Giustizia: l'orrore dell'art. 4bis ordinamento penitenziario … cambiamolo! di Maria Brucale Il Garantista, 13 maggio 2015 Alcuni detenuti sono più detenuti degli altri e non possono accedere al percorsi di rieducazione. Critico anche il Ministro della Giustizia Orlando. L'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario stabilisce che alcune categorie di reati siano sottratte per legge alla rieducazione ed al reinserimento nella società. Ma nessuna pena può essere costituzionalmente legittima se non è proiettata al raggiungimento della libertà. Nessuna punizione può essere utile se manca lo scopo del subirla. Per questo è importante la proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati dall'onorevole Enza Bruno Bossio una modifica costituzionalmente orientata dell'art. 4 bis della legge penitenziaria. Il senso della pena, della restrizione di un uomo in carcere, dell'inflizione allo stesso della privazione del bene supremo della libertà, deve essere la restituzione alla società. Il carcere non può, non deve, essere la facile soddisfazione offerta a pance dolenti per le troppe afflizioni del vivere quotidiano, il pronto ristoro per biechi populismi vendicativi, uno specchietto per allodole avvizzite dal bisogno cieco di giustizia sociale e di legalità. Il senso della pena deve essere la riabilitazione e la proiezione al ritorno alla vita. L'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario stabilisce che alcune categorie di reati - ergo, alcune categorie di persone - siano sottratte per legge alla rieducazione e al reinserimento nella società. Per le persone condannate a pene temporanee, nega la possibilità di ripristino graduale e progressivo alla vita nella società polche preclude l'accesso ad ogni beneficio penitenziario e a qualunque alternativa alla pena detentiva. Per le persone condannate alla pena perpetua, recide definitivamente ogni speranza, toglie ogni senso al carcere che rende non proiezione alla "restituzione" ma silenziosa, inerme, indolente attesa della morte. Nessuna pena può essere costituzionalmente legittima se non è proiettata al raggiungimento della libertà. Nessuna punizione può essere utile se manca lo scopo del subirla. L'ergastolo ostativo sottrae senso perfino al pentimento, quello dell'anima, all'analisi dei propri errori, alla rivisitazione dei propri percorsi deviati. Crea un tempo circolare destinato ad un infinito ed immutabile ripetersi. Immutabile e inutile. L'ergastolo è una pena di morte nascosta. La sola speranza di una detenzione finalizzata al recupero del sé e, per le categorie di persone condannate per reati di cui all'art. 4 bis, la collaborazione con la giustizia. Mercanteggiare la libertà di un uomo con la sua collaborazione è, però, uno strumento pericoloso e drammaticamente dannoso: si può tradurre in delazioni del tutto fasulle che hanno il solo scopo, per chi le esprime, di conseguire la libertà. Non solo. Il ricatto della collaborazione può essere una tragedia ulteriore per chi si trovi in carcere ingiustamente condannato. E ancora: è la negazione e la mortificazione di un diritto, quello di proclamare e difendere, anche a dispetto di una sentenza di condanna, la propria innocenza. Nessuno può essere coartato all'autoaccusa, ad affermare la propria responsabilità penale; nessuno può essere privato del diritto di professarsi innocente. È una tutela offerta dalla costituzione e racchiusa nei principi di inviolabilità del diritto di difesa e di non colpevolezza posti a presidio della libertà - da intendersi come valore assoluto e preminente - ma anche del decoro e della reputazione del soggetto nel contesto in cui il vive. La correlazione tra aspirazione all'accesso ai benefici penitenziari e obbligatorio approdo a condotte auto ed etera accusatorie - quando non meramente debitorie - si pone in feroce contrapposizione con il diritto di qualunque soggetto, perfino condannato con sentenza definitiva, a proclamare la propria innocenza. Nella effettività ri educati va della pena si proietta la delega di governo depositata il 23 dicembre 2014 dal ministro della giustizia, di concerto con il ministro dell'interno, e con il ministro dell'economia e delle finanze. L'art. 26 del disegno di legge elabora "Princìpi e criteri direttivi per la riforma dell'ordinamento penitenziario" e propone al legislatore "l'eliminazione dì automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo", E un passo in avanti, un passo importante che risponde ad una impellente urgenza costituzionale ed a un monito europeo di rispetto dell'art. 3 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo che vieta la tortura ed i trattamenti inumani e degradanti. E tortura, stabilisce la Corte Europea nelle sentenze Vinter c/Regno Unito e Trabelsi c/Belgio, la pena perpetua che non contempli la possibilità di revisione del proprio percorso di vita e di conseguente aspirazione alla libertà, "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte" (art. 27, comma 3 della Costituzione). "Un articolo per lungo tempo inattuato", afferma il ministro della giustizia, Orlando, al convegno tenutosi a Roma il 7 maggio sulla delega per la riforma dell'ordinamento penitenziario e ricorda che "il tema della pena e delle condizioni della sua esecuzione rappresentano una priorità di assoluto rilievo" anche in virtù della cogente necessità di "colmare il divario tra il dettato costituzionale e il sistema penale". La strada intrapresa, anche a fronte delle pesanti bacchettate inflitte e promesse dalla Corte Europea, è nella direzione di un ricorso sempre minore al carcere (riforma della custodia cautelare) e nel sempre maggiore potenziamento delle misure alternative alla detenzione. La condanna di Strasburgo, sottolinea il ministro, è stata "l'occasione per l'avvio di un complesso di interventi, non in chiave meramente emergenziale e difensiva, ma per un generale ripensamento della politica della sanzione penale e della detenzione nel nostro Paese". Un sistema, quello cui aspira il ministro Orlando, nel quale la costrizione e la privazione della libertà non costituiscano lo sbocco naturale per qualsiasi reato e che "sia pienamente finalizzato alla riabilitazione ed al recupero del condannato". Maggiore pena, maggiore afflizione, non equivalgono a maggior sicurezza, anzi! L'incoerenza della afflizione genera la ricaduta nel crimine e l'incancrenirsi di atteggiamenti deviati. Si impone, allora, "un allineamento dell'ordinamento penitenziario agli ultimi pronunciamenti della corte costituzionale che ha più volte affermato l'incostituzionalità di un sistema sanzionarono che si fondi su automatismi o preclusioni assolute". Orlando non reputa di poter smantellare l'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario ma ravvisa la concreta esigenza che se ne rivisiti il contenuto in una proiezione di legittimità costituzionale e di aderenza agli scopi della sanzione penale. In tale direzione si muove la proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati dall'on. Enza Bruno Bossio, deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia: una modifica costituzionalmente orientata dell'Art. 4 bis della legge penitenziaria. Al momento, oltre dall'on. Walter Verini, Capogruppo del Pd in Commissione Giustizia alla Camera, la proposta è stata sottoscritta anche da altri deputati: Danilo Leva, Gea Schirò, Luigi Lacquaniti, Chiara S cu vera, Roberto Rampi, Mario Tulio, Federico Massa, Cristina Bargero, Ernesto Magorno, Romina Mura, Camilla Sgambato, Alfredo Bazoli, Vanna lori, Edoardo Patriarca, Ernesto Preziosi (Pd), Pia Elda Locatelli (Partito Socialista Italiano), Franco Bruno (Alleanza per l'Italia) Paola Pinna (Scelta Civica per l'Italia) Daniele Farina, Celeste Costantino e Gianni Melilla, deputati di Sinistra Ecologia e Libertà. È un progetto importante teso ad inserire nell'ordinamento meccanismi di superamento di preclusioni e sbarramenti assoluti all'accesso ai benefìci penitenziari, proiettato, conformemente agli obiettivi della delega, a restituire al carcere, senza eccezioni, una prospettiva di rieducazione, di reinserimento, di recupero sociale della persona condannata. È una proposta che contempla, in aderenza al dato reale, possibilità per il recluso, anche diverse dalla collaborazione con la giustizia, dì dimostrare il ripudio di scelte criminali (esemplificativamente vengono indicate la dissociazione esplicita; le prese di posizione pubbliche; l'adesione fattiva a modelli sociali di legalità; l'impegno profuso per risarcire le vittime; il radicamento in diversi contesti territoriali). Una proposta che, in aderenza alla giurisprudenza della Corte Europea, è coerente al principio in virtù del quale "a tutti i detenuti, compresi gli ergastolani, deve essere offerta la possibilità di rehabilitation" (Vinter c/Regno Unito), che nessun uomo può giungere al pentimento, quello autentico, se non sarà mai perdonato; nessuna spinta positiva può esercitare una pena che non ha fine né emenda. Giustizia: celle inumane, dietrofront della Corte europea… che ne sarà di chi è torturato? di Damiano Aliprandi Il Garantista, 13 maggio 2015 Il detenuto era recluso in meno di 3 metri quadri ma non ha subito una pena degradante: così i giudici di Strasburgo si auto-smentiscono. La Corte europea ha creato un precedente pericoloso per la dignità umana calpestata perennemente dal sistema carcerario. Con una sua sentenza - destinata certamente ad accrescere la complessità dei procedimenti in materia di risarcimento del danno da detenzione "inumana e degradante" - la Corte europea dei diritti dell'uomo, occupandosi del caso di un detenuto ristretto in un istituto di pena croato, ha stabilito che non vi è stata violazione dell'articolo 3 Cedu (disposizione che vieta la tortura e le pene inumane e degradanti) anche se il ricorrente era stato detenuto - benché per un non prolungato periodo di tempo - in spazi tali da non consentire agli occupanti della cella la disponibilità di almeno 3 mq di spazio personale. Eppure la stessa giurisprudenza europea formatasi sul patologico sovraffollamento delle carceri italiane aveva considerato - con la sentenza 16 luglio 2009 - come grave violazione dei diritti fondamentali del detenuto il caso di restrizione in spazi inferiori ai 3 mq, affermando il principio che l'assenza di un adeguato spazio personale integra in sé un trattamento inumano o degradante. Tale indirizzo è stato successivamente confermato dalla sentenza-pilota dell'8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri contro Italia), con la quale i giudici europei hanno accertato la lesione dell'articolo 3 Cedu e condannato l'Italia a una soddisfazione equitativa in favore dei ricorrenti proprio affermando che il governo italiano non aveva avesse assicurato neppure uno spazio minimo medio nelle celle di 3 mq. Nella medesima prospettiva interpretativa, la Corte europea ha ritenuto violato l'articolo 3 Cedu, anche in presenza di spazi personali superiori ai 3 mq, in mancanza di ventilazione e di luce naturale (Cedu, sentenza 9 ottobre 2008, Moisseiev contro Russia) o qualora il detenuto avesse una limitata possibilità di permanenza all'aria aperta (Cedu, sentenza 17 gennaio 2012, Istvàn Càbor Kovàcs contro Ungheria), ovvero in presenza di altri elementi di criticità quali le condizioni igieniche carenti, il rischio di propagazione di malattie, l'assenza di acqua potabile o corrente, l'assenza di riservatezza nell'utilizzo dei servizi igienici. Decisivi ai fini dell'accertamento sulla violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti sono stati, inoltre, ritenuti alcuni parametri di natura soggettiva (puntualmente richiamati dalla decisione in esame), quali la durata del maltrattamento (sentenza 8 novembre 2005, Alver contro Estonia), gli effetti fisici e mentali di questo e, in alcuni casi, il sesso, l'età e lo stato di salute della vittima (sentenza 18 gennaio 1978, Irlanda contro Regno Unito, e sentenza 22 ottobre 2009, Orchowski contro Polonia). Tale complessivo quadro sembra ora rimesso in discussione dalla sentenza recente che revoca in dubbio la decisività del "fattore spaziale": l'affermazione che "l'estrema mancanza di spazio in una cella di un carcere ha un grosso peso fra gli aspetti da prendere in considerazione allo scopo di stabilire se le condizioni detentive impugnate fossero degradanti dal punto di vista dell'Articolo 3", è, infatti, immediatamente seguita dalla precisazione che la violazione de qua si produce per il complessivo sommarsi di una molteplicità di fattori concomitanti (quali la durata della detenzione, le possibilità di attività all'aperto, le condizioni fisiche e mentali del detenuto) e che tali elementi devono essere accertati e ponderati nel caso concreto. La sentenza in pratica ha creato un certo disorientamento tra gli operatori che, sia pure con qualche inevitabile incertezza dovuta alla relativa "novità" della materia, iniziavano a consolidare l'assunto per cui, accertato nella fattispecie concreta che la persona detenuta avesse fruito di una superficie "vivibile" (dedotto, cioè, dell'ingombro degli arredi) inferiore a 3 mq, si riteneva perciò stesso realizzata un'incisione dei diritti fondamentali della persona detenuta, di tale gravità da integrare "automaticamente" la violazione dell'articolo 3 Cedu. Un grave precedente che potrebbe dare carta bianca ai giudici di non risarcire automaticamente i detenuti che denunciano le loro condizioni di sovraffollamento. E il Governo non sarà più obbligato a far rispettare i diritti dei detenuti. Giustizia: "costano troppo", la vita non facile dei diritti riscoperti dalle sentenze di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 maggio 2015 Dietro le reazioni al verdetto sulle pensioni preme la domanda alle Corti di subordinare le decisioni a compatibilità con equilibri politici-sociali-economici, e di badare alla sostenibilità dei propri atti. Ci chiederemo quanta giustizia possiamo permetterci? Quanti diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene implicitamente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, Corte di cassazione) arriva una sentenza all'incrocio di un dilemma: adesso tra rivalutazione delle pensioni e vincoli di bilancio, ma già in passato tra danni dell'inquinamento Ilva alla salute di Taranto e destino degli operai e dell'acciaio italiano, e prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruzione e invece esigenze extragiudiziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima ancora tra impopolarità del tema carceri e condizioni inumane di vita di chi sta in prigione. E si può già scommettere riaccadrà nelle prossime sentenze che scioglieranno nodi sulle questioni di bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazionalità fiscali e esigenze dell'erario, o che incroceranno assetto degli statali e nuove regole per i dipendenti pubblici. Sotto sotto, è come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci possiamo permettere? Un retro-pensiero talmente sdoganato da nutrire reazioni sempre più insofferenti alle conseguenze di sentenze ripristinatorie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state percepite come ovvie riaffermazioni (di eguaglianza, dignità, equità sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché commissariata dallo scippo giudiziario della sua facoltà di decidere tra più alternative possibili e di imporre questa scelta senza lacci e lacciuoli. È un'insofferenza che trasuda già dalle parole usate da governo e parlamentari per definire la sentenza della Consulta sulle pensioni: "danno alla credibilità del Paese", verdetto che "scardina", decisione che (se applicata in toto) causerebbe conseguenze "immorali". Così, dopo ciascuna di queste sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non applicarle, oppure - se proprio non è possibile disattenderle completamente - almeno di contenerle, di arginarne la portata, di neutralizzarne gli effetti, di mitridatizzarne le conseguenze. Plastico l'esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo all'Italia per le condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su piccoli "rimedi compensativi" (8 euro al giorno per il passato, oppure lo scomputo di un giorno ogni dieci sulla pena ancora da scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l'85 per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata inammissibile, e soltanto l'1,2 per cento di richieste di risarcimento era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge sulla tortura, in teoria introdotta sull'onda di un'altra condanna dell'Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di Genova), ma in realtà parcheggiata (dopo approvazione in prima lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromesso al ribasso. Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l'urgenza della disoccupazione, la disabitudine alla ricerca di soluzioni che non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che inevitabilmente complesso non sia tagliabile con l'accetta, tutto congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai magistrati nei gradi inferiori) di subordinare le proprie decisioni a "compatibilità" con equilibri di volta in volta politici-sociali-economici e di assumere come parametro la "sostenibilità" dei propri atti. Con la conseguenza che non sembra più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella misura in cui esse siano compatibili con i bilanci statali, o appaiano socialmente accettabili, o risultino "digeribili" dalle esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o siano empatiche con le emozioni dei cittadini. Il che illumina due sottovalutazioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici costituzionali di propria competenza influisce e di fatto altera la vita della Consulta, dove indiscrezioni attribuiscono ad esempio la contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda sottovalutazione, in prospettiva, è di quanto la combinazione tra nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciare, a favore delle artificiosamente rafforzate maggioranze politiche di turno, le quote di giudici costituzionali e di componenti laici che spetta al Parlamento eleggere rispettivamente alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratura. Giustizia: intesa su ddl riforma del reato di corruzione ora si accelera sulle intercettazioni di Dino Martirano Corriere della Sera, 13 maggio 2015 I centristi ritirano gli emendamenti, si tratta sulla prescrizione. Orlando: via libera prima delle Regionali. Un vertice di maggioranza così lungo e teso - dedicato ai tempi della legge anticorruzione (da approvare entro maggio) e alle norme più severe sulla pubblicazione delle intercettazioni (in Aula già a giugno) - non si vedeva da molto tempo. Presenti: il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il viceministro Enrico Costa, i capigruppo Dem Luigi Zanda e Ettore Rosato (vicario), i capigruppo centristi Maurizio Lupi e Renato Schifani, il responsabile giustizia Dem Davide Ermini, gli emissari socialisti e di Scelta civica oltre la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti e i senatori Peppe Lumia (Dem) e Nico D'Ascola (Ap). Un vero plenum, quello andato in scena nella Sala verde di via Arenula, in cui ad alzare la voce ci ha pensato l'ex ministro Lupi (Ap) che ha rivendicato la "dignità che meritano tutti i partiti di governo". Se infatti il Pd ha incassato finora responsabilità civile dei magistrati e auto-riciclaggio e sta per portare a casa il ddl anticorruzione (con il reato di falso in bilancio), i centristi hanno presentato il conto su prescrizione, intercettazioni e nuova legge elettorale del Csm. A quel punto, però, la discussione al vertice di maggioranza si è impantanata. Il partito di Alfano ha provato a mettere in dubbio pure l'iter del ddl Grasso (anticorruzione) ormai arrivato all'ultimo chilometro alla Camera. E ci è voluto il risoluto intervento del premier Matteo Renzi (avvertito dell'impasse, ha dichiarato in tempo reale che "sarebbe buono se i deputati lavorassero anche l'ultima settimana di maggio in modo da approvare al legge anticorruzione prima delle elezioni") per imporre la linea del Nazareno. Ermini del Pd ha dunque letto con gusto il messaggio presidenziale ai partecipanti al vertice e lì si è capito che sul ddl Grasso la partita è chiusa. Così i centristi sono stati in qualche modo "costretti" a ritirare i loro emendamenti in commissione al ddl Grasso e la presidente Ferranti è potuta correre alla Camera e far approvare senza modifiche il testo che andrà in Aula il 15 per poi essere approvato prima di fine maggio. Schifani, poi, ha annunciato, come fuoco di interdizione, che gli emendamenti verranno riproposti in Aula. Da qui al 20 maggio, infatti, c'è tempo per trattare sui temi caldi della giustizia perché i centristi, dopo il martellamento del viceministro Costa che va avanti da settimane, non intendono mica rimanere a bocca asciutta: per ora ottengono un "tavolo" per accorciare i tempi della prescrizione sul reato di corruzione (l'aumento della metà calerà a un quarto) modificando, e quindi spingendo verso l'estate, il testo ora all'esame del Senato. Ma nel piatto forte che porta a casa Alfano ci sono pure una commissione ministeriale promessa da Orlando sul Csm e, soprattutto, l'accelerazione per nuove norme più severe sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche contenute nel ddl penale presentato dal Guardasigilli. Dopo l'audizione in commissione dei direttori dei giornali (20 maggio), si andrà in Aula a giugno, si voterà a luglio e, forse, "la delega al governo sulle intercettazioni verrà trasformata in vero articolato", anticipa Ermini. Nel vertice fiume di via Arenula si è parlato di tutto ma molto poco del ddl sui reati ambientali che martedì, dopo mille rinvii, affronta l'ennesimo (si spera l'ultimo) passaggio in aula al Senato. Giustizia: sul reato di tortura è scontro tra forze dell'ordine e magistrati di Francesco Grignetti La Stampa, 13 maggio 2015 Polizia, Carabinieri e Finanza: "Sicurezza a rischio". Ma l'Anm: "Legge equilibrata". Non convince, il nuovo reato di tortura. Approvato dalla Camera un mese fa, anche sull'onda dell'emozione che seguì la condanna dell'Italia da parte della Corte europea di giustizia per le violenze al G8 di Genova, il ddl oggi riprende il cammino al Senato. Ed è subito polemica. I senatori ospitano infatti i capi delle polizie - il prefetto Alessandro Pansa per la Ps, il generale Tullio Del Sette per i Carabinieri, il generale Saverio Capolupo per la Finanza - e scoprono che per i vertici delle nostre forze dell'ordine quella legge, così com'è, è tutta sbagliata e va riscritta. Nella stessa giornata, i senatori sentono in audizione anche il presidente dell'associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, per il quale, bontà sua, la legge come è stata votata dai deputati invece andrebbe benone. Ma sono i giudizi tranchant dei capi delle polizie a tenere banco. "Questa legge ci lega le mani". E i senatori danno loro ragione. Non così Sabelli: non c'è "assolutamente" un rischio del genere. "A nome dell'Anni esprimo un giudizio completamente favorevole". Un passo indietro: l'Italia ha accumulato un incredibile ritardo nell'aggiornare il proprio codice penale. La convenzione Onu contro la tortura ci impegna fin dal lontano 1984 a introdurre il reato di tortura. Dopo diverse legislature, nel marzo 2014 il Senato aveva finalmente approvato un disegno di legge. Trascorso un anno, la Camera lo vota a sua volta, ma con diverse modifiche. Il testo deve tornare al Senato. E qui, ieri, si scopre che i senatori sono fermamente intenzionati a tornare al "loro" testo. "Il testo così come è stato modificato dalla Camera è irricevibile - dice ad esempio il senatore Carlo Giovanardi, di Area Popolare. E i vertici delle forze di polizia hanno detto che con queste norme non sono in grado di mantenere l'ordine pubblico. Si sentono criminalizzati e inibiti a svolgere i loro compiti". C'è un punto che l'associazione dei funzionari di polizia aveva segnalato già il mese scorso e che ieri il prefetto Pansa ha rimarcato: nel testo della Camera è scritto che può essere considerato un torturatore chi "causa una sofferenza acuta" (quindi anche con una singola manganellata) con il dolo specifico di "vincere una resistenza"; ma siccome il codice penale, all'articolo 53, stabilisce all'opposto che è compito del poliziotto "vincere una resistenza", si profilano conflitti di giurisprudenza. I capi delle polizie pensano che con questa legge non si potrà più garantire l'ordine pubblico, perché ogni tafferuglio sarebbe seguito da un diluvio di denunce alla magistratura. Il prefetto Pansa ha utilizzato un linguaggio felpato ("Le denunce potrebbero causare danni potenziali sull'ordinario sistema di prevenzione e sicurezza"), ma è stato chiarissimo. "Le forze dell'ordine - riferisce perciò Maurizio Buccarella, M5S - temono denunce strumentali". "E credo che le preoccupazioni delle forze di polizia siano legittime", riconosce Enrico Buemi, Psi. C'è poi un secondo allarme e riguarda le ripercussioni sull'allontanamento degli immigrati irregolari. La legge, nel testo della Camera, vieta infatti l'espulsione coatta verso i Paesi dove si pratica la tortura. "Ma i capi delle polizie ci hanno detto che nell'indeterminatezza della norma diventa difficile operare le espulsioni, perché non sappiamo in quali Paesi si pratica la tortura", racconta Buccarella. Giustizia: ddl contro eco-reati, 8 emendamenti su 10 reintroducono il divieto di "air gun" Public Policy, 13 maggio 2015 Sono 8 (sui 10 presentati in totale) gli emendamenti depositati nelle commissioni Ambiente e Giustizia al Senato che mirano a reintrodurre nella proposta di legge sugli eco-reati il divieto di utilizzo dell'air gun, la tecnica di ricerca degli idrocarburi in mare, stralciato la settimana scorsa dalla Camera. A presentarli sono stati il Movimento 5 stelle, Lega Nord e Gal. Le identiche proposte emendative M5s (a prima firma Carlo Martelli), Gal (a prima firma Giuseppe Compagnone) e Lega (a prima firma Erika Stefani), mirano a punire con il carcere da 1 a 3 anni che utilizza la tecnica dell'air gun. Un secondo emendamento della Lega fa scattare il reato solo qualora non si rispettino le linee guida dettate dall'Accobams (Agreement on the conservation of cetaceans in the Black sea Mediterranean sea and contigous Atlantic area), come integrate dalle prescrizioni di Via. Un altro emendamento M5s mira a vietare invece "l'utilizzo di tecniche di indagine finalizzate alla coltivazione degli idrocarburi, mediante onde sonore di intensità superiore a 120 decibel misurate a distanza di 10 metri dal fondo di emissione". Un altro ancora prevede, invece della reclusione, l'automatica decadenza del titolo concessorio e una ammenda da 20mila a 120mila euro. Anche Gal, in alternativa, propone una ammenda da 10mila a 50mila euro o, ancora, il risarcimento dei danni. Il voto degli emendamenti è previsto per domani. Giustizia: al Tar del Lazio, dove 60 magistrati decidono… su tutto di Francesco Bisozzi Oggi, 13 maggio 2015 Sono sempre di più le competenze dei magistrati amministrativi, anche il governo rischia la faccia. Dal taglio delle ferie dei magistrati voluto dal governo Renzi al batterio xyiella che uccide gli ulivi in Puglia. Dai guard rail autostradali di Anas al metodo Stamina. Sulle controversie relative a materie così diverse l'ultima parola spetta all'onnisciente Tar del Lazio. Rispetto agli altri 19 tribunali amministrativi regionali sul territorio nazionale, al Tar del Lazio sono assegnale competenze di particolare rilievo. Ed è per questo che viene chiamato in causa più spesso di tutti gli altri. Risultato? Al pari dei loro colleghi della Consulta (i quali hanno appena bocciato la norma Fornero del 2011 che bloccava l'adeguamento degli assegni previdenziali al costo della vita per gli importi superiori a tre volte il minimo Inps, innescando la mina-pensioni da 13 miliardi di euro circa con cui oggi è alle prese l'esecutivo), i magistrati del Tar del Lazio hanno il potere di far saltare i piani del governo. E questo che potrebbe accadere nelle prossime settimane, quando l'organo di giustizia chiarirà se i giudici hanno diritto a 30 giorni di villeggiatura come stabilito da un decreto del ministero della Giustizia dello scorso gennaio (decreto su cui il premier Matteo Renzi ha messo la faccia) o a 45 come previsto dalla precedente normativa. Oggi il Tar del Lazio, è chiamato a deliberare sempre più di frequente su questioni che non hanno nulla in comune tra loro. In pratica, spara sentenze su quasi tutto: sui provvedimenti della Presidenza del Consiglio come su quelli di Regioni e ministeri, su quelli della Banca d'Italia, della Consob, sugli atti della Corte dei Conti, sulle decisioni dell'Antitrust, sulle questioni di natura urbanistica, sui referendum elettorali e persino sulle slot machine. Lo scorso anno l'organo di giustizia ha ricevuto il 26% del totale dei ricorsi depositati innanzi a tutti i Tar italiani. Dai 13.208 ricorsi presentati al Tar del Lazio nel 2013, si è passati a 16.855. È dal 2001 che il numero delle controversie proposte non era così elevato. Al punto che il presidente del Tar del Lazio Luigi Tosti all'inizio di quest'anno ha lanciato l'allarme, dichiarando che il personale a disposizione dell'organo di giustizia non è più sufficiente considerata la mole di lavoro di cui deve sobbarcarsi. Oggi sono oltre 60 i togati sul libro paga del Tar. Intascano attorno ai 130 mila euro lordi l'anno. Due anni fa il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, responsabile dei Tar, ha concesso loro un extra pari a 1.300 euro per ogni udienza aggiuntiva (in teoria i ricorsi assegnati a ogni giudice possono essere al massimo 108) purché non siano più di 6 all'anno. Un bonus che in pochi si sarebbero fatti sfuggire visto che il lavoro non manca. Giustizia: Polidoro (Ucpi); caso Yara, di questo passo arriveremo al processo con televoto di Chiara Rizzo Tempi, 13 maggio 2015 Le immagini del colloquio privato in carcere tra Massimo Bossetti e la moglie su tutte le tv e siti web. E nessuno dice nulla. Intervista a Riccardo Polidoro (Ucpi). "Queste immagini rappresentano l'ennesima violazione e violenza di uno Stato che non rispetta non solo i diritti ma la dignità e i sentimenti di coloro che sono ristretti nelle carceri" scandisce a tempi.it l'avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell'Osservatorio carcere dell'Unione camere penali italiane, dopo la diffusione del video di un incontro tra Massimo Bossetti - accusato di essere l'assassino di Yara Gambirasio e detenuto in custodia cautelare - e la moglie Marita Comi, risalente allo scorso 14 dicembre. Un video che da Sky Tg 24, che per primo lo ha diffuso in esclusiva, è finito poi a ripetizione su tutti i telegiornali, quotidiani e siti on line italiani. In esso si vede la donna chiedere più volte al marito se ha da dirle "qualcosa" in merito all'assassinio della povera bambina, ma Bossetti non rivela nulla. Avvocato Polidoro, il video di un colloquio in carcere sarebbe assolutamente riservato. Com'è finito in tv secondo lei? "Non è da tutti avere la disponibilità di questi filmati. Fermandoci alla superficie potremmo dire che è stata un'esclusiva, ma volendo andare oltre è chiaro che questi sono atti che può avere solo l'autorità giudiziaria. È raro che le abbiano gli avvocati, i quali in questo caso soprattutto non hanno nessun interesse a diffondere conversazioni private di un incontro intimo del loro assistito. Il giornalista che è riuscito ad avere il filmato riterrà forse di aver conseguito un ottimo risultato professionale, si sarà sentito autore di uno "scoop" nella gara mediatica dove in nome di un presunto dovere all'informazione ogni pudore è quotidianamente calpestato. E colui che ha ceduto le immagini lo avrà fatto per gloria o per denaro? Certo è che la rosa degli autori di questa fuga di notizie è molto stretta, non è da tutti avere la disponibilità di filmati girati in carcere. Entrambi oggi saranno fieri di aver reso pubblico un atto di indagine, coperto da segreto istruttorio". Chi può avere l'interesse a diffondere questo video? "Non c'è nessun interesse pubblico, ma solo un interesse voyeuristico. Il punto è che aver reso pubbliche quelle immagini non ha alcun senso investigativo, perché esse non apporteranno nulla di nuovo alle indagini. E non è nemmeno interesse dell'opinione pubblica cosa un detenuto dica alla moglie, in un colloquio privato, e nel chiuso di un carcere. Il video non contiene nessuna informazione. Credo che sia stato pubblicato solo per un interesse voyeuristico, tipico ormai di trasmissioni che conducono le indagini quasi in diretta. Ci stiamo avvicinando al processo per televoto". Cioè? "Ormai del vero processo nell'aula di un tribunale non si interessa più nessuno, perché è troppo lento nella sua esigenza di approfondimento. Tanto è vero che è divenuto sempre più raro trovare dei giornalisti nelle aule di un tribunale, dove è più importante il rispetto delle regole e delle garanzie che non il risultato immediato, costi quello che costi, che interessa così tanto i media a caccia di scoop. Mi chiedo se mai si arriverà a delle giurie popolari che da casa, comodamente seduti sul divano, con il telecomando pronunceranno le sentenze. D'altra parte, siamo giunti al Quarto grado televisivo, per riprendere il nome di una popolare trasmissione tv: gli autori di questa trasmissione devono aver deciso il titolo in un momento di "umiltà", visto che la loro trasmissione supererebbe ormai anche il terzo grado della Cassazione. I processi, oramai, sono solo mediatici". Oramai conta più la televisione della Cassazione. "Certamente. È quel che è avvenuto per il delitto di Perugia. Ci siamo abituati, con i tanti processi in tv a loro carico, a giudicare Amanda Knox e Raffaele Sollecito colpevoli che alla fine poco importa pure della sentenza di assoluzione. Ognuno resta con il suo pensiero, la sua retro-convinzione che siano i colpevoli. Con questo tipo di trasmissioni tv o articoli non si fa informazione, ma si condiziona l'opinione pubblica, e si superano le regole necessarie della vita civile. L'opinione pubblica va informata, giustamente, anche sull'andamento delle indagini, ma non si può superare il confine del condizionamento, che avviene dando in pasto continui retroscena, presunte svolte nelle inchieste anche a base di una continua gogna mediatica, come ha fatto proprio Quarto Grado nel caso Yara, mandando in onda le immagini di Bossetti detenuto con le manette ai polsi. Immagini prive di qualsiasi valore e vergognose. Tutto ciò è solo una deriva del processo mediatico, ma non c'è più una rete televisiva che non abbia il suo processo e che non faccia ascoltare le intercettazioni agli spettatori se non in diretta, diciamo, in "differita". Si può obiettare che se tv e giornali offrono questo è perché sanno che al pubblico piace. "Perché il pubblico è educato a questo. Siamo alla deriva perché al pubblico non viene data l'occasione di una riflessione, ma viene tolto ogni spessore culturale con trasmissioni del genere. È chiaro che ci può essere un interesse anche voyeuristico nell'opinione pubblica, ma dovrebbero essere i giornalisti a fermarlo e porvi un limite, non alimentarlo a dismisura in cambio di un po' di share o di copie in più". Avete denunciato la cosa all'ordine dei giornalisti? "Come Ucpi abbiamo fatto innumerevoli denunce, e dovrebbe essere l'ordine dei giornalisti a intervenire, ma così non accade. Probabilmente proprio perché queste trasmissioni hanno un audience buono o le riviste vendono molte copie e non c'è interesse a fermare questa deriva". Come andrà a finire? "Ripeto, arriveremo al processo in tv con il televoto. Si faranno i talent con i magistrati e gli avvocati. Ecco dove arriveremo". Giustizia: caso Eternit; in attesa del processo bis il Governo e la Regione assenti in aula di Mauro Ravarino Il Manifesto, 13 maggio 2015 I familiari delle vittime chiedono la vicinanza dello Stato. Il Gup deciderà sulla base della nuova accusa di omicidio volontario. Non è e non può essere come sei anni fa, quando iniziava - il 6 aprile 2009 - la prima udienza preliminare del maxi-processo Eternit, dichiarato prescritto lo scorso novembre. All'epoca il Tribunale di Torino si era riempito di persone, provenienti da tutta Europa, e di speranza. Nel corso degli anni, le vittime della fibra-killer sono aumentate (60 decessi l'anno nella sola Casale Monferrato) e diminuiti gli auspici di giustizia, dopo la contestata sentenza della Cassazione. Ieri, davanti al gup Federica Bompieri, si è aperta l'udienza preliminare del processo Eternit bis, in cui la procura di Torino contesta al magnate svizzero Stephan Schmidheiny l'omicidio volontario per la morte, per malattie correlate all'amianto, di 258 persone, tra operai e residenti, fino al 2014 nelle zone dove sorgevano gli stabilimenti Eternit in Italia. "Un processo - prova a rassicurare il pm Raffaele Guariniello - che non corre il rischio di prescrizione". Da Casale è arrivato un pullman carico di familiari. "È dura ricominciare tutto dall'inizio, ma abbiamo fiducia", commenta Bruno Pesce, coordinatore della vertenza amianto. "La nostra lotta continua, non possiamo fare altrimenti", aggiunge Romana Blasotti, presidente uscente dell'Afeva. Lo scoramento è palpabile, ma il movimento resiste. "Siamo qui con determinazione e con forza di volontà. Speriamo che questa volta la giustizia e il diritto possano coincidere", sottolinea il sindaco della cittadina piemontese, Titti Palazzetti. Il Comune di Casale ha richiesto di costituirsi parte civile, così come alcune decine di parenti delle vittime, i sindacati (Cgil-Cisl-Uil regionali), le associazioni Afeva e Medicina Democratica, l'Inail. Mancano ancora all'appello la presidenza del Consiglio, nonostante le promesse di Renzi ai familiari lo scorso autunno, e alcune Regioni interessate dalla presenza degli stabilimenti. "Ci sono 14 udienze preliminari, ci auguriamo - ha spiegato Nicola Pondrano, presidente del Fondo vittime dell'amianto ed ex operaio Eternit - che presto ci sia una convergenza del mondo istituzionale e politico al nostro fianco. Non possiamo permetterci di essere beffati anche questa volta: dunque, perché non mettere in campo, a partire dallo Stato, tutte le forze disponibili?". In serata è arrivata la conferma dal governatore Sergio Chiamparino che il Piemonte si costituirà parte civile. Silenzio, invece, da Palazzo Chigi. La difesa di Schmidheiny è partita subito all'attacco, sostenendo come il processo Eternit bis "violi i diritti umani". L'accusa di omicidio volontario viene definita "assurda". E la Procura di Torino, nel promuoverla, starebbe, secondo Astolfo Di Amato (legale dell'imprenditore svizzero), "ignorando doppiamente il principio "ne bis in idem", in quanto i fatti sono gli stessi del processo precedente". Guariniello, a margine dell'udienza, ha ribattuto: "È stata la stessa Cassazione a dirci che nel processo precedente si parlava solo del disastro ma non entrano in gioco gli omicidi. Questo ci ha dato un'ulteriore spinta per andare nella direzione di un nuovo processo con un nuovo capo d'accusa". Il pm, insieme al collega Gianfranco Colace, contesta, inoltre le aggravanti di aver commesso il fatto per "mero fine di lucro" e "con mezzo insidioso", perché avrebbe omesso l'informazione a lavoratori e cittadini sui rischi e promosso una "sistematica e prolungata" opera di disinformazione. Guariniello ha poi concluso: "Il nostro Paese è l'unico in cui si fa un processo e questo è un vanto per la giustizia di tutta Italia. È un caso che può fare scuola anche in altri Paesi". L'udienza preliminare è stata aggiornata a giovedì per permettere alla difesa di esaminare le carte relative alla numerose richieste di costituzione di parte civile. Giustizia: processo Eternit bis al via, magnate Schmidheiny si appella al "ne bis in idem" di Sarah Martinenghi La Repubblica, 13 maggio 2015 Sono tornate in aula le vittime dell'amianto. La stessa caparbia richiesta appesa su un biglietto giallo al loro petto: "Eternit, giustizia". Ma ieri, al via dell'udienza preliminare "Eternit bis", sui volti dei familiari di 258 morti per mesotelioma pleurico, la speranza si confondeva ancora con la sfiducia nei giudici. Perché ora la voglia di condanna deve convivere con il senso di sconfitta per la sentenza della Cassazione. Quella che nel novembre del 2015 ha cancellato i tanti anni di battaglia contro il magnate svizzero Stephan Schmidheiny. È sempre lui l'unico imputato per chi è morto dopo aver lavorato nelle fabbriche di Casale, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera. E forte della recente vittoria giudiziaria, l'imprenditore è partito subito al contrattacco dichiarando, tramite il suo entourage, che "sono stati violati i suoi diritti umani", sfoderando il "ne bis in idem", e cioè che, per legge, non si può essere processati due volte per lo stesso fatto. Oltre la metà delle 258 morti di cui ora è accusato sono le stesse che gli erano già state contestate nel primo processo. Tanti hanno accettato un indennizzo economico per cifre comprese tra i 1.500 e i 60 mila euro ("finora in 1.700 persone hanno ottenuto 50 milioni di franchi" hanno spiegato gli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva). Argomentazioni che gli fanno dire: "In Piemonte è in corso una caccia alle streghe suscettibile di essere strumentalizzata in chiave politica". Una nuova accusa, però, stavolta da ergastolo, è il presupposto su cui si regge il nuovo procedimento dei pm Raffaele Guariniello e Gianfranco Colace. Non più il disastro bensì l'omicidio volontario aggravato per l'atteggiamento spregiudicato del re dell'amianto: avrebbe perseguito i propri interessi economici pur conoscendo i pericoli dell'Eternit. All'apertura dell'udienza non sono mancate le polemiche. Stilato l'elenco delle vittime, sono partite le prime richieste di costituzione di parte civile: una trentina. Ma ha destato sconcerto l'assenza delle istituzioni. Non c'erano i rappresentanti dello Stato e delle Regioni. "Un silenzio assordante il loro" l'hanno definito in Procura. "Noi ci saremo", ha poi rassicurato il governatore Sergio Chiamparino. Hanno chiesto di entrare nel processo solo il Comune di Casale Monferrato e qualche paese limitrofo, le associazioni delle vittime, i sindacati. Solo una ventina di familiari. "Non vogliamo più illudere nessuno - ammette l'avvocato delle vittime Sergio Bonetto - è una battaglia in salita. Ma sono convinto che si arriverà a una condanna". Giustizia: uccisero Giuseppe Uva di botte, ma dopo sette anni "rischiano" di farla franca di Damiano Aliprandi Il Garantista, 13 maggio 2015 Il caso di Giuseppe Uva è gomitolo inestricabile di carte, perizie, udienze, pareri, lungaggini varie, polemiche, querele e controquerele. Una storia che si apre e si chiude dal 14 giugno del 2008, quando Giuseppe, 43 anni, di professione falegname, venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro a Varese. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero stava spostando una transenna. Una bravata nel bel mezzo di una notte alcolica, niente di più. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. Qui comincia un buco di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria. Sette anni di indagini non sono riuscite a chiarire cosa sia successo durante le due ore in caserma: il processo a carico di due carabinieri e cinque poliziotti, comunque, è cominciato nei mesi scorsi, ma sul procedimento incombe l'ombra lunghissima della prescrizione, che interverrà il prossimo 15 dicembre per tutti i reati addebitati agli agenti (abuso di potere, arresto illegale e abbandono d'incapace) a parte quello più pesante, l'omicidio preterintenzionale. In buona sostanza, forse si riuscirà ad arrivare a una sentenza di primo grado, ma è praticamente impossibile che il caso possa finire in Cassazione: la verità giudiziaria non ha possibilità di esistere. In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Giuseppe Uva fu celebrato, a Varese. L'accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula pienissima nell'aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell'ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene e parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato. Proprio Abate, insieme alla sua collega Sara Arduini, un anno e mezzo fa, divenne protagonista dell'incredibile interrogatorio all'unico testimone di quella nottata, Biggiogero. Il video di quanto accaduto è su Youtube: quattro ore di sostanziale massacro, con il teste finito nel pallone, bombardato da domande e da atteggiamenti che in molti hanno definito quasi intimidatori, o quantomeno molto aggressivi, più del lecito per una persona che, in fondo, è soltatanto "informata dei fatti" e non accusata di niente. Biggiogero voleva un caffè, Abate gli risponde: "Ha bisogno di drogarsi? Il caffè è una droga". Giusto per dire dell'aria che si respirava. Nel dicembre del 2013 il procuratore generale della Corte di Cassazione Gianfranco Ciani ha inviato al ministro della giustizia e al Csm una richiesta di procedimento disciplinare contro il pm di Varse. Secondo Ciani, durante le indagini, Abate "è venuto meno agli obblighi generali di imparzialità, di correttezza e di diligenza". Inoltre, sempre Abate, durante la sua gestione dell'inchiesta, aveva aperto ben tre fascicoli: uno contro i medici dell'ospedale di Varese - che non avrebbero curato Uva in modo adeguato, uno contro la sorella della vittima, Lucia, e uno contro alcuni giornalisti che si ostinavano a definire la morte dell'uomo come conseguenza di un pestaggio da parte di polizia e carabinieri. Insomma, la procura se l'è presa con tutti, proprio con tutti, tranne che con quelli che poi sarebbero stati rinviati a giudizio, cosa avvenuta (ovviamente, verrebbe da dire) soltanto dopo che sono stati cambiati i pm responsabili dell'inchiesta, dopo che il gip di Varese, per ben due volte, aveva rispedito al mittente la richiesta di archiviazione (vergata, va da sé, dalla coppia Abate - Arduini) per gli agenti, arrivando infine all'imputazione coatta. Questi i loro nomi, per la cronaca e per la storia: Paolo Righetti, Stefano Del Bosco, Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone, Bruno Belisario e Vito Capuano. "Il dottor Abate - scrisse ancora Ciani - ha pregiudizialmente eluso una puntuale disposizione del Tribunale ed ha violato le norme del procedimento che impongono al pubblico ministero di svolgere le indagini necessarie per l'accertamento dei fatti". Ovvero: malgrado gli sia stato detto da chiunque di indagare su quanto avvenuto nella caserma di via Saffi, lui ha puntualmente evitato di farlo: per questo sarebbe venuto meno "il dovere generale di correttezza" da parte dell'investigatore. Non solo, Abate è anche accusato "contrariamente al vero, di avere già svolto le indagini preliminari anche nei confronti di tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine" e, inoltre, avrebbe tenuto "una condotta ingiustificatamente aggressiva e intimidatoria" verso i periti nominati dal tribunale per relazionare sulle cause della morte di Uva. Già, Giuseppe Uva. In questo intreccio di procedure giudiziarie e indagini svolte solo per modo di dire, sembra quasi che la sua morte sia passata in secondo piano. Ormai, quando si parla della sua storia, si passa più tempo a parlare di cosa è successo ‘dopo' e mai di cosa sarebbe successo "durante". Questo rende il suo un caso di scuola per quello che riguarda la malapolizia: il polverone che si alza intorno a vicende del genere è sempre altissimo, quasi impenetrabile, e tra polemiche e rimpalli, la verità dei fatti diventa sempre più sfuggente. E quindi, cosa si sa dei fatti di via Saffi? Si sa, ad esempio, la versione di Biggiogero, che era in un'altra stanza rispetto a quella in cui c'erano Uva e gli agenti. Alberto sentiva il suo amico lamentarsi e gridare "Basta!". Non sapendo cosa fare, chiamò il 118, la conversazione che ne seguì - tutta agli atti - ha del surreale: "Sì, buonasera, sono Biggiogero, posso avere un'autolettiga qui alla caserma di via Saffi, all'Arma dei Carabinieri?" "Sì, cosa succede?" "Eh, praticamente, stanno massacrando un ragazzo" "Ma in caserma?" "Eh, sì…" "Ah, ho capito, va bè, adesso la mando, eh…" "Grazie". Pochi minuti dopo è il 118 a chiamare la caserma per chiedere spiegazioni, e i carabinieri spiegano di essere soltanto in presenza di due ubriachi, ai quali verrà tolto il cellulare. Passano altri minuti e i ruoli si ribaltano: i carabinieri chiamano il 118 per chiedere un Tso. Secondo la denuncia dei militari, durante le due ore di fermo, Giuseppe Uva era agitato, quasi incontenibile nella sua furia: "Hanno scritto che quella notte lì Giuseppe si picchiava. Ma io dico, cosa facevano loro? Godevano a vedere una persona che si picchiava?", domanda Lucia, la sorella coraggiosa che ha trovato la forza di sfidare tutto e tutti alla ricerca della verità per suo fratello. Comunque sia, in ospedale a Uva vengono somministrati vari farmaci per sedarlo. In mattinata, il cuore dell'uomo smetterà di battere per sempre. Per Lucia, per i suo avvocati e per tanti altri, Giuseppe quella notte in caserma è stato picchiato. Ignoti, o quasi, i motivi: si parla di una sua relazione con la moglie di un poliziotto, che poi avrebbe colto l'occasione per fargliela pagare. Questa storia - insieme ad altre dichiarazioni - sta costando a Lucia Uva un processo per diffamazione, cominciato la settimana scorsa a Varese. Stessa sorte toccò a un giornalista delle Iene Mauro Casciari, al direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi e al documentarista e scrittore Adriano Chiarelli: alle forze dell'ordine non sono piaciute le loro opinioni sul caso Uva. In prima linea c'è Gianni Tonelli, il segretario generale del Sap, il Sindacato autonomo di polizia, quello degli applausi agli agenti condannati per l'omicidio Aldrovandi. A suo giudizio gli agenti sarebbero vittime innocenti di un'ingiustificata campagna denigratoria. E ora? Ora la situazione, va da sé, è complicatissima, in un nugolo di atti processuali e polemiche più o meno violente, una situazione ai limiti del teatro dell'assurdo in cui realtà, finzione, bugie e verità si mischiano con la perenne sensazione d'ingiustizia diffusa, senza continuità. Il mistero troverà mai una soluzione? Difficile, almeno in tribunale. Per il resto il caso Uva rimane una pietra miliare della narrazione della malapolizia: in sette anni se ne sono viste di tutti i colori. E non è ancora finita. La messa alla prova può essere richiesta anche per una pluralità di reati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2015 Tribunale di Milano, sezione Terza penale, ordinanza del 28 aprile 2015. La messa alla prova può riguardare anche una pluralità di reati. Ma la sospensione del processo deve essere concessa una sola volta. A questa conclusione approda il tribunale di Milano, con ordinanza della Terza sezione penale del 28 aprile 2015. La pronuncia ha così considerato ammissibile la richiesta avanzata dalla difesa di un imputato per una serie di reati, tutti rientranti nel perimetro di applicazione del nuovo istituto della messa alla prova introdotto l'anno scorso dalla legge n. 67. Il punto di partenza della riflessione del giudice è così costituito dalla preliminare ammissibilità dello stop al giudizio per sperimentare la messa alla prova per ciascuno dei reati contestati (tra i quali la resistenza a pubblico ufficiale e l'interruzione di servizio pubblico). Subito dopo però si è posto il problema di interpretare il nuovo articolo 168 bis del Codice penale nel quale sta scritto che "la sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere concessa per più di una volta". Per il giudice sarebbe "fuorviante" escludere l'applicabilità dell'istituto quando l'imputato deve rispondere per più reati, tutti, singolarmente considerati, compresi nell'elenco di quelli interessati dalla messa alla prova. Questa soluzione che arriva a considerare l'espressione legislativa "per più di una volta" coincidente con quella "per più reati" comporterebbe nei fatti una forzatura evidente e peggiorativa del tenore letterale della norma. A venire sviliti sarebbero poi gli stessi obiettivi cui tende la nuova disciplina e cioè sia la deflazione delle carceri sia la possibilità per l'imputato di incominciare una diversa e onesta condotta di vita, nella considerazione del diritto penale come extrema ratio e della funzione rieducativa cui indirizzare lo stesso processo penale. L'ordinanza fa poi un passo ulteriore, chiarendo che la richiesta di messa alla prova resterebbe ammissibile anche se si dovesse ritenere che i reati contestati sono legati dal vincolo della continuazione. L'istituto della continuazione infatti non può essere applicato in maniera da sfavorire l'imputato e la stessa ratio della continuazione impone di considerare il reato interessato come unico o come pluralità a seconda che una o l'altra delle qualificazione sia in concreto più favorevole per l'imputato. In ogni caso, avverte l'ordinanza, l'ammissibilità non sarebbe esclusa nel caso si dovesse considerare il reato continuato come facente parte di una pluralità perché allora andrà constatato che per ciascuno dei reati è applicabile la messa alla prova. Se poi si dovesse sposare la tesi dell'unico reato, allora, puntualizza il giudice milanese, non sarebbe "peregrina" un'interpretazione sistematica "che, volgendo lo sguardo alla disciplina della sospensione condizionale, ravvisi come un'espressione analoga a quella in esame venga utilizzata dal legislatore all'articolo 164, comma 4 C.p. allorché esclude, con le note eccezioni, la possibilità di riconoscere tale beneficio "per più di una volta": se in tale ambito la consolidata giurisprudenza non ha alcun dubbio a non applicare tale clausola limitativa - e dunque a riconoscere il beneficio - in ipotesi di condanna per "reato continuato", non si scorge ragione per cui un'analoga soluzione non possa essere adottata ai fini dell'ammissibilità della messa alla prova in relazione a reati legati dal vincolo della continuazione". Tuttavia, conclude l'ordinanza, la pluralità di contestazioni a carico dell'imputato può assumere rilevanza, nelle considerazioni dell'autorità giudiziaria, anche sotto un altro profilo: quello della formulazione di un pronostico sul futuro comportamento della persona e dell'astensione di quest'ultima dal commettere altri reati. Richiesta di riconoscimento della continuazione in relazione a reati già giudicati di Redazione Lex 24 Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2015 Processo penale - Reato continuato - Richiesta di riconoscimento della continuazione in relazione a reati già giudicati - Giudizio di cognizione - Onere dell'imputato di produrre copia dei provvedimenti - Sussistenza - Applicazione analogica dell'articolo 186 disp. att. cod. proc. pen. - Esclusione. L'imputato che nel giudizio di cognizione chiede il riconoscimento della continuazione fra i reati oggetto del processo e reati già giudicati, non può limitarsi ad indicare gli estremi delle sentenze rilevanti a tal fine, ma ha l'onere di produrre copia delle stesse, non essendo applicabile in via analogica la disposizione di cui all'articolo 186 disp. att. cod. proc. pen. dettata per la sola fase esecutiva. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 3 marzo 2015 n. 9277 Processo penale - Reato continuato - Continuazione tra reati giudicandi e reati giudicati - Giudizio di cognizione - Onere dell'imputato - Produzione di copia delle sentenze rilevanti - Necessità - Applicazione analogica dell'articolo 186 disp. att. cod. proc. pen. - Esclusione. L'imputato che intenda richiedere nel giudizio di cognizione il riconoscimento della continuazione tra il reato giudicando e reati già giudicati deve produrre copia delle sentenze a tal fine rilevanti, non potendo limitarsi ad indicarne gli estremi. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 18 settembre 2012 n. 35600 Processo penale - Reato continuato - Omessa produzione di copia della sentenza da cui dipenda l'applicazione della continuazione - Conseguenze - Richiesta azionabile in sede esecutiva. È onere dell'imputato produrre copia della sentenza rilevante ai fini del riconoscimento della continuazione e qualora egli non vi provveda nel giudizio di cognizione può, comunque, proporre la relativa richiesta al giudice dell'esecuzione, ex articolo 671, comma primo, cod. proc. pen., ove, come nella specie, i giudici di merito non si siano pronunciati in senso negativo al riguardo. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 1 aprile 2010 n. 12789 Processo penale - Reato continuato - Onere di allegazione da parte dell'imputato - Necessità che sia prodotta copia della sentenza da cui dipende l'applicazione della continuazione - Esclusione - Mera indicazione degli estremi della sentenza - Sufficienza - Dovere del giudice di acquisire copia della sentenza che non sia stata prodotta - Sussistenza. In tema di riconoscimento della continuazione, l'onere di provare i fatti dai quali dipende l'applicazione dell'istituto è da ritenersi soddisfatto non solo con la produzione della copia della sentenza rilevante ai fini del richiesto riconoscimento ma anche con la semplice indicazione degli estremi di essa, ben potendo in tale ipotesi l'acquisizione del documento essere disposta dal giudice, come si ricava tra l'altro dalla esplicita previsione dell'articolo 186 disp.att.cod.proc.pen., che, pur riguardando l'applicazione della continuazione in sede di esecuzione, esprime un principio che ha valore generale. • Corte di cassazione, sezioneV, sentenza 2 marzo 2007 n. 9180 Processo penale - Reato continuato - Identità del disegno criminoso - Giudizio di cognizione - Onere dell'imputato di allegare le specifiche ragioni che ne provano l'esistenza. In tema di riconoscimento della continuazione, la disposizione dell'articolo 186 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui ‘le copie delle sentenze o decreti irrevocabili, se non allegate alla richiesta prevista dall'articolo 671 comma primo cod. proc. pen. sono acquisite d'ufficiò, non è applicabile al giudizio di cognizione ove all'onere di indicazione ed allegazione delle sentenze si aggiunge quello della indicazione degli elementi induttivi della preesistenza dell'unicità del disegno criminoso che include, nelle sue linee essenziali, i singoli episodi. Tale onere, in sede d'impugnazioni non totalmente devolutive nelle quali si iscrivono l'appello ed il ricorso per Cassazione, si coniuga inoltre con l'obbligo della specifica indicazione degli elementi in fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento delle singole richieste speculari agli errori in iudicando ed in procedendo dai quali si assume essere viziata la decisione impugnata. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 23 ottobre 2003 n. 40342 Bancarotta per distrazione con la cessione "a parole" di beni aziendali di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 12 maggio 2015 n. 19570. Bancarotta fraudolenta patrimoniale e per distrazione senza alcuna attenuante quando l'amministratore cede a terzi i beni facenti capo alla società con accordo verbale e che non conservi correttamente le scritture contabili. Le difese dell'imputato. Decisamente sterili e prive di sostanza le difese del manager secondo la Cassazione (sentenza n. 19570/2015 ). L'amministratore aveva eccepito, infatti, come l'affidamento dei beni della società fallita a un soggetto terzo era stata effettuato solo ed esclusivamente nell'interesse dei creditori, tanto che da alcune carte era emerso il versamento di una cifra prossima ai 45mila euro. Secondo il ricorrente dunque aveva sbagliato la corte d'appello di Genova nell'equiparare "l'omesso approntamento di idoneo contratto a supporto di detta cessione, ovvero la mancata costituzione di idonee garanzie di pagamento del prezzo, con le condotte di distrazione o di dolosa dissipazione, per cui, al più la condotta dell'imputato poteva farsi rientrate sotto la previsione dell'articolo 217, comma 1, n. 2 della legge fallimentare (bancarotta semplice) che sanziona la manifesta imprudenza dell'imprenditore". Sulla mancata tenuta delle scritture la difesa muoveva sulla circostanza che dall'aprile del 2004 la società aveva cessato ogni attività onde l'irrilevanza della tenuta mentre i bilanci per gli esercizi precedenti erano disponibili. La sentenza della Cassazione. La tesi difensiva non ha convinto per nulla i Supremi giudici che hanno evidenziato come il curatore fallimentare in sede di inventario non avesse reperito alcun bene o somme della fallita, nè erano state rinvenute scritture e libri contabili. Si legge nella sentenza che integra chiaramente il reato di bancarotta patrimoniale per distrazione quella condotta secondo cui l'amministratore consegna la merce a un soggetto terzo senza alcun contratto scritto e senza alcuna forma di garanzia e questo non per semplice negligenza come voleva far credere l'imputato, ma volontariamente e consapevolmente disperdendo così in una situazione di conclamata crisi finanziaria della società, l'intero patrimonio della fallita, impedendo ai creditori di rivalersi su di esso. Quanto poi alla tenuta delle scritture contabili in modo del tutto irregolare, questo era un chiaro indice di non voler far ricostruire i movimenti di denaro. Conclusioni. Accuse pesanti nei confronti del ricorrente che aveva stipulato semplici accordi verbali con un faccendiere che era costato all'azienda (e ai creditori) la perdita di un patrimonio prossimo ai 300mila euro. Lettere: caro Cantone, la polizia democratica non vuole l'impunità di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 13 maggio 2015 Entra nel vivo, al Senato, il ddl per l'introduzione del reato nel nostro ordinamento penale. Con l'audizione dei vertici delle forze dell'ordine: "Preoccupati per le denunce strumentali". L'Anm: "Nessun rischio di legare la mani alla polizia" In queste poche righe mi rivolgo personalmente a Raffaele Cantone, di cui apprezzo l'enorme impegno giudiziario e culturale contro la corruzione. Pare che il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione abbia detto di essere "rimasto indignato dopo la sentenza della corte dei Diritti dell'uomo di Strasburgo: i fatti della Diaz sono vergognosi, ma le indagini su quei fatti hanno consentito di individuare le responsabilità, anche dei vertici, senza bisogno del reato di tortura". Avrebbe anche detto che "la polizia italiana è democratica da molto più tempo di quanto le sentenze della Corte Europea facciano pensare che sia". È stato il Secolo XIX di Genova a riportare le sue affermazioni, virgolettandole. Non le condivido. La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Diaz ci ricorda che l'Italia non ha mai adempiuto a un obbligo derivante dal diritto internazionale in base al quale la tortura è un crimine, la cui persecuzione non ammette eccezioni. Uno Stato democratico forte è uno Stato che non ha paura di mettere sotto giudizio i propri custodi dell'ordine pubblico qualora responsabili di crimini di tale portata. È viceversa tipico dei regimi dispotici il volersi assicurare l'impunità attraverso l'immunità formale e sostanziale delle proprie forze di polizia. In Italia c'è bisogno del reato di tortura. Per affermarlo non uso le mie parole ma quelle di un collega di Raffaele Cantone, il giudice Riccardo Crucioli di Asti che così scriveva in una sentenza del 2012 che mandava di fatto impuniti quattro poliziotti penitenziari accusati di fatti gravissimi nei confronti di due detenuti. "I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura… in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura". Dunque chi tortura in Italia va incontro all'assoluzione o all'incriminazione per fatti molto meno gravi, coperti dalla prescrizione o dall'assenza di querela. Infine il giudice Cantone afferma che l'Italia ha una polizia democratica. Argomento che trova un rafforzamento nell'esigenza di criminalizzare la tortura. È la polizia non democratica che ha bisogno dell'impunità. Il delitto di tortura non deve essere interpretato come un qualcosa pensato contro le forze di polizia. Tutt'altro. È una forma di garanzia per la gran massa di poliziotti che si muovono nel solco della legalità. Nelle scorse settimane la Camera aveva approvato un testo, frutto di un lungo, tortuoso e dibattuto percorso parlamentare. Quel testo è oggi in discussione al Senato dove esponenti del Nuovo Centrodestra e di Forza Italia lo ritengono troppo penalizzante per le forze dell'ordine. Io ritengo che la corruzione sia un male dell'Italia che ci fa perdere credibilità nella scena internazionale. Però anche la mancata qualificazione della tortura come un crimine produce lo stesso effetto. La sentenza della Corte europea nel caso Diaz segue svariate raccomandazioni di organismi internazionali che ci avevano redarguito su questo terreno. Per questo è una sentenza sacrosanta. Perché a Genova (nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto), ad Asti o a Parma (dove vive il sacerdote Franco Reverberi accusato di complicità nelle torture in Argentina negli anni della dittatura; la Cassazione meno di un anno fa ha negato l'estradizione in quanto in Italia manca il crimine di tortura e non si può estradare per fatti che da noi non sono perseguiti) i giudici non hanno potuto dare giustizia alle persone torturate. Lettere: diffamazione e dintorni, ovvero i media incarcerati di Vincenzo Vita Il Manifesto, 13 maggio 2015 Il testo sulla diffamazione è in terza lettura alla Camera dei deputati. Si è detto da più parti che l'attuale articolato ha bisogno di una revisione - dal meccanismo della rettifica, all'entità delle sanzioni pecuniarie, all'annoso tema delle querele temerarie, alla specificità solo parzialmente riconosciuta dei blog - ma è ormai almeno condivisa l'abolizione del carcere. In un quadro certamente più disteso rispetto all'omologo dibattito della passata legislatura. Allora, in controluce, si stagliava il caso di Alessandro Sallusti, che si voleva salvare da un'ingiusta detenzione. Le liti che accompagnarono il dibattito segnalavano l'arretratezza di molte componenti del ceto politico nell'affrontare il problema. Tuttavia, il caso provocò un positivo clima di opinione e non mancarono manifestazioni pubbliche. A coronare la mobilitazione arrivò la grazia concessa dall'allora Presidente Napolitano. Se il carcere è stato definitivamente abolito da ogni previsione normativa in fieri, paradossalmente sta passando sotto silenzio l'imminente misura cautelare a carico di Antonio Cipriani. Si tratta di un valente professionista, assente dai talk show e quindi estraneo alla cerimonia mediatica. Ma non certo meno meritevole di una battente iniziativa democratica. L'appello - che sicuramente sarà fatto proprio dagli organismi di categoria e non solo - interpella le coscienze e, ovviamente, andrà indirizzato al nuovo Presidente Mattarella. Nessuna pressione indebita, ma una valutazione sul carattere ineguale del diritto. Attenzione. L'Italia è in caduta libera (65° posto secondo Freedom House) nelle classifiche sulla libertà di informazione anche perché tuttora esiste nell'ordinamento italiano la previsione del carcere. Antonio Cipriani, direttore di Globalist.it, ha lavorato a l'Unità per diversi anni ed è stato il responsabile del quotidiano E Polis, dove ha collezionato querele in quantità, fino alla condanna "alle sbarre" comminata dal tribunale di Oristano. Trentaquattro processi a carico del direttore, visto che la società editrice fallì tra debiti e accuse di bancarotta. Insomma, non deve finire così, se esiste una giustizia giusta. Il caso di Antonio Cipriani è solo la punta dell'iceberg. La Federazione della stampa ha pochi giorni fa raccolto dall'oblio il caso de l'Unità (a sua volta né unico né isolato: pure il manifesto ha ferite al riguardo, come svariate altre testate). Dopo la messa in liquidazione della Nuova Iniziativa Editoriale nel giugno del 2014, sono 27 tra ex direttori (Concita De Gregorio ha subito pignoramenti) e giornalisti a dover pagare il conto delle decine di querele. Si tratta di richieste di risarcimenti per oltre 500mila euro. E mezza dozzina sono già provvedimenti esecutivi. Il Partito democratico che - si è appreso dall'efficace puntata di Report della scorsa domenica - aveva un ruolo determinante in base ad un patto parasociale ha l'obbligo morale di intervenire. In vari modi, tra cui un emendamento immediato, volto a inserire i costi delle querele nelle procedure fallimentari. Lo stesso ministro Orlando è sembrato interessato ed aperto. Come è urgente costituire - a cura degli editori e della Presidenza del consiglio - uno specifico Fondo di solidarietà. Insomma, l'informazione è proprio a rischio (per non dire dell'assurda esiguità del Fondo ordinario per l'editoria) e i buchi aperti dalle vicende istituzionali diventano crepe se l'articolo 21 della Costituzione viene così abrogato. Veneto: lavoro in carcere, domani a Palazzo Balbi presentazione di un'indagine regionale Italpress, 13 maggio 2015 Regione Veneto (Sezione Industria e Artigianato) e Ministero della Giustizia (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria), in collaborazione con Unioncamere, Confindustria, Confcooperative e Salone d'Impresa, hanno attuato un progetto per incoraggiare il sistema produttivo veneto a una maggiore interazione con le strutture penitenziarie esistenti, in un'ottica di responsabilità sociale d'impresa. Un'indagine, svolta negli istituti di pena del Veneto sulle produzioni di beni e forniture di servizi in cui sono attivi detenute e detenuti, ha evidenziato i margini per un'ulteriore crescita quantitativa e qualitativa. I risultati sono condensati in una pubblicazione che verrà presentata ufficialmente giovedì 14 maggio alle ore 11 a Palazzo Balbi, a Venezia. La presentazione segna l'avvio di una campagna per favorire nelle imprese del territorio una maggiore consapevolezza del vantaggio economico e sociale dell'impegno in questa direzione, d'intesa con la rete delle cooperative sociali che operano sul fronte dell'inclusione, del recupero e della formazione. Emilia Romagna: presentazione Linee regionali per l'assistenza farmaceutica in carcere www.regione.emilia-romagna.it, 13 maggio 2015 Gli obiettivi: migliorare ulteriormente qualità e sicurezza delle cure rivolte alle persone detenute e uniformare le procedure delle Aziende Usl. La presentazione con un seminario lunedì 18 maggio a Bologna. Da un lato, migliorare ulteriormente la qualità e la sicurezza delle cure rivolte alle persone detenute. Dall'altro, fornire indicazioni per la gestione clinica dei farmaci negli istituti penitenziari di tutta l'Emilia-Romagna e uniformare le procedure seguite nelle carceri dalle Aziende Usl. Con questi obiettivi, la Regione Emilia-Romagna ha realizzato le "Linee di indirizzo per la gestione clinica dei farmaci negli Istituti penitenziari dell'Emilia-Romagna". Il documento, rivolto a tutte le Aziende Usl, viene presentato con un seminario lunedì 18 maggio a Bologna (dalle 9.30 alle 13.30, in viale Aldo Moro 21, sala 417). Le linee di indirizzo sono state elaborate da un Gruppo di lavoro multidisciplinare, composto da professionisti delle Aziende sanitarie, della Regione e degli Istituti penitenziari, a partire dalle linee ministeriali sulla sicurezza nell'uso dei farmaci, recepite nella nostra regione con le "Linee di indirizzo per la gestione clinica dei farmaci" rivolte alle strutture del Servizio sanitario regionale. Nella stesura del documento, si è tenuto conto di alcuni aspetti peculiari dell'assistenza alle persone detenute in Emilia-Romagna: il fatto che sia già strutturato un percorso clinico di assistenza alle persone detenute; e che sia in fase di sperimentazione, a livello locale negli ambulatori di alcuni Istituti penitenziari, l'uso di sistemi informatizzati per la somministrazione di terapie farmacologiche. Le linee di indirizzo, oltre a individuare gli obiettivi e a descrivere le attività che riguardano la gestione dei farmaci in carcere, affrontano i temi della continuità assistenziale (per esempio nel passaggio da un istituto di pena all'altro oppure nella dimissione dal carcere agli arresti domiciliari o in comunità oppure quando la persona torna in libertà), dell'approvvigionamento dei farmaci e della gestione delle scorte, della preparazione della terapia farmacologica. Alla base del documento, la necessità di stabilire una relazione efficace tra l'equipe sanitaria e la persona detenuta, in modo che l'intervento assistenziale sia appropriato e rispettoso della volontà della persona e per rendere più sicuro l'intervento stesso. Il coinvolgimento diretto del paziente va ricercato sia nella fase della prescrizione dei farmaci, sia nel momento della somministrazione dei medicinali. Inoltre alla persona deve essere fornita la completa informazione sulla cura proposta (sugli effetti ricercati con la terapia, sui possibili effetti collaterali, sulle relazioni con il cibo assunto). Il riferimento, nell'uso e nell'erogazione dei farmaci, è il Prontuario terapeutico di Area Vasta, che contiene un elenco di medicinali e una serie di schede di valutazione, pareri, raccomandazioni relativi ai farmaci da utilizzare nelle strutture sanitarie. I prontuari terapeutici in Emilia-Romagna sono così articolati: Area Vasta Emilia-Nord (Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena), Area vasta Emilia Centro (Bologna, Ferrara), Area vasta Romagna (Forlì-Cesena, Ravenna, Rimini). Le Aziende Usl, sulla base del documento regionale, dovranno ora elaborare procedure locali che tengano conto delle necessità specifiche e dei contesti organizzativi, individuando compiti e responsabilità delle figure professionali, tempi di attuazione delle linee di indirizzo e azioni di monitoraggio dei risultati. Il seminario regionale che si svolge a Bologna lunedì 18 maggio prevede questi interventi: "La salute della carceri in Emilia-Romagna", "L'adesione agli indirizzi regionali sull'uso appropriato dei farmaci nel contesto penitenziario", "Il coinvolgimento della persona detenuta alla terapia farmacologica", "Aspetti prescrittivi", "Preparazione e somministrazione della terapia", "La gestione del farmaco negli Istituti penitenziari", "La gestione del rischio negli Istituti penitenziari", "La gestione del rischio attraverso il progetto Prisk". Firenze: detenuto eritreo 35enne suicida a Sollicciano. Sappe: era "trafficante di migranti" Corriere Fiorentino, 13 maggio 2015 Sisay Fisatsyion, di 35 anni e di nazionalità Eritrea, si uccide nella sua cella del carcere Sollicciano di Firenze. Da quanto si è appreso pare che l'uomo si sia impiccato verso le ore 15.00, utilizzando come cappio degli indumenti. Anche se ancora non sono chiare le dinamiche del suicidio, sembra che l'uomo soffrisse di problemi psichiatrici, tanto che qualche giorno fa era stato sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio. Sappe: era ristretto per favoreggiamento di immigrazione clandestina Questa pomeriggio un detenuto originario dell'Eritrea si è impiccato nella sua cella del Centro Clinico del carcere di Firenze Sollicciano. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Nulla ha potuto il pur tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, purtroppo", commenta Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Il detenuto, che era ristretto per il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina, aveva appena terminato un trattamento sanitario obbligatorio per evidente problemi psichici. "In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità, ma i problemi permangono ed in carcere purtroppo si continua a morire", aggiunge Capece. "Il 30 aprile scorso erano presenti nelle celle 53.498 detenuti, che erano l'anno prima 59.683. La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione: ogni giorno, i poliziotti penitenziari nella prima linea delle sezioni detentive hanno a che fare, in media, con almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria, 10 colluttazioni e 3 ferimenti. E questo determina condizioni stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, sempre a contatto con i disagi umani e con conseguenti fattori di stress. Disagi che si accentuano se, come accade a Sollicciano, il servizio della Polizia Penitenziaria e la stessa quotidianità penitenziaria risente di una complessiva disorganizzazione generale dei servizi". Il leader del Sappe richiama un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che sui suicidi in carcere aveva sottolineato come "il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere". Osapp: gravi problemi organizzativi e gestionali della struttura Quella di un detenuto di origine Eritrea oggi nel carcere fiorentino di Sollicciano è la "42/a morte in carcere nel 2015 e la 17/a per suicidio" in un carcere dove sono "gravi le carenze nell'organizzazione". A dirlo è il segretario generale dell'Osapp, l'Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria Leo Beneduci. "Per quanto riguarda Firenze Sollicciano è la sesta morte da quando c'è la nuova direttrice e la prima morte dalla sostituzione, la settimana scorsa, del comandante per volontà del provveditore regionale Carmelo Cantone in ragione dei gravi problemi organizzativi e gestionali della struttura". "Peraltro - afferma Beneduci - per il carcere di Firenze c'è da chiedersi quanto abbia influito, rispetto all'ultimo grave evento, la riduzione a zero delle prestazioni straordinarie solo per alcune unità impiegate nelle mansioni maggiormente operative" ma anche il fatto che "il detenuto aveva già dato tangibili segni di squilibrio psichico". Beneduci chiede anche di sapere quale sia la "sensibilità dei vertici locali e regionali dell'amministrazione visto che a Sollicciano ci si preoccupa tantissimo di iniziative di facciata, come gli aperitivi galeotti ed il teatro, e non invece della salute e dell'incolumità psico-fisica del personale di polizia penitenziaria e dei detenuti. Proprio per questo l'Osapp ha da tempo richiesto una accurata indagine propedeutica all'avvicendamento degli attuali direttore del carcere e del provveditore regionale ma il Guardasigilli Orlando e il capo del Dap Consolo sembrano non preoccuparsi di quella che invece agli occhi del sindacato risulta essere una vera e propria ecatombe". Reggio Calabria: la sete di giustizia e di sicurezza e i diritti del detenuto di Giuseppe Tuccio www.strill.it, 13 maggio 2015 Reggio Calabria vive e soffre una atavica condizione di sofferenza sociale per la presenza e la prepotenza di organizzazioni mafiose che minano le stesse strutture rappresentativo-istituzionali, oltre che esercitare un preoccupante controllo delle dinamiche economiche e finanziarie in una economia regionale abbastanza fragile. La comunità ha dunque giustamente sete di giustizia e di sicurezza, per cui è oltremodo difficile avviare approfondimenti anche di livello scientifico-culturale sui temi che riguardano la detenzione, per un malinteso rapporto equazionale tra il valore della sicurezza ed il diniego radicale dei diritti costituzionali in favore del detenuto, nell'erroneo convincimento che la pena tout court debba rapportarsi esclusivamente e definitivamente alla gravità del fatto reato, per soddisfare la cosiddetta "pretesa punitiva statuale". "Tu hai compromesso i diritti della comunità attraverso il delitto, violando la legge; io Stato faccio altrettanto nei tuoi confronti, a nulla rilevando le reiterate proclamazioni anche di rango costituzionale, in materia di funzione emanativa della pena". In questo senso e solo in esso si risolverebbe dunque il tema della certezza "quantitativa" della pena. Il compianto Federico Stella nel suo ultimo libro "La giustizia e le ingiustizie" ribadiva il principio che le teorie della giustizia sembrano costruite per mondi ideali, ipotetici, se non del tutto fittizi. Le norme in materia di detenzione sono uno dei tanti esempi di tale affermazione, in quanto hanno trovato nel tempo rara applicazione. Riecheggia dunque il monito di Bobbio "Altro è un diritto, altro una promessa di un diritto futuro. Altro un diritto attuale, altro un diritto potenziale. Altro ancora avere un diritto che è, proprio in quanto riconosciuto e protetto, altro avere un diritto che deve essere". Le irrisolte problematiche della immigrazione e della tossicodipendenza, della coesistenza in cella con soggetti portatori di diversa pericolosità sociale, di insufficiente apporto delle Autonomie Locali per potenziare itinerari del recupero sociale degli ex detenuti e dunque dell'estrema difficoltà di neutralizzare la forza aggregante della criminalità organizzata, anche nell'universo carcerario, inducono a riflettere in ordine al rischio che una democrazia incompiuta svuoti di significato le ribadite e solennemente riaffermate petizioni di principio. Indubbiamente la comunità ha diritto a rivendicare un sistema che sia in grado di garantire sicurezza e prevenzione generale, ma è proprio la insufficienza del sistema che determina uno squilibrio della sicurezza sia all'esterno che all'interno delle carceri. Allora occorre fare un passo indietro, e senza indulgere in vuoti sociologismi non può non farsi cenno, pur brevissimo, "al perché dei perché" del delitto e conseguentemente dello status del reo e quindi del detenuto, il più debole tra i deboli della società. Frattanto va rammentato che da parte dei costituzionalisti di tutti i Paesi democratici si rileva con unanime valutazione negativa come gli ordinamenti vigenti in effetti hanno lasciato ampi spazi di operatività alle contrastanti, irrisolte dinamiche di forze sociali, agli scontri sociali condizionati evidentemente dal dominio di quelle più forti, lasciando altrettanti spazi di operatività e quindi comode "opportunità di soluzione" degli scontri all'interno del sistema economico, attraverso la esclusiva predisposizione di un discutibile apparato sanzionatorio penale. Dunque censura sociale attraverso l'apparato penale-penitenziario. La smentita corale, da parte della criminologia e della sociologia, del diritto penale in materia è, al contrario, netta nel non riconoscere alla sanzione criminale il ruolo di idoneità assoluta ed esclusiva a produrre censura sociale e cioè una funzione decisiva di ridefinizione dei valori essenziali su cui si cementa il patto sociale. Di tal che l'applicazione di essa, ragionevolmente, dovrebbe rimanere delimitata come estrema ratio, ai soli casi in cui essa appare strettamente indispensabile. Sappiamo tutti che così non è e che, al contrario, sono stati scaricati sul sistema penitenziario tanti conflitti sociali, tanti disagi umani, per cui dal sociale al penale, il penitenziario è drammaticamente divenuto ambito di discarica sociale. Basti riflettere intorno al fenomeno della immigrazione ed alla tossicodipendenza che hanno alimentato sempre più vaste aree marginali ad alto rischio, per fronteggiare i quali appunto il diritto penale è stato concepito come equivalente a strumento di controllo. Ed è proprio con riferimento a queste categorie (oltre il 30% della popolazione carceraria) che diritti umani, ritualmente evocati e proclamati in ipocrite liturgie, sono sistematicamente compromessi, fino al loro totale annullamento, in un sistema penitenziario in cui la vivibilità carceraria continua ad essere ad altissimo rischio, che consiglierebbe ai governanti l'adozione di affrettati rimedi legislativi. Non è difficile pensare, in tali pericolosi frangenti, che tante irrisolte problematiche rendono più difficile la neutralizzazione della forza aggregante che la criminalità organizzata esercita nei confronti della detenzione carceraria, soprattutto quella giovanile, con proposte abbacinanti di vita alternativa. Se riflettiamo un istante sulla impostazione delle attuali strategie di contrasto alla criminalità organizzata, osserveremo che la più alta percentuale dei detenuti per il delitto di cui all'art. 416 bis C.P. è costituita da giovani di limitato peso specifico delinquenziale, di non primaria caratura mafiosa. È doveroso ed è giusto perseguire i colpevoli ma, puntando maggiormente verso la individuazione delle persone fisiche coinvolte e meno verso i prevalenti profitti economico-finanziari prodotti dal crimine organizzato si rischia di lasciare in ombra le dinamiche di inserimento delle risorse economiche mafioso che pervasivamente stanno controllando buona parte della economica meridionale e quindi degli apparati rappresentativo-istituzionali, creando sacche di disponibilità per la crescita della emergente "borghesia mafiosa". Comprendo bene come discorsi di questo tipo possano essere male interpretati come atteggiamenti di lassismo, di indulgenza e di pietoso perdonismo verso gli autori di reati, per cui il mito della certezza quantitativa della pena è invocato come panacea di ogni male sociale. Con netta frequenza negli ultimi tempi si discute in maniera distorta della effettività della sanzione penale, della certezza della pena, addebitando alle pretese manipolazioni, in sede esecutiva della pena, la causa del fallimento dell'intero sistema penale-processuale-penitenziario, soprattutto con riferimento alla funzione di prevenzione generale intesa come necessità intrinseca di soddisfare il bisogno di sicurezza e quindi di determinante untore deterrente nella lotta contro la criminalità organizzata. Va più approfonditamente effettuata evidentemente una seria riflessione attorno al più determinante tema della crisi della sanzione penale nello scontro con la riconosciuta pretesa costituzionale secondo cui la pena, nella sua polifunzionalità, assolve un ruolo primario sul versante emendativo. Insomma va messo correttamente in discussione il principio di intangibilità del giudicato penale per conferire maggiore vigore alla strategia delle prevenzione particolare mediamente proiettata a favorire in maniera più ferma e più convinta la prevenzione generale e quindi a soddisfare esigenze di sicurezza collettiva. Così delineata la pena evidentemente non appare, all'occhio grosso dell'opinione pubblica, più rispondente alle esigenze di sicurezza della comunità sociale, che non la percepisce come essa vorrebbe istintivamente e cioè come adeguatamente e definitivamente rapportata esclusivamente all'obiettivo disvalore del fatto-reato, in un evidente errore di interpretazione del significato costituzionale della pena stessa. Acquisito il convincimento di queste divergenze per la difficoltà di concepire una totale sinergia tra sicurezza sociale e garanzie costituzionali, va riaffermato con convinzione il principio della polifunzionalità della pena, approfondendo un aspetto finora non sufficientemente esplorato e cioè quello riparativo nei confronti della vittima e della comunità in un tentativo di conciliazione appunto con la società civile e con la parte lesa. In tale opera sarebbe utile un intervento legislativo totale capace di impegnare più istituzioni, in uno sfogo collettivo, idoneo a soddisfare esigenze di concretezza della pena, certa cioè nella sua qualità, nella sua idoneità e adeguatezza, sia infra che extramenia, alla luce della polinfunzionalità di essa, che dalla prevenzione particolare raggiunga la prevenzione generale, la retribuzione di difesa sociale, la risocializzazione del detenuto, ed, in definitiva, la sua sensibilizzazione verso un nuovo progetto di vita, attraverso un processo di mediazione e di riparazione sociale. È indubbia una doverosa attenzione alla posizione della vittima o meglio delle vittime del reato. Personalmente ho ravvisato come proprio dal carcere emerge una forte necessità di dialogo con esse, per superare la condizione di parti barricate, per fare conoscere a chi sta dentro la sofferenza prodotta, va dunque sollecitata l'attuazione normativa, anche di rilievo costituzionale, relativa al processo tratta mentale che contiene una ferma esortazione in questo senso, richiamando al "sostegno" del detenuto, anche attraverso l'invito alla riflessione, seria e responsabile, sulla condotta, sulle motivazioni e sulle conseguenze del reato, attraverso una rivisitazione del percorso criminale, in un dialogo fra le parti, facilitato dal mediatore con un linguaggio che deve essere totalmente diverso da quello adoperato nei tribunali. È proprio l'incontro tra le narrazioni anche lo scontro, in un originale stato dialogico, può sentire per creare una opportunità di trasformazione, per rendere visibile - come sostiene una preziosa mediatrice dell'Ufficio per la Mediazione Penale di Milano, Federica Brunelli - "il misterioso incommensurabile che sta dentro di noi". Ogni risorsa esistente sul territorio può essere utilizzata e finalizzata al tentativo di socializzazione del condannato. Non è possibile che si possa sperare in un reinserimento di una persona nella società, allontanandola dalla stessa; soltanto la territorializzazione della esecuzione penale, attraverso strategie di rete può costituire un mezzo efficace per facilitare un processo di recupero sociale. L'obiettivo è dunque un potenziamento sistemico dei rapporti tra il penale ed il sociale, tra il penitenziario ed il sociale. Il coinvolgimento e l'integrazione delle risorse e la capacità di promuovere progetti che mettano al centro i bisogni del detenuto ed il suo recupero sono espressione del processo di responsabilizzazione di cui si deve fare carico, assieme al detenuto, tutta la società civile, proprio perché la trasgressione si è instaurata nelle problematiche individuali ma soprattutto relazionali, come fattori di maggiore rischio nella determinazione delazione e della reazione trasgressiva. Per il raggiungimento di questo obiettivo rimangono impegnate le opere della psicologia, la famiglia, le dinamiche sociali, la società tutta intera perché il detenuto si ponga unitamente ad esse l'obiettivo della nuova definizione del suo essere sociale. Questo percorso non può vedere estranea la società civile, la collettività intera. L'obiettivo evidentemente è quello della costruzione di un progetto utile per la persona detenuta, perché, acquisita la consapevolezza piena e responsabile del suo debito speciale, in una sensibilità nuova che rompa con il passato, sia messo in condizione di emanciparsi non solo dallo stato di detenzione, ma anche dalle possibili trasgressioni, con evidenti riflessi positivi sulla collettività creando importanti risorse sul versante della sicurezza. Napoli: detenuto in gravissime condizioni di salute, appello per un ricovero ospedaliero Cronache del Salernitano, 13 maggio 2015 L'appello della madre e del fratello: "Non lasciatelo morire". Si mobilitano i Radicali e Mucciolo. "Chiediamo solo che possa essere curato in maniera idonea". I familiari di Giuseppe Danise, 43enne detenuto di Siano, in carcere a Poggioreale, ricoverato al padiglione San Paolo, è in condizioni gravissime e senza cura adeguate. Ieri mattina, la tragica conferenza stampa nella quale la madre e il fratello Antonio del detenuto hanno chiesto che il loro congiunto venisse almeno trasferito al reparto detenuti all'ospedale per tumori e malattie infettive "Cotugno" di Napoli. Il grido di dolore dei familiari di Danise è stato raccolto dai Radicali e dal consigliere regionale Psi Gennaro Mucciolo. "Chiediamo solo che Giuseppe Danise venga curato in maniera idonea dal sistema sanitario nazionale" ha affermato Donato Salzano che poi accusa: "Giuseppe Danise sta subendo un trattamento inumano e degradante". L'avvocato del detenuto, che dovrebbe terminare la sua pena del 2021 ha ricordato le patologie del suo assistito che vanno da una grave cirrosi epatica, all'epatite C, a piccoli tumori intorno a un fegato ornai in condizioni drammatiche, per non elencarne altre. Una situazione che richiede un trasferimento urgente al reparto detenuti dell'ospedale "Cotugno" di Napoli, ma che ancora non viene deciso e quindi si fa appello al direttore sanitario Di Benedetto dell'istituto penitenziario per ordinare il trasferimento urgente. Il caso, ha ricordato, Salzano, grazie all'impegno della radicale Rita Bernardini, è stato anche portato all'attenzione della direzione dell'amministrazione penitenziaria. "Indipendentemente se entro lunedì sarà disposto il ricovero di urgenza al Cotugno - ha affermato Mucciolo - interverrò direttamente sul direttore generale dell'ospedale napoletano perché si trovi un posto per questo paziente. È un fatto di giustizia rispetto a un cittadino che dev'essere curato". Ieri mattina, Mucciolo e Salzano erano andati anche al carcere di Poggioreale per assicurarsi delle condizioni di salute del detenuto ricoverato nel padiglione "San Paolo" ma non sono stati fatti entrare. Chi ha avuto modo di vedere negli ultimi giorni Giuseppe Danise sono stati il fratello Antonio e la madre. "Lo hanno messo a dormire -ha dichiarato un emozionato Antonio Danise - per arrivare dalla porta al tavolino dei colloqui ha impiegato quattro minuti perché lo hanno imbottito di medicinali e aveva la bava alla bocca. Lui e noi chiediamo solo che sia e curato. Pochi giorni fa è svenuto. Devono essergli somministrati l'albumina e tanti altri farmaci desumiamo che non venga ben curato come potrebbe esserlo al Cotugno". E la madre: "Lo hanno messo a morire". Salzano ha ringraziato gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Salerno e in, particolare, quelli del Sappe, per l'umanità e la professionalità con cui hanno trattato Danise. Il detenuto era stato trasferito da Salerno a Napoli proprio con la speranza che da Poggioreale potesse essere ricoverato al Cotugno, ma finora, così non è stato. L'avvocato Gerardo Di Filippo ha ricordato di aver chiesto la concessione dei domiciliari per il suo assistito ma il tribunale di Sorveglianza di Salerno ha fissato l'udienza solo il 16 settembre, una data troppo lontana per le condizioni di salute dell'assistito. Danise aveva anche beneficiato di un anno di domiciliari con la possibilità di uscire per due ore da casa ogni giorno, poi il beneficio gli era stato revocato, pur se, durante questo periodo, non aveva commesso alcun reato, non essendo nemmeno in grado di commetterlo, viste le sue condizioni psicofisiche. Ma se, come sembra, le condizioni di salute sia queste affermate dai familiari del detenuto, viene da chiedersi: è necessario dover smuovere i politici e opinioni per avere un provvedimento sanitario ovvio? Milano: a San Vittore una biblioteca trasformata in un "knit café" per 12 detenute Adnkronos, 13 maggio 2015 Una biblioteca trasformata in un knit café, luogo di ritrovo per appassionati di ferri e uncinetto per condividere, tra un caffè e una chiacchierata, la passione di sferruzzare e creare lavori fatti a mano. Un laboratorio come ce ne sono tanti, solo che questo si trova nella Casa Circondariale Femminile di San Vittore e a frequentarlo sono 12 detenute che hanno così l'occasione di realizzare a mano elementi di arredo non di casa ma delle proprie celle. Gli spazi vitali nel carcere sono spesso limitati e anonimi, pochi metri quadri da condividere con perfetti estranei, contemporaneamente e per lungo tempo. Grazie al laboratorio queste donne possono dedicarsi a un hobby che permette loro di personalizzare il poco spazio a disposizione. A mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari, ferri, uncinetti e filati in cotone e lana, è la Dmc Italia, azienda internazionale nel settore dei filati per il ricamo, l'uncinetto e il tricot. Il progetto di un knit cafè per le detenute è nato da un'idea di Lorenza Branzi, docente alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano (Naba) e fondatrice della rete di appassionati di maglia e uncinetto "Do-Knit", e di Consuelo Redaelli, interior designer, e avviato grazie alla collaborazione con Francesca Masini, funzionario giuridico-pedagogico della sezione femminile della Casa Circondariale di San Vittore,e Dmc. Alcuni degli oggetti prodotti saranno battuti il prossimo 19 maggio durante l'asta benefica "L'arcobaleno incatenato", condotta da Philippe Daverio coadiuvato dalla dj La Pina Dj presso la Galleria Antonia Jannone di Milano e l'intero ricavato sarà devoluto al giornale "Oltre gli Occhi", la pubblicazione periodica della sezione femminile del carcere. "San Vittore è diventato negli anni un contesto a cui approdano storie di emarginazione ed emergenza sociale. Questo progetto rappresenta un'occasione d'incontro, uno spazio di dialogo con la creatività", spiega Francesca Masini, funzionario giuridico-pedagogico della sezione femminile della Casa Circondariale di San Vittore. "Il Knit cafè - aggiunge - come le altre attività proposte rivolte alla popolazione detenuta, contribuisce a sostenere la dimensione umana della carcerazione. Il knitting si è rivelata un'attività che ha saputo far incontrare le donne di diverse età e provenienze, andando oltre le barriere linguistiche e culturali". All'asta creazioni detenute San Vittore Filati, uncinetto e ferri di legno per colorare e personalizzare le celle. Dal Knit cafè nato nella sezione femminile del carcere di San Vittore le detenute mettono ora in vendita le loro creazioni. Centrini, tende, copriletti & co. il prossimo 19 maggio saranno i pezzi forti dell'asta benefica "L'arcobaleno incatenato" che si terrà presso la galleria Jannone in Corso Garibaldi a Milano. Banditore d'eccezione lo storico dell'arte Philippe Daverio. Il ricavato della vendita servirà a finanziare un'altra attività del carcere: il giornale Oltre gli Occhi. Il Knit cafè di San Vittore "contribuisce a sostenere la dimensione umana della carcerazione. Il knitting - spiega Francesca Masini, funzionario giuridico-pedagogico della sezione femminile di San Vittore - si è rivelata un'attività che ha saputo far incontrare le donne di diverse età e provenienze, andando oltre le barriere linguistiche e culturali". Il progetto è nato lo scorso febbraio grazie alla collaborazione tra Lorenza Branzi, docente Naba e fondatrice della rete di appassionati di maglia e uncinetto Do-Knit, l'interior designer Consuelo Redaelli e l'azienda di filati Dmc Italia che ha fornito i materiali. In questi mesi ciascuna detenuta ha lavorato per realizzare oggetti e accessori di uso domestico, lavabili e resistenti, pensati per diventare elementi di arredo e personalizzazione delle celle. Oggetti così ben fatti che ora escono dal carcere pronti per essere ceduti al miglior offerente. Asti: l'orto del carcere diventa "impresa" e riscopre le antiche varietà del territorio di Selma Chiosso La Stampa, 13 maggio 2015 L'orto del carcere è diventato "maggiorenne" e si è affrancato: non dai genitori ma dallo Stato. "Da quest'anno siamo autonomi- spiega la direttrice Elena Lombardi Vallauri. Per la prima volta coltiviamo e vendiamo piantine, frutta, verdura, senza sovvenzioni statali, ma tesaurizzando ciò che prima è stato fatto con fondi pubblici. I detenuti lavorando riacquistano dignità di sè. Il prodotto non può che essere buono. Buono in tutti i sensi". La cura dell'orto e del frutteto sono stati affidati alla cooperativa sociale l'Asinergia. Funziona così: i detenuti vengono assunti "per davvero" dalla cooperativa. Prima però devono seguire un corso di 600 ore con l'agronomo Paolo Marin. La seconda novità la spiega Patrizia De Pollo, responsabile della cooperativa: "Vendiamo piantine e prodotti al mercato, di piazza Catena e piazza Statuto: dal carcere al banco". I prodotti sono "naturalissimi" e rari. Merito dell'agronomo Marin che dice: "Abbiamo messo a dimora piante da frutta e ortaggi che erano tipici degli orti astigiani e non adoperiamo nitrati e prodotti chimici". Così l'erba viene tagliata, per far crescere melanzane, zucchine, insalate, si adoperano sacchi neri con buchi che creano un microclima ideale. Tra le rarità: il pomodoro Cerrato, il "pum del medic" il "marcun"le pesche "limonine".Il resto lo raccontano i numeri: sono stati sistemati 18 mila metri quadrati di terreno, di cui 1500 sono serre e il resto frutteto con 900 alberi, 75 specie autoctone. Nell'orto ci sono già carciofi neri, 600 piante di insalata, 5000 di pomodori, poi zucchine, meloni, cetrioli e altra verdura. Si prevede un raccolto di 300 quintali. Per irrigare niente spese: l'acqua viene dal Tanaro. Il primo "grosso" cliente è già arrivato: il Baracchino di Isola. Il resto si trova il venerdì e il sabato sui banchi di piazza Statuto e Carena. Un lavoro vero per i detenuti (dalle 20 alle 40 ore settimanali a 800 euro circa al mese). Alla presentazione del progetto "Oltre il giardino" anche il comandante di reparto Ramona Orlando, le educatrici Anna Cellamaro e Maria Vozza. Volterra (Pi): un successo il corso d'enogastronomia per studenti e detenuti di Cristiano Marcacci Il Tirreno, 13 maggio 2015 Si conferma un grande successo il corso per servizi enogastronomici e ospitalità alberghiera dell'Itcg "Niccolini" di Volterra, che vede provetti chef insieme a professionisti affermati del settore. Nei giorni scorsi, nella cornice dei locali del carcere volterrano, si è tenuta una cena a cui hanno partecipato più di settanta commensali, che hanno gustato i piatti realizzati dai ragazzi con la collaborazione e la guida di tre chef di altrettanti ristoranti facenti parte del "Pisa Quality Restauarnts" coordinato da Stefano Campazzi: La Vecchia Lira, Castero e Pinzagrilli. Il "carcerato", guarda caso, la cui ricetta risale al 1500, ha aperto la serie delle portate in tavola, seguito da un'insalatina di sedano rapa, noci, misticanza e frutta secca, condita con olio extra vergine e melograno. Una lasagnetta gialla dell'ortolano era il primo piatto, mentre, nella piena tradizione toscana, come secondo piatto è stata presentata la fricassea di carni miste con verdure saltate, preparata da Franco Bracaloni, ossia Castero. A concludere, una bavarese alla vaniglia con passatina di fragole fresche. All'evento erano presenti tutti coloro che hanno creduto in un progetto, iniziato due anni fa, che, unico nel suo genere, ha unito detenuti interni al penitenziario cittadino e ragazzi esterni, tutti studenti "drop-out", di età superiore ai 15 anni e inferiore ai 18, che hanno deciso di mettersi in gioco in un percorso che sarà ricordato. Un'unica voce, tra i numerosi interventi a fine serata, ha confermato la straordinarietà del corso, ampiamente riuscito grazie al concorso di tutti gli attori coinvolti, l'istituto "Niccolini", la casa di reclusione, il Comune, la Provincia e la Regione. Stasera, si replica. Protagonisti i ristoranti "Castero", "La Buca" e "L'ippodromo". Il menù è costituito da pappa al pomodoro, insalatina di finocchio e arance, freghe volterrane "cò bubbolini", risotto con pere e muffone di casa Carai al giallo di zafferano, galletto toscano coi peperoni e zuppa del Seghetti. Napoli: a Poggioreale il tetto del carcere usato come solarium. Sono detenuti o agenti? di Amalia De Simone Corriere del Mezzogiorno, 13 maggio 2015 Tre, a volte quattro, persone sbucano da una porticina: passeggiano un po', si tolgono le magliette e si sdraiano al sole per la tintarella. Quasi ogni giorno tra le 11.30 e le 13, il tetto di uno dei padiglioni del carcere di Poggioreale diventa un solarium. Tre, a volte quattro (ma mai più di cinque persone) escono dalla porticina del tetto, passeggiano un po', si tolgono le magliette e si sdraiano al sole. La scena è visibile da molti degli uffici del Centro Direzionale che affacciano sulla prigione napoletana. Non è chiaro chi siano i sirenetti: detenuti, personale del carcere, operai o guardie. Molte persone che lavorano negli uffici con vista sul carcere e che spesso assistono alla scena, sostengono di aver visto quelle persone passeggiare nei cortili della prigione durante l'ora d'aria. Un riconoscimento che però appare azzardato data l'altezza e la distanza. Se fossero dei detenuti certamente si tratterebbe di persone "privilegiate" che riescono non solo ad accedere liberamente al tetto ma soprattutto che riescono a concedersi ore di socialità e relax evidentemente negate alla maggior parte dei carcerati che non sembra passarsela bene, come hanno denunciato il rapporto della commissione libertà civili dell'Unione Europea che definiva Poggioreale un lager e varie inchieste giornalistiche su maltrattamenti e pestaggi. "Fa rabbia vedere gente che prende il sole a Poggioreale mentre ci sono detenuti che scontano la loro pena con grande sofferenza - commenta una donna che lavora in una delle torri che danno sul carcere ma che non vuole essere ripresa - qui al centro direzionale c'è un via vai di mici, parenti e colleghi di clan che lanciano segnali. Io ho paura e faccio finta di non vedere". In un'altra torre ai piani alti, qualcuno parla e spiega, chiedendo di restare anonimo, che "il solarium è un'abitudine e quando non c'è il sole comunque c'è gente che sale sul tetto a passeggiare, fumare o perdere tempo. La cosa inquietante è che le varie torri del centro direzionale sono facilmente accessibili e molte persone salgono nei palazzi per poter parlare dai ballatoi o affacciandosi da uffici con i detenuti. Il genere si affidano a segnali o espressioni in codice. Utilizzano questo tipo di comunicazione anche i familiari che invece lanciano messaggi d'amore ai loro parenti detenuti". Anche un altro abituale frequentatore del Centro Direzionale racconta di vedere spesso persone prendere il sole sul tetto di uno dei padiglioni del carcere: "Si mettono comodi come se la prigione fosse un grand hotel". L'ipocrisia dell'Europa si chiama diseguaglianza di Kenneth Rogoff Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2015 L'emergenza dei migranti che sta vivendo l'Europa rivela un vizio di fondo, se non un'enorme ipocrisia, nell'attuale dibattito sulla disuguaglianza economica. Un vero progressista non sosterrebbe l'idea di pari opportunità per tutti gli abitanti del pianeta, anziché soltanto per quelli che hanno avuto la fortuna di nascere e crescere in Paesi ricchi? Molti leader di pensiero nelle economie avanzate perorano la mentalità del diritto. Tale diritto, però, si ferma al confine, e anche se una maggiore redistribuzione della ricchezza all'interno dei singoli Paesi viene ritenuta un imperativo assoluto, le persone che vivono in Paesi emergenti o in via di sviluppo sono lasciate fuori. Se le attuali preoccupazioni circa la disuguaglianza fossero espresse esclusivamente in termini politici, questo ripiegamento su se stessi sarebbe comprensibile; dopotutto, i cittadini dei Paesi poveri non possono votare in quelli ricchi. Invece, la retorica del dibattito sulla diseguaglianza nei Paesi ricchi tradisce una certezza morale che opportunamente ignora i miliardi di persone che in altre parti del mondo vivono in condizioni molto peggiori. Non bisogna dimenticare che, anche dopo un periodo di stagnazione, la classe media nei Paesi ricchi, vista in una prospettiva globale, resta comunque una classe alta. Soltanto circa il 15% della popolazione mondiale vive in economie sviluppate. Eppure, i Paesi avanzati sono a tutt'oggi responsabili di oltre il 40% dei consumi globali e dell'esaurimento delle risorse. Aumentare le tasse sulla ricchezza è senz'altro un modo per ridurre la disuguaglianza all'interno di un Paese, ma non risolve il problema della povertà profonda nel mondo in via di sviluppo. E neppure lo risolve appellarsi a una superiorità morale per giustificare il fatto che una persona nata in Occidente usufruisca di così tanti vantaggi. Senza dubbio, delle istituzioni politiche e sociali solide sono il fondamento di una crescita economica sostenuta, anzi rappresentano un ingrediente essenziale per la buona riuscita dello sviluppo. Tuttavia, la lunga storia di sfruttamento coloniale dell'Europa rende difficile immaginare come sarebbero evolute le istituzioni asiatiche e africane in un universo parallelo in cui gli europei fossero arrivati solo per commerciare, non per conquistare. Molte questioni politiche appaiono distorte quando si osservano con una lente che mette a fuoco solo la disuguaglianza interna di un Paese e ignora quella globale. L'affermazione marxiana di Thomas Piketty che il capitalismo sta fallendo perché la disuguaglianza nazionale è in aumento in realtà dice il contrario. Quando si dà lo stesso peso a tutti i cittadini del mondo, le cose appaiono sotto una luce diversa. Le stesse forze della globalizzazione che hanno contribuito alla stagnazione dei salari della classe media nei Paesi ricchi, altrove hanno affrancato dalla povertà milioni di persone. La disuguaglianza globale si è ridotta negli ultimi tre decenni, il che implica che il capitalismo ha avuto un successo straordinario. Potrà aver eroso il livello delle rendite di cui i lavoratori nei Paesi avanzati godono in virtù dell'essere nati lì, ma ha fatto di più per aiutare i lavoratori a reddito medio, concentrati in Asia e nei mercati emergenti. Consentire una più libera circolazione delle persone attraverso le frontiere bilancerebbe le opportunità in modo più rapido rispetto al commercio, ma un'ipotesi del genere incontra resistenza. I partiti politici anti-immigrazione hanno preso piede in Paesi come Francia e Regno Unito. Certo, i milioni di disperati che vivono in zone di guerra e in Paesi falliti non hanno molta altra scelta se non chiedere asilo in un paese ricco, a prescindere dai rischi che ciò comporta. Le guerre in Siria, Eritrea, Libia e Mali hanno avuto un ruolo enorme nell'attuale impennata di profughi che cercano di raggiungere l'Europa. E se anche questi Paesi dovessero stabilizzarsi, l'instabilità di altre regioni si imporrebbe al loro posto. Le pressioni economiche rappresentano un'altra forte spinta alla migrazione. I lavoratori dei Paesi poveri accolgono con favore l'opportunità di lavorare in un Paese avanzato, anche con salari da fame. Purtroppo, il dibattito in corso nei Paesi ricchi verte perlopiù, sia a destra che a sinistra, su come tenere gli altri fuori dai propri confini, una soluzione che potrà essere pratica, ma non è giustificabile da un punto di vista morale. Inoltre, la pressione migratoria è destinata ad aumentare se il riscaldamento globale evolverà secondo le previsioni dei climatologi. Quando le regioni equatoriali 1 diventeranno troppo calde e aride per sostenere l'agricoltura, nel Nord del mondo l'aumento delle temperature renderà invece l'agricoltura più produttiva. I mutamenti climatici potrebbero, quindi, incrementare la migrazione verso i paesi più ricchi fino a livelli che farebbero impallidire quelli dell'emergenza attuale, soprattutto tenuto conto che i paesi poveri e i mercati emergenti sono perlopiù ubicati in prossimità dell'equatore e in zone climatiche più vulnerabili. Essendo la capacità di accoglienza e la tolleranza dei paesi ricchi verso l'immigrazione ormai limitate, è difficile immaginare di poter raggiungere in modo pacifico un nuovo equilibrio in termini di distribuzione della popolazione globale. Esiste, quindi, il rischio che il risentimento nei confronti delle economie avanzate, responsabili di una quota fin troppo sproporzionata d'inquinamento e consumo di materie prime globali, possa degenerare. Mentre il mondo diventa più ricco, la disuguaglianza inevitabilmente si profilerà come un problema molto più vasto rispetto a quello della povertà, un'ipotesi che avevo già avanzato oltre un decennio fa. Purtroppo, però, il dibattito sulla disuguaglianza si è concentrato a tal punto su quella nazionale da oscurare il ben più grande problema della disuguaglianza globale. Questo è un vero peccato perché i paesi ricchi potrebbero fare la differenza in tanti modi, ad esempio fornendo assistenza medica e scolastica gratuita online, più aiuti allo sviluppo, una riduzione del debito, l'accesso al mercato e un maggiore contributo alla sicurezza globale. L'arrivo di persone disperate sulle coste dell'Europa a bordo di barconi è un sintomo della loro incapacità in tal senso. Amnesty International: in Libia migranti trattati con crudeltà di Luca Fazio Il Manifesto, 13 maggio 2015 In un nuovo rapporto l'associazione denuncia le crudeltà cui vengono sottoposti i migranti prima di rischiare la vita nel Mediterraneo. Per Philip Luther, direttore per l'Africa del Nord e il Medioriente, è inutile bombardare gli scafisti senza predisporre rotte alternative e sicure. Appello a Tunisia ed Egitto affinché aprano le frontiere per accogliere i rifugiati. Quand'anche l'Europa trovasse un accordo per bombardare l'obiettivo sbagliato - lo scafista, dipinto come il male assoluto - il "problema" in Libia non sarebbe risolto. Non si arresterebbe la conta dei morti (i migranti moriranno lontano dal canale di Sicilia, se può essere di consolazione) e certamente non terminerebbero le sofferenze per migliaia di persone che fuggono da fame e guerre. "Implementare misure per contrastare i trafficanti senza fornire un'alternativa alle persone che scappano dal conflitto in Libia non risolverà la piaga dei migranti", dice il direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e Nord Africa Philip Luther. Non sono lamentose considerazioni, è la realtà che Amnesty International ha indagato con il suo nuovo rapporto intitolato "La Libia è piena di crudeltà". Si leggono i motivi politici e storici che spingono i migranti a sfidare la morte nel Mediterraneo per arrivare in Europa - niente che non sia già noto a Federica Mogherini e ai ministri della Ue - ma anche diverse testimonianze di abusi, violenze sessuali, torture e persecuzioni religiose. Il testo contiene anche un appello alla Tunisia e all'Egitto affinché allarghino le maglie alle frontiere per permettere a migranti di lasciare la Libia (trafficanti e bande criminali hanno rubato i loro passaporti e anche per questo non possono fare altro che imbarcarsi per lasciare il paese). Le indicibili condizioni in cui si trovano i migranti insieme alla crescente assenza di legalità e ai conflitti armati in corso nel paese - dice Philip Luther - rendono evidente quanto sia pericoloso oggi vivere in Libia. Senza percorsi legali per fuggire e cercare salvezza, queste persone sono costrette a mettersi nelle mani dei trafficanti, che le sottopongono a estorsioni, attacchi e altri abusi". Il rapporto non fa sconti alla comunità internazionale, accusata di essere rimasta a guardare la Libia "discendere nel caos" dopo la fine dell'intervento della Nato del 2011. Ormai è diventato il principale paese di transito per i rifugiati in fuga dai conflitti dell'Africa sub sahariana e del Medioriente. Non è più possibile chiudere gli occhi, dice l'associazione, e limitarsi a distruggere le imbarcazioni dei trafficanti senza predisporre rotte alternative e sicure e senza "adottare misure concrete per affrontare le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto libico". I rifugiati di religione cristiana sono i più a rischio. Provengono da Nigeria, Eritrea, Etiopia ed Egitto. Sono stati rapiti, torturati, uccisi e perseguitati. "Ultimamente - si legge nel rapporto di Amnesty International - almeno 49 cristiani, per lo più provenienti dall'Egitto e dall'Etiopia, sono stati decapitati o fucilati in tre esecuzioni sommarie di massa rivendicate dal gruppo Stato islamico". Non è difficile raccogliere testimonianze come quella di Charles, un cristiano nigeriano di trent'anni aggredito da una banda criminale lungo le coste libiche: "Arrivavano, ci rubavano i soldi e ci frustavano. Non potevo far presente alla polizia il mio credo cristiano perché quelli come noi non gli piacciono. Nell'ottobre del 2014 sono stato sequestrato da quattro uomini armati che si erano accorti che avevo con me una bibbia". Lo hanno torturato per due giorni, poi è riuscito a scappare da una finestra. Questo per dire che "i leader europei devono assicurare che i migranti in fuga non siano mai rimandati indietro in Libia". Le persecuzioni lungo le rotte dei trafficanti non sono solo di natura religiosa. I migranti che provengono dalle zone sub sahariane, compresi i minori, durante il tragitto "vengono torturati per costringere loro e le loro famiglie a pagare un riscatto". Chi non può ricevere denaro viene ridotto in schiavitù. Le donne, soprattutto quelle che viaggiano sole, rischiano di essere stuprate, "vengono obbligate a fare sesso in cambio del rilascio o del permesso di proseguire". Ci sono molte testimonianze. "Mi hanno portato fuori città - ha raccontato una nigeriana - hanno legato mio marito a un palo per le mani e le caviglie e mi hanno stuprato davanti ai suoi occhi, erano in tutto undici". Con l'arrivo in Libia, in attesa di salpare su qualche imbarcazione di fortuna, la situazione non cambia. I migranti vengono segregati anche tre mesi in case diroccate, senza acqua né cibo. Alcuni rifugiati siriani hanno raccontato di essere stati trasportati in furgoni frigoriferi in cui passava poca aria: "Due bambini hanno iniziato a soffocare e hanno smesso di respirare, i genitori li schiaffeggiavano per fargli riprendere conoscenza. Noi battevamo sulle pareti ma l'autista non si fermava, in seguito i bambini si sono ripresi". Infine, i centri di detenzione per i migranti, "le cui condizioni sono terribili e in cui la tortura è la regola". Percosse quotidiane, "con tubi di gomma dietro le cosce", e stupri ripetuti per mesi. Le autorità libiche "devono immediatamente porre fine alla sistematica detenzione di migranti", conclude Philip Luther. All'Italia andrà l'11,8% dei migranti: un elenco dei Centri di raccolta, i cosiddetti "hotspot" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 maggio 2015 Alfano ha incaricato i tecnici di individuare le aree dove dovrebbero essere creati i nuovi Centri di smistamento dei migranti, i cosiddetti "hotspot". Quote percentuali per la distribuzione obbligatoria dei profughi, contributi per i Paesi che sopportano maggiormente i flussi migratori, regole più severe per contrastare gli ingressi illegali, controlli sull'identificazione e il fotosegnalamento effettuati in collaborazione con le agenzie internazionali: a tarda sera, quando si limano gli ultimi dettagli, l'intesa sembra raggiunta. Il testo messo a punto dal presidente Jean Claude Junker che sarà portato oggi in Commissione, potrebbe ottenere il via libera come base di trattativa per una regolamentazione definitiva da approvare il 25 giugno prossimo, durante la riunione già fissata con i capi di Stato e di governo di tutti i membri dell'Unione. Molto bisognerà ancora discutere, ma i negoziati di queste ore sembrano aver soddisfatto anche l'Italia, che adesso rivendica di aver costretto l'Unione europea ad occuparsi dell'emergenza ottenendo la garanzia di poter alleggerire la pressione causata dallo sbarco sulle nostre coste di decine di migliaia di persone dirette in Europa. Se le anticipazioni della vigilia saranno confermate il nostro Paese dovrà infatti garantire una percentuale di accoglienza pari all'11,84, dunque sarebbe già "in credito". Regno Unito e Irlanda rimarranno fuori dalla distribuzione grazie a una clausola di "opt-out". Esclusa anche la Danimarca e dunque saranno 25 gli Stati coinvolti. La scelta di Junker di agire in base all'articolo che impedisce il diritto di veto fa si che il testo possa ottenere il via libera con il sì di 15 commissari. Al momento sono decisamente contrari Polonia, Paesi baltici, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia mentre ci sono alcuni scettici, ma alla fine l'accordo dovrebbe essere comunque raggiunto. Gianni Pittella, presidente dell'eurogruppo socialisti e democratici, ne è convinto: "Finalmente l'Europa s'è svegliata: ho parlato con Juncker e il vicepresidente Frans Timmermans e sono convinti che domani la Commissione varerà la sua agenda. Finalmente, con una strategia integrata, sarà adottato un mix di misure urgenti a breve termine per salvare vite umane con azioni a lungo raggio, per affrontare le radici del problema". Oggi saranno stabilite le percentuali in base al Pil e agli indicatori sullo Stato sociale di ogni Paese; nei prossimi giorni, sulla base delle presenze di stranieri già assistiti, si potranno conoscere i numeri. Se davvero l'Italia rimarrà all'11,84%, potrebbe - questo era stato chiesto nelle ultime settimane - ottenere le "relocation" di una parte dei richiedenti asilo già sbarcati. L'impegno di Junker è che il nostro Paese, così come la Grecia, rimanga fuori dalla prima redistribuzione proprio perché è già in prima linea ormai da anni. Ogni capitolo dell'Agenda sarà comunque oggetto di nuova trattativa, ma i tempi fissati dalla presidenza appaiono comunque stretti, tanto che al vertice dei ministri dell'Interno e della Giustizia convocato per il 15 e 16 giugno dovrebbe essere già pronto il progetto da rendere operativo dieci giorni dopo. Per questo, mentre in Europa si mette a punto l'intesa politica, a Roma si decidono i dettagli tecnici. Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha incaricato i tecnici di individuare le aree dove dovrebbero essere creati i nuovi centri di smistamento dei migranti (i cosiddetti "hotspot". I timori di un commissariamento dell'Italia con l'invio di team stranieri sul nostro territorio sarebbero stati superati con la garanzia che Frontex, Europol ed Easo non effettueranno controlli sulle procedure del fotosegnalamento ma collaboreranno come già accade con l'operazione Triton. Soltanto con l'avvio dell'attività si potrà sapere se davvero è così, in ogni caso questa presenza non è negoziabile e dunque si può continuare a trattare soltanto sulla collocazione e sulla capienza degli "hotspot" dove gli stranieri dovranno essere portati subito dopo l'arrivo e rimanere fino al termine della procedura per l'identificazione e la raccolta delle impronte digitali. L'ipotesi è arrivare al massimo a 500 persone e di aprirli dove si era già deciso di allestire i centri di prima accoglienza. Nell'elenco ancora provvisorio si sono Taranto, Augusta, Pozzallo, Porto Empedocle, Lampedusa, San Giuliano e Civitavecchia. Pakistan: Nessuno Tocchi Caino; paese di ingiustizia dove piovono condanne a morte di Domenico Letizia Il Garantista, 13 maggio 2015 La discussione sulla violazione dei diritti umani fondamentali, nelle sede giuridiche appropriate, ha da tempo ribadito la necessità di una moratoria universale contro la pena di morte. Nonostante i numerosi progressi dovuti al lavoro di numerose organizzazioni, come "Nessuno Tocchi Caino" e il Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale, molto resta ancora da fare e affrontare. Il primato di esecuzioni capitali resta in Cina, Iran e Iraq ma anche altri paesi compiono violazioni quotidiane ai diritti fondamentali dei cittadini. In Pakistan la situazione resta drammatica. Grazie all'organizzazione "Nessuno Tocchi Caino" siamo in grado di fornire dati sullo stato attuale della pena capitale anche nel solo mese di aprile 2015. Il 2 aprile, sei persone sono state condannate a morte per terrorismo da un tribunale militare pakistano. Secondo il Generale Asim Saleem Bajwa, dei sette terroristi processati, sei sono stati condannati a morte, mentre uno è stato condannato all'ergastolo. Il 7 aprile, un detenuto identificato come Sikander è stato impiccato nel carcere di Bahawalpur. Era stato condannato alla corte marziale, dopo essere stato riconosciuto colpevole di aver ucciso un collega nel 2002. Sempre nella giornata del 7 aprile, due cristiani pakistani sono stati condannati a morte per aver violato la legge sulla blasfemia in vigore nel paese. I due sono stati accusati di aver inviato messaggi di testo blasfemi in inglese. Un caso davvero particolare poiché data la non scolarizzazione della coppia è altamente improbabile che i due abbiano potuto scrivere testi in inglese. Inoltre, gli avvocati della coppia hanno dimostrato in tribunale che i testi incriminati provengono da un numero di cellulare non in possesso alla coppia. Decisamente più indecoroso se pensiamo che uno dei componenti della coppia, Emmanuel, è paralizzato ed è costretto a vivere sia l'arresto che la condanna alla pena capitale su una sedia a rotelle. Sono accusati di aver insultato il Corano e Maometto, provocando scandalo. I pubblici ministeri hanno convinto il giudice pakistano a emettere la pena capitale dopo aver letto brani del Corano in tribunale. Hanno anche minacciato il giudice ribadendo che se il tribunale non si fosse pronunciato in loro favore, sarebbe stato ucciso, come è successo ad altri oppositori delle leggi sulla blasfemia. L'organizzazione Rescue Christian con l'aiuto del gruppo World Vision in Progress ha provveduto agli avvocati per la coppia e stanno seguendo i pubblici ministeri nella condanna. Questa condanna arriva solo pochi giorni dopo la condanna a morte in Pakistan di un altro cristiano accusato di aver violato le leggi sulla blasfemia. L'otto aprile, due condannati per omicidio sono stati giustiziati nel carcere di Machh e in quello di Bahawalpur. Uno dei giustiziati, Ameer Hamza era stato condannato a morte da un tribunale antiterrorismo a Sibi nel 2004 e il suo appello alla clemenza fu respinto dal Presidente Hussain il 30 Marzo. Hamza, secondo i dati che possiamo consultare, sarebbe il primo prigioniero a essere impiccato nella struttura penitenziaria di Machh negli ultimi 7 anni. Il 21 aprile, almeno quindici persone condannate per omicidio sono state impiccate in diverse prigioni del Pakistan. Si tratta del più alto numero di esecuzioni in un solo giorno dalla revoca della moratoria sulla pena di morte nel Dicembre 2014. Tre uomini sono stati impiccati a Faisalabad. Un altro prigioniero, Azam, è stato impiccato nella prigione distrettuale mentre un altro condannato a morte, Raja Rales, è stato impiccato nel carcere di Adiala. Doveva essere giustiziato anche un altro detenuto, Shakeel Ahmed, condannato a morte per aver ucciso la moglie nel 2000, ma il fratello ha raggiunto un accordo con la madre della vittima. Due persone, invece, sono state inviate al patibolo nel carcere di Kot Lakhpat a Lahore. Il 22 aprile altri quattro detenuti condannati per omicidio, identificati come Zahid Hussain, Nazir Ahmed, Rizwan e Moazzam Khan, sono stati giustiziati nella provincia del Panjab. Il 23 Aprile 2015, due condannati per omicidio sono stati impiccati a Sargodha e Sahiwal, portando a 97 il numero totale di esecuzioni da quando il Pakistan ha revocato la moratoria sulla pena di morte nel dicembre 2014, dopo l'attentato e il massacro dei Talebani in una scuola di Peshwar. Il governo pakistano ha deciso la linea dura: in un vertice anti-terrorismo presieduto dal premier Nawaz Sharif, l'esecutivo ha deciso la sospensione della moratoria sulla pena di morte decisa nel 2008, anche se solo relativamente ai reati di terrorismo, anche se attraverso i nostri dati sappiamo che la pena capitale è nuovamente utilizzata anche per reati non legati al terrorismo. Nazioni Unite, Unione europea, Amnesty International, Nessuno Tocchi Caino e Human Rights Watch, hanno chiesto inutilmente al governo di Islamabad di reintrodurre la moratoria. Stati Uniti: Human Right Watch denuncia "abusi e violenze su detenuti malati di mente" Adnkronos, 13 maggio 2015 Nelle prigioni americane vengono commessi abusi e violenze su detenuti malati di mente. È questa la denuncia contenuta nel rapporto dell'inchiesta condotta da Human Right Watch in decine di carceri locali e statali dove sono stati denunciate pratiche scioccanti, come quella di tenere i detenuti legati a sedie e letti per giorni, usando contro di loro taser e agenti chimici tossici. In uno dei casi denunciati nel rapporto, si riporta che le guardie carcerarie di una prigione della California hanno spruzzato per circa 40 volte spray urticante contro un detenuto e poi hanno lanciato quattro bombolette di gas urticante nella sua cella dopo che l'uomo, che sosteneva di essere il "creatore", si rifiutava di lasciarla. "Le prigioni possono essere un luogo pericolo, rischioso e persino mortale per uomini e donne con problemi di salute mentale", afferma Jamie Fellner, autrice del rapporto di Hrw che pubblica sul suo sito anche un video. "La forza viene usata contro questi prigionieri anche quanto, a causa della loro malattia, non sono in grado di obbedire agli ordini dati", aggiunge spiegando che in alcuni casi questi episodi si sono conclusi con la morte del detenuto. Come Christopher Lopez, 35enne affetto da disordine schizofrenico di tipo bipolare, che una notte del 2013 fu trovato privo di sensi nella sua di una prigione del Colorado. Invece di mandarlo in infermeria, gli agenti lo ammanettarono, legandolo poi mani e piedi ad una sedia, da dove l'hanno liberato solo alcun ore dopo quando mostrava chiari segni di una crisi. "Era chiaro ed evidente a tutte le guardie, ma nessuno alzò un dito per aiutarlo", afferma David Lane l'avvocato della famiglia di Lopez che è morto la mattina del giorno dopo per ipotermia. "Gli agenti di custodia non sono preparati a lavorare con detenuti con problemi mentali, non sanno come disinnescare situazioni esplosive cercando di convincerli ad obbedire agli ordini: troppo spesso, l'uso della forza è l'unica cosa che conoscono e che quindi usano", conclude Fellner. Stati Uniti: i Vescovi denunciano " i Centri di detenzione per immigrati sono disumani" www.fides.org, 13 maggio 2015 La Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti (Usccb) ha denunciato attraverso un rapporto appena pubblicato, che il sistema dei centri di detenzione degli immigrati negli Stati Uniti è diventato una "industria disumana", e ha chiesto ampie e urgenti riforme. Dal 1994 al 2013 si è passati da una popolazione media giornaliera di detenuti pari a 6.785 immigrati irregolari a 34.260, per un totale rispettivamente di 85.000 e 440.000 detenuti all'anno. "È il momento per la nostra nazione di riformare questo sistema disumano, che detiene inutilmente la gente, particolarmente le persone vulnerabili che non sono una minaccia" ha detto nella presentazione del rapporto il Vescovo ausiliare di Seattle, Sua Ecc. Mons. Eusebio Elizondo, che è Presidente della Commissione episcopale per le migrazioni. Lo studio della Usccb mostra che la crescita dei centri di detenzione ha provocato un sistema che crea "disallineamenti, famiglie spezzate, violazioni dei diritti umani, petizioni legali abbandonate e minor prestigio nazionale". "Per molti aspetti, i detenuti immigrati sono trattati meno bene in confronto agli imputati criminali" conclude la relazione intitolata "Unlocking Human Dignity: A Plan to Transform the U.S. Immigrant Detention System". Secondo le norme del Department of Homeland Security (Dhs), i detenuti immigrati non vengono rilasciati neanche quando c'è la possibilità di porli sotto stretta sorveglianza, si legge nel rapporto. Iran: sei uomini impiccati a Orumiyeh, proteste dei detenuti nel carcere di Gohardasht www.ncr-iran.org, 13 maggio 2015 Sei uomini sono stati impiccati nella città nordoccidentale di Orumiyeh giovedì. I detenuti Shahin Salehi, Haji Abbassi, Ahmad Shiri, Latif Alizadeh, Abdolaziz Fouladi e Hassan Bina sono stati tutti giustiziati nel carcere principale della città. Anche sabato un detenuto è stato impiccato in pubblico nella città di Rasht. Gli esperti dell'Onu sui diritti umani hanno condannato la recente impennata delle esecuzioni in Iran, della maggioranza delle quali non viene data notizia. Alcuni rapporti giunti da Ginevra l'8 Maggio 2015, dagli Inviati Speciali delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, Ahmed Shaheed e sulle esecuzioni extragiudiziali, Christof Heyns, hanno condannato il drastico aumento delle esecuzioni delle ultime settimane. In molti casi delle esecuzioni non è stata data notizia dalle fonti ufficiali e i nomi dei giustiziati non sono stati rivelati al pubblico. "Quando il governo iraniano si rifiuta persino di ammettere la reale portata delle esecuzioni avvenute, dimostra uno spietato disprezzo sia per la dignità umana che per le leggi internazionali sui diritti umani", ha sottolineato Shaheed. Tra il 9 e il 26 Aprile almeno 98 detenuti sembra siano stati giustiziati, ad una media di sei al giorno. "Siamo allarmati dalla recente impennata del numero delle esecuzioni, avvenute nonostante vi siano grossi dubbi sul rispetto degli standards del giusto processo", ha precisato Heyns. Abbasso il dittatore e viva la libertà Sabato sera 9 maggio, molti detenuti della sezione 12 del 4° braccio di Gohardasht hanno gridato "Abbasso il dittatore", "Viva la libertà" e "Morte al regime delle esecuzioni", per protestare contro l'installazione di apparecchi per la diffusione di forti interferenze e le continue torture e pressioni nei confronti dei detenuti. Lo scopo dell'installazione di questi apparecchi è quello di disturbare le comunicazioni dei detenuti politici. Il rumore, che causa anche il cancro, ha danneggiato gravemente la salute dei detenuti i quali soffrono di secchezza delle mucose, dolori muscolari e forti mal di testa, visione appannata, nausea e intorpidimento continuo. La Resistenza Iraniana chiede in particolare a giovani di Tehran e Karaj di dimostrare la loro solidarietà e il loro sostegno ai detenuti e sollecita le organizzazioni in difesa dei diritti umani a condannare categoricamente queste azioni repressive e criminali del regime teocratico nei confronti dei detenuti, in particolare dei detenuti politici. Grecia: il processo ai leader di Alba Dorata spostato dal carcere di Korydallos Nova, 13 maggio 2015 Il processo ai leader e a decine di membri del partito neonazista greco Alba Dorata, che doveva riprendere oggi nella prigione di Korydallos, è stato spostato presso un'altra struttura dalla Corte d'appello. La nuova aula però non sarà pronta prima di settembre, ha spiegato il ministro della Giustizia Nikos Paraskevopoulos. La scorsa settimana un tribunale di Atene ha inflitto 12 mesi di prigione al deputato di Alba Dorata Ilias Panayiotaros, riconoscendolo colpevole di calunnia nei confronti dell'ex governatore regionale di Atene, Yiannis Sgouros. Tra gli imputati che dovevano presentarsi oggi figurano invece il leader del partito, Nikos Mihaloliakos, accusato di essere tra gli ispiratori delle azioni violente effettuate dal movimento che hanno portato nel 2013 alle uccisioni del rapper greco Pavlos Fyssas e del giovane pachistano Luqman Shahzad. Tra i tanti testimoni dell'accusa, oltre cento, da segnalare il sindaco di Atene George Kaminis, il deputato di Syriza Vassiliki Katrivanou, e i parenti di Shahzad. La scelta di usare il carcere di Korydallos, a sud di Atene, come sede per celebrare il processo, aveva suscitato polemiche e proteste da parte degli abitanti locali.