Giustizia: incontro a sorpresa tra Orlando e i Radicali, ipotesi indulto per i reati di droga di Errico Novi Il Garantista, 12 maggio 2015 Confronto sugli "Stati Generali", al via il 19. L'ipotesi indulto. Marco Pannella e Rita Bernardini sospendono lo sciopero della fame. Sarà già una sorpresa, per molti, quest'incontro che il ministro Andrea Orlando ha voluto con i radicali, e che è previsto per domani, a una settimana dalla presentazione degli "Stati generali del carcere". Cosa c'entra il guardasigilli di un governo come quello di Renzi con la nave pirata dei pannelliani, sempre pronta a sfidare il senso comune con gli scioperi della fame per la giustizia e i carcerati? Il nesso tra due posizioni in apparenza lontane è nella stessa scelta di convocare gli Stati generali. Finora l'esecutivo in carica ha fatto passi cauti verso una politica di "decarcerizzazione", di decongestione del sistema. Alcuni provvedimenti un po' burocratici come il decreto degli 8 euro, in gran parte inattuato ma servito a placare, almeno per ora, la Corte europea. Qualche iniziativa un po' più efficace come la norma sull'archiviazione dei reati per particolare tenuità e, soprattutto, gli interventi sulle misure alternative alla detenzione. In apparenza un governo di Renzi non sembrerebbe in grado di spingersi oltre. Se però Orlando decide di convocare tutte le parti in causa, detenuti e radicali compresi, è perché vuol tentare di ottenere qualcosa in più. Ecco, domani alle 11.30 si potrebbe intravedere già qualche elemento in più sull'iniziativa per le carceri. A quell'ora si recherà a via Arenula, per incontrare Orlando, una delegazione radicale guidata da Marco Pannella. Con lui la segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, i dirigenti del movimento Deborah Cianfanelli. Giuseppe Rossodivita, Matteo Angioli e Laura Harth. E ancora, due rappresentanti di Nessuno tocchi Caino: Sergio D'Elia e Elisabetta Zamparutti, rispettivamente segretario e tesoriera dell'organizzazione. C'è un dato certo: il ministro della Giustizia ha chiesto a Pannella e ai suoi non solo di essere presenti il 19 a Bollate, dove gli Stati generali prenderanno il via, ma anche di dar luogo a questo confronto preliminare. È evidente come il guardasigilli riconosca ai radicali una grande competenza in materia, e che la consideri una dote preziosa per lavorare agli obiettivi comuni. Ce n'è uno in particolare che s'intravede: un provvedimento di clemenza riguardante almeno quei detenuti che continuano a scontare in carcere pene per la legge Fini-Giovanardi superiori ai nuovi limiti edittali stabiliti dalla Consulta. Si tratta di persone che potrebbero essere già fuori dalla galera, se solo avessero i soldi per pagarsi l'avvocato. Non basta infatti che la Corte costituzionale abbia ridotto le pene per i reati relativi alle droghe leggere. "C'è bisogno di attivare un incidente di esecuzione davanti al magistrato, solo in questo modo si può ottenere il ricalcolo della pena", spiega Rita Bernardini, "ma appunto chi non ha la possibilità di pagarsi un legale continua a scontare una condanna ingiusta e, soprattutto, formalmente incostituzionale". Si potrebbe cominciare a interrompere quest'ingiustizia. Orlando lo sa. E sa anche che far passare il concetto di indulto, seppur limitatamente a questa particolare categoria di detenuti, consentirebbe di abbattere un tabù. Anche nel suo partito. Non è un caso che Pannella e Bernardini abbiano sospeso lo sciopero della fame e della sete. "È un segno di riconoscimento verso il ministro che ha ritenuto di ascoltarci", ha detto il vecchio leader alla Conversazione settimanale trasmessa domenica scorsa, come sempre, da Radio Radicale. Ma quella sospensione è anche un segno di speranza, per usare un altro termine pannelliano. Che potrebbe materializzarsi in un'iniziativa di clemenza doverosa, pur se ad alto tasso di impopolarità. Giustizia: con l'ergastolo, Papa Francesco Bergoglio abolirebbe anche le carceri minorili Agi, 12 maggio 2015 "La strada più facile è andare in carcere. Quella giusta è dire: "sei caduto? Alzati ti aiuterò a reinserirti. È aiutare a reinserirsi". Papa Francesco ha risposto così alla domanda fattagli pervenire da un ragazzo detenuto a Casal del Marmo, il carcere minorile di Roma, da lui visitato il Giovedì Santo 2013, in una delle sue prime uscite dal Vaticano dopo l'elezione. Nello straordinario dialogo di oggi con i bambini della scuole primarie presenti all'udienza concessa alla "Fabbrica della Pace", Bergoglio ha evocato analoghi concetti anche rispondendo alla figlia di un detenuto adulto che gli ha chiesto: "c'è una possibilità di perdono per chi ha fatto cose brutte?". "Dio perdona tutto, capito? Siamo noi a non sapere perdonare a non trovare strade di perdono. Tante volte per incapacità o perché è più facile riempire le carceri che aiutare chi ha sbagliato ad andare avanti", ha risposto il Pontefice rivelando lui stesso che la domanda era stata posta dalla bambina di un carcerato. Mentre al ragazzo di Casal del Marmo che voleva sapere se il Papa è d'accordo con il fatto che bisogna rispondere col carcere ai reati compiuti dai minori, Francesco ha opposto un netto: "No, non sono d'accordo, la risposta è che ti aiutino a rialzarti, a reinserirti, mentre andare alla soluzione del carcere è la cosa più comoda per dimenticare quelli che soffrono". "Tutti - ha continuato Bergoglio rivolto ora a tutti i bambini presenti - posso fare gli stessi sbagli che ha fatto lui, tutti possiamo fare gli sbagli più brutti". Non bisogna condannare mai, ma aiutare sempre a rialzarsi e reinserirsi nella società", ha aggiunto ricordando la canzone degli alpini per la quale "la vittoria non è nel non cadere ma nel non rimanere caduti". "Tutti - ha concluso - sbagliamo. E la nostra vittoria è rialzarci e aiutare gli altri a non rimanere caduti. È più facile scartare una persona che ha avuto uno sbaglio brutto, condannarlo a morte con l'ergastolo. Il lavoro deve essere sempre quello di aiutarlo a rialzarsi, a reinserirsi". Papa Francesco ha affrontato questo tema anche nella recente "Bolla" d'indizione del Giubileo del Giubileo Straordinario, nella quale per tutti i peccatori ha una parola di speranza: "Dio va oltre la giustizia con il perdono. Se Dio si fermasse alla giustizia sarebbe - scrive - come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge. La giustizia da sola non basta". Nel testo che spiega finalità e modi di attuazione dell'Anno Santo della Misericordia il Papa sottolinea che "chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine ma l'inizio della conversione. Ciò non significa svalutare la giustizia ma Dio la ingloba in un evento superiore dove si sperimenta l'amore che è fondamento di una vera giustizia". Nell'antico Israele, ogni sette anni sabatici, nel Giubileo era prescritta la liberazione dei prigionieri, la cancellazione dei debiti e la restituzione delle terre agli antichi proprietari. Giustizia: in Italia ci sono ancora bambini che vivono in carcere con i genitori di Claudia Torrisi www.fanpage.it, 12 maggio 2015 In Italia circa 100mila bambini ogni anno varcano i cancelli di un carcere. Sono i figli dei detenuti, costretti a vivere sin da piccoli l'esperienza di colloqui, perquisizioni, grate e rimbombo di pesanti porte blindate. Tra questi, c'è chi cresce dietro le sbarre insieme al genitore, trascorrendo i primi mille giorni di vita, di fatto, da recluso. Un fenomeno che riguarda oggi pochi minori, ma ancora presente. Secondo i dati ufficiali forniti dal ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2014 in Italia le detenute madri erano 27, e 28 i bambini con meno di tre anni che vivevano negli istituti penitenziari. Il numero è in decrescita: negli ultimi anni è oscillato tra 40 e 50, nel 2009 i minori erano 73 e 78 nel 2008. La cifra è diminuita con il modificarsi delle condizioni generali delle carceri italiane, il maggiore accesso a misure alternative per i reati minori. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, che la concede alle madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti. Il carcere di Rebibbia a Roma è uno degli istituti provvisto di una sezione nido, che oggi ospita circa 16 bambini - quattro in più della capienza naturale - tra cui molti rom. Al suo interno lavora l'associazione A Roma, Insieme che si occupa di progetti per minori in carcere. I volontari in questi anni hanno raccolto tante testimonianze che dimostrano il disagio dell'infanzia dietro le sbarre: dal bambino che chiedeva, vedendo il mare, dove fossero i rubinetti da cui usciva tutta quell'acqua, a quelli che hanno paura di camminare su un prato perché non l'hanno mai fatto. Più di un bambino, ospite a casa di un volontario, ha fatto i complimenti per "la bella cella". Con tutta la buona volontà degli operatori, i nidi degli istituti penitenziari restano quello che sono: parte di una prigione. Eppure, una normativa per evitare l'ingresso dei minori in carcere esiste. No ai bambini in carcere: una legge inapplicata Nel 2001 è intervenuta la legge Finocchiaro, che ha introdotto modifiche al codice di procedura penale, favorendo l'accesso delle madri con figli a carico alle misure cautelari alternative. La questione è però rimasta inalterata per detenute rom, straniere o senza famiglia che, non avendo una dimora fissa, non possono usufruire degli arresti domiciliari. Il carcere come unica possibilità per i soggetti più deboli. Per risolvere questo problema, nel 2011 è stata approvata una nuova legge che consente, salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati, la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta, dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, le madri possono portare a scuola i figli, assisterli in ospedale se sono malati. Niente sbarre, niente cancelli. Sono strutture inserite nel tessuto urbano, possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e devono rispecchiare le caratteristiche di una casa: spazi personali, servizi, luoghi per giocare. "La Casa famiglia protetta è un luogo dove viene assicurata la vigilanza elementare, la più bassa soglia: quella degli arresti domiciliari. Quindi un passaggio periodico per controllare che siano ancora all'interno. Per il resto si tratta sostanzialmente di una condizione di normalità all'interno della casa, con la possibilità massima per i bambini di svolgere le attività ordinarie che un bambino dovrebbe svolgere", spiega Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato. A usufruirne dovrebbe essere chi non ha un posto dove andare. Non sempre donne che hanno commesso reati gravi, molto più spesso recluse semplicemente perché non hanno un domicilio alternativo. Come i rom, considerato che baracche e campi non sono considerati tali. Ma, nonostante la legge sia entrata in vigore il primo gennaio del 2014, di Case famiglie protette, al momento, non c'è neanche l'ombra. Cosa sono gli Icam "I circa 30-35 bambini reclusi si trovano attualmente in due tipologie diverse di istituti: nei reparti ordinari delle carceri, per esempio a Rebibbia o a Firenze, e poi negli Icam di Milano e di Venezia", spiega Manconi. Gli Icam - acronimo che sta per istituto a custodia attenuata per detenute madri - sono delle strutture detentive più leggere, istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i figli. Sembrano quasi asili, con corridoi colorati, agenti in borghese e senza celle. "Ma è un carcere a tutti gli effetti, sotto il ministero della Giustizia. Non si può uscire e tutto il resto. Semplicemente ha un aspetto esteriore un po' più a misura di bambino. Invece la Casa famiglia protetta è pensata per l'esecuzione di misure alternative", avverte Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell'associazione Antigone. Ma ci sono anche delle differenze pratiche: servono convenzioni tra il carcere e il Comune per poter far andare a scuola i bambini, bisogna trovare un pulmino che passi a prenderli, le persone che li accompagnino. Ci sono difficoltà anche in caso di emergenza sanitaria urgente. In Lombardia, per aggirare il problema, viene spesso usato l'escamotage di ricoverare la madre nei casi in cui è necessario che il figlio resti in ospedale, per consentire di superare le lungaggini burocratiche per ottenere un permesso. "L'Icam non è la soluzione - dice Manconi - Ma l'alternativa all'Icam oggi continua a essere tenere i bambini in cella. Dieci anni fa nel carcere di Rebibbia ho visto donne detenute con figli che avevano messo dei maglioni attorcigliati agli angoli della rete delle brande di ferro pesante per evitare che le punte ferissero i loro bambini come era già successo". Pur con tutti i suoi difetti, dunque, l'Icam costituisce un progresso del sistema penitenziario, almeno finché le Case famiglia protette continueranno a mancare. Peccato che, nonostante la legge del 2011 preveda fondi per la costruzione di questi istituti, al momento ce ne siano attivi solo due. Il primo Icam, in via sperimentale, è sorto a Milano. Fino al 2007 i bambini stavano dentro il carcere di San Vittore, dove le madri erano recluse assieme ai loro figli sullo stesso piano delle donne con problemi di dipendenza dalle droghe. In seguito è sorta quella di Venezia, accanto al reparto femminile del carcere. La mancanza anche di queste strutture ha creato distorsioni e casi limite. Come quello accaduto nel carcere di Sollicciano, dove un bambino di sei anni, Giacomo, arrivato che aveva pochi mesi assieme alla madre, è rimasto recluso per più di cinque anni. Non aveva altri parenti, né un posto dove andare. Il luogo naturale, per le caratteristiche del caso, sarebbe stato un Icam. Ma l'istituto a Firenze non è mai sorto. Al rientro da una delle prime uscite, in un campo estivo con altri bambini, ha chiesto agli operatori: "Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?" Perché questi ritardi? La legge 62 del 2011 prevede lo stanziamento di 11,7 milioni di euro destinati alla costruzione delle Icam e nessun finanziamento per le case protette. Questo dipende dalla differenza tra Icam - che sono sotto il Dipartimento di amministrazione penitenziaria - e le Case famiglia, che devono essere gestite, non più dall'amministrazione penitenziaria, ma da privati ed enti locali. L'articolo 4 della legge 62 dice che il ministero "può stipulare convenzioni con enti locali per l'individuazione delle case famiglia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica". Qualsiasi costo riguardante le Case protette deve ricadere, dunque, per legge su Regioni e Comuni e non sullo Stato. Secondo Marietti, è proprio qui che sta il problema: "Queste strutture non devono comportare oneri pubblici e devono essere individuate con l'aiuto degli enti locali che al momento hanno altre priorità dal punto di vista economico. Non ci sono soldi e tutto sommato è un problema che incide più sulle singole vite delle persone che sulle statistiche". L'associazione A Roma, Insieme aveva proposto di devolvere agli enti locali una piccola parte degli 11,7 milioni stanziati per gli Icam alla costruzione delle Case famiglia protette. L'idea però non ha trovato riscontri, ed è caduta nel vuoto. Per Manconi, comunque, la ragione del ritardo e mancata applicazione della legge non è una questione di soldi, ma di "assenza di volontà politica". Basterebbe, secondo il senatore, "trovare uno sponsor che investa la miseria che serve per ristrutturazione e arredamento di questi luoghi. È possibile che non si trovi nessuno disposto? La questione poteva essere risolta subito dopo la riforma, perché nel più pessimista dei casi il fabbisogno è di cinque o sei appartamenti in tutta Italia. Fate il calcolo di quanto potrebbe costare una struttura del genere. Stiamo parlando di cifre irrisorie". Tra l'altro, prosegue il senatore, con la Casa famiglia "l'ente locale risparmierebbe, perché eviterebbe di spendere di più negli altri servizi collaterali, come, ad esempio, i pulmini per l'asilo o altri spostamenti, l'assistenza". Un passo avanti, recentemente, è stato fatto dal Comune di Roma, che, grazie a un accordo tra tribunale e Dap ha individuato due edifici all'Eur sottratti alla mafia che potrebbero ospitare una Casa famiglia protetta. Un piccolo progresso, che invita, secondo Manconi, a un "cauto ottimismo", nella speranza di cancellare "l'iniquità più oltraggiosa del nostro sistema penitenziario". Giustizia: processi sui media, un'ipnosi di massa di Francesco Petrelli (Segretario dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 12 maggio 2015 Si è tenuto a Torino, l'8 e 9 maggio, il convegno organizzato dall'Osservatorio Media e Processo dell'Unione Camere penali, con la partecipazione di autorevoli docenti, giornalisti, avvocati e magistrati e quella, straordinaria, di Daniele Soulez Larivière, penalista francese, autore nel 1993 di un testo oramai classico che ha indagato per la prima volta gli intrecci pericolosi fra giustizia penale e informazione. Merito del convegno è stato da una parte quello di aver svelato, attraverso la voce di tutti i suoi interpreti, quel complesso rapporto che oramai lega strettamente l'informazione all'esercizio della giurisdizione. E dall'altra parte, soprattutto, di aver fatto cadere il velo di ipocrisia che spesso copre le discussioni in materia, ponendo tutti, avvocati, giornalisti e magistrati, a confronto diretto con la realtà di un fenomeno che appare nel tempo deformare sempre più l'immagine ed i connotati stessi del processo penale. È forse vero - come ha detto Filippo Facci - che il "circo mediatico-giudiziario" (secondo l'espressione coniata da maître Soulez Larivière) più che un problema sia oramai un dato di fatto. Uno di quegli abiti mentali che lentamente sedimentano nel tempo e vanno a formare il sostrato culturale, le abitudini e le ritualità stesse di una collettività intera. Ma dovremmo forse partire da un altro punto di vista, che scenda nelle viscere di questo "dato di fatto" e ne faccia nuovamente un problema: tanto il processo quanto l'informazione hanno a che fare con la verità, cercano la verità, la controllano e la sanzionano. O almeno dovrebbero. Perché dunque meravigliarsi che procedano a braccetto, che possano essere di fatto - come si legge nel sottotitolo del convegno - una sinergia! Credo che questa sia, nel profondo, la radice del problema, ovvero di quel "dato di fatto" che torna ad essere un problema. Perché è proprio questa sinergia, a ben vedere, che può a volte degenerare in una perversione. Occorre infatti accordarsi sul significato delle parole e dare forma all'idea che noi abbiamo di Informazione e di Processo. Se il processo penale è il fare giustizia, il che costituisce la manifestazione più ampia e più piena di esercizio di uno dei poteri dello Stato, come può l'informazione, classicamente intesa come cane da guardia del potere, farsene servitrice, avallarne acriticamente l'operato, elogiarne indistintamente le performances? Si dovrebbe riflettere in particolare sulla circostanza che la verità dei media e quella del processo hanno una qualità assai differente, e guai a confondere questi due tipi di verità, entrambi necessari alla democrazia, ma che risultano utili al suo sviluppo solo se tenuti distinti nei ruoli e nelle funzioni: quando l'informazione, fraintendendo il senso della sua funzione sociale, si mette al servizio della giustizia si genera un mostruoso ircocervo, che incrocia l'apoteosi del potere con l'ipnosi della gogna. Ma i tempi mutano così rapidamente che sotto l'apparente ripetizione di moduli comportamentali sperimentati, si vanno affinando nuovi format comunicativi. Vi sono infatti "informazioni" che sembrano possedere una qualità diversa da quella consueta. Non si tratta del testo di una intercettazione, del brano di un interrogatorio, della storia di un'investigazione, della copia di un'ordinanza, ovvero della classica modulazione con la quale si viola "occasionalmente" il segreto dell'indagine in favore di questo o di quel giornalista, ma di "informazioni" appositamente modellate, se non nei contenuti almeno nelle tempistiche, per i media, e dunque di vere e proprie performances mediatiche. Al centro di queste "informazioni" non sono tanto i dati investigativi ma l'aura stessa dell'investigazione, il suo indiscutibile carisma. Appartengono certamente a questa moderna "categoria informativa" le immagini, ossessivamente rimbalzate sui media, dell'arresto di Massimo Carminati, presunto boss di Mafia Capitale, con le mani alzate, e quelle dell'arresto di Massimo Bossetti, imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, inginocchiato, o il video del suo primo colloquio in carcere con la moglie. È davvero difficile non vedere nell'uso di queste nuove forme di comunicazione giudiziaria una strategia sofisticata, sottile e pervasiva, a supporto dell'attività delle Procure e delle polizie giudiziarie. In alcuni casi a sostegno di una potente immagine moralizzatrice o di una giurisprudenza creativa, in altri a siglare l'inutilità di ogni dubbio e di ogni approfondimento probatorio e l'inevitabilità del rinvio a giudizio dell'imputato. Ed è allora inutile assistere al mea culpa di qualche magistrato illuminato che - come fa il dottor Spataro - si scaglia giustamente contro il protagonismo di questo o quel collega, o di giornalisti che ammettono di approfittare degli spazi lasciati aperti dalla legge e dalla prassi, se non si comprende che il problema è altrove, in quella alleanza di fatto che, anziché retrocedere, si rinsalda cambiando la sua qualità. Non più dunque una ingenua "connivenza" coltivata nel cono d'ombra di normative imperfette e di inquirenti distratti, ma l'avanzare di una nuova idea del rapporto fra processo e società, nel quale l'informazione non controlla la verità, non pone domande imbarazzanti agli investigatori e alle Procure, non pone mai questioni di metodo, ma enfatizza il bene assoluto di una giustizia palingenetica, a volte somministrata con pratiche crude e metodi sbrigativi, ma in sintonia con le attuali aspettative, prodotte dall'ircocervo ipnotico, di una opinione pubblica trasformata in un pubblico senza opinioni. Giustizia: anche i magistrati più attenti sottovalutano i danni dei processi precotti in tv di Renato Borsone (Responsabile Osservatorio sull'informazione giudiziaria dell'Ucpi) Il Garantista, 12 maggio 2015 E fisiologico o patologico il rapporto tra informazione giudiziaria e giustizia nel nostro Paese? Ed esiste davvero il "circo mediatico giudiziario" di cui al titolo di un fortunato pamphlet dei primi anni novanta dell'avvocato parigino Daniel Soulez Lariviere? A questi ed altri quesiti avrebbe dovuto rispondere il convegno chiuso a Torino sabato scorso ("Informazione e giustizia: sinergia virtuosa o relazione perversa?") ed organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane, dal suo neocostituito Osservatorio sull'informazione giudiziaria e dalla Camera Penale del Piemonte. Alcune risposte sono arrivate, e costituiscono il punto di partenza di un tema che potrebbe diventare uno dei centri d'iniziativa politica dei penalisti italiani. Anzitutto il convegno ha portato allo scoperto, come registrato domenica dal Garantista e da alcuni altri quotidiani nazionali, una tensione interna alla magistratura su questi temi. La polemica avviata, nel suo intervento, dal Procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro (anche nel riconoscere lealmente che il circo "mediatico giudiziario" esiste davvero) nei confronti dei "magistrati eroi e moralizzatori" che si autopromuovono sulla stampa costituisce un riscontro proveniente da fonte insospettabile alle posizioni dell'avvocatura penale ed è nel contempo un segnale che, fortunatamente, non tutto è monolitico nelle stanze del potere giudiziario. E dunque la riflessione è stata aperta. Ma non è stato solo questo il segnale interessante: da un'altra angolatura il Presidente dell'Anm, dottor Rodolfo Sabelli, lo stesso Spataro e una parte cospicua della stampa continuano a negare uno sbilanciamento "perverso" dei mezzi di informazione in favore delle impostazioni accusatorie, che ciò avvenga, o meno, attraverso la violazione del segreto investigativo. In sostanza, molti magistrati e cronisti non rilevano la succubanza culturale di grandi e piccoli giornali, a prescindere dall'area culturale di appartenenza e fatte le debite ma isolate eccezioni, verso le Procure della Repubblica. Insomma, si vuole negare ciò che secondo i penalisti è sotto gli occhi di tutti, vale a dire il fenomeno dell'asse perverso tra media e magistratura che porta a concludere, parafrasando Von Clausewitz, che spesso l'informazione giudiziaria altro non è che la prosecuzione dell'inchiesta giudiziaria con altri mezzi. A contrastare tale negativa, nel convegno torinese, non solo gli interventi polemici di Oreste Dominioni, del presidente dell'Ucpi Beniamino Migliucci, del giornalista Filippo Facci ma anche, sotto il profilo giuridico, del professor Alessandro Melchionda e dell'avvocato Lariviere, guest star del convegno, che è tornato e ricordare ai distratti alcuni aspetti del circo mediatico giudiziario. Le affermazioni del libro sulla interazione perversa tra i magistrati e la stampa, sull'abbandono della presunzione di innocenza, sul condizionamento che si produce - con il bombardamento mediatico unidirezionale in senso accusatorio- sul giudice che dovrà decidere, sono cadute nel vuoto o sono state respinte dai magistrati presenti per essere semplicemente qualificate come "distorsioni", pur deplorevoli, ma in fondo collocabili in mancanze deontologiche di ciascuno degli attori della scena giudiziaria, compresi gli avvocati. A nessuno può però sfuggire come l'equivoco del "tutti colpevoli, nessun colpevole" si risolva di fatto nella perdita di comprensione del quadro complessivo e dei singoli fenomeni che lo compongono: una certa impostazione del giornalismo che amplifica e accompagna acriticamente le concezioni "etiche" della giurisdizione; l'esaltazione della giustizia "per campagne" (non si decide se una persona sia colpevole o meno di un certo reato ma si combatte un fenomeno criminale); il massacro mediatico della figura dell'indagato e perfino del sospettato per prepararne la "cottura processuale"; la concezione degli esiti assolutori come "un insuccesso della giustizia" e "uno spreco" di indagini. E, infine, l'abbandono del giornalismo critico investigativo a favore di quello "della buca delle lettere", in cui il rapporto perverso con le fonti più significative è sproporzionatamente diretto in favore dell'impronta colpevolista delle inchieste. In questo quadro non manca un inaccettabile ruolo di alcuni avvocati, talvolta propensi a partecipare a beceri talk show televisivi per ottenere pubblicità in danno del proprio assistito, anche se non bisogna dimenticare che a volte i legali sono costretti ad intervenire sulla stampa per tentare di riequilibrare un'informazione a senso unico. All'esito del convegno torinese una promessa dell'Unione camere penali e del suo Osservatorio sull'informazione: nei prossimi mesi, con l'aiuto di una prestigiosa facoltà universitaria, partirà un lavoro di monitoraggio sulla stampa per verificare le caratteristiche del giornalismo giudiziario in Italia. Dopo questa ricerca si potrà nuovamente discutere, sulla base di dati di fatto, sull'esistenza o meno del circo mediatico giudiziario. Giustizia: è caos per le nomine al Csm, tra risse, ricorsi al Tar e la "mina" Davigo di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 12 maggio 2015 La scorsa settimana, la quinta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha indicato all'unanimità Arturo Soprano per la presidenza della Corte di Appello di Torino. Tra i concorrenti figurava anche Piercamillo Davigo che, conoscendo il personaggio, non deve esserci rimasto molto bene per la sonora bocciatura. Arturo Soprano è attualmente presidente della terza sezione penale presso la Corte d'Appello di Milano, quella che ha condannato lo scorso dicembre, nel cosiddetto Ruby bis, Emilio Fede a quattro anni e dieci mesi di carcere, a sei anni e un mese Lele Mora e a tre anni Nicole Minetti. Oltre ad occuparsi del Bunga-Bunga di Arcore, Arturo Soprano è stato anche il presidente del collegio che ha determinato in due anni l'interdizione dei pubblici uffici per Silvio Berlusconi. Ovviamente non devono essere stati questi gli elementi che hanno fatto pendere la bilancia dalla sua parte. Altrimenti non troverebbe spiegazione la polemica sulla sua nomina innescata in questi giorni dal Fatto Quotidiano. In un articolo dove già il titolo "Davigo è bravo, perciò non merita" è tutto un programma, Soprano è definito un magistrato "dalla vita professionale che più ordinaria non si può". Fra gli elementi che avrebbero dovuto, infatti, far propendere la scelta su Piercamillo Davigo c'è la sua "notorietà" dovuta a Mani Pulite, alla partecipazione come relatore a Forum prestigiosi presso le Università, alle docenze ai corsi del Csm Ma l'articolo del Fatto va oltre. Arrivando a leggere nella bocciatura di Davigo una "vendetta" della quinta Commissione. I cui componenti sarebbero stati tutti, per varie ragioni, ostili nei suoi confronti: uno perché di Unicost, la corrente di Soprano, due perché di Area, corrente avversa a Magistratura indipendente dove prima di fare la scissione Davigo era iscritto, uno perché proprio di Mi e quindi con il dente avvelenato per la scissione. Oltre ai due laici, uno del Pd l'altro di Fi, perché - a prescindere - contro l'eroe di Mani Pulite. Non crediamo che contro Davigo, che magari non aspirava fino in fondo ad andare a Torino puntando in cuor suo a qualche incarico più prestigioso, sia in atto un "complotto". Se il criterio adottato per la scelta dei diritti fosse la "visibilità" tout-court, Piercamillo Davigo non avrebbe competitor. Noi riteniamo, molto più semplicemente, che la quinta Commissione abbia applicato la circolare del Csm in materia di incarichi direttivi dove trova grande spazio, come parametro positivo, la valutazione della capacità organizzativa e di direzione dell'ufficio. Punto sul quale Piercamillo Davigo è stato recessivo essendo "solo" giudice di Cassazione rispetto ad Antonio Soprano che è un semi-direttivo. Il plenum, pertanto, non potrà che prendere atto del voto della quinta Commissione. In caso contrario l'istruttoria tornerebbe indietro ma, essendo per questa nomina già successo, è alquanto improbabile. Non sappiamo se Piercamillo Davigo, a questo punto, impugnerà davanti al Tribunale Amministrativo la nomina di Arturo Soprano. Come, ad esempio, hanno fatto Sergio Lari e Guido Lo Forte nei confronti di Francesco Lo Voi per il posto di procuratore a Palermo (la sentenza, per la cronaca, è attesa a giorni). Se lo facesse sarebbe un brutto segnale per il Consiglio Superiore della Magistratura, che da Organo di autogoverno delle toghe, da sempre geloso della propria autonomia e indipendenza, si vedrebbe "commissariato" dal giudice amministrativo. Con tutto ciò che ne consegue in termini di sospensive, istanze cautelari, giudizi di ottemperanza, ecc. Sul punto una riflessione è necessaria. La nomina dei dirigenti degli uffici, insieme al disciplinare, è una delle funzioni più delicate che ci possano essere al Csm: tutti i cittadini hanno interesse che nei posti di responsabilità vadano i migliori. Cioè persone preparate, equilibrate ed imparziali. Le polemiche che si stanno creando intorno ad ogni nomina importante non sono indice di serenità. Stupisce, poi, che tale clima da stadio sia alimentato proprio dai giornali filo toghe. Quelli che dovrebbero essere i primi a volere che il merito sia finalmente riconosciuto. E non la simpatia o la vicinanza alle proprie idee. Giustizia: anticorruzione; la magistratura deve reprimere i reati, non prevenirli di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 12 maggio 2015 Vi sono vari livelli di informazione. Il giornalista, che fa cronaca, descrive il fatto; quello che fa opinione ne dà la sua valutazione che propone al lettore. L'opinionista, però, non è necessariamente un tecnico e quando l'informazione riguarda vicende che rientrano nella sfera delle valutazioni giuridiche, è bene che l'informazione sia corredata dalle necessarie nozioni tecniche. Questo giornale ha dato giusto rilievo alla opinione del presidente dell'Anac, il consigliere Cantone, secondo cui talora è necessario servirsi di infiltrati, e alla intervista del procuratore Mancuso che ha ricordato come fu possibile, essendosi serviti di un infiltrato, "costruire la Tav senza carrarmati". Per completare questa informazione è opportuno collegare la vicenda al nostro sistema giuridico e vederne le implicazioni. Chi è e che cosa fa il pubblico ministero? Che è e che cosa fa la polizia giudiziaria? Per la Costituzione il pm esercita l'azione penale (art. 112) e "l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria" ( art, 106), Lascio da parte il rilievo che l'art. 106 parla di "autorità giudiziaria" e non di "magistratura", quasi a voler significare che il potere di disporre della polizia spetta ai "giudici", che costituiscono l'autorità giudiziaria, e non alla magistratura, che secondo la Costituzione costituisce il corpo composito in cui sono raccolti giudici e pubblici ministeri. Sta di fatto che il codice di procedura penale interpreta la Costituzione nel senso che l'autorità giudiziaria va intesa come magistratura nel suo complesso. Gli articoli 50 e seguenti dello stesso codice stabilisco-no che l'azione penale è esercitata dai capi degli uffici di Procura; che le indagini possono essere affidate ai sostituti; che tra tali indagini vi sono anche quelle preliminari; che (anche) i pubblici ministeri dispongono della polizia giudiziaria. Nel codice manca una definizione delle indagini preliminari, ma dall'articolo 326, intitolato alla "finalità delle indagini preliminari", ricaviamo che il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale. Non occorre essere del mestiere per comprendere, perciò, che le indagini preliminari sono finalizzate all'esercizio dell'azione penale e che, pertanto, presuppongono un reato già compiuto e che, di conseguenza, nel nostro sistema al pubblico ministero non è affidata la "prevenzione", ma soltanto la "repressione" dei reati. In altre parole, nel nostro sistema, la "sicurezza sociale" in via di prevenzione non sembra affidata alla magistratura, ma sembra compito proprio ed esclusivo delle forze di polizia. In termini istituzionali, la prevenzione, in tema di sicurezza, sembra essere di competenza del ministro dell'Interno e non può essere ricondotta alla magistratura (parlare di ministro della Giustizia mi sembrerebbe improprio). Eppure, qualsiasi lettore, leggendo queste osservazioni, mi rimprovererà per essere un formalista dell'ultima ora o un leguleio indegno di qualsiasi considerazione. Vorrei rassicurarlo. Per carità, non voglio essere frainteso e plaudo alle iniziative che anni fa resero possibile una pacifica costruzione della Tav. Chi potrebbe negare che si è trattato di un'azione meritoria? Non vivo nelle nuvole e ho cercato nella mia vita di insegnare più che il diritto, le esperienze della mia vita in trincea filtrata alla luce delle mie troppe letture e della mia capacità di penetrazione. Prendo atto, perciò, che, per un'infinità di ragioni che non posso qui approfondire, del compito di prevenzione si è appropriato il pubblico ministero e che, in fin di conti, alla polizia giudiziaria fa comodo essere protetta nella fase preliminare delle indagini (che è la più delicata) e, addirittura, in quella di prevenzione dei reati dallo scudo della magistratura (che gode di un'immunità che alla polizia non è riconosciuta). Vorrei, però, che i pubblici ministeri prendessero atto che il loro inserimento insieme con i giudici nell'unico corpo della magistratura è una forzatura. La convivenza di giudici e pubblici ministeri, per quanto difficile, forse sarebbe stata possibile quando il nostro codice di procedura penale era costruito diversamente (almeno questa fu l'illusione dei nostri Costituenti). Dal 1989 e con l'introduzione del rito accusatorio (per quanto temperato esso sia) quella convivenza diventa giorno dopo giorno più difficile e il pubblico ministero non è più (soltanto) l'organo che esercita l'azione penale e che svolge, pertanto, un'attività in senso lato giudiziaria; è diventato nei fatti il soggetto che si occupa della sicurezza dei cittadini. Come gli episodi narrati dal giornale dimostrano. Inequivocabilmente. Giustizia: Rovereto in testa nelle "pagelle" dei 139 tribunali d'Italia, bocciati in 96 di Dino Martirano Il Corriere della Sera, 12 maggio 2015 L'11 maggio del 1860 i Mille di Garibaldi sbarcavano a Marsala per dare inizio alla lunga spedizione di avvicinamento all'Unità nazionale. Esattamente 155 anni dopo, il tribunale marsalese diventa protagonista di una rivoluzione che punta a un obiettivo di tutto rispetto, pur considerando un secolo e mezzo di Stato nazionale unitario alle spalle: rendere al Sud una giustizia civile sufficientemente celere come quella che si inizia ad intravedere in alcuni tribunali del Centro-Nord a partire da Rovereto, Trieste, Lanciano, Asti, Verbania, Aosta e Torino. E il "modello Marsala" - coniato dal presidente del Tribunale, Gioacchino Natoli, ora passato a dirigere la corte d'Appello di Palermo - dimostra che sulla giustizia civile si può fare addirittura meglio rispetto alle "buone pratiche" adottate con successo al Centro-Nord, a partire dalla capofila Torino. Il ministero della Giustizia ha scelto (forse inconsapevolmente) una data simbolica del l'Unità nazionale per pubblicare sul suo sito lo studio sulle "performance dei Tribunali civili" (curato da Roger Abravanel con Stefano Proverbio e Fabio Bartolomeo) pianificato "dall'Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull'economia delle riforme della giustizia" presieduto dalla ex Guardasigilli Paola Severino: due milioni di cause - delle 5 milioni pendenti - prese in esame, 139 tribunali messi in classifica considerando la capacità di smaltire vecchi processi e non solo, valutazione dei costi derivanti per l'erario dalla giustizia lumaca (600 mila processi troppo lenti ai fini della legge Pinto sulla ragionevole durata le processo) che ammontano a 316 milioni di euro già spesi e a 406 ancora da tirare fuori. Ma questa poderosa macchina di dati ha un padre: il giudice Mario Barbuto (già presidente del Tribunale e della Corte d'Appello di Torino) che un anno fa è stato chiamato a Roma, alla Direzione dell'organizzazione giudiziaria del ministero (Dog), dal Guardasigilli Andrea Orlando. E con Barbuto in via Arenula è iniziato il lento contagio del "modello piemontese" che in pochi anni aveva determinato a Torino il dimezzamento delle cause civili arretrate e il quasi azzeramento di quelle con anzianità superiore ai tre anni (le ultra triennali, Ut). L'idea di Barbuto è stata semplice quanto geniale: trattare innanzitutto i vecchi processi e "targare" i fascicoli con l'anno di iscrizione a ruolo. A Torino tutto questo ha portato, a regime, risultati notevoli. Così come a Milano esiste un "modello Milano" (27° in classifica) e un "modello Roma (42°), città che però devono fare i conti con le dimensioni dei rispettivi mega tribunali. Ma lo studio del professor Abravanel evidenzia come "il modello piemontese" possa dare frutti - oltre che a Rovereto, Lanciano, Trieste, Asti, Verbania, Aosta, Udine, Lecco, Ivrea, Busto Arsizio, Lodi, Lanusei, Cuneo e Monza - anche al Sud dove i processi pendenti ultra triennali sono il doppio (40%) rispetto al Nord (19%) e ben superiori al Centro (27%). In una delle classifiche stilate dal ministero (da cui è tratto il grafico pubblicato qui accanto), quelli di Marsala, Termini Imerese e Lanusei sono gli unici tribunali "meridionali" a figurare nel gruppo dei 27 uffici giudiziari virtuosi che hanno abbattuto sotto il 10% le cause ultra triennali pendenti. In un'altra classifica ministeriale, Marsala schizza al 3°posto della classifica dell'efficienza del processo civile dopo Lanciano e Trieste e prima di Asti mentre Torino è quinta. "Marsala è un tribunale medio piccolo - spiega il presidente uscente Natoli - e ciò significa che i risultati ottenuti applicando il metodo Barbuto possono, volendo, essere ripetuti negli 80-85 tribunali con 25-30 giudici". Natoli che è stato al Csm e, in una vita precedente, pubblico ministero del processo Andreotti a Palermo, è convinto che "il giudice deve inseguire il fascicolo": e quando si rende conto che il processo è datato "se lo deve togliere dalla scrivania prima di affrontare altro. Fatte salve le urgenze…". Ora il "metodo Torino", riveduto a Marsala è a disposizione dei tribunali più in difficoltà (Foggia, Lamezia, Matera, Patti, Barcellona Pozzo di Gotto, Vibo Valentia, Vallo della Lucania, Bari…): in tutto sono ben 96 quelli che non hanno superato al prova. Il giudice Barbuto, che vorrebbe rimanere dietro le quinte, si lascia comunque sfuggire: "Il metodo Marsala è importabile. I presidenti dei tribunali non si devono rassegnare: non tutto dipende dal tasso di litigiosità (il nostro è simile a quello dei francesi, ndr) e dai buchi nella pianta organica degli uffici". Giustizia: su Bossetti un ingiustificato, inaudito e continuato voyeurismo giudiziario www.camerepenali.it, 12 maggio 2015 Si fermi questa deriva mediatico-giudiziaria che sta imbarbarendo il nostro tempo. L'Unione Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere denunciano la palese ennesima violazione, non solo di diritti, ma di ogni comune ed elementare regola di comportamento, concretizzatasi nella messa in onda, prima su un canale televisivo, in esclusiva e con molteplici repliche, poi su moltissime altre reti, nonché siti internet, del colloquio in carcere tra il detenuto Massimo Giuseppe Bossetti e la moglie. Se vi potevano essere ragioni investigative per la ripresa audio-video, è del tutto evidente che la messa in onda non può fornire alcun ulteriore contributo al conseguimento della verità. Si ponga fine a questo voyeurismo giudiziario e soprattutto s'indaghi seriamente sulle modalità di acquisizione del filmato che, contenendo immagini di quanto avvenuto in un carcere, doveva essere nell'esclusiva disponibilità dell'Autorità Giudiziaria. Giustizia: caso Eternit, si decide oggi il processo bis per omicidio volontario di Mauro Ravarino Il Manifesto, 12 maggio 2015 Il caso Eternit ritorna in tribunale. Finito con un nulla di fatto il primo processo, annullato in Cassazione, le aule del Palazzo di Giustizia di Torino si preparano nuovamente a ospitare i familiari delle vittime. Questa mattina si apre, infatti, l'udienza preliminare del procedimento Eternit bis, dove il magnate svizzero Stephan Schmidheiny dovrà rispondere di omicidio doloso per la morte di 258 persone, decedute, tra il 1989 e il 2014, a causa dalla diffusione d'amianto a Casale Monferrato (Alessandria) a Cavagnolo (Torino) e, in parte, a Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). Solo 68 sono ex lavoratori, gli altri sono cittadini residente nelle vicinanze dei quattro stabilimenti. Tutti luoghi dove di amianto si continua a morire: il picco è atteso tra il 2020 e il 2025. Il reato di omicidio non si può prescrivere. Proprio i giudici della Corte di Cassazione, nelle motivazioni della sentenza, avevano sottolineato come le contestazioni mosse dalla Procura di Torino fossero più idonee a reggere altri reati, come le lesioni e l'omicidio. I pm, Raffaele Guariniello e Gianfranco Colace, ipotizzano varie aggravanti quali i motivi abietti, la volontà di profitto e il mezzo insidioso (l'amianto). Schmidheiny, "nonostante sapesse della pericolosità dell'amianto", avrebbe "somministrato comunque fibre della sostanza". Il primo processo, che ha avuto una rilevanza storica e mediatica (una causa con tre mila vittime), è stato capovolto in ultimo grado di giudizio: la condanna per l'imprenditore svizzero, ora in Costa Rica, confermata in appello è stata annullata dalla Corte Suprema. E, così, i risarcimenti civili. Questa volta l'impianto cambia. Se precedentemente l'accusa si era incentrata su un reato cosiddetto "collettivo", il disastro ambientale, nell'Eternit bis viene contestato a Schmidheiny l'omicidio volontario per ogni singolo caso di decesso per malattie amianto - correlate (soprattutto mesotelioma pleurico), in cui le indagini hanno consentito di evidenziare il nesso di causalità tra l'esposizione alle polveri liberate e la morte della vittima. L'attesa è alta. All'alba da Casale Monferrato partono i pullman carichi di familiari. A Torino sono state allestite due maxi aule per ospitarli. Gran parte dell'udienza sarà dedicata alle richieste di costituzione di parte civile. Fra le carte, che la difesa potrebbe giocare, c'è quella della competenza territoriale e quella del "ne bis in idem", sostenere cioè che questo processo non va celebrato perché Schimdheiny è stato già prosciolto per prescrizione dall'accusa di disastro ambientale. Cgil Cisl Uil Piemonte si sono costituite parte civile nel nuovo processo Eternit e garantiscono il patrocinio ai familiari delle vittime attraverso un pool di avvocati delle rispettive organizzazioni. "È la prosecuzione - sottolineano in una nota i segretari regionali Laura Seidita (Cgil), Marcello Maggio (Cisl) e Francesco Lo Grasso (Uil) - di un impegno profuso in tutti questi anni, a tutela dei lavoratori". Manca all'appello lo Stato italiano: "Vogliamo ricordare - sostiene, infatti, l'Afeva (Associazione familiari vittime amianto) - l'impegno assunto dal presidente Renzi, durante gli incontri a Roma successivi alla vergognosa sentenza della Cassazione, di costituire questa volta anche lo Stato come parte civile al quale ribadiamo la nostra annosa richiesta di svolgere un ruolo attivo e di coordinamento al fine di attivare le iniziative occorrenti per ottenere giustizia, prima di tutto per le vittime, sia in sede penale che in sede civile". Giustizia: la storia di Capitano Ultimo "io, al lavoro tra i poveri per senso di colpa" Gazzetta del Sud, 12 maggio 2015 Dalla lotta a Cosa Nostra alle accuse, poi cadute, di favoreggiamento ai boss, alle inchieste sulle Ecomafie, ora tra i poveri e gli emarginati della Terra. Segna un nuovo capitolo la vicenda militare e umana del Capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, classe 1961, l'uomo senza volto per ragioni di sicurezza, oggi colonnello e vice comandante dei carabinieri per la Tutela dell'Ambiente. L'ennesima sfida di Ultimo, il carabiniere che ha ammanettato Totò Riina, è l'associazione "Volontari Capitano Ultimo Onlus" messa in piedi dal nulla con l'aiuto e l'appoggio dell'attore Raul Bova (interprete del suo personaggio nella serie televisiva "Ultimo") e della Nazionale italiana cantanti. Ha preso vita così, nella tenuta La Mistica, alla periferia sud-est di Roma, la casa famiglia ‘Capitano Ultimò per il recupero e il reinserimento di minori disagiati e figli di famiglie segnate dal crimine. "L'idea è nata da un profondissimo senso di colpa - spiazza De Caprio intervistato in video da Ansa.it rigorosamente di spalle, giacca mimetica militare e cappuccio della felpa in testa -. Non possiamo delegare ad altri, a specialisti, organizzazioni, l'impegno per la povera gente, per impedire che nel XXI secolo ci siano ancora persone che non hanno da mangiare, che non hanno da dormire, che sono sole e abbandonate: è un crimine contro l'umanità. Le parole sono parole, impegnarsi è un dovere e l'ho fatto perché, insieme ai "miei" carabinieri e alle persone della società civile che collaborano con noi, crediamo che l'impegno siano una preghiera e la nostra lotta". Tutte le attività alla Mistica sono realizzate da volontari, molti sono proprio carabinieri, ragazzi di altre case famiglia, minori detenuti, persone diversamente abili, migranti ospiti dei centri di accoglienza e persone con disagio sociale o psichico. Un prezioso alimento che qui viene lavorato è il "pane del mendicante", realizzato con lievito madre, farina integrale e poi cotto a legna. "Dobbiamo dimostrare - sottolinea "Ultimo" - che essere poveri non deve limitarci, deve essere un punto di partenza. Essere poveri, essere in difficoltà diventano qui un'opportunità per creare occasioni. Dobbiamo dimostrare che essere uomini dell'Arma vuol dire avere anche un impegno sociale, straordinario, unico: sull'esempio di quello che ci hanno insegnato i martiri e gli eroi caduti negli anni sulle strade di tutta Italia". La casa famiglia "Ultimo" ospita 8 minori: il più piccolo oggi ha 8 anni, la più grande quasi 18. Vengono tutti da situazioni difficili, da famiglie in difficoltà. Sono stati accolti e sono seguiti nella loro vita ora normale. Ma cosa lega il percorso del Capitano Ultimo dall'antimafia al volontariato oggi? "La giustizia - risponde e conclude De Caprio. Quello di far parte di un'umanità fatta di poesia, di amore, di bellezza. La bellezza è aiutarsi gli uni con gli altri e arrivare tutti insieme al traguardo della sopravvivenza". Fisco-penale, sul ne bis in idem la Corte Ue si dichiara incompetente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2015 Cassazione - Terza sezione penale - Sentenza 11 maggio 2015 n. 19334. La Corte di giustizia europea passa la mano sul ne bis in idem. E, mentre si attende il giudizio della nostra Corte costituzionale, dichiara la propria incompetenza a intervenire sull'intreccio tra sanzioni penali e tributarie alla luce del grado di afflittività delle seconde a confronto delle prime. Una questione assai dibattuta e che discende dalla pronuncia dell'anno scorso della Corte dei diritti dell'uomo, che ha sancito l'illegittimità, nell'ambito societario, dell'abbinamento tra misure penali e amministrative (nel caso sanzioni inflitte da Consob). La Corte Ue con ordinanza della Nona sezione datata 15 aprile ha gettato la spugna dopo essere stata chiamata in campo dal Tribunale di Torino nell'ottobre 2014. In questione c'era la compatibilità con il diritto dell'Unione europea dell'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 74 del 2000. Il procedimento riguarda il rappresentante legale di una società che, secondo il quadro accusatorio, non aveva versato entro i termini di legge le ritenute dovute per poco più di 120 mila euro. Per questi fatti era già stato processato, in sede tributaria, condannato al versamento, sia pure rateizzato, di 178mila euro. Successivamente era partito il procedimento penale, nel corso del quale il giudice torinese divergenze interpretative fra, da un lato, la giurisprudenza della Corte (sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10) e quella della Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenze Engel e altri c. Paesi Bassi dell'8 giugno 1976; Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014, e Nikänen c. Finlandia del 20 maggio 2014) e, dall'altro, la giurisprudenza nazionale. Orientamenti diversi che riguarderebbero non solo la natura penale o meno della specifica sanzione tributaria, ma anche, se si qualificasse la misura come sanzione penale, la esistenza o meno della violazione del divieto del principio del ne bis in idem quando a carico dell'imputato, "per lo stesso fatto", è stato avviato un procedimento penale. La Corte europea, nell'ordinanza, fa riferimento al fatto (evidentemente prospettato dal Tribunale di Torino) che la nostra Cassazione avrebbe ammesso l'accoppiata tra misura penale e amministrativa. Per la Cassazione, infatti, la disposizione penale si è aggiunta alla generale previsione di illecito amministrativo. La norma penale sarebbe sì centrata sul medesimo fatto, ma invece sarebbe ancorata a presupposti temporali e di fatto nuovi e diversi. Non emergerebbe quindi un problema di cumulo di sanzioni, ma, piuttosto, un eventuale concorso apparente di norma penale e amministrativa. Per il Tribunale di Torino, questa posizione della Cassazione è assai problematica perché una soprattassa nella misura del 30% dell'importo non versato ha una evidente natura penale, rendendo così, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria (sia della Corte Ue sia della Corte dei diritti dell'uomo), attuale una verifica sulla violazione del principio di ne bis idem. La Corte Ue però sottolinea che "nell'ordinanza di rinvio, infatti, non si riscontrano elementi che consentano di considerare che il procedimento principale riguardi l'interpretazione o l'applicazione di una norma di diritto dell'Unione diversa da quelle presenti nella Carta. La menzionata ordinanza, peraltro, non dimostra affatto che il procedimento principale verità su di una normativa nazionale di attuazione del diritto dell'Unione, ai sensi dell'articolo 51, paragrafo 1, della Carta". In particolare, prosegue l'ordinanza, contrariamente alla precedente pronuncia Akerberg Fransson, la disciplina nazionale in discussione nel procedimento principale riguarda il mancato versamento di ritenute alla fonte relative all'imposta sul reddito e non violazioni di obblighi in materia di Iva. Prosecuzione dei lavori sull'abuso edilizio, non scatta il ne bis in idem di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2015 Sentenza della Corte di cassazione n. 19354/15. I successivi interventi di finitura di un bene su cui pende l'ordine di demolizione impartito dal giudice non fanno venir meno l'efficacia dell'ordine stesso, altrimenti si giungerebbe al paradosso che - accertato e sanzionato l'illecito edilizio - le successive condotte in violazione della legge ostacolerebbero l'integrale attuazione dell'iniziale prescrizione giudiziale e la conseguente restitutio in integrum dei luoghi. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 19354/15, depositata ieri. La pronuncia è stata l'occasione per affrontare la tipologia dei reati urbanistici alla luce del principio del divieto di essere giudicati due volte per lo stesso fatto. La sentenza della Cassazione ha respinto la domanda della ricorrente che lamentava l'intervenuta prescrizione dell'ordine di demolizione (e affermava quindi l'illegittimità dell'ordinanza del giudice che aveva respinto l'istanza di sospensione o revoca dell'ordine stesso) in quanto con altra pronuncia successiva veniva dichiarata l'improcedibilità per intervenuta prescrizione per gli ulteriori interventi di finitura. Ma la Cassazione respinge la richiesta al mittente e - con una breve ricognizione della giurisprudenza di legittimità sulla questione - approfitta del caso per affermare il principio di diritto che esclude - nei casi di attività edilizia abusiva protratta - che possa scattare il divieto del ne bis in idem quando due procedimenti diversi si riferiscono a due differenti periodi di realizzazione dell'opera abusiva. Così precisa la Corte di cassazione: "Il reato urbanistico è un reato permanente, per cui la preclusione del ne bis in idem opera soltanto con riferimento alla condotta posta in essere nel periodo oggetto di contestazione nei capi di imputazione e non riguarda, invece, l'eventuale protrazione o la ripresa della condotta in un periodo successivo, rispetto alla quale rimane impregiudicata l'azione penale e la qualificazione conseguente del fatto.". E i giudici concludono, precisando sul ricorso, che nel caso specifico si trattava di interventi edilizi eseguiti in più riprese e aventi a oggetto il medesimo manufatto abusivo, rispetto al quale sussiste, indipendentemente dal successivo completamento delle opere, l'ordine di demolizione impartito con sentenza di condanna divenuta irrevocabile, in quanto l'immobile deve essere eliminato nella sua interezza. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile (nonostante il parere contrario del procuratore che propendeva addirittura per la cassazione con rinvio) e alla ricorrente sono state accollate le spese di giustizia e un'ulteriore somma equitativa di mille euro a favore della Cassa delle ammende. Lettera aperta al ministro Orlando sulla severità dannosa di Mauro Anetrini L'Opinione, 12 maggio 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando dice che, per alcuni reati, occorre aumentare le pene. Anche il Presidente del Consiglio, prima di lui, ha detto che è necessario innalzare il tetto delle sanzioni per taluni comportamenti delittuosi. E, analogamente, molti esponenti politici o della cosiddetta società civile sostengono che è preciso dovere del Parlamento inasprire il trattamento riservato a chi viola la legge. Insomma: se c'è una cosa sulla quale sembrano essere tutti d'accordo, quella è la necessità di incrementare il tasso di severità del codice penale. È una sciocchezza colossale, indegna di un Paese civile, inutile e (pure) pericolosa. Vede, signor ministro, per dimostrare a Lei e quelli che la pensano come Lei quanto sia grave l'errore che state per commettere e quali siano le conseguenze alle quali esponete il Paese che vorreste governare, non serve richiamare alla Sua - alla Vostra - attenzione l'inefficacia endemica delle grida di manzoniana memoria; neppure serve sciorinare i dati statistici consolidati del nostro e di altri Paesi dai quali emerge con inequivocabile chiarezza che all'inasprimento delle pene non corrisponde mai la contrazione dei reati. Queste cose, signor ministro, Lei le sa già e le conoscono bene anche i Suoi amici. Quello che Lei non sa, o non vuole sapere, invece, è che in un Paese civile il diritto penale non può trasformarsi nel diritto del nemico o nella reazione emergenziale a fenomeni la cui origine e le cui cause non possono essere affrontate e rimosse con la semplice previsione dell'imprigionamento. Pensi alle nuove norme, quelle recentemente approvate, sul terrorismo, signor ministro. Lei pensa davvero che i reati di recente introduzione assicurino una maggiore sicurezza o consentano di meglio contenere (almeno) parte di coloro che dicono di combattere in nome di Allah? Non serviranno: lo so io e lo sa Lei. Anzi: lo sappiamo tutti. Sono norme inutili, il cui effetto, però, è quello di estendere oltre i limiti dell'accettabile le intrusioni nella sfera privata delle persone, le intercettazioni, le perquisizioni, i sequestri. E non dica che gli onesti non hanno nulla da temere. Proprio perché onesto, io ho ragione di temere l'indebolimento dei limiti al potere dello Stato e ho diritto di esigere che sia rispettato il mio diritto di fare quello che mi pare. Pochi anni fa (questo Lei dovrebbe ricordarlo) vi erano persone che, illuse di sconfiggere il crimine con lo strumento del processo penale, invocavano l'abbattimento dei limiti al potere di intercettazione. Voglio essere intercettato, dicevano, perché io non ho nulla da temere. Bene, ancora una volta: io non voglio essere intercettato, perché io sono nato in un Paese nel quale la Costituzione protegge le mie libertà. Io voglio essere certo che nessuno ascolterà le mie conversazioni. Le leggi che Voi oggi sostenete sono un vulnus alla democrazia di cui pagheremo le conseguenze. Il diritto penale del nemico non è risposta degna di una Repubblica democratica. Pensi, anche, signor ministro, al fenomeno della corruzione. Non sono passati neppure tre anni dall'ultima riforma e ci ritroviamo al punto di partenza. La severità delle pene previste dalla cosiddetta Legge Severino non è servita a nulla, come dimostrano le statistiche. Eppure, il Governo dice di voler dare un ulteriore giro di vite. Si rende conto, signor ministro, della gravità delle cose che state per fare? Si rende conto, per dirgliela proprio tutta, che state usando il codice penale per assecondare la piazza o per raccogliere qualche manciata di voti in più? Le pare ragionevole intervenire a singhiozzo su reati che ci dimostrano quale sia la vera realtà della nostra Italia, ridotta alla prigionia da innumerevoli ed incomprensibili leggi controllate da un apparato burocratico più incrostato di quello sovietico? Voi farete delle sciocchezze e riempirete le carceri senza incidere sulla criminalità, che crescerà e si ridurrà per cause del tutto estranee al codice penale. La legge ha sempre punito i corrotti: se, come sostiene qualche autorevole magistrato assecondato dal Presidente del Consiglio, in carcere ci sono pochi corrotti, la colpa non è della legge troppo mite. Lei questo lo sa bene. Abbia la compiacenza, signor ministro, di volgere, per un istante lo sguardo a nord, verso i democraticissimi Paesi scandinavi e si faccia dire qual è il tasso di corruzione, come si celebrano i giudizi, quali sono le pene inflitte. E come vengono scontate. Poi, se vorrà, ne riparliamo. Lettere: l'invasione della giustizia e la democrazia di Claudio Cerasa Il Foglio, 12 maggio 2015 Giudici e sentenze rubano spazio alla politica, scrive il Corriere. Bene. Giovanni Belardelli ha scritto per il Corriere della Sera un articolo molto penetrante, che la nuova direzione del quotidiano ha sintetizzato in un titolo "La giustizia onnipresente che indebolisce la politica". Notiamo, e oltre non andiamo, che un titolo così lo attendevamo da tempo, sulla prima pagina dell'autorevole testata. Belardelli esamina il fenomeno della "giuridicizzazione della politica", prendendo spunto dalla recente e discussa sentenza della Consulta sulle pensioni e da varie altre sentenze dei Tar e di altri tribunali: offrono tutte la sensazione che lo spazio di discrezionalità (meglio: legittima responsabilità) tipico delle scelte dei governi si stia restringendo sempre più, con effetti distorsivi sull'equilibrio dei poteri (e sulle condizioni di diritto dei cittadini, va detto). Il politologo ha ragione da vendere, anche se si limita a prendere in considerazione i pronunciamenti in materie economiche e sociali, trascurando ad esempio il modo in cui in Italia è stata esercitata l'azione penale, spesso persecutorio, nonché le ingerenze controverse su tematiche bioetiche - quelle attorno a cui maggiormente si addensano diritti, desideri o pretese dei cittadini - che avrebbero completato il quadro di un'invasione di campo che data da lungo tempo. Bisognerebbe poi tener conto anche delle contraddizioni, come quella rappresentata dalla non ammissione del referendum sulla legge Fornero proposto dalla Lega, salvo poi cassarne aspetti fondamentali con una sentenza assunta peraltro senza maggioranza. Si ha la sensazione che la magistratura abbia una volontà più o meno consapevole di sostituirsi alla sovranità popolare, esercitando una sorta di tutela di interessi sociali che dovrebbero trovare la loro espressione nel conflitto e nel confronto politico e sindacale. Questo fenomeno è irreversibile? La politica è destinata a perdere il suo diritto e dovere di operare scelte tra diverse opzioni, chiusa nella duplice camicia di forza dei controlli sovranazionali e della ingerenza giuridico-giudiziaria? Fosse così la disaffezione alla politica, lo dice anche Belardelli, sarebbe destinata a estendersi, creando una sorta di meccanismo perverso che logora il sistema democratico, passando a quella "post democrazia" che consiste di fatto in una revisione in senso oligarchico del sistema dei diritti politici. È interessante che questa coscienza della pericolosità della "judicialization of politics", che in Italia si esprime soprattutto nel giustizialismo, e dei suoi effetti maligni trovi spazio sulla grande stampa di opinione, finora sostanzialmente chiusa nei meccanismi del circuito mediatico-giudiziario. Solo quando questa consapevolezza sarà diventata senso comune ci saranno le condizioni per apportare i correttivi istituzionali necessari. Al di là di qualche limite nell'ambito delle questioni affrontate, l'articolo di Belardelli è un contributo in questa direzione. Lettere: Giuseppe Zagari è arrivato a Sulmona, il "carcere dei suicidi" di Carmelo Musumeci www.carmelomusumeci.com, 12 maggio 2015 "Ho letto che un altro detenuto s'è tolto la vita. Ed ho pensato che in carcere a volte è più importante morire che vivere per mettere fine allo schifo che hai intorno. Purtroppo spesso in prigione la vita è un lusso che non ti puoi permettere e per smettere di soffrire non puoi fare altro che arrenderti". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Per un prigioniero è difficile, e molto complicato, avere fiducia in uno Stato e in una Giustizia che non rispettano le loro stesse regole, perché spesso l'universo carcerario è come un gelido mostro nietzschiano da cui non è possibile difendersi. Spesso più che rapporti di giustizia si tratta di rapporti di forza, che assicurano il dominio, non certo la giustizia. I diritti dei reclusi sono eventuali e inesigibili, mentre i doveri e i trasferimenti non voluti sono certi e inevitabili. Corre voce che a giorni riprenderanno le deportazioni dei detenuti di "Alta Sicurezza" da Padova e molti miei compagni stanno vivendo male questi provvedimenti amministrativi, che li costringeranno ad interrompere la loro crescita interiore, culturale e lavorativa. E io mi sento impotente per non poterli aiutare, perché ho solo questa stupida penna che non serve a niente contro lo strapotere di certi funzionari che gestiscono la vita dei detenuti, e purtroppo anche quella dei loro familiari. Giuseppe Zagari è stato il primo detenuto dell'Alta Sicurezza di Padova ad essere "deportato" nel carcere dei suicidi di Sulmona. E mi ha scritto questa lettera che rendo pubblica con la speranza che Dio, o qualcuno al posto suo, lo faccia rientrare nel carcere di Padova, per dargli la possibilità di poter continuare a lavorare nella redazione di "Ristretti Orizzonti". Noi lo aspettiamo e abbiamo deciso di tenere libera la sedia e il posto del tavolo dove di solito lui si sedeva durante le riunioni della redazione. Caro Carmelo, sono approdato in questo istituto dove, come ti avevo preannunciato, sono finito alle celle (di punizione ndr) perché ho reclamato di poter stare da solo. Sono stato accontentato, ma puoi immaginare: il degrado è più unico che raro. Sono in una celletta di colore indefinito, sembra verde e non lo è, sembra blu sporco e nemmeno così è, insomma fa schifo. Qui non posso fare nulla, né passeggiare con questi poveri cristi che sono qui, né cucinarmi, né fare altro, tranne che passeggiare avanti ed indietro in questi due metri quadri. Qui sarebbe il reparto infermeria, ma ti giuro che di infermeria non ha proprio niente, c'è solo la desolazione e lo sconforto di tante persone che lamentano la mancanza di cure e l'abbandono a se stessi. Io, per farti un esempio, sono due giorni che non mangio, non per mia volontà ma perché il vitto fa schifo ed io, soffrendo di colesterolo, non posso toccarlo. Carmelo, sono davvero dispiaciuto per questo trasferimento e ti giuro che è la prima volta da quando sono detenuto che mi sento davvero cupo, forse perché, dopo aver incontrato persone straordinarie come voi in redazione, in me era cominciata una crescita davvero importante. E sono certo che, pian piano che avrei preso confidenza con quell' ambiente giornalistico, sarei riuscito a dare un mio contributo alle tematiche che ogni giorno affrontavamo. Devo ammettere che ti invidiavo molto quando con la tua intelligenza e preparazione spiegavi tutti quei cazzi di articoli di legge in maniera brillante. Se ti avessi incontrato prima, al posto di studiarmi la Divina Commedia, mi sarei studiato il codice penale e ti avrei fatto le scarpe. Ormai non ho più la capacità nè la voglia di cimentarmi nella lettura, forse perché so di non avere più quella lucidità di un tempo, perciò cercherò di sopravvivere come posso. Carmelo, con tutta sincerità, sono pure un po' stanco di questa vita da schifo e delle ingiustizie che viviamo quotidianamente. (…) Ora dimmi un po' tu come posso farmi la galera in queste condizioni. Se tu puoi aiutarmi nel suggerirmi cosa possa fare per uscire da questa situazione, ti prego di scrivermi, ti giuro che così è troppo, non è accettabile dover vegetare per il resto dei miei giorni. Comunque, Carmelo, lotta sempre, anche per me, perché io non ho più forza. Buona fortuna. Salutami tutti quanti in redazione. Ti voglio bene. Giuseppe. Bari: Progetto Caregivers, per dare un aiuto ai compagni di cella con problemi psichici Corriere del Mezzogiorno, 12 maggio 2015 Si tratta di un progetto formativo per i "badanti" dei detenuti con disagi psichici. È stato firmato il progetto formativo (il primo in Italia) Caregivers, i "badanti" dei detenuti con disagi fisici nel carcere. L'accordo è stato siglato tra il direttore generale del Policlinico Vitangelo Dattoli e Lidia de Leonardis direttore della casa circondariale di Bari alla presenza del Garante detenuti il professor Piero Rossi. Il responsabile dell'area pedagogica Tommaso Minervini curerà l'iniziativa. Il progetto formativo primo in Italia andrà a colmare una lacuna rilevata in sede europea e che oggi, grazie a questo accordo, inizierà proprio da Bari a formare i detenuti caregivers. Il direttore de Leonardis ha sottolineato come tale iniziativa, come rilevato dallo stesso Ufficio Centrale del Dap, è una primissima risposta dell'Amministrazione Penitenziaria sul tema della salute dei detenuti nel solco tracciato dalla Conferenza unificata del 22 gennaio 2015 . Il capo dipartimento Santi Consolo ha voluto manifestare personalmente al direttore del carcere barese l'apprezzamento per tale iniziativa formativa nel solco di una cambio di cultura sanitaria che passa dalla mera risposta terapeutica alla presa in carico della persona. Lucera (Fg): l'arte come strumento riabilitativo, programma di incontri in carcere www.lucera.it, 12 maggio 2015 È prevista per venerdì 15 maggio, alle ore 10, presso la Casa Circondariale di Lucera, una giornata di incontri per riflettere sull'arte come strumento riabilitativo per coloro che hanno commesso un reato. Il progetto prevede la sperimentazione di un modello di inclusione socio-lavorativa per i detenuti della Casa Circondariale di Lucera. Sarà pertanto costituita un'impresa sociale per il ritiro, la riparazione e la manutenzione degli ausili per disabili (dalle carrozzine alle protesi), realizzando anche un adeguamento funzionale dei locali siti al terzo piano della casa circondariale, che ospiterà la "Bottega dell'Ausilio" e l'Officina dell'Ausilio. Sono inoltre previste attività di sensibilizzazione sui temi del carcere, dell'esecuzione penale, delle misure alternative alla detenzione. Presupposto per un re-inserimento socio-lavorativo di successo delle persone detenute è una comunità solidale e accogliente. Saranno organizzati quindi tre incontri rivolti agli studenti degli istituti di ogni ordine e grado, coinvolgendo sia i detenuti che le loro famiglie. Nella "Bottega dell'Ausilio" saranno impiegati 3 detenuti della Casa Circondariale di Lucera. Nell'Officina dell'Ausilio vi lavoreranno altri 5 detenuti, e altri 2 saranno impiegati nel trasporto degli ausilio tra Lucera, Cerignola, Foggia e le abitazioni dei disabili. Prima dell'avvio delle attività, vi sarà un percorso di orientamento e counseling individuale, con formazione in aula e on the job, fino alla fase di work esperience. Parallelamente sono previsti, per i detenuti e per le loro famiglie, attività di sostegno psico-sociale, con particolare attenzione per i genitori detenuti o in esecuzione penale esterna e per i figli, con l'attivazione di un Centro di Ascolto. Ascoli: "riviste porno anche se è al 41 bis", battaglia giudiziaria nel supercarcere di Roberto Fiaccarini Il Resto del Carlino, 12 maggio 2015 Il direttore si rifiuta di consegnarle dopo il sì del tribunale. L'umana debolezza di sfogliare un giornale pornografico può diventare un caso giudiziario, se a cadere in tentazione è un detenuto. E se il detenuto è in regime di 41 bis, allora i ricorsi, le sentenze e gli appelli possono moltiplicarsi all'infinito fino a fargli spegnere ogni bollore. La vicenda dai risvolti più grotteschi che calienti nasce all'interno del supercarcere di Ascoli, dove l'avvocato Mauro Gionni ha chiesto mesi fa alcune deroghe apparentemente di poco conto per tre ergastolani condannati al carcere duro. Il 41 bis non ammette sconti, ma qualche aiutino si può concedere. Niente di che: cambiare menu a tavola comprando prodotti a proprie spese, poter consegnare un regalino ai figli, oppure appunto chiedere di potersi godere qualche evoluzione sessuale stampata su pagine patinate (anche in questo caso pagate dal detenuto). Solo che anche per cose di questo tipo serve giustamente l'intervento di un giudice, nel caso specifico di un magistrato di sorveglianza. Ebbene, le deroghe sono state concesse: "Per uno dei miei assistiti - spiega Gionni - si trattava di avere il figlio di due anni con lui durante i colloqui familiari, senza che il piccolo rimanesse al di là del vetro; un altro aveva ottenuto la possibilità di mangiare ce-ci e fagioli invece di carne e formaggio perché ha problemi di salute; al terzo, infine, era stato concesso di vedere giornali pomo". Tutto ok, dunque, se non fosse che il Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, si è opposto. Da un lato ha presentato ricorso, dall'altro non ha applicato le misure concesse dal magistrato di sorveglianza. Nel frattempo il ricorso è stato ritenuto inammissibile, ma nonostante questo i tre detenuti non hanno ancora avuto ceci, formaggio e giornali a luci rosse. E dunque si va avanti con le carte bollate. GIONNI, infatti, è stato costretto a presentare un ulteriore ricorso alla procura di Roma e a quella di Ascoli, chiedendo che vengano disposti accertamenti sul carcere. "E incredibile - sostiene il legale - che un organo amministrativo come il Dap sì frapponga a una decisione di un organo giudiziario". Peraltro, tra un giudizio e l'altro, si era posto un altro curioso problema relativamente ai giornali hot. Alcuni, infatti, contengono messaggi pubblicitari a pagamento, e dunque il timore - legittimo, per carità - era che potessero essere utilizzati per inviare messaggi all'ergastolano. Pizzini hard, per intendersi. Ma anche questo ostacolo era stato superato, trovando riviste che non lasciavano spazio ai messaggi. Neanche questo, però, è bastato a sbrogliare la matassa. "Non dimentichiamo - dice ancora Gionni - che queste persone moriranno in carcere, perché per loro non sono previsti sconti di nessun tipo. Hanno ucciso, è vero, ma come tanti altri che prima o poi usciranno". E allora, in fondo, quella debolezza così umana andrebbe forse assecondata. Messina: detenuto da fuoco alla cella, poliziotti penitenziari finiscono in ospedale www.24live.it, 12 maggio 2015 Nella serata di ieri un detenuto si è barricato in cella dove ha appicato il fuoco. Grazie all'intervento del personale di polizia penitenziaria è stato possibile sfiorare la tragedia, salvando la vita allo stesso detenuto che si stava intossicando, ma questi, avrebbe aggredito i poliziotti causando, ad alcuni di loro, contusioni guaribili in 8 giorni mentre un ispettore si sarebbe fratturato il polso, guaribile in 20 giorni. "Ci sono stati momenti di tensione e pericolo - ha commentato il segretario locale del Si.P.Pe. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Nino Solano. I poliziotti penitenziari hanno gestito bene la vicenda, confermando l'alta professionalità delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria del carcere di Messina ma, purtroppo, ciò che è accaduto è sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia e in particolar modo in Sicilia, sono ormai all'ordine del giorno". "Il Si.P.Pe. - conclude Solano - dopo aver manifestato davanti al carcere dell'Ucciardone, intende protestare anche davanti al carcere di Gazzi per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla grave crisi del sistema penitenziario Siciliano". Gela (Ct): ludoteca in carcere, un altro segnale di civiltà di Lucrezia Ferro www.corrieredigela.com, 12 maggio 2015 Spesso sentiamo parlare di emergenza carceri, di sovraffollamento, deterioramento della qualità di vita dei detenuti, carenze strutturali, dimenticando che esiste anche l'altra faccia della medaglia. Diversi, infatti, sono gli istituti di pena che aiutano il detenuto nel percorso di maturazione e di crescita grazie alla presenza di personale qualificato e all'offerta di importanti iniziative dal punto di vista culturale e sociale. E il carcere di Gela ne è un esempio. In questo quadro si inserisce la realizzazione di una ludoteca, all'interno della sala colloqui, grazie all'intervento del Rotaract di Niscemi. "Questa ludoteca - ha affermato la dott.ssa Gabriella Di Franco, Direttore del carcere di Gela - è un risultato importante. Il colloquio è un momento pregnante per le famiglie che si introducono nelle carceri. Da parte dei bambini c'è quella ritrosia e difficoltà di essere accolti dai genitori in uno spazio che non è il loro, da qui l'esigenza di garantire una migliore vivibilità e la necessità di creare un ambiente idoneo ai bambini, tutelando il legame familiare. Il Rotaract ha reso accoglienti questi spazi. Anche i detenuti hanno collaborato, realizzando i disegni alle pareti". "Di concerto con la dott.ssa Di Franco - ha proseguito Martina Giugno, presidente del Rotaract di Niscemi - abbiamo allestito questa ludoteca per poter aiutare i bambini ad avvicinarsi ai genitori creando un ambiente più sereno, luminoso, colorato, dove il gioco possa rappresentare lo strumento di riduzione del disagio tra la struttura e il bambino, tra il genitore ed il figlio". La dott.ssa Viviana Savarino, responsabile del settore educativo, ha sottolineato, invece, l'importanza che rivestono le iniziative di volontariato che tendono all'inclusione sociale del detenuto. "Le persone recluse all'interno di questa struttura, vengono trattate da persone, viene restituita la propria dignità personale e questo è l'indirizzo del Ministero in questi temi. Maggiore attenzione è rivolta ai bambini e alle famiglie che si accostano a questa struttura". Il commissario capo Francesco Salemi, comandante della casa circondariale, si è soffermato sull'importanza del carcere e della polizia penitenziaria. "Riuscire a garantire ai detenuti e ai loro congiunti degli spazi di ordinaria quotidianità - ha detto - produce sicurezza. Il carcere e la polizia penitenziaria fanno questo: produrre sicurezza e occasioni, considerare l'ottica del recupero, la rieducazione del condannato e il suo reinserimento nella società". Pisa: "Favolare", ecco il libro-progetto con le fiabe dei detenuti Askanews, 12 maggio 2015 Detenuti-scrittori e giornalisti-scrittori in carcere, per tenere laboratori di favole. Dentro e fuori. Da questa esperienza è nato il libro "Favolare", curato da Antonia Casini e Giovanni Vannozzi. Un'antologia sul tema del viaggio, reale, negato e immaginario, illustrata dalla mano giovane e poetica di Michele Bulzomì. Il volume è edito dalla casa editrice MdS, che ha molti titoli con contenuti e progetti rivolti al sociale e sarà in vendita in anteprima al Salone del Libro di Torino, prima della presentazione al carcere Don Bosco di Pisa il 29 maggio. Tra gli autori ci sono anche 8 detenuti che hanno partecipato al corso di scrittura tenutosi da gennaio a maggio nella biblioteca del Don Bosco di Pisa, realizzando fiabe: "Storie di sentimenti tradotti in espressioni poetiche, romanzate e di fantasia, storie di vita - hanno spiegato questi speciali studenti - romanzo, poesia e amore, affetti familiari, potenti motori dell`esistenza, la nostra. Questo libro è come una bottiglia con i nostri messaggi lanciata nell'oceano del mondo esterno. Confronto, impegno e quattro risate, per due volte a settimana fuori dalla cella, hanno un valore infinito". "Difficile abbandonare queste persone che ascoltano come non accade fuori - hanno dichiarato i curatori e il disegnatore - abbiamo trovato molta volontà e interesse". Con loro hanno "costruito" fiabe, oltre ai curatori, anche altri scrittori e giornalisti, tra cui Ermanno Bencivenga, Alfonso Maurizio Iacono e Alberto Severi. Pisa e le istituzioni si sono mobilitate per questo progetto, unico in Italia: il Comune, le Camere penali e il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Pisa hanno concesso il patrocinio. Tutti e 32 gli autori e il disegnatore hanno rinunciato al ricavato delle vendite per devolvere l`incasso a un progetto di inserimento nel mondo del lavoro dei detenuti della Casa circondariale Don Bosco di Pisa. Migranti: Ue alla ricerca della quadratura del cerchio di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 12 maggio 2015 Onu e Bruxelles. Mogherini chiede una risoluzione Onu per le missioni navali contro i trafficanti. Verso un sì al blocco, ma non alla distruzione delle navi nelle acque libiche. I paesi Ue in disaccordo sul "fardello". Mercoledì le proposte Juncker, che non piacciono al Ppe. Federica Mogherini a New York spera di ottenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza per combattere i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, ormai il passaggio più pericoloso al mondo per i migranti (1.727 morti dall'inizio 2015 secondo l'Organizzazione internazionale delle migrazioni). La Ue il 23 aprile scorso si era accordata per dare mandato a Mogherini di ottenere le basi giuridiche internazionali per una missione militare per "catturare e distruggere le imbarcazioni prima che vengano utilizzate" dai trafficanti in Libia, "nel rispetto del diritto internazionale", iniziativa "per salvare vite" nella versione di Mrs Pesc. La risoluzione Onu è necessaria perché la missione militare presuppone di entrare nelle acque territoriali libiche e bloccare imbarcazioni con bandiera straniera (extra Ue), azioni contrarie al diritto del mare. Ma molto difficilmente la Ue otterrà dall'Onu un via libera per una missione di distruzione delle navi, un'avventura vista la situazione in Libia, aggravata dall'attacco di ieri a una nave turca: la Russia è contraria ad operazioni-commando e potrebbe al massimo accettare operazioni limitate al blocco e al sequestro delle navi dei trafficanti. La Cina deve essere ancora convinta. Il voto all'Onu non avrà luogo prima del Consiglio Esteri della Ue del 18 maggio, ma Bruxelles spera in una risposta per il Consiglio europeo del 25 e 26 giugno. Intanto, mentre la Ue cerca una sponda di legalità internazionale, al suo interno permangono forti divisioni su come spartirsi il "fardello" dei migranti. Per il momento, gli europei hanno intensificato lo scambio di informazioni sulle reti di trafficanti, ottenute dalla sorveglianza aerea e dai radar. Mercoledì, la Commissione presenterà un "piano" d'azione sull'immigrazione. Ma il presidente Jean-Claude Juncker ha già contro la sua parte politica (partito popolare), vari governi e molti commissari. Juncker aveva già incassato due sconfitte al vertice del 23 aprile: "la mia proposta sull'immigrazione legale non è stata accettata", aveva ammesso alla conclusione dell'incontro, e "non abbiamo nessun mandato di reinsediamento". Cioè, è stata respinta la proposta di creare un quadro legislativo europeo per le politiche di immigrazione, che si fanno a livello nazionale: per il Ppe è fuori questione confondere in questo momento rifugiati e immigrazione economica. Né ha fatto passi avanti il progetto di creare un regime di asilo comune in Europa, in discussione dal 1999. Anche il principio di solidarietà nell'emergenza attuale è stato rifiutato. Mercoledì, Juncker farà ricorso all'articolo 78 comma 3 del Trattato di Lisbona, che prevede "misure temporanee" per far fronte a situazioni di emergenza, con un sistema di "quote" stabilite in base al pil, alla situazione dell'occupazione, al numero di rifugiati già accolti. Juncker spera nell'approvazione di "corsie preferenziali" per l'accoglienza temporanea di richiedenti asilo, con voto a maggioranza qualificata (e non all'unanimità). "Gli stati della Ue devono mostrare la loro solidarietà e raddoppiare gli sforzi per aiutare i paesi della linea del fronte" dice la bozza del progetto di Juncker, con riferimento a Italia, Grecia, Malta, Spagna. Ma l'opposizione è forte e già 12 paesi rifiutano di contribuire al finanziamento di Triton, che è stato triplicato. Il carattere obbligatorio dell'accoglienza è un casus belli e dovrebbe restare "su base volontaria". Per il primo ministro ungherese, Viktor Orban è semplicemente "un'idea folle". Difficile sarà anche mettere nero su bianco delle cifre: l'Alto commissariato ai rifugiati dell'Onu chiede alla Ue di accogliere 20mila profughi l'anno, ma al Consiglio del 23 aprile non è passata la cifra di 10mila (e una proposta di fermarsi a 5mila non è stata messa nel comunicato per vergogna, vista ma sproporzione con la realtà dei fatti, nell'ultimo anno in Italia sono sbarcate più di 100mila persone e le previsioni Ue sono di 200mila richieste d'asilo). La Germania accetterebbe una mini-riforma di Dublino II, sulla redistribuzione dei richiedenti asilo (già la Finlandia, con la Norvegia, che non è nella Ue, non rimandano più i migranti in Grecia, quando questo è il primo paese di sbarco, perché ritengono che non siano ben trattati). "Sei paesi, Germania, Gran Bretagna, Francia, Svezia, Italia e Belgio - ha riassunto l'ex primo ministro belga Guy Verhofstadt - si fanno carico dell'80% delle domande d'asilo nella Ue, 15 paesi accettano di accogliere rifugiati e 13 non fanno niente, non assumono nessuna responsabilità". Il rimprovero riguarda in particolare i paesi dell'Europa dell'est, a cominciare dalla Polonia. David Cameron ha annunciato prima della vittoria elettorale che la Gran Bretagna non accetterà nuovi arrivi. La sinistra Pd tace sull'immigrazione di Luigi Manconi Il Manifesto, 12 maggio 2015 Si fa un gran parlare di "un vivace fermento nell'area oltre il Pd" e di "un laborioso cantiere aperto a sinistra" (ma forse si tratta di un giornale di due o sette o dieci anni fa). Sono un parlamentare del Pd e, al presente, non intendo lasciare quel partito. Per due ragioni. La prima è che è stato il Pd a candidarmi e a eleggermi (una questione di lealtà); la seconda è che non saprei proprio dove andare (una questione di politica). Quindi me ne sto qui, arrabattandomi come so e posso, per "limitare il disonore" (secondo il motto che ho rubato non so più se a Piergiorgio Bellocchio o a Alfonso Berardinelli). Cercherò di spiegare, quindi, che cosa ho fatto a partire dal naufragio del 18 aprile scorso. Tutti i giorni, ma proprio tutti i santi giorni, nelle interviste chiestemi graziosamente da qualche giornale o tv, negli articoli scritti e nei comunicati in rete, ho contestato quanto il premier diceva e faceva in materia di immigrazione; e non ho votato la mozione presentata dal Pd sul tema. Poi ho sollecitato, monotonamente, una presa di posizione contro la politica governativa per l'immigrazione da parte dei leader della minoranza Pd: quegli stessi che occupavano giornali, tv e agenzie con inarrestabili flussi di sdegno a proposito della legge elettorale. Non c'è stato nulla da fare. Forse mi sono distratto e mi è sfuggito qualcosa, ma davvero non ho trovato, in tre settimane, una sola seria contestazione nei confronti di un governo che ha ridotto l'intera questione dell'immigrazione al suo atto ultimo: il ruolo dei "mercanti di carne umana". E che ha dichiarato guerra al nemico assoluto, lo Scafista, rimuovendo totalmente cause lontane e prossime, antiche e congiunturali delle grandi migrazioni in corso. Ho sentito, piuttosto, le tonitruanti dichiarazioni dei miei pugnaci compagni della cara minoranza Pd, che rivendicavano la propria "schiena dritta" (qui, sulle colonne del Manifesto) e "un dissenso politico chiaro e forte" nei confronti della leadership del Pd. D'accordo, ma mentre ci si batteva e ci si batte come leoni contro il premio di maggioranza per la lista e contro i capilista bloccati, possibile che nessuno di questi "schiena dritta" abbia trovato e trovi una parola per criticare le vacue minacce di tanti piccoli ammiragli in pedalò ("blocco navale", "affondare i barconi", "sparare sugli scafisti" …), presenti anche nel centro sinistra, e per sostenere le posizioni così radicalmente diverse di Ban Ki-moon? Concentrare la gran parte delle dichiarazioni e delle iniziative, come ha fatto Matteo Renzi, sulla figura dello scafista rischia di risultare un diversivo pericoloso. Se infatti, per ipotesi, tutti i trafficanti venissero eliminati d'un colpo solo, che ne sarebbe di quelle centinaia di migliaia di persone che si rivolgono loro per trovare una via di fuga? Certo, non li vedremmo più sulle coste siciliane e sui barconi nel Mediterraneo perché - semplicemente - sarebbero in gran parte morti prima: nei paesi da cui fuggono, nei deserti che attraversano, nei lager che li imprigionano. Forse un conforto per il nostro gusto estetico, non più ferito da immagini così sgradevoli di agonia e di morte, e per la nostra tranquillità d'animo non più turbata da tanto orrore: ma nessun vantaggio per la stabilità dell'Africa e del Medio Oriente e nemmeno per il livello di civiltà giuridica delle nostre democrazie. E, infine, si arriva a uno dei punti cruciali. Io, indubbiamente, mostro scarso interesse e scarsa aggressività nei confronti dell'Italicum e della riforma costituzionale, ed è un mio limite. Ma non riesco a sottrarmi a un interrogativo. Quella sinistra che la minoranza Pd vorrebbe ridefinire e aggregare, quel "grande cantiere aperto" oltre il Pd, può trovare il suo asse portante nella battaglia contro la legge elettorale (e per non buttarla in caciara, evito di dire "a favore delle preferenze")? E quella battaglia sarebbe davvero in grado di colmare il vuoto (un vero baratro) creato dall'inerzia e dal silenzio della sinistra, dentro e fuori il Pd, in materia di immigrazione? Come non comprendere che l'identità stessa della sinistra, oggi come mai, si qualifica proprio sulla sua capacità di affrontare questa ferita aperta del nostro tempo? "Atletico Diritti", parlamentari e migranti in campo a Roma per triangolare di calcio Adnkronos, 12 maggio 2015 In occasione della dodicesima edizione di "Cinecittà in Sport" - organizzato da A.S. World Sport e dalla Polisportiva Quadraro Cinecittà - il prossimo 15 maggio, a partire dalle 18.30, si terrà un triangolare di calcio per la solidarietà e contro il razzismo a cui parteciperà anche una selezione di parlamentari. Lo scrive in una nota Antigone, che insieme a Progetto diritti ha fondato, l'anno scorso, la polisportica Atletico Diritti, che ha creato "una squadra di calcio in cui giocano migranti, studenti, detenuti ed ex detenuti - si legge, iscritta per la prima volta al campionato di terza categoria del Lazio nella stagione 2014/2015, in campo in nome dell'integrazione, dell'anti-razzismo e dei diritti per tutti, in nome dello sport quale strumento di coesione e di coinvolgimento". "Sarà un'occasione per lanciare un messaggio forte contro la strage di migranti nel Mar Mediterraneo. Il triangolare avrà luogo presso il campo Gerini, in via del Quadraro 311 ed avrà come partecipanti oltre alla selezione di parlamentari, la Polisportiva Atletico Diritti e la squadra multietnica Internazionale Asinitas". Droghe: cannabis terapeutica, è dietrofront del governo "niente tagli ai centri di ricerca" di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 maggio 2015 Il commissario straordinario del Cra, Salvatore Parlato: "La sede di Rovigo non chiude". Dopo la denuncia del manifesto, mal di pancia anche nel governo per i tagli della spending ai centri di ricerca per l'agricoltura. "Nessuna chiusura", per la sede di Rovigo del Cra, l'unico centro in Italia autorizzato a coltivare piantine di marijuana e a fornirle allo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze che da pochi mesi ha avviato la fase sperimentale per la produzione del primo farmaco italiano a base di cannabis. E "nessun ridimensionamento delle ricerche" scientifiche sull'uso terapeutico della canapa. Lo assicura il commissario straordinario Salvatore Parlato replicando al manifesto che domenica in prima pagina ha dato la notizia dei tagli imposti dalla spending review renziana sull'ente pubblico di ricerca e sperimentazione in agricoltura. La notizia della chiusura era giunta venerdì sera al direttore del centro di Rovigo, ma evidentemente nemmeno nel governo c'è unità di vedute riguardo una tale ipotesi. "Mi impegnerò per approfondire cosa sta succedendo, questo taglio non rientra nei nostri programmi di governo, anzi siamo convinti che serve attenzione alla sperimentazione controllata di cannabis per scopi terapeutici", ha detto il sottosegretario all'Economia Pieropaolo Baretta, del Pd, in visita a Rovigo domenica mattina, secondo quanto riportato ieri da alcuni quotidiani locali del Polesine. Ma è lo stesso Parlato a spiegare che "la prima bozza di riforma del nuovo Ente, ancora in discussione, prevede l'articolazione in 16 sedi principali, compresa l'amministrazione centrale di Roma, e 14 sedi distaccate". Lo scrive in una nota, il commissario nominato il 2 gennaio 2015 con il compito di predisporre "entro 120 giorni dalla data della sua nomina" un piano di riforma del Cra (nel quale è confluito l'altro ente pubblico di ricerca agroalimentare, l'Inea), per ridurne le "articolazioni territoriali di almeno il 50%", come impone la legge 190 del 23 dicembre 2014. I primi incontri con i sindacati di categoria, però, sono previsti solo per il prossimo 20 maggio, e Parlato, che nel merito dovrebbe essere ascoltato domani in audizione informale dalla commissione Agricoltura della Camera, spiega che "nel caso specifico di Rovigo le attività di ricerca e di sperimentazione proseguiranno come vero e proprio "Laboratorio di ricerca"". Dunque, non la chiusura, come scritto nel foglio numero nove del piano (riguardante le sedi di Foggia e Bergamo e quelle distaccate di Caserta e Bologna, tutte "mantenute", mentre verrebbe "chiusa" anche la sede di Osimo, e "accorpata" quella di Vercelli) - parole che avevano messo in allarme l'intera struttura, fiore all'occhiello della ricerca italiana sulla marijuana - ma solo una "diversa denominazione", scaturita "esclusivamente dalla specificità delle attività, che nel caso di Rovigo è rivolta alla Canapa da fibra e per altri usi, tra i quali il terapeutico". Nelle ambizioni del piano triennale di riorganizzazione dell'Ente, aggiunge il commissario straordinario, in realtà c'è l'integrazione e l'estensione degli "obiettivi strategici sulle colture industriali, tra le quali rientra la Canapa, allargando le attività di ricerca alla valorizzazione ecosistemica nell'ampio contesto dell'uso sostenibile ed efficiente delle risorse naturali". In questa ottica, "le ricerche in corso sulla Canapa non solo non saranno ridimensionate, ma potranno avvalersi di ulteriori sinergie, per una più adeguata dimensione scientifica della ricerca". In sostanza il commissario rassicura il personale del Cra di Rovigo e degli altri centri che subiranno la "razionalizzazione" imposta dai tagli di Renzi: "La nuova riorganizzazione - conclude Parlato - valorizzerà le grandi professionalità dei ricercatori pubblici in agricoltura ed efficienterà la struttura sotto il profilo economico e amministrativo". Una precisazione importante, visto che anche l'Istituto farmaceutico militare di Firenze si augura di ottenere velocemente l'autorizzazione dell'Aifa, in modo da trasformare in farmaco "entro luglio" le prime infiorescenze che saranno raccolte a giugno. Al momento, però, spiega il generale Giocondo Santoni, a capo della "business unit" fiorentina, "la produzione di raccolto è limitata in quanto destinata alla sperimentazione e nell'ordine di alcuni chili. Su larga scala è prevista per dopo l'estate, una volta terminata la sperimentazione e una volta che avremo attivato una nuova serra da 150 metri quadri, per un tipo di produzione più industriale". Iraq: fuga dal carcere al-Khalis, l'Isis rivendica l'azione di Graziella Giangiulio www.agccommunication.eu, 12 maggio 2015 Arriva una rivendicazione da parte di ISIS per la evasione di massa dal carcere di al-Khalis, in Iraq, non ovest di Baghdad avvenuta venerdì scorso, dove hanno perso la vita 36 persone, tra cui anche 5 poliziotti. Venerdì il ministero degli interni iracheno, il generale Saad Maan, aveva detto in una nota ufficiale che, 40 prigionieri, 9 dei quali erano detenuti per reati di terrorismo ero evasi. Nello stesso comunicato aveva riferito che: "La polizia sta dando la caccia ai fuggitivi nei dintorni del carcere", ha aggiunto. Secondo alcuni media locali, l'azione è stata preceduta dall'esplosione di tre autobomba nei pressi della prigione, mentre il generale Maan ha smentito voci di un assalto dall'esterno, sebbene la provincia di Diyala sia stata investita dalla fulminea offensiva dell'Isis, che lo scorso anno ha portato i jihadisti a impadronirsi di vasti territori, ma in seguito sia stata riconquistata dalle forze lealiste. L'agenzia di Stampa dello Stato Islamico, ha detto che lo Stato Islamico aveva raggiunto l'obiettivo di liberare dei fratelli dal carcere di al-Khalis. L'Azione era riuscita grazie al sostegno dei detenuti all'interno del carcere e ad azioni al di fuori dello stesso. L'operazione "militare" secondo àmaq agency è partita all'alba di venerdì scorso quando combattenti di Stato Islamcio utilizzando ordigni esplosivi hanno costretto i poliziotti a uscire dal perimetro del carcere. A quel punto i combattenti di ISIS sono entrati in azione liberando un certo numero di prigionieri. "Dopo l'operazione, le milizie sciite hanno fatto irruzione nella prigione e hanno ucciso quasi 60 detenuti sunniti nella prigione in segno di rappresaglia per l'operazione" compiuta da ISIS. Iran: chiude il "mattatoio" di Teheran, il carcere di Evin sarà un parco pubblico Aki, 12 maggio 2015 La proposta del sindaco di Teheran Qalibaf trova il favore della magistratura. Potrebbe essere trasformato in un parco pubblico il famigerato carcere di Evin, a Teheran, uno dei luoghi simbolo della repressione delle autorità iraniane che ospite da dopo la rivoluzione islamica del 1979 una sezione per i detenuti politici. Lo ha annunciato il sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf. Due mesi fa "abbiamo fatto una proposta al capo della magistratura di trasformare la prigione di Evin in un parco pubblico. Ha risposto di essere pronto a negoziare con il Comune su questa questione. Possiamo arrivare a un accordo in base al quale il Comune sostenga una parte delle spese", ha dichiarato Qalibaf, citato dal sito della municipalità della capitale della Repubblica islamica Tehransama. Il sindaco, uscito sconfitto due volte alle elezioni presidenziali, ha citato l'esempio del carcere di Ghasr, situato nel cuore di Teheran e "diventato un museo e un parco pubblico" dopo il trasferimento dei detenuti. Il carcere di Evin venne inaugurato 44 anni. Si tratta di un complesso che si estende su 43 ettari vicino ai monti a nord di Teheran. Al suo interno sono rinchiusi numerosi attivisti politici, tra i quali quelli arrestati durante le manifestazioni antigovernative successive alla contestata rielezione dell'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad nel 2009. Molti detenuti hanno denunciato di aver subito ad Evin torture e abusi di ogni tipo.