi. La manifestazione è stata resa possibile grazie all'impegno di tutti: dalla dirigenza dell'Istituto carcerario alla Uisp di Firenze che in collaborazione con il G.S. Le Torri ha organizzato l'evento. Al via delle due corse 12 donne e 82 uomini. La competizione si è sviluppata lungo le mura perimetrali della struttura. Buon risultato tecnico dei vincitori e del Presidente del Q4 Mirko Dormentoni che ha corso fianco a fianco con il Presidente del Consiglio Uisp Marco Ceccantini e con i detenuti che si sono cimentati nella gara. Alle premiazioni hanno partecipato anche l'Assessore allo Sport del Comune di Firenze ed il Garante per i Dirittti dei Detenuti Eros Cruccolini oltre ai sopracitati podisti e alla Presidente del G.S. Le Torri Alessandra Bercicchi. Ha vinto la solidarietà. Adesso l'obiettivo è quello di allargare la partecipazione ad atleti che vorranno venire a cimentarsi all'interno del carcere in modo da far conoscere questa realtà inserita nel territorio fiorentino. Prato: concerto di Bobo Rondelli all'interno della Casa circondariale della Dogaia di Carolina Mancini nove.firenze.it, 14 maggio 2015 Una rivoluzione in carcere: così Antonella Basile, responsabile degli educatori de La Dogaia di Prato ha definito il concerto di Bobo Rondelli, che si è svolto ieri sera, all'interno della Casa Circondariale maschile di Prato, alla presenza del pubblico e di alcuni detenuti. E si è concluso con un'enorme festa reggae, dove Bobo ha anche lasciato il palco a due giovani detenuti di colore che aveva chiamato a cantare con lui a metà concerto: "C'è questa fratellanza nei miei confronti, per cui qui dentro mi guardano e dicono: questo mi sembra di averlo già visto". "In questa sala di solito si gioca a pallacanestro, si fa teatro...si fanno tante cose, ma una cosa così non l'avevo mai vista, e credo che a questi ragazzi faccia davvero bene!" dichiara Basile a fine serata. Già nel pomeriggio, nel concerto riservato solo ai detenuti, Bobo li aveva invitati a cantare e a ballare, racconta Diego, il ragazzo con i lunghi capelli rasta che sembrava nato sul palco. "Ditemi perché quando sono venuti loro due, che in effetti ballavano un pochino meglio di noi, vi siete alzati tutti a ballare, e quando suoniamo noi state a sedere?" ha scherzato Bobo. Qualche pezzo del suo nuovo disco, "Come i Carnevali", uscito il 17 marzo, qualche canzone ‘di repertoriò (ha aperto con il "Cielo è di tutti", "in questo caso il cielo a scacchi" ha detto), e tanto d'altro: da Johnny Cash a Pietro Ciampi, da "Johnny be good" a Fred Buscaglione di "Guarda che luna" ("un amico mio crede che l'abbia scritta io, e che sia veramente bravo, e io ce lo lascio credere"). Un bel mix pulp (non a caso ha suonato anche il motivo di "Pulp Fiction") fra la parodia di Star Trek le battute dissacranti sulla chiesa, sul matrimonio ("12 anni di vita matrimoniale equivale agli arresti domiciliari"), l'armonica di "Un uomo da marciapiede". Se nelle parole del direttore, queste iniziative (già in dicembre la Dogaia aveva ospitato Peppe Voltarelli) servono a gettare un ponte fra il carcere e la città, a illustrare anche l'aspetto riabilitativo del carcere (i corsi di teatro organizzati da Teatro Metropopolare ad esempio), il concerto di ieri sera ha permesso ancora di più di toccare con mano la straordinaria vitalità di alcune di queste persone che vivono recluse. "Ma se invece di venire io a sonà, ci fate venì le tope a ballare, non sarebbe meglio per questi ragazzi?" provoca di continuo Bobo, e alla fine provoca quello di cui forse c'è più bisogno: la libertà di una festa. La macchina dell'odio: su Mediaset finti rom e musulmani pagati per dire che rubano di Mauro Munafò L'Espresso, 14 maggio 2015 Come si può alimentare una gigantesca campagna di odio etnico per qualche punto di share in più? Chiedetelo ai maestri di Mediaset. Dalle parti del Biscione pare che abbiano infatti preso l'abitudine di creare ad arte dei servizi per i loro talk show con questa formula: prendi attori o gente a caso e li paghi per fare la parte di rom, musulmani, minoranze etniche a scelta e fargli dire cose orrende. Tutto, come ovvio, dietro compenso: a voi qualche decina o centinaio di euro, a Mediaset un po' di indignazione un tanto al chilo. Il primo caso lo aveva denunciato Servizio Pubblico: due ragazzine rom che avevano dichiarato alla trasmissione Mattino 5 di rubare anche mille euro al giorno hanno poi smentito dicendo di essere state pagate 20 euro dalla giornalista per dire quelle cose in favore di telecamera. Mediaset ha poi confermato la veridicità dell'intervista, ma il sospetto rimane. Ieri è stata invece Striscia la Notizia a denunciare in prima serata i "cugini" di Rete 4. In ben due servizi dei programmi di Paolo Del Debbio, Quinta Colonna e Dall'altra parte, sarebbe andata in onda la stessa persona mascherata: una volta è stata pagata per fare finta di essere un rom che vende macchine rubate, un'altra volta per dire di essere un musulmano a cui "non frega un cazzo" se i cristiani vengono sterminati. In una di queste trasmissioni, al ritorno in studio c'era Matteo Salvini (in questo caso del tutto estraneo alla faccenda sia chiaro), che ha però in questo modo ricevuto un facile assist per elencare le sue possibili soluzioni a queste problematiche (+ ruspe). Lo stesso Salvini era inoltre in studio a Mattino 5 in occasione della (forse) finta intervista alle ragazzine rom. L'idea che queste ospitate siano quindi "apparecchiate" ad hoc non sembra del tutto campata in aria. Dopo il servizio di Striscia ho anche letto in giro vari commenti, molti dei quali puntavano sul "eh vabbeh quello è un attore, ma i rom queste cose le fanno davvero quindi ok così". E qui capisci che la macchina dell'odio ha funzionato perfettamente ed è già troppo tardi per fermarla. Mi limito quindi a segnalarne l'esistenza, per dovere di cronaca. Update Mediaset comunica di aver interrotto i rapporti con il giornalista responsabile dei due servizi: "Da oggi abbiamo interrotto ogni rapporto professionale e valuteremo le opportune iniziative legali nei confronti del giornalista Fulvio Benelli, responsabile dei due servizi", si legge in un comunicato mandato alle agenzie. Per i migranti quote europee, all'Italia il 12 per cento di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2015 Dopo lunghe trattazioni, la Commissione europea ha approvato ieri le attese linee-guida per meglio gestire l'immigrazione illegale. Forte dell'emergenza di questi mesi, l'esecutivo comunitario ha presentato un pacchetto che pone le basi per una nuova politica comune in questo delicato campo. Le proposte, che andranno approvate dal Consiglio europeo e dal Parlamento europeo, hanno già suscitato le reazioni negative di alcuni paesi membri, a iniziare dal Regno Unito. "Dobbiamo mostrare maggiore solidarietà", ha detto il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. "Creeremo un sistema di quote che faciliterà, in modo equo e solidale, l'allocazione di rifugiati che chiedono e sono eligibili all'asilo". L'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Federica Mogherini ha parlato della necessità "di condividere le responsabilità", in un contesto nel quale i paesi del Mediterraneo da anni ormai sono in prima linea nel gestire l'arrivo di migranti. Nel dettaglio, la Commissione proporrà entro fine mese un sistema di reinsediamento attraverso l'Unione di 20mila rifugiati non ancora sul territorio europeo, secondo quote specifiche per paese. Il commissario all'immigrazione Dimitris Avramopoulos ha spiegato in una conferenza stampa che lo schema sarà volontario. Il meccanismo obbligatorio Nel contempo, Bruxelles proporrà un sistema obbligatorio di ricollocazione in tutti i paesi europei di immigrati già presenti sul territorio europeo. Bruxelles precisa che la quota spettante all'Italia sarà del 12% del totale. "Il sistema basato sul Principio di Dublino non funziona come dovrebbe", ha spiegato il vice presidente dell'esecutivo comunitario Frans Timmermans. Attualmente, le regole europee prevedono che la responsabilità dell'accoglienza del migrante spetti al paese di primo sbarco. L'obiettivo della Commissione è quindi di mettere mano a uno schema che oggi costringe cinque paesi a gestire il 72% delle domande d'asilo. Per anni, molti governi hanno respinto l'ipotesi di modificare il Principio di Dublino. La Germania ha cambiato idea, e si è detta ormai favorevole a un sistema di quote dopo che negli ultimi mesi è stata oggetto di un forte aumento delle richieste di asilo. Agli occhi della classe politica tedesca la ridistribuzione è un modo per alleviare le pressioni sul proprio paese. L'adozione di quote obbligatorie poggia sull'articolo 78/3 dei Trattati che permette misure eccezionali in casi di emergenza. Secondo i parametri comunitari, basati tra le altre cose su Pil e popolazione, la Germania sarebbe chiamata ad accogliere il 18% degli immigrati da ricollocare (nel 2014, il paese ha ricevuto il 35% di tutte le richieste d'asilo registrate nell'Unione). Alla Francia andrebbe il 14% degli immigrati (rispetto all'11% delle richieste dell'anno scorso), mentre per l'Italia la quota del 12% è in linea con quanto è avvenuto nel 2014. L'anno scorso il paese ha registrato 35.180 richieste e concesso l'asilo a 20.580 persone. L'attuazione Le linee-guida andranno tradotte nelle prossime settimane in progetti legislativi concreti che dovranno essere approvati dal Parlamento e dal Consiglio. Il negoziato non sarà facile. Mentre Berlino si è detta favorevole, così come Parigi, contrari sono Londra e molti paesi dell'Est Europa. È da ricordare che i Trattati danno alla Gran Bretagna, all'Irlanda e alla Danimarca la possibilità di non partecipare al nuovo meccanismo di redistribuzione dei migranti per meglio gestire l'immigrazione illegale. Il nuovo ministro degli Interni inglese, Theresa May, ha criticato le linee-guida comunitarie: "Non sono d'accordo con Federica Mogherini secondo la quale nessun migrante o rifugiato intercettato in mare verrà rimandato contro la sua volontà (…) Un tale approccio non farà che incoraggiare la gente a rischiare la vita". Critiche a un pacchetto che dovrà essere approvato alla maggioranza qualificata sono giunte ieri anche da Repubblica ceca e Slovacchia. Intanto, lunedì prossimo i ministri degli Affari esteri dell'Unione discuteranno di una missione militare in Libia, con l'obiettivo di intercettare ed eventualmente distruggere le imbarcazioni usate dai migranti, grazie a una autorizzazione delle Nazioni Unite. Secondo The Guardian, il piano strategico attualmente in preparazione non esclude l'invio di uomini sul territorio libico. La signora Mogherini ha assicurato che la missione non includerà "militari sul terreno". Rifugiati: l'Unione europea si divide sulle (poche) quote di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 14 maggio 2015 Dramma nel Mediterraneo. Bruxelles approva il piano, ma molti stati membri si oppongono. Il progetto di risoluzione sarà sottoposto al voto. Relocation per l'emergenza, resettlement di più lungo periodo: in ogni caso, una goccia di 20mila accoglienze in due anni nel mare di 200mila arrivi. La Commissione europea vuole imporre delle "quote" obbligatorie agli stati membri per dividersi con maggiore solidarietà i rifugiati, per far fronte alla situazione di emergenza nei paesi di "prima linea", in particolare in Italia: il sistema della relocation è proposto da Bruxelles nell'Agenda europea sull'immigrazione, approvata ieri dal collegio dei commissari, con qualche anticipo rispetto al previsto. La proposta, in applicazione dell'articolo 78 comma 3 del Trattato di Lisbona, riguarda solo 20mila persone in due anni, mentre l'Onu aveva chiesto all'Europa di assicurare un'accoglienza di almeno 20mila l'anno, comunque una sproporzione visto che gli arrivi sfiorano ormai i 200mila solo negli ultimi mesi e sono stati 300mila nel 2014. Per salvarsi l'anima di fronte alla vergogna dei morti nel Mediterraneo, Bruxelles presenta un testo di "raccomandazione" agli stati membri, che dovrà però ancora passare il vaglio del voto del Consiglio (a maggioranza qualificata) ed essere discussa all'Europarlamento. Le reticenze sono forti. La Commissione ha già stabilito due tabelle, una per la ripartizione delle relocation (ricollocamenti) e una per quella del resettlement (reinsediamento), sempre su base di quote per paese, questione di più lungo periodo che verrà precisata entro fine maggio. I criteri che guidano la redistribuzione sono quattro: il pil del paese (che pesa al 40% sulla decisione), la popolazione (40%), il tasso di disoccupazione (10%) e la presenza di richiedenti asilo già accolti si base volontaria (10%). Con questi criteri, la Germania dovrà accogliere il 18,4% dei rifugiati, la Francia il 14,1%, l'Italia l'11,8%, (e in seguito il 9,9% per i reinsediamenti, 1989 persone), la Spagna il 9,1%, la Svezia il 2,9%. Questo sistema di "quote" è studiato per correggere la situazione attuale, dove, ha spiegato il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, "il 72% dell'asilo è concesso da 5 paesi" (Germania, Gran Bretagna, Francia, Svezia e Italia). Per Timmermans, si tratta di un sistema "oggettivo, equo, trasparente, basato su dati comprensibili ad ogni cittadino". Ma la Commissione ha fatto i conti senza l'oste. Intanto, tre paesi possono rifiutare di partecipare, la Gran Bretagna e l'Irlanda, che godono di un opt-in (opzione di adesione all'iniziativa) e la Danimarca (che ha un opt-out, un'opzione di ritiro preventivo). Ieri, Londra ha detto chiaramente tutto il male che pensa dell'idea delle quote di Jean-Claude Juncker: la ministra degli Interni, Theresa May, vuole piuttosto "un programma attivo di ritorni" e prende le distanze da Lady Pesc, Federica Mogherini, rifiutando l'idea che "non un singolo rifugiato o migrante intercettato in mare sarà respinto contro la sua volontà". L'Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca hanno detto "no" alle quote obbligatorie. Anche la Polonia è contraria all'obbligatorietà e propone "sforzi in funzione dei mezzi", facendo valere che Varsavia già accoglie molti ucraini. Per la Polonia, che al massimo accetterebbe qualche rifugiato di religione cattolica, sono i paesi con un passato coloniale che devono farsi carico dei migranti. Timmermans ha comunque precisato che le "quote" riguarderanno sono "casi specifici" (come la Siria o l'Eritrea) e che "ogni stato potrà continuare a determinare se accorda o meno l'asilo", anche nel caso di relocation d'emergenza. Siamo lontani dall'interpretazione di Federica Mogherini, secondo la quale "finalmente" è arrivata "una risposta europea, una risposta globale, che coglie tutti gli aspetti del problema". L'Agenda sull'immigrazione della Commissione avrebbe l'ambizione di rifondare la politica migratoria della Ue. Ma questo progetto di Juncker viene contestato da molti stati, che non vogliono intrecci tra asilo e immigrazione economica. La proposta di Bruxelles contiene non solo un incitamento a definire una politica di asilo comune (resettlement) e l'ipotesi per il 2016 di una revisione del regolamento di Dublino (che obbliga il paese di arrivo ad esaminare la domanda d'asilo), ma si concentra anche sulla lotta all'immigrazione clandestina, la guerra ai trafficanti e la securizzazione delle frontiere esterne. Nel 2013, secondo i dati Eurostat, su 425mila rifiuti del diritto di asilo, solo 167mila persone hanno lasciato il territorio europeo. Gli altri sono rimasti come clandestini. Prossimamente ci sarà un vertice a Malta, con i paesi di origine della migrazione e quelli di transito, per affrontare le cause della decisione di emigrare e la repressione dei traffici di esseri umani. Sul tavolo c'è anche un' "opzione navale", ha precisato Mogherini, che secondo il Guardian potrebbe anche passare per l'invio di forze di terra in Libia per distruggere i barconi. L'opzione sarà discussa al vertice dei ministri degli esteri della Ue di lunedì 18 maggio. Terek, immigrato detenuto in alto mare "io come Viktor Navorski" di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 14 maggio 2015 Tunisino, in Italia da 10 anni, il suo permesso è stato rigettato per mancanza di reddito mentre si trovava a bordo della Majestic. Da quattro giorni è rinchiuso sulla nave. Nel film di Steven Spielberg "The Terminal" il protagonista Viktor Navorski resta bloccato nell'aeroporto J.F. Kennedy perché nel suo Paese d'origine, la Krakozhia, avviene un colpo di Stato durante il volo e il nuovo regime non viene riconosciuto dagli Stati Uniti. La vicenda che in queste ore ha per protagonista Tarek Neji, tunisino di 36 anni, è forse meno drammatica ma gli aspetti surreali sono più d'uno. Tarek è infatti rinchiuso da quattro giorni in una cabina sulla nave Majestic della compagnia GNV, che sta andando avanti e indietro da Palermo a Civitavecchia, e solo sabato prolungherà il tragitto fino a Tunisi. Tarek deve essere rimpatriato, così è stato deciso. Il suo permesso di soggiorno non è stato rinnovato dalla questura di Brescia. Da dieci anni in Italia, Tarek si è prima fatto qualche anno da clandestino, sorte comune a molti immigrati, poi è stato regolarizzato. Vive a Piamborno, in Valcamonica, insieme al cugino. Nell'ultimo periodo ha lavorato in una piccola officina meccanica di Pian Camuno. In febbraio, vuoi per la crisi vuoi per problemi familiari, Tarek ritorna dalla mamma a Tunisi. In mano ha la ricevuta per la domanda del rinnovo del permesso di soggiorno, che gli consente di muoversi liberamente da e per il suo Paese d'origine. Sabato il rientro in Italia: si imbarca sulla nave diretta a Civitavecchia, la mattina successiva lo scalo a Palermo. È qui che inizia il suo dramma personale. "Ho sentito il mio nome all'altoparlante, sono andato alla reception e mi sono ritrovato due guardie e due poliziotti: ho capito subito che qualcosa non andava". Gli viene comunicato che la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno è stata rigettata dalla questura di Brescia, per mancanza di requisiti di reddito, e gli viene sequestrato il passaporto. Deve tornare in Tunisia. La nave farà però ritorno a Tunisi solo sabato. E quindi? Rinchiuso in una cabina e piantonato, sta facendo spola da Palermo e Civitavecchia. Così sarà fino a sabato. "Una situazione allucinante, non capisco, non ho commesso alcun reato. Sto malissimo". Gli portano da mangiare, ogni tanto ha una sorta d'ora d'aria, ieri sera è partito da Palermo, questa mattina l'arrivo a Civitavecchia, in serata il ritorno a Palermo. Chiama l'associazione Diritti per Tutti, si mette in contatto con l'avvocato Manlio Vicini. "In questi casi - spiega l'avvocato - essendoci privazione della libertà personale è necessario un provvedimento di convalida del giudici di pace. Ma non ci risulta che ci sia stato". L'ex datore di lavoro, Roberto Ravelli, è a conoscenza della situazione: "Non so cosa sia successo e cosa abbia combinato ma io lo tengo qua, non c'è problema: sono disposto a riassumerlo". "Potrebbe anche bastare - afferma Vicini - di solito, se il rigetto è legato alla mancanza di lavoro, come in questo caso, è sufficiente una promessa di assunzione. Domani (oggi, ndr ) faremo ricorso al Tar e speriamo che i tempi siano sufficienti perché arrivi il provvedimento di sospensione del rigetto fatto dalla questura". La nave non è veloce, prosegue il suo lento navigare da Palermo e Civitavecchia e ritorno. Fino a sabato, quando allungherà il tragitto fino a Tunisi. "Io voglio restare in Italia - spiega accorato Tarek - Sono qui da dieci anni, da quando ne avevo ventisei. Sono maturato e diventato grande qui". A Piamborno Tarek ha anche un'automobile di seconda mano e ha lasciato i vestiti, ma al momento non è questo il suo primo pensiero. Il suo sogno italiano è sospeso sulla nave, all'interno di una cabina di due metri quadrati. Non è una crociera regalo, non è la Krakozhia, nemmeno un aeroporto e men che meno un film. È tutta cronaca di queste ore. Iraq: parlano i jihadisti in carcere "presto arriveremo in Europa" di Marco Maisano Il Giornale, 14 maggio 2015 I fronti a sud di Kirkuk che fino a qualche mese fa erano luoghi di continue battaglie, oggi si presentano come immensi spazi silenziosi, dove migliaia di soldati Peshmerga rimangono in attesa di ricevere indicazioni. Tutti aspettano l'ordine di attaccare Mosul, capitale dello Stato Islamico in Iraq e tutti sanno che quello sarà lo scontro finale, quello che deciderà le sorti del Kurdistan. Una finta calma piatta regna su tutto il confine con lo Stato Islamico. Ma è un inganno. Perché anche a Erbil, la capitale di questa piccola nazione, l'aria è apparentemente più distesa. Rispetto a qualche mese fa la città si presenta molto meno militarizzata. Ma anche in questo caso si tratta di un inganno. La lotta all'Isis è in verità più cruda e rozza che mai, anche se meno evidente. Un imponente lavoro di intelligence voluto fortemente dal Presidente Barzani ha permesso l'arresto di uomini e donne, appartenenti allo Stato Islamico o a cellule vicine all'organizzazione terroristica. Un lavoro di prevenzione che ha permesso di evitare molti attentati o di catturarne tempestivamente gli esecutori, come i terroristi che il 17 aprile scorso avevano piazzato un'autobomba davanti al consolato americano nel quartiere cristiano di Ainkawa. Il carcere di Erbil è un'immensa struttura in cemento controllata per ogni centimetro da guardie armate, si è riempita velocemente di uomini che scontano pene che vanno dall'ergastolo alla pena di morte per impiccagione. L'ordine ufficiale è quello di impedire ogni contatto tra detenuti e giornalisti. I prigionieri vengono divisi in due categorie: gli iracheni e gli stranieri. Se è possibile dopo lunghe trattative incontrare alcuni terroristi locali, non lo è affatto per i foreign fighters . La diplomazia internazionale, ci fanno intendere ad Erbil, è in fibrillazione a causa dei molti connazionali che si sono uniti all'Isis. È evidente che il Kurdistan non intende rompere con nessuno, specialmente in un periodo come questo, dove ogni passo falso può rendere più complicato il percorso verso un'indipendenza del paese dal resto dell'Iraq. Entriamo nel carcere scortati da due uomini del Parastin, i servizi curdi, addetti ad impedirci di fare qualunque ripresa all'esterno o a colloquiare con personale non autorizzato. Veniamo portati in una stanza persa nei corridoi e inaspettatamente dopo solo qualche minuto di attesa fanno entrare il primo detenuto. Dice di chiamarsi Muhenet, ha 38 anni e sta scontando l'ergastolo. É stato catturato in un fronte a sud di Kirkuk. Ci racconta che è passato nelle file dell'Isis anche per una questione economica: i 250 dollari al mese che l'organizzazione terroristica gli passava erano più di quanto potesse sperare facendo il muratore. Ma ovviamente a fare breccia nel cuore di Muhenet è stata la convinzione di potere contribuire alla nascita di uno Stato Islamico senza infedeli: "I cristiani si devono convertire o pagare la tassa in quanto non musulmani. Rifiutarsi vuol dire andare incontro alla morte per impiccagione o peggio ancora crocifissi". La stessa sorte tocca a chiunque ostacoli o metta in discussione la legge ferrea della sharia imposta nelle città controllate dall'Isis: omosessuali, curdi musulmani, yazidi e caldei. Per tutti, ripete Muhenet, la fine è la stessa. Il nostro evidente stupore non desta alcuna reazione negli occhi del detenuto, rimane freddo e si limita a ripetere che lo Stato Islamico "si è ormai insediato e presto arriverà in Europa. Allora le vostre donne indosseranno il niqab (velo integrale) e tutti vivranno secondo la legge coranica". E aggiunge: "Provo dispiacere per i cristiani crocifissi, se si fossero convertiti il loro destino sarebbe stato un altro". Per Muhenet la sorte a cui sono andate incontro le donne yazide è uno dei tanti normali argomenti di cui parlare. "Quelle che decidono di non convertirsi vengono vendute. Il prezzo dipende dalla bellezza della ragazza. 800 dollari è il prezzo medio, ma se ne possono trovare di più economiche". E chi decide di convertirsi? "In quel caso la ragazza viene data in moglie a un combattente". Di foreign fighters Muhenet sembra averne visti molti: "C'erano americani, inglesi e anche italiani. Passano tutti quanti dalla Turchia, il viaggio è facile. Abbiamo uomini sparsi in Europa che reclutano nuove leve. Il volo è di sola andata per Istanbul, meglio ancora per Gaziantep. Da li i nostri provvedono a farti passare il confine e a portarti nei nostri territori". Ci portano un secondo prigioniero. Si chiama Muhasin e ha 18 anni. Ha i polsi tagliati dalle manette che forse porta tutto il giorno e lo sguardo inebetito da un carcere troppo duro. La bocca è completamente secca e le labbra segnate da profondi solchi. Riesce a parlare con difficoltà, ma si sforza e spiega in due parole cos'è per lui l'Isis: "Jihad… paradiso…". L'intervista viene interrotta continuamente dal suo carceriere, che lo sprona a parlare più chiaramente. Muhasin parla a tratti e capisce male le nostre domande, ma riesce a spiegarci come molti giovani vengano costretti a combattere. "Ti obbligano con la forza ad unirti a loro, specialmente se sei giovane". A Muhasin, così come al resto dei detenuti, non è permesso avere contatti con l'esterno. La sua famiglia non sa neppure si trovi: "I miei genitori mi credono morto. Prima o poi vorrei poterli riabbracciare". Anche per lui la vita troverà fine in carcere, la pena è l'ergastolo. L'ultimo detenuto che incontriamo si chiama Abdel Aziz e ha soli 15 anni. Arrestato anche lui al fronte, rimasto ferito a un'anca dopo uno scontro a fuoco. Il suo carceriere gli chiede di farci vedere la ferita, lui rifiuta, prova vergogna "è in un posto intimo" ripete. Ma la guardia lo forza, lui cede e ammanettato com'è abbassa quanto basta i pantaloni per pochi secondi. Poi ci parla del reclutamento e della fase di indottrinamento: "A 12 anni è normale prendere un'arma e andare al fronte. Prima però si passa da un addestramento che dura circa 4/5 giorni". Poi aggiunge: "Capitava spesso di partecipare a incontri con alcuni imam. Ci parlavano del paradiso e di quanto fosse facile arrivarci morendo da martiri". Cerchiamo di capire quanto davvero l'ideologia islamista abbia penetrato la mente di Abdel, se ancora c'è spazio per pensieri umani. Cosa è peccato? "È peccato mortale l'alcool, le sigarette, le puttane, frequentare cristiani, l'occidente… voi siete i nostri nemici". Neppure le galere curde sembrano avere fatto cambiare idea ad Abdel, che si limita solo a dirsi pentito di essersi unito, ma che intanto giustifica i metodi dell'Isis. La sua in realtà è la posizione di molti arabi. In tanti hanno scelto di non imbracciare le armi, ma non hanno provato neppure a ostacolare l'arrivo dei terroristi, anzi ne hanno facilitato l'ingresso e alleggerito il lavoro. Come quelli di Mosul che ancora prima dell'ingresso del dàsh (Stato Islamico) in città, hanno depredato le case dei cristiani fuggiti via e buttato giù le croci dalle chiese. Usciamo dal carcere storditi, confusi. Quelli erano i tagliagole che abbiamo disprezzato e odiato guardandoli in tv uccidere donne e bambini. Ci sentiamo traditi, arrabbiati, caduti in una trappola. È la compassione che arriva quando non la cerchi e che ti mette a disagio. Si, abbiamo provato compassione per alcuni di loro. E i curdi? Loro no, non ci cascano. Un tranello quindi? Forse sì, o forse siamo più semplicemente Cristiani. Cina: Human Rights Watch denuncia "uso di torture negli interrogatori rimane diffuso" Agi, 14 maggio 2015 Le torture sui detenuti negli interrogatori sono una pratica ancora diffusa in Cina, nonostante le riforme decise lo scorso anno dal quarto plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista per rafforzare lo Stato di diritto. Secondo l'ultimo rapporto di Human Rights Watch, basato "sull'analisi di centinaia di recenti sentenze", spiega la Ong per i diritti umani, i giudici "ignorano prove evidenti di maltrattamenti" dei sospettati durante gli interrogati dalla polizia. Le riforme varate finora, come il divieto del ricorso ai responsabili di cella per controllare gli altri detenuti e la ripresa video di alcuni interrogatori, non hanno eliminato il problema delle torture, secondo Human Rights Watch, ma prodotto alternative come forme di tortura che non lasciano segni visibili sul corpo e la manipolazione delle immagini video. "A meno che e fino a che i sospetti non hanno avvocati agli interrogatori e altre protezioni di base e finché la polizia non sarà ritenuta responsabile degli abusi - afferma nel rapporto Sophie Richardson, direttore della sezione Cina di Human Rights Watch - è improbabile che queste nuove misure eliminino la routine delle torture". Di 432 verdetti visionari da Human Rights Watch che menzionano il ricorso a torture nei confronti dei sospettati, spiega l'Ong, solo 23 hanno prodotto prove delle torture durante il dibattito in aula. In nessun caso c'è stata l'assoluzione dell'imputato. Nel 2013, secondo gli ultimi dati disponibili, solo lo 0,07% dei processi relativi a reati penali (825 su 1,16 milioni stimati) ha portato all'assoluzione dell'imputato. Stati Uniti: ha passato 29 anni in cella da innocente, il vero colpevole era un suo sosia Agi, 14 maggio 2015 Un uomo ha trascorso 29 anni in un carcere della Virginia da innocente, e ha adesso ottenuto la grazia dal governatore, Terry McAuliffe, dopo che il vero colpevole del tentato stupro di cui era accusato ha finalmente confessato. Il detenuto scagionato è Michael Kenneth McAlister, e oggi ha 58 anni. Era stato condannato ingiustamente nel 1986, al posto di un uomo che presenta una fortissima somiglianza fisica con lui. Il sosia ha ammesso le sue responsabilità per i fatti finora addebitati a McAlister, che aveva da poco finito di scontare la sua pena detentiva, ma era stato sottoposto dalla Procura a un nuovo procedimento per sottoporlo a una riabilitazione come "predatore sessuale". In base alle leggi della Virginia, questa riabilitazione avrebbe potuto durare indefinitamente. "La grazia è opportuna alla luce di prove schiaccianti dell'innocenza di McAlister, compresa la recente confessione di un altro soggetto"; ha detto il governatore McAuliffe, democratico. Egitto: dirigente dei Fratelli musulmani morto in carcere dopo un malore Nova, 14 maggio 2015 Un alto dirigente dei Fratelli musulmani, Farid Ismayl, è deceduto ieri dopo essere stato colto da un malore mentre si trovava detenuto nel carcere egiziano di al Zaqaziq. Secondo quanto denuncia l'emittente televisiva "al Jazera" il politico islamista era entrato in coma nei gironi scorsi a causa dei maltrattamenti subiti in carcere che avrebbero peggiorato la sua situazione di salute. L'uomo, docente universitario, era stato arrestato nel settembre del 2013 per la sua appartenenza al gruppo islamico.