La giustizia onnipresente che indebolisce la politica di Giovanni Belardelli Il Corriere della Sera, 11 maggio 2015 In Italia non c’è decisione che non venga impugnata davanti al Tar. La sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni è l’ultimo caso di un processo di delegittimazione comune a tutte le democrazie. I commenti alla sentenza della Consulta sull’adeguamento delle pensioni si sono concentrati sulle conseguenze economiche della decisione. Ci si è dunque interrogati sul numero dei pensionati che usufruiranno dell’adeguamento, sulle conseguenze che esso avrà sul bilancio pubblico e così via. Assai minore attenzione ha suscitato invece il rischio politico che una sentenza del genere implica, consistente in quello svuotamento dell’autonomia di decisione dei governi democratici che ha indotto alcuni a parlare di "postdemocrazia". È uno svuotamento che da una parte ha cause esterne ai singoli Paesi: i grandi processi economici e finanziari globali, la dipendenza - per gli Stati membri dell’Ue - da decisioni prese fuori dai confini nazionali. Ma che, dall’altra, ha anche cause interne e tra esse il peso sempre maggiore che le decisioni delle varie branche della giurisdizione hanno sull’attività di governo. Non c’è praticamente giorno, del resto, in cui non compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni politiche a livello nazionale o locale - dalla chiusura di una fabbrica all’accesso al mare nel lido di Ostia - dipendano dalle pronunce di un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure, come nel caso che occupa le cronache di questi giorni, della Corte costituzionale. Questo ruolo crescente della magistratura rappresenta un fenomeno che non è solo italiano, tanto che vent’anni fa due studiosi anglofoni coniarono un apposito termine: judicialization of politics, giuridicizzazione della politica. Semmai, nel nostro Paese è stato difficile metterlo a fuoco, per la presenza stessa di Berlusconi (con le sue vicende giudiziarie) che, agli occhi di molti, rendeva sospetto il solo parlare di un’influenza della giurisdizione sulla politica. Non a caso pochi anni fa il libro in cui l’ex presidente della Camera ed ex magistrato Luciano Violante analizzava lucidamente il problema (Magistrati, Einaudi) venne pressoché ignorato. Fu un peccato, perché vi si sottolineava come quella che oggi al governo appare un’invasione di campo della Consulta derivi da tendenze profonde delle democrazie contemporanee. In particolare, da un’idea della magistratura come protettrice dei soggetti deboli, che la trasforma - "da puro organo di applicazione delle leggi" - nella "garante dei diritti e della Costituzione anche contro il potere politico". Inoltre la contemporanea inclinazione a costituzionalizzare un sempre maggior numero di diritti sociali rischia di far apparire determinate decisioni del governo o del Parlamento, prima che censurabili politicamente, illegittime giuridicamente. Del resto, non abbiamo sentito la Cgil e una parte dello stesso Pd opporsi al Jobs Act con l’argomento che sarebbe stato - prima ancora che sbagliato - sostanzialmente incostituzionale? In un libro illuminante di questa tendenza a costituzionalizzare un sempre maggior numero di diritti (col rischio dunque di ridurre la possibilità per la politica di decidere tra più alternative) Luigi Ferrajoli ha lodato il Brasile per avere inserito nella sua costituzione le percentuali di spesa pubblica per l’istruzione e per la sanità alle quali ogni governo, di qualunque colore, dovrà necessariamente attenersi. Il punto non è, evidentemente, se una certa misura sia condivisibile o meno. Il punto è che in tal modo una determinata scelta di politica economica o sociale viene di fatto sottratta alla decisione del governo. Magari ciò accade, come nel caso attuale dell’adeguamento delle pensioni, con il consenso di una parte dell’opinione pubblica. Ma il rischio, in prospettiva, è che decisioni del genere, siano sì giuridicamente fondate (peraltro, riguardo all’adeguamento delle pensioni, al comune cittadino appare non meno fondata anche la decisione opposta, visto che sei giudici costituzionali hanno votato a favore e sei contro); ottengano sì il plauso di milioni di italiani; ma contribuiscano anche a incrementare nell’opinione pubblica la disaffezione per la politica. Questa disaffezione infatti si alimenta degli scandali che coinvolgono il ceto politico, ma anche della sensazione che una pronuncia del Tar, una sentenza della Consulta, alla fine possono contare molto di più di un decreto del governo, di una legge del Parlamento, e dunque dello stesso risultato elettorale. Giustizia: intercettazioni e diffamazione, se il "cane da guardia del potere" diventa Dudù di Alberto Statera Affari & Finanza, 11 maggio 2015 Tempi cupi per i giornalisti. Non solo subiscono la crisi dell’editoria. Non solo sopportano centinaia cause ingiustificate per diffamazione (soprattutto di politici) e, quando l’editore scompare, si vedono pignorare i beni personali, come nel caso dell’Unità. Ma sono anche sotto tiro del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che patisce le pur sporadiche critiche. Passate le elezioni regionali del 31 maggio, sono pronti sul tavolo del governo i dossier sulla diffamazione e sulle intercettazioni telefoniche, che annunciano niente di buono per la libertà di stampa, per la quale l’Italia occupa il poco onorevole settantatreesimo posto nella graduatoria di 180 paesi (24 posizioni perdute nell’ultimo anno). E pochi saranno disposti ad alzare barricate in difesa della stampa, visti i risultati dell’ultima "mappa" di Ilvo Diamanti, che colloca i giornalisti al penultimo posto nella classifica del prestigio delle varie categorie: dopo imprenditori e avvocati e prima soltanto dei detestati impiegati pubblici. L’opinione pubblica non li avverte, secondo la vecchia retorica, come "cani da guardia del potere", essenziali per un esercizio corretto della democrazia, ma come una protesi della politica squalificata e dell’alta finanza rapace. E le ragioni non difettano, soprattutto quando la compagnia di giro dei talk televisivi è ormai composta da decine di giornalisti, che è ormai difficile per gli spettatori distinguere dagli screditati politici, che la stampa libera dovrebbe controllare e che gli siedono quotidianamente a fianco. Nelle ultime settimane, poi, abbiamo assistito a un’improvvisa conversione di quasi tutta l’informazione da una critica incalzante sugli scandali e i ritardi dell’Expo di Milano, causati da corruzione e lotte di potere, a una santificazione quasi generale e spropositata dell’evento, con articoli gonfi di squarci poetici, che, talvolta sprezzanti del ridicolo, hanno esaltato persino "le luci egli odori che ti guidano tra le spezie e i legumi della terra". Tutti felici, naturalmente, se l’Expo contribuirà in qualche modo a risollevare il paese, ma raccontare fedelmente la realtà - e commentarla - non si deve confondere con il disfattismo. Le intercettazioni telefoniche, che hanno consentito di documentare gli scandali dell’Expo e del Mose, sono uno dei temi-chiave delle norme in preparazione per il dopo-elezioni. Il ruolo di pasdaran se lo è scelto Antonello Soro, garante della Privacy. Dermatologo di professione e parlamentare democristiano di lunghissimo corso, non si sa (ma si immagina) perché sia stato sistemato in quella posizione. Dalla quale, avvolto dal silenzio e dalla quasi totale inutilità, si è reso conto che può finire sui giornali se dice cose forti su temi sensibili. Come le intercettazioni, che lui giudica "un aspetto non esaltante del giornalismo d’inchiesta", un "giornalismo voyeuristico " che "pesca a strascico nella vita degli altri". Per cui niente più testi delle telefonate nelle ordinanze, tutte le registrazioni in cassaforte, leggibili soltanto dagli avvocati muniti di badge. E per il giornalista che le pubblica, da due a sei anni di carcere, come propone il magistrato renziano Nicola Gratteri. Il giornalista non potrà più permettersi di decidere che cosa è di interesse per i suoi lettori, una delle basi della libertà di stampa, e se lo farà rischia di finire in catene. Nonostante la Corte Europea di Strasburgo preveda che non si può punire il giornalista che pubblica documenti autentici. Così si archivia per sempre il "cane da guardia" e si battezza ufficialmente il "Dudù del potere". Giustizia: "sulle carceri incontro con Orlando", Pannella interrompe sciopero fame e sete Dire, 11 maggio 2015 "Il ministro della giustizia Andrea Orlando ci ha comunicato che ritiene giusto ascoltarci, proponendoci una data vicina e io ho ritenuto utile che questa cosa vada salutata con la sospensione della mia iniziativa nonviolenta". Lo ha detto Marco Pannella nel corso della conversazione settimanale a Radio Radicale, condotta oggi da Valter Vecellio, annunciando così di aver sospeso lo sciopero della fame e della sete lunedì scorso a mezzanotte per aiutare il Presidente della Repubblica "a far uscire l’Italia dalla illegalità sulla giustizia e sulle carceri". "Sono giunto alla nonviolenza per un obiettivo - ha spiegato Pannella - non contro il regime, ma per aiutare il Presidente della Repubblica e il nostro regime affinché riescano loro a superare una condizione tecnicamente criminale, come è chiaramente evocato nel messaggio alle Camere di Napolitano, quindi di sostegno a quegli obbiettivi che hanno legato il rispetto della legalità internazionale e della Costituzione italiana facendo proprio l’individuazione nell’amnistia e l’indulto gli strumenti atti a superare la situazione criminale non solo nelle carceri ma soprattutto la paralisi della giustizia". "Dinanzi al fatto che dopo giorni di sciopero della fame e della sete diveniva urgente evitare che i medici continuassero a dare gravi allarmi ho ritenuto che sarebbe stato contraddittorio con la ragionevolezza che portiamo avanti, e per questo ho ritenuto che questo piccolo annuncio del ministro della giustizia Orlando andasse salutato con la sospensione del mio sciopero della sete e della fame in attesa che si tenga tra pochi giorni questo incontro da lui chiesto". "Matteo Renzi - ha detto ancora Pannella- potrebbe fare una follia, una di quelle alle quali siamo stati abituati, cioè si potrebbe iscrivere al Partito Radicale versando le sue 200 euro. Spero proprio che Renzi, che oggi mi sembra rispondere a stimoli, tentazioni e obbiettivi in direzione opposta a quello che probabilmente lui stesso pensava di raggiungere, scendo in campo con i nostri compagni per aiutarli nel loro compito, che sicuramente sentono, di far uscire il nostro Paese da una condizione tecnicamente criminale. Il nostro problema e di convincere, vincere con, non vincere contro". Infine Pannella si è rivolto a Giorgio Napolitano. "A Napolitano dico: caro Giorgio, hai stabilito che abbiamo l’obbligo di operare affinché’ si esca dalla condizione criminale, e allora sono rammaricato, quel tuo messaggio è ufficialmente mozione radicale, oggi il nostro compio è far si che quel testo venga eseguito. Il problema è che lui, Napolitano, il primo ad aver proclamato quell’obbligo, vorrei continuare davvero a rispettare quell’obbligo e aiutarti a rispettarlo anche a te, quando hai messo nelle iniziative pro futuro gli strumenti adeguati per ottenere gli obbiettivi che abbiamo l’obbligo di perseguire sono amnistia e indulto. Mi auguro che ti sia possibile sapere che mi rivolgo anche a te". Giustizia: Autorità Nazionale Anticorruzione; possibili "segnalazioni" anche nelle società di Alberto Barbiero Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2015 Le amministrazioni pubbliche devono tutelare i propri dipendenti che segnalano illeciti commessi da colleghi, adottando misure che garantiscano la riservatezza dell’identità del segnalante e consentano la corretta gestione istruttoria delle problematiche segnalate. L’Autorità nazionale anticorruzione ha fornito con la determinazione n. 6/2015 una serie di importanti elementi interpretativi e di profili operativi per la corretta applicazione dell’articolo 54-bis del Dlgs 165/2001, introdotto dalla legge 190/2012 per garantire tutela ai dipendenti pubblici che segnalano atti, fatti e comportamenti costituenti illeciti commessi da propri colleghi, introducendo così nell’ordinamento la disciplina del whistleblowing. Con la determinazione 6/2015 l’Autorità detta una disciplina volta a incoraggiare i dipendenti pubblici a denunciare gli illeciti di cui vengano a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro e, al contempo, a garantirne un’efficace tutela, proponendo un modello procedurale per la gestione delle segnalazioni che ogni amministrazione potrà adattare sulla base delle proprie esigenze organizzative. L’ambito di applicazione L’Anac precisa anzitutto che la normativa si applica solo ai dipendenti pubblici, indipendentemente dalla configurazione del loro rapporto di lavoro (a tempo determinato o indeterminato, con contratto di diritto privato o di diritto pubblico). Tuttavia l’Anac ha ritenuto opportuno estendere l’applicazione delle linee-guida di tutela anche ad altri soggetti operanti nel sistema pubblico allargato, come i dipendenti degli enti di diritto privato in controllo pubblico (ad esempio le società partecipate) e degli enti pubblici non economici (come le aziende speciali), individuando addirittura margini applicativi per i collaboratori, i consulenti e i dipendenti di soggetti appaltatori di amministrazioni pubbliche. In relazione all’oggetto delle segnalazioni, secondo l’Anac, le condotte illecite sottoponibili alla procedura comprendono non solo l’intera gamma dei delitti contro la Pubblica amministrazione previsti dal codice penale, ma anche le situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato per ottenere vantaggi privati, e i fatti in cui venga in evidenza un mal funzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite, ivi compreso l’inquinamento dell’azione amministrativa dall’esterno a prescindere dalla rilevanza penale. Gli illeciti Secondo l’Anac, le condotte illecite segnalate, comunque, devono riguardare situazioni di cui il soggetto sia venuto direttamente a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro e, quindi, ricomprendono certamente quanto si è appreso in virtù dell’ufficio rivestito ma anche le notizie acquisite in altre attività lavorative. Non sono invece meritevoli di tutela le segnalazioni fondate su meri sospetti o voci. Sul sistema di garanzia, il dipendente che segnala condotte illecite deve essere tenuto esente da conseguenze pregiudizievoli in ambito disciplinare e tutelato in caso di adozione di misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. L’Autorità invita le amministrazioni e gli enti a prevedere che le segnalazioni vengano inviate direttamente al Responsabile della prevenzione della corruzione, al fine di consentire una gestione omogenea con le altre problematiche legate alla prevenzione della corruzione. La gestione delle segnalazioni deve avvenire in maniera trasparente, secondo regole certe per l’istruttoria, volte soprattutto a tutelare la riservatezza dell’identità del dipendente che effettua la segnalazione e a tutelare il soggetto che gestisce le segnalazioni da pressioni e discriminazioni, dirette e indirette. Giustizia: nuove armi all’antiriciclaggio, i "Casi ricorrenti" e i "Casi emergenti" della Uif di Christina Feriozzi Italia Oggi, 11 maggio 2015 Trasferimenti di contante tra imprenditori, interposizione di schermi societari, operatività di "compro-oro", false fatturazioni nel settore dei metalli ferrosi. Sono alcuni fra i casi ricorrenti nell’occhio del mirino della Uif (Unità di informazione finanziaria). Comportamenti sospetti di Onlus, uso improprio di trust, cessioni di rami d’azienda tra società cooperative, uso di contratti di affitto di ramo d’azienda, distrazione di fondi all’estero con finalità corruttive, dissimulatorie o di evasione fiscale sono, invece le ipotesi emergenti che destano allarme nei controlli a fini antiriciclaggio. È quanto emerge dall’analisi della casistica operata dall’Uif, riportata nel Quaderno n. 2 del 29/4/2015 disponibile sul sito. L’analisi predisposta dall’Uif. Allo scopo di fornire ai destinatari degli obblighi di segnalazione di operazioni sospette uno strumento informativo pratico, l’Uif ha raccolto nel "Quaderno" una selezione di casi di particolare interesse, riscontrati nel corso dell’attività di analisi finanziaria condotta dal 2008, anno di istituzione dell’Unità, a oggi. In altri termini si tratta di un ulteriore strumento, che si affianca a quelli già previsti, quali gli indicatori di anomalia e schemi di comportamento anomalo, finalizzati a supportare i segnalanti nella rilevazione di fattispecie riconducibili a fenomeni di riciclaggio e finanziamento del terrorismo. La pubblicazione si articola in due sezioni: "Casi ricorrenti" e "Casi emergenti". La prima attiene quelle tipologie di comportamento finanziario anomalo rilevate frequentemente nel corso delle attività istituzionali dell’Unità. La seconda, comprende, invece, fattispecie che, pur essendo numericamente meno consistenti delle prime, presentano elementi innovativi sotto il profilo della modalità di condotta anomala. In particolare, ci si riferisce all’utilizzo di strumenti finanziari complessi o allo sfruttamento a fini illeciti di elementi di vulnerabilità o di vuoti normativi in alcuni settori produttivi o finanziari. Filo conduttore della casistica illustrata si rinviene nella capacità della criminalità di utilizzare sofisticate costruzioni giuridiche e finanziarie e di introdurre continue variazioni per occultare la provenienza illecita dei fondi. Le tecniche di base adottate nelle diverse ipotesi di riciclaggio, comunque, risultano spesso riconducibili alla movimentazione di contante, all’utilizzo come schermo di società di comodo o di altre entità giuridiche, alla distorsione o simulazione di operazioni finanziarie o di transazioni commerciali. In questo quadro, tuttavia, le false fatturazioni continuano a essere uno strumento fondamentale, al quale, attraverso i casi illustrati, viene dedicata particolare attenzione. Lo spazio ridotto nelle celle dei detenuti non fa scattare i trattamenti inumani e degradanti di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2015 Cedu - Sezione I - Sentenza 12 marzo 2015 - Ricorso n. 7334/13. Con una sentenza destinata certamente ad accrescere la complessità dei procedimenti in materia di risarcimento del danno da detenzione "inumana e degradante" (articolo 35-ter, della legge 26 luglio 1975 n. 354 cosiddetto ordinamento penitenziario), la Corte europea dei diritti dell’uomo, occupandosi del caso di un detenuto ristretto in un istituto di pena croato, ha stabilito che non vi è stata violazione dell’articolo 3 Cedu (disposizione che vieta la tortura e le pene inumane e degradanti) anche se il ricorrente era stato detenuto - benché per un non prolungato periodo di tempo - in spazi tali da non consentire agli occupanti della cella la disponibilità di almeno 3 mq di spazio personale. Un orientamento che disorienta - L’arresto ha creato un certo disorientamento tra gli operatori che, sia pure con qualche inevitabile incertezza dovuta alla relativa "novità" della materia, iniziavano a consolidare l’assunto per cui, accertato nella fattispecie concreta che la persona detenuta avesse fruito di una superficie "vivibile" (dedotto, cioè, dell’ingombro degli arredi) inferiore a 3 mq, si riteneva perciò stesso realizzata un’incisione dei diritti fondamentali della persona detenuta, di tale gravità da integrare "automaticamente" la violazione dell’articolo 3 Cedu. Tale assunto, generalmente condiviso dalla prima giurisprudenza di merito formatasi sui "rimedi risarcitori", guarda, infatti, alle indicazioni fornite dal Committee for Prevention of Torture del Consiglio d’Europa, che auspica, per le camere individuali, lo spazio di 7 mq a persona e, per quelle collettive, la superficie di 4 mq per detenuto, nonché e all’orientamento espresso dalla stessa Corte Edu che ha, in via di massima, sempre considerato la disponibilità di spazio personale inferiore a 3 mq un trattamento talmente grave da costituire ex se una violazione comunitaria, mentre, nel caso di spazi detentivi compresi tra i 3 e i 4 mq, ha ritenuto comunque necessario ponderare il fattore "spaziale" con altri elementi rilevanti nel caso di specie (quali, ad esempio, la possibilità di permanenza all’aria aperta, le condizioni di illuminazione e di ventilazione delle camere detentive e altro). La giurisprudenza europea - La giurisprudenza europea formatasi sul patologico sovraffollamento delle carceri italiane, aveva parimenti considerato già con la sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia come grave violazione dei diritti fondamentali del detenuto il caso di restrizione in spazi inferiori ai 3 mq, affermando il principio che l’assenza di un adeguato spazio personale integra in sé un trattamento inumano o degradante (in quell’occasione, il riferimento alla necessità di ponderare comunque il fattore "spaziale" con l’insieme delle altre condizioni detentive aveva trovato spazio solo nella dissenting opinion del giudice italiano Zagrebelsky). Tale indirizzo è stato successivamente confermato dalla sentenza-pilota dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri contro Italia), con la quale i giudici europei hanno accertato la lesione dell’articolo 3 Cedu e condannato l’Italia a una soddisfazione equitativa in favore dei ricorrenti proprio affermando che il governo italiano non aveva avesse assicurato neppure uno spazio minimo medio nelle celle di 3 mq, (il principio, quest’ultimo, era stato ribadito anche nell’analogo pilot judgement nei confronti del Belgio: sentenza 25 novembre 2014, Vasilescu conto Belgio). Nella medesima prospettiva interpretativa, la Corte europea ha ritenuto violato l’articolo 3 Cedu, anche in presenza di spazi personali superiori ai 3 mq, in mancanza di ventilazione e di luce naturale (Cedu, sentenza 9 ottobre 2008, Moisseiev contro Russia) o qualora il detenuto avesse una limitata possibilità di permanenza all’aria aperta (Cedu, sentenza 17 gennaio 2012, Istvàn Gàbor Kovàcs contro Ungheria), ovvero in presenza di altri elementi di criticità quali le condizioni igieniche carenti, il rischio di propagazione di malattie, l’assenza di acqua potabile o corrente, l’assenza di riservatezza nell’utilizzo dei servizi igienici. Decisivi ai fini dell’accertamento sulla violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti sono stati, inoltre, ritenuti alcuni parametri di natura soggettiva (puntualmente richiamati dalla decisione in esame), quali la durata del maltrattamento (sentenza 8 novembre 2005, Alver contro Estonia), gli effetti fisici e mentali di questo e, in alcuni casi, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima (sentenza 18 gennaio 1978, Irlanda contro Regno Unito, e sentenza 22 ottobre 2009, Orchowski contro Polonia). Alla luce di coordinate giurisprudenziali che sembravano sufficientemente assestate, e - nella realtà italiana - confermate anche dal fondamentale arresto Torreggiani, si era quindi rafforzata la convinzione che il criterio "spaziale" potesse da solo essere sufficiente a integrare la violazione comunitaria in presenza di spazi vivibili inferiori ai 3 mq, laddove (solo), nel caso di spazi detentivi posti tra la detta soglia minima e i 4 mq (cioè la superficie auspicata dal Cpt), si riteneva necessaria una ponderazione tra il dato "spaziale" e il complesso delle altre condizioni di detenzione in concreto praticate nei confronti del detenuto, così da verificare se da esse sia derivata una sofferenza psicologica aggiuntiva a quella, inevitabile, insita nella condizione detentiva (negli stessi termini anche sentenza 13 luglio 2006, Popov contro Russia). La revoca della decisività del fattore spaziale - Tale complessivo quadro sembra ora rimesso in discussione dalla sentenza in commento, che revoca in dubbio la decisività del "fattore spaziale": l’affermazione che l’"estrema mancanza di spazio in una cella di un carcere ha un grosso peso fra gli aspetti da prendere in considerazione allo scopo di stabilire se le condizioni detentive impugnate fossero "degradanti" dal punto di vista dell’Articolo 3", è, infatti, immediatamente seguita dalla precisazione che la violazione de qua si produce per il complessivo sommarsi di una molteplicità di fattori concomitanti (quali la durata della detenzione, le possibilità di attività all’aperto, le condizioni fisiche e mentali del detenuto) e che tali elementi devono essere accertati e ponderati nel caso concreto. Il ragionamento seguito dalla Corte prende le mosse da un leading case (sentenza 10 gennaio 2012, Ananyev e altri contro Russia), in cui sono stati stabiliti i criteri per valutare la sussistenza della violazione dell’articolo 3 Cedu: a) ogni detenuto deve avere un posto individuale per dormire nella cella; b) ognuno deve disporre di almeno 3 metri quadri di superficie; e c) la superficie totale della cella deve essere tale da permettere ai detenuti di muoversi liberamente fra gli elementi di arredo. Ma - qui il punto di scostamento dall’arresto Torreggiani - il giudice alsaziano precisa che l’assenza di uno fra i suddetti elementi (dunque, anche l’eventuale disponibilità di spazi detentivi pro capite inferiore ai 3 mq) crea soltanto una strong presumption che le condizioni detentive costituiscano un trattamento degradante e, conseguentemente, integrino un’infrazione all’articolo 3 della Convenzione. In altri termini - traducendo nel linguaggio giuridico italiano - non una prova decisiva della violazione europea, ma soltanto una presunzione relativa, certo fortemente indiziante di una situazione di illiceità ma non da sola sufficiente a sostenere una condanna dello Stato convenuto. Al proposito, la Corte richiama alcuni precedents nei quali la mancanza di spazi detentivi minimi è stata ritenuta di per sé sufficiente a giustificare l’accoglimento del ricorso (tra i quali il già evocato arresto Torreggiani), ma ricorda altrettanto numerosi casi in cui si è tenuto, invece, conto dell’effetto cumulativo dei diversi aspetti deteriori delle condizioni di detenzione. L’excursus sulla propria giurisprudenza induce il giudice dell’arresto in esame a enunciare due principi potenzialmente dirompenti, soprattutto per la realtà italiana. Primo: la questione dello spazio personale a disposizione del singolo detenuto costituisce un elemento che va collocato nel più ampio contesto del regime penitenziario concretamente applicato al ricorrente (corollario: è il trattamento penitenziario l’effettivo oggetto dell’accertamento demandato al giudice). Le condizioni detentive, peraltro, vanno intese nella più ampia accezione, che attinge l’eventuale assegnazione a una struttura detentiva del tutto inadeguata o gli accertati problemi strutturali nelle carceri (significativamente, molti precedenti richiamati dall’arresto in esame riguardano la situazione in Grecia). Secondo: la "linea del Piave" dei 3 mq, al di sotto della quale si riteneva accertato iuris et de iure il pregiudizio di cui all’articolo 3 Cedu è definitivamente superata, dal momento che la strong presumption associata a spazi detentivi inferiori alla detta soglia può essere vinta da elementi di contro bilanciamento, soprattutto in caso di "brevi e occasionali piccole restrizioni dello spazio personale necessario, unite alla sufficiente libertà di movimento e a sufficienti attività svolte al di fuori delle celle e all’assegnazione a una struttura detentiva adeguata". Il primo dato che induce una riflessione (e che, significativamente, ha indotto il giudice Sicilianos, componente del collegio, a esprimere un’opinione dissenziente) è certamente rappresentato dal superamento dell’assunto, che sembrava indotto dai precedents di Strasburgo relativo alla corrispondenza biunivoca tra l’accertamento della assegnazione al ricorrente di uno spazio personale inferiore ai 3 metri quadri e la sussistenza della violazione dell’articolo 3 Cedu, principio che pure la Corte di Strasburgo aveva affermato claris verbis in altre precedenti pronunce (ad esempio con riferimento alla situazione italiana, nell’evocato arresto Torreggiani) e che ora sembra invece ridimensionato a presunzione relativa da ponderare con i molteplici fattori rilevanti nella fattispecie, relativi alle condizioni del trattamento penitenziario effettivamente concretamente praticato. Sono queste ultime, dunque, anche nel caso di detenzione in spazi personali inferiori ai 3 mq a dover essere vagliate non più quali mere "circostanze aggravanti" di una violazione riscontrata, bensì quali veri e propri elementi costitutivi della medesima. Le possibili conseguenze - Tale apparente revirement - soprattutto se dovesse consolidarsi in una serie storica di precedenti conformi - determinerebbe inevitabilmente alcune non trascurabili conseguenze. Priverebbe, anzitutto, il contesto giuridico di riferimento di ogni criterio oggettivo, e accrescerebbe l’incertezza di una cornice interpretativa che, già oggi, annovera ben quattro orientamenti: 1) quello per cui anche al di sotto della soglia critica dei 3 mq per detenuto vi sia solo una "forte presunzione" di violazione dell’articolo 3 Cedu, vincibile in presenza di altri fattori positivi concomitanti (adottato dalla sentenza in esame); 2) quello per cui la discesa sotto la detta soglia integra ex se una violazione europea; 3) quello che esige invece il rispetto della più elevata soglia di 4 mq pro capite auspicata dal Cpt, il cui mancato rispetto integra automaticamente una violazione; 4) quello che ritiene, in presenza di spazi detentivi pro capite compresi tra i 3 e i 4 mq, la sussistenza di una "forte presunzione" della violazione, superabile con il riscontro di un trattamento penitenziario che temperi la limitatezza degli spazi fruibili dal detenuto. L’incertezza sui parametri relativi alle condizioni detentive rischia, in secondo luogo, di ingenerare gravi incertezze sul piano organizzativo a danno dei governi degli Stati e delle competenti amministrazioni penitenziarie, posto che il dubbio sulle dimensioni delle camere di pernottamento, sui criteri di computo del mobilio di arredo e sul rilievo che le condizioni di manutenzione dei locali assumono ai fini della violazione dell’articolo 3 Cedu, comporta inevitabili ricadute sulla programmazione degli interventi di edilizia penitenziaria e di ristrutturazione e recupero funzionale degli stabilimenti esistenti, dal momento che la violazione dell’articolo 3 della Convenzione può essere integrata - ad avviso dell’arresto in commento - non solo dalla accertata disponibilità di spazi personali inferiori ai limiti europei, ma anche sulla base delle riscontrate condizioni di fatiscenza e degrado degli istituti penitenziari nei quali i detenuti sono ospitati. Qualora l’indirizzo espresso dall’arresto in esame dovesse consolidarsi, non è inoltre da sottovalutare il duplice rischio di una diminuzione in concreto del livello di tutela accordato a molte situazioni penitenziarie borderline, alle quali, pur in presenza di spazi detentivi di poco inferiori ai 3 mq, potrebbe negarsi una tutela risarcitoria per la valutazione di altri concomitanti elementi portati dall’amministrazione penitenziaria per controbilanciare la "forte presunzione" di violazione dell’articolo 3 Cedu (quali ad esempio, le opportunità trattamentali, le possibilità di permanenza all’aria aperta); e del concomitante sviluppo di una giurisprudenza fortemente asistematica e connotata da un tasso elevatissimo di discrezionalità possibile nella duplice ponderazione giudiziale degli elementi rilevanti nel caso concreto (fattore "spaziale"/altre condizioni detentive e il treatment/elementi di contro bilanciamento), con l’ulteriore e non meramente ipotetica possibilità che in concreto si ingenerino gravi disparità di trattamento pur a fronte situazioni assimilabili sotto il profilo del degrado e del sovraffollamento. Tale poco auspicabile eventualità, pur in certa misura coessenziale all’approccio casistico seguito dalla Corte europea e alla natura convenzionale delle fonti del diritto applicato dai giudici europei e da quelli nazionali dei Paesi aderenti alla Cedu, caratterizzato dall’utilizzo di termini generali e a volte necessariamente generici ("livello minimo di gravità" e altro), rischia, infatti, di presentarsi non sporadicamente qualora si prescinda dall’aggancio al profilo oggettivo costituito dalla misurazione delle superfici detentive per affidare l’esito dell’accertamento della violazione comunitaria all’apprezzamento discrezionale di una molteplicità di elementi che potrebbero indurre, a parità di condizioni detentive degradate, decisioni difformi relativamente a detenuti del medesimo istituto. Non va, infine, sottovalutato il delicatissimo profilo portato in evidenza dall’arresto in esame, per cui l’oggetto del procedimento di accertamento della violazione dell’articolo 3 Cedu viene individuato nella qualità complessiva del livello del trattamento penitenziario somministrato dallo Stato-amministrazione alla popolazione detenuta. Non si fa - in altri termini - questione di mera oggettiva carenza di spazi detentivi (il cui accertamento potrebbe essere ricondotto a una questione di misurazione delle celle e dell’ingombro dei relativi arredi), bensì si dovrà considerare la complessiva qualità di un servizio erogato dalla pubblica amministrazione ai soggetti detenuti, costituito da livelli minimi del trattamento penitenziario, la cui parametrazione all’articolo 3 Cedu è lasciata, sotto il profilo delle coordinate normative, alla normativa di ordinamento penitenziario e, sotto quello giudiziale, all’ampia valutazione discrezionale effettuata dal giudice nel caso concreto. Rassegna sulla circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità di Redazione Lex24 Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2015 È configurabile anche per il delitto tentato allorché sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base a un preciso giudizio ipotetico, che, se il reato fosse stato riportato a compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Reati contro il patrimonio - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Delitto tentato - Compatibilità. Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità è configurabile anche per il delitto tentato allorché sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico, che, se il reato fosse stato riportato a compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 13 ottobre 2014 n. 42819. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Delitto tentato - Attenuante comune del danno patrimoniale di speciale tenuità - Applicabilità - Esclusione. In tema di reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità non si applica al delitto tentato, in quanto il danno patrimoniale non è elemento costitutivo dell’ipotesi delittuosa. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 13 febbraio 2014 n. 7034. Reati contro il patrimonio - Delitti - Ricettazione - Circostanze - Ipotesi di fatto di particolare tenuità - Figura autonoma di reato - Esclusione - Circostanza attenuante - Inclusione nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. - Necessità. L’ipotesi del fatto di particolare tenuità, prevista dall’art. 648, comma secondo cod. pen., non costituisce una figura autonoma di reato, ma una circostanza attenuante della ricettazione e, come tale, deve essere inclusa nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 17 gennaio 2014 n. 1845. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Reati contro il patrimonio - Delitto tentato - Compatibilità. Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità é applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 28 giugno 2013 n. 28243. Reati contro il patrimonio - Ricettazione - Attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità - Concedibilità - Condizioni. In tema di ricettazione, la circostanza attenuante della speciale tenuità del danno di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen., può essere riconosciuta nella sola ipotesi in cui l’attenuante di cui all’art. 648, comma secondo, cod. pen., sia stata esclusa sotto il profilo della componente soggettiva del fatto. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 15 novembre 2013 n. 50066. Condizioni indispensabili per il diritto di critica: verità, interesse alla notizia e continenza di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 18 marzo 2015 n. 11409 In tema di diffamazione a mezzo stampa, condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di critica sono: la verità, l’interesse alla notizia e la continenza. In particolare - sottolineano i giudici della Suprema corte con la sentenza n. 11409 del 2015 - e con riferimento al profilo della verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni di critica, vale osservare che non può essere consentito attribuire a un soggetto specifici comportamenti dallo stesso mai tenuti, per poi esporlo a critica come se quei fatti fossero effettivamente a lui riferibili. Mentre, con riguardo al requisito della continenza, il relativo limite deve ritenersi superato quando le espressioni adottate si risolvano nella denigrazione della persona del destinatario in quanto tale e, risultando gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione del soggetto criticato, che prescinda dalla vicenda concreta. I precedenti orientamenti - Anche di recente è stato ancora più chiaramente affermato che, in tema di diffamazione, condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di critica sono: a) la verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni di critica, in quanto - fermo restando che la realtà può essere percepita in modo differente e che due narrazioni dello stesso fatto possono perciò stesso rivelare divergenze anche marcate - non può essere consentito attribuire a un soggetto specifici comportamenti dallo stesso non tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica come se quei fatti o quelle espressioni fossero effettivamente a lui riferibili; mentre, qualora il fatto risulti obiettivamente falso, la possibilità di applicare la scriminante, sotto il profilo putativo ai sensi dell’articolo 59 del Cp , presuppone che il giornalista abbia assolto all’onere di controllare accuratamente la notizia risalendo alla fonte originaria e che l’errore circa la verità del fatto non costituisca espressione di negligenza, imperizia o, comunque, di colpa non scusabile, come nel caso in cui il fatto non sia stato sottoposto alle opportune verifiche e ai doverosi controlli; b) l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti; c) la continenza, che deve ritenersi superata quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica: la verifica circa l’adeguatezza del linguaggio alle esigenze del diritto del giornalista alla cronaca e alla critica impone l’accertamento della verità del fatto riportato e la proporzionalità dei termini adoperati in rapporto all’esigenza di evidenziare la gravità dell’accaduto, quando questo presenti oggettivi profili di interesse pubblico; con la precisazione che, pur essendo consentita una polemica anche intensa su temi di rilievo sociale e politico, esula comunque dalla critica il gratuito attacco morale alla persona (sezione V, 26 giugno 2013, Maniaci). Nella fattispecie esaminata, la Corte si è anche soffermata sulla questione della configurabilità della diffamazione commessa in danno di un soggetto collettivo, e non necessariamente di una persona fisica. Campania: la commistione tra giustizia e politica di Orazio Abbamonte Roma, 11 maggio 2015 he anche l’occhio voglia la sua parte, Vincenzo De Luca sembra non averlo inteso. Con quelle candidature "impresentabili" che, volenti o nolenti, hanno conquistato le pagine nazionali per non dire dell’alleanza in limine con il vecchio arnese democristiano Ciriaco De Mita - l’ex sindaco di Salerno s’è consegnato all’album degli orrori elettoralistici, mostrando anche i limiti che la dimensione provinciale nella quale s’è formato, è del tutto inadatta quando lo spazio di riferimento cresce. Transfughi, condannati, arrestati, famigli e familiari di camorristi, nulla s’è fatto mancare, nella spasmodica corsa verso Palazzo Santa Lucia, un luogo molto accogliente a giudicare da quanto si fa per accomodarvisi. Quasi sembrerebbe un’alcova. Altrimenti, perché coltivare simili compagnie pur di raggiungerlo? Ma scrivere di queste cose ha un po’ il sapore dell’accodarsi alla demagogia, nel dare addosso al politico di turno. Perché quello che sul versante della legalità spaventa di più, non sono quei due tre, quattro o anche cinque nomi d’accoliti presenti nelle liste del partito della legalità - il Pd, che in quel segno ha costruito il suo antiberlusconismo - quanto piuttosto i due morti ammazzati in Fratte di Salerno per problemi di competenza territoriale nell’attacchinaggio. Un litigio tra medi boss ha disvelato anche per affiggere un solo manifesto è necessario rivolgersi alla criminalità organizzata, che si spartisce il territorio con assoluto rigore, esigendo il rispetto delle competenze, territoriali appunto, non meno di quanto non accada tra amministrazioni dello Stato, che siano Comuni o Prefetture. Insomma, a gestire le elezioni - a gestire la realtà vera delle elezioni - bisogna pur prenderne atto, non sono appunto Comuni e Prefetture, ma la criminalità organizzata, che non fa passare alcunché se non attraverso i suoi canali. Ed uccide, ripeto uccide, se qualcuno s’azzardi a disconoscerne l’autorità. Che poi si facciano le viste della meraviglia perché alcuni delinquenti siano presenti nelle liste, beh questa è schietta ipocrisia, borghese ipocrisia, come quella di quando i regolamenti di polizia ammettevano che le case d’appuntamento prosperassero, purché non visibili e quindi inoffensive della morale dei frequentatori benpensanti. Bisognerebbe piuttosto plaudire a quei candidati onesti e coraggiosi, che pur ci sono, e che affrontano l’inaffrontabile, per interpretare con sincerità il compito di rappresentare la torbida ma genuina istanza della base. Ma queste elezioni ci stanno facendo assistere anche ad altro. Se e ‘è una cosa che la realtà italiana dovrebbe rifuggire come la peste, è la commistione tra giustizia e politica. Il ricorso testimonial del Movimento 5stelle ci ha dato solo un assaggio di quel che sarà il prossimo futuro della Regione Campania. I grillini hanno contestato la lista di De Luca, sostenendo che l’incandidabilità del candidato presidente avrebbe dovuto comportare l’esclusione dell’intera lista. Giuridicamente è una sciocchezza, perché la legge Severino - pessimamente concepita - consente la candidatura, ma impedisce, nelle condizioni del De Luca, l’esercizio della carica: un assurdo, ma tant’è. Il problema, però, è che una volta che venisse eletto, comincerà un palleggio tra politica e giurisdizione senza fine. Tanto per capire, De Luca dovrà essere sospeso. Lui ricorrerà dinanzi ad un giudice, che non sappiamo nemmeno quale sarà, perché si capirà solo dopo le elezioni, quando la Cassazione stabilirà - rischiando di provocare una frana anche a livello comunale, con de Magistris - se competente è il Tar o il Tribunale. E dopo la decisione del giudice in via d’urgenza, ci sarà un ‘impugnazione, a seconda dei casi del De Luca o dei suoi avversari. E poi ancora, ci sarà a doversi pronunciare, la Corte Costituzionale. E poi ancora, ci saranno i vari giudici penali, quelli in appello sulla condanna già inflitta al De Luca e quelli che ancora lo devono giudicare in primo grado: la cui condanna - a seconda degli esiti che avrà il giudizio in Corte costituzionale, sempre che ci sarà - potrà comportarne la sospensione e poi la decadenza dalla carica. Insomma, v ‘immaginate voi cosa potrà voler dire per la Regione Campania - non proprio un austero chiostro di Clarisse - la totale incertezza che seguirebbe all’elezione del Nostro? E lo scorrere d’interferenze sotterranee tra i vari palazzi del potere -politico e giudiziario - che tutto ciò provocherebbe? E serio che questo venga consentito dal partito di governo, quello che ha la maggior responsabilità delle istituzioni? Ed allora, direi che quattro o cinque candidati eventualmente targati d’impresentabilità, sono davvero il minore dei problemi. Per evocare una famosa metafora ottica (con gli occhi s’è aperto questo articolo), siamo come coloro che vedono gli alberi ma non il bosco. Lanciano (Ch): Uil-Pa; agenti salvano detenuto che voleva impiccarsi e vengono picchiati www.primadanoi.it, 11 maggio 2015 L’uomo non ha gradito l’intervento della Polizia penitenziaria. Lo ha salvato da morte certa e per tutta risposta il "salvato" ha inveito contro chi ha evitato che passasse a miglior vita, aggredendolo senza pietà. L’incredibile fatto è accaduto la notte tra sabato e domenica nell’affollata sezione detentiva "Z" del carcere di Lanciano. Il detenuto, di origine campana , con molti anni ancora da scontare e recidivo per aver provato più volte di farla finita, ha tentato di impiccarsi con un’ asciugamano. Fortunatamente i controlli assidui da parte del personale di polizia penitenziaria e i classici rumori ben udibili nel silenzio della notte hanno permesso al personale operante di far scattare immediatamente l’allarme consentendo, così, ai due soccorritori, un assistente capo e un sovrintendente di polizia penitenziaria, di intervenire prontamente ed evitare la tragedia. Non contento di essere stato salvato, però, il detenuto ha reagito nei confronti dei due agenti aggredendoli con calci e pugni. Uno dei due, il sovrintendente, ha dovuto ricorrere alle cure del medico. "Sembra non avere fine lo stillicidio di eventi che stanno brutalmente caratterizzando la professione dei baschi blu", commenta Mauro Nardella, il vice segretario regionale Uil. "Sono trascorsi solo 4 giorni da quando, proprio la Uil penitenziari, ha reso pubblici i dati riferibili agli eventi critici accaduti dall’inizio di gennaio ad oggi nelle italiche carceri e che contano 85 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria feriti con prognosi superiore ai 5 giorni, 46 intossicati dai fumi sprigionatesi dagli incendi appiccati nelle loro celle da detenuti incorreggibili e 25 potenziali suicidi salvati in extremis dagli stessi agenti". "La Uil Penitenziari - continua il vice segretario Regionale Mauro Nardella - rimarca ancora con costernazione la difficile situazione che da anni attanaglia il carcere frentano. Alle carenze di organico fanno spesso da eco atteggiamenti da parte degli utenti che spesso scadono in situazioni al limite della controllabilità. Ne fa la spesa chi questo lavoro lo affronta consapevole dei rischi che corre ma che spesso non viene valutato così come si dovrebbe. Ai due colleghi invio le mie più sentite congratulazioni e, al collega ferito, gli auguri di pronta guarigione. Il tutto con la speranza - chiosa il sindacalista della Uil Penitenziari Abruzzo - che l’Amministrazione Penitenziaria tenga in debito conto l’abnegazione dimostrata dai due ed il fatto, e non è cosa piccola, che con la loro prontezza e la loro professionalità, hanno salvato una vita". Nuoro: Badu e Carros, un carcere inserito nel territorio La Nuova Sardegna, 11 maggio 2015 Celebrato il 198° anniversario della Polizia penitenziaria. La direttrice Carla Ciavarella: "Sono orgogliosa di lavora qui". Il Corpo di polizia Penitenziaria ha celebrato il 198° anniversario della fondazione con una cerimonia che si è svolta nel carcere di Badu e Carros. Una festa durante la quale sono stati elencati i risultati conseguiti e sottolineato l’impegno che ogni giorno viene profuso dagli agenti penitenziari per controllare i detenuti e far funzionare una struttura complessa come quella nuorese. "Questo carcere risponde a un modello organizzativo molto complesso -ha ribadito la direttrice di Badu e Carros, Carla Ciavarella. Ogni giorno e secondo i diversi orari di lavoro, nel penitenziario ruotano circa duecento persone. Uomini e donne che svolgono un lavoro composto da diversi elementi collegati tra loro e tutti orientati alla ricerca quotidiana di una sintesi operativa". "La casa circondariale di Nuoro ha un ruolo importantissimo nel panorama nazionale degli istituti penitenziari - ha spiegato il comandante della guardie carcerarie di Badu e Carros, Alessandro Caria. Il 4 maggio 1977 il carcere di Nuoro era entrato nella geografia strategica di quella crudele guerra consegnata alla storia come "gli anni di piombo" diventando carcere speciale. Superato il pericolo del terrorismo - ha continuato il comandante - il nostro istituto ha continuato a ospitare detenuti di elevatissimo spessore criminale, rimanendo sempre un importante punto di riferimento nella lotta alla criminalità organizzata. Oltre al circuito di media sicurezza sono presenti le sezioni di alta sicurezza 1, di alta sicurezza 3 e un reparto riservato destinato ai 41 bis". Un carcere che è sempre più inserito nel tessuto sociale della città, grazie all’intraprendenza della direttrice e ai progetti realizzati con tutto l’affiatatissimo staff che Carla Ciavarella ha presentato durante la cerimonia, sottolineando con orgoglio la loro altissima professionalità nell’affrontare quotidianamente problemi di non facile soluzione. "Abbiamo numerosi progetti in corso di realizzazione - ha spiegato la direttrice. Il vigneto tra due anni produrrà uva che dovrebbe diventare vino grazie alla collaborazione con una cooperativa sociale. La falegnameria, che è in grado di lavorare in maniera professionale, produce infissi e mobili di qualità Il parco ricavato da una porzione della nostra struttura - ha aggiunto Carla Ciavarella - sarà presto aperto a tutta la città grazie all’impegno e alla sensibilità dell’amministrazione comunale guidata dal sindaco Bianchi. E poi le azioni riparative realizzate con il contributo delle associazioni . Non posso che essere orgogliosa - ha concluso la direttrice - di fare parte di questa organizzazione così complessa che ci riserva però grandi soddisfazioni umane e professionali". Alla cerimonia nel carcere di Badu e Carros hanno partecipato il prefetto Ninni Meloni, il procuratore della Repubblica, Andrea Garau, il vescovo Mosè Marcia, il sindaco Sandro Bianchi, il vicequestore vicario Giusy Stellino, il comandante della polizia stradale, Guido Coppola, il comandante della Compagnia carabinieri, Marco Keten e numerose altre autorità che hanno voluto così dimostrare la loro vicinanza al direttore del carcere e al corpo di polizia penitenziarie. Persone che quotidianamente svolgono un lavoro difficile che ha permesso la crescita culturale di decine di detenuti, ma anche favorito l’integrazione con il tessuto sociale della città. Ora Badu e Carros non è un luogo di prigionia cupo, ma un carcere moderno dove i reclusi sono messi in condizione di recuperare la loro vita. Oristano: il nuovo carcere di Massama già al limite della capienza La Nuova Sardegna, 11 maggio 2015 Nuovo carcere di Massama ai limiti della sua capienza. Attualmente sono rinchiusi 256 detenuti, contro la capacità massima di 266. Numeri consistenti dai quali emergono già i primi problemi, anche per la nutrita presenza dei detenuti in regime di alta sicurezza. Lo ha detto, nel corso della festa della polizia penitenziaria, Pierluigi Farci, provveditore vicario dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, tracciando un bilancio della struttura di Massama. "Ogni regione comunque deve farsi carico di una quota di detenuti in regime di alta sicurezza e la Sardegna, con circa 600 fa la sua parte - ha spiegato Farci - a Massama una sessantina di detenuti sono impiegati in lavori interni alla struttura carceraria. Quindici hanno potuto seguire il nuovo corso per ragionieri nell’Istituto Mossa e 48, hanno conseguito la licenza media. 21 sono stati impegnati in corsi di pittura e mosaico". Farci ha, inoltre, messo in evidenza la positiva esperienza vissuta da 4 detenuti, impiegati nelle attività di scavo a Mont e Prama. Nel carcere di Massama sono stati impegnati nella vigilanza quasi 180 agenti. Nel 2014 sono stati "gestiti" 309 detenuti in ingresso e 307 in uscita: 670 sono state le traduzioni, delle quali 93 fuori dalla Sardegna. Nel corso della cerimonia per la festa del corpo di polizia penitenziaria è stato attribuito anche un riconoscimento agli assistenti capo Massimo Spano e Sergio Flore per l’intervento eseguito durante una rissa scoppiata in carcere, intervento che ha consentito di proteggere due reclusi nel carcere di Massama aggrediti da una decina di altri detenuti. Ivrea: detenuto appicca fuoco alla sua cella, l’incendio in carcere causa dodici intossicati La Sentinella del Canavese, 11 maggio 2015 È successo sabato pomeriggio. In dodici sono stati medicati al pronto soccorso, dieci agenti e due detenuti. Un incendio è divampato nel pomeriggio di sabato all’interno del carcere. Ad appiccarlo sarebbe stato un detenuto marocchino, che per protesta ha dato fuoco alla sua cella. Una decina gli agenti di polizia penitenziaria intervenuti per mettere in salvo i detenuti e spegnere le fiamme. Lo rende noto il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, che in una nota parla di "momenti di grande tensione e pericolo". L’episodio, aggiunge il segretario generale del sindacato, Donato Capece, è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività". Non è l’unica organizzazione sindacale a intervenire. "Alla polizia penitenziaria di Ivrea devono andare i più sentiti ringraziamenti per come è riuscita a scongiurare, a rischio dell’incolumità personale degli agenti, quella che poteva diventare l’ennesima tragedia": così Leo Beneduci, segretario generale del sindacato autonomo Osapp, a commento di quanto avvenuto ieri nel carcere eporediese, dove un detenuto ha appiccato un incendio nella propria cella. Dieci agenti e due reclusi, rimasti intossicati, sono stati medicati al pronto soccorso. Il detenuto, di nazionalità marocchina, aveva dato fuoco al materasso, alle coperte, alle lenzuola e ai vestiti. Il fumo ha invaso l’intera sezione (al primo piano destro del complesso) e il personale di polizia penitenziaria ha fatto uscire tutti i reclusi presenti, facendoli affluire nei cortili. "Nell’ultimo anno - dice Beneduci - la popolazione ristretta nelle carceri italiane è diminuita di oltre il 10% ma, nonostante questo, aggressioni, ferimenti e suicidi continuano. A dimostrazione che il problema, più che nelle singole infrastrutture, va ricercato nell’incapacità della politica e dell’amministrazione penitenziaria centrale". Osapp: polizia ha sventato tragedia "Alla polizia penitenziaria di Ivrea devono andare i più sentiti ringraziamenti per come è riuscita a scongiurare, a rischio dell’incolumità personale degli agenti, quella che poteva diventare l’ennesima tragedia": così Leo Beneduci, segretario generale del sindacato autonomo Osapp, a commento di quanto avvenuto ieri nel carcere eporediese, dove un detenuto ha appiccato un incendio nella propria cella. Dieci agenti e due reclusi, rimasti intossicati, sono stati medicati al pronto soccorso. Il detenuto, di nazionalità marocchina, aveva dato fuoco al materasso, alle coperte, alle lenzuola e ai vestiti. Il fumo ha invaso l’intera sezione (al primo piano destro del complesso) e il personale di polizia penitenziaria ha fatto uscire tutti i reclusi presenti, facendoli affluire nei cortili. "Nell’ultimo anno - dice Beneduci - la popolazione ristretta nelle carceri italiane è diminuita di oltre il 10% ma, nonostante questo, aggressioni, ferimenti e suicidi continuano. A dimostrazione che il problema, più che nelle singole infrastrutture, va ricercato nell’incapacità della politica e dell’amministrazione penitenziaria centrale". Parma: papà detenuti, si può essere buoni genitori anche dal carcere www.ausl.pr.it, 11 maggio 2015 "Io l’ho detto ai miei figli che sono in carcere, perché voglio essere sincero con loro e perché mi sento responsabile nei loro confronti degli errori commessi": a dirlo è Giuseppe, uno dei personaggi dell’opuscolo "Il genitore detenuto" realizzato dall’Ausl di Parma come esito del progetto "Sostegno al ruolo genitoriale e familiare" che in carcere ha accompagnato le persone detenute ad elabora-re i problemi che possono insorgere come conseguenza della separazione forzata dalla famiglia, con uno sguardo particolare al mantenimento del ruolo genitoriale e del legame parentale con i figli. Essere padre e detenuto richiede di affrontare diverse questioni, spiega il sito Emilia-Romagna Salute: come superare il timore di trasmettere un’immagine negativa di sé e comunicare ai propri figli la condizione di carcerato, come mantenere stabili e regolari colloqui con i figli e la famiglia, come gestire il rapporto quando arriva il fine pena. Giuseppe, Mario e Ahmed, nella guida, raccontano la propria esperienza, mediata dagli operatori dell’Ausl. Le difficoltà del padre recluso sono ancora più complesse nel caso in cui sia anche straniero e debba quindi confrontarsi con il fatto che i figli crescano in un ambiente socio-culturale differente dal suo. Una difficoltà che diventa anche conflitto se i due genitori non appartengono alla stessa cultura. L’opuscolo si chiude con un messaggio positivo: si può essere buoni genitori anche dal carcere. La testimonianza di chi si è raccontato conferma come i padri detenuti continuino ad avere un ruolo fondamentale all’interno del rapporto genitoriale. Il genitore detenuto non è per questo un cattivo genitore ed è il genitore con cui il figlio dovrà fare i conti per crescere Essere padre e detenuto richiede di affrontare diverse questioni: come superare il timore di trasmettere un’immagine negativa di sé e comunicare ai propri figli la condizione di carcerato, come mantenere stabili e regolari colloqui con i figli e la famiglia, come gestire il rapporto quando arriva il fine pena. Giuseppe, Mario e Ahmed, nella guida, raccontano la propria esperienza, mediata dagli operatori dell’Ausl che diventa così un utile riferimento per chi legge. Le difficoltà del padre recluso sono ancora più complesse nel caso in cui sia anche straniero e debba quindi confrontarsi con il fatto che i figli crescano in un ambiente socio-culturale differente dal suo. Una difficoltà questa che diventa anche conflitto se i due genitori non appartengono alla stessa cultura. Anche questo opuscolo si chiude con un messaggio positivo: si può essere buoni genitori anche dal carcere. La testimonianza di chi si è raccontato conferma come i padri detenuti continuino ad avere un ruolo fondamentale all’interno del rapporto genitoriale. Pisa: detenuti scrittori al Don Bosco, il libro "Favolare" (Mds) racconta le loro storie La Nazione, 11 maggio 2015 I curatori e l’illustratore del libro, i rappresentanti della casa editrice Mds e i detenuti del Don Bosco di Pisa I curatori e l’illustratore del libro, i rappresentanti della casa editrice Mds e i detenuti del Don Bosco di Pisa Scrivere è una grande emozione. Far uscire le emozioni da un luogo dove spesso si trattengono è liberatorio. Lo è stato per otto detenuti della casa circondariale Don Bosco di Pisa che hanno seguito un laboratorio particolare che ha dato poi vita a un libro "Favolare", eidto da Mds, trentadue racconti sul tema del viaggio (con la fantasia, nel passato, con la penna, appunto). Un volume curato dalla collega Antonia Casini, da Giovanni Vannozzi e illustrato dal giovane e talentuoso Michele Bulzomì. Da gennaio fino a maggio (sono ancora in corso) Antonia, Giovanni, Michele a cui si sono aggiunti anche Fabio della Tommasina (Mds) e Sara Ferraioli, presidente di Mds, hanno tenuto lezioni in carcere per due volte a settimana. Un piccolo corso è stato tenuto anche da Alessandro Scarpellini. Da questi incontri sono nati otto scritti, ma anche un legame fra gli insegnanti e questi particolari studenti. "Perché fare quattro risate fuori dalla cella ha un valore inestimabile", spiegano loro stessi. Alle loro penne si sono unite quelle dei curatori e di altri giornalisti/scrittori (tra cui Ermanno Bencivenga, Alfonso Maurizio Iacono e Alberto Severi). Molti gli autori pisani, come Giovanni Parlato, Chiara Cini, Donatella Marazziti, l’assessore Marilù Chiofalo, l’ex assessore Dario Danti, Francesca Padula, Andrea Bernardini e gli Ottomani ("Sulle spallette alle nove"). Il risultato è un’antologia, 39 fiabe in tutto, con i patrocini di comune, Camere penali d’Italia e consiglio degli ordini degli avvocati di pisa, che raccontano storie di vita. "Favolare è un messaggio, il nostro, che esce fuori", dicono i detenuti. Parte del ricavato delle vendite sarà destinato al loro reinserimento nel mondo del lavoro. "È la scrittura che fa volare fuori da queste mura, che magicamente, come accade nelle favole, trasforma le persone in altro da sé e che, attraverso il suo esercizio, diventa fonte di liberazione, anche in un luogo fatto di chiavi, cancelli e sbarre. È la scrittura che libera...", afferma Liberata Di Lorenzo, responsabile area pedagogica del Don Bosco. "Abbiamo cercato in noi stessi e provato a raccontarci. Ed è stato come vivere una favola", spiega Vannozzi nell’introduzione. "Non quello che si è fatto, ma quello che si può fare", recita l’epigrafe. I protagonisti del progetto ci credono molto. Il volume sarà presentato in anteprima al Salone del libro di Torino dal 14 al 18 maggio. Ascoli: niente giornali pornografici, detenuto in regime di 41bis fa ricorso contro il divieto Il Resto del Carlino, 11 maggio 2015 Sottoposto al regime del 41-bis a Marino del Tronto, ingaggia una battaglia giudiziaria per soddisfare la sua umana debolezza. Niente giornali porno per i detenuti in regime di 41-bis. Ma uno di loro non ci sta e tramite l’avvocato Mauro Gionni farà ricorso alla procura di Ascoli e a quella di Roma. Succede al carcere di Marino del Tronto, e la vicenda è di quelle curiose, all’italiana. Nell’ambito del 41-bis si possono chiedere e ottenere deroghe per piccole cose, come cambiare menù se si hanno problemi di salute o abbracciare i propri figli senza che restino al di là del vetro durante gli incontri con i familiari. Ma la decisione deve essere da un magistrato di sorveglianza. Tempo fa, l’avvocato Gionni ha chiesto e ottenuto deroghe per tre detenuti, uno dei quali aveva appunto l’umana debolezza di sfogliare un giornale pornografico. Il magistrato di sorveglianza ha detto sì, ma il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non solo ha fatto ricorso, ma non ha applicato la sentenza. E nonostante il ricorso sia stato bocciato, non c’è stato niente da fare né per i giornali a luci rosse né per tutto il resto. Da qui il nuovo ricorso di Gionni alle due procure. E la battaglia continua. Libri: in "Fuga da Fresnes", la storia di Pierluigi Facchinetti e della banda dei bergamaschi di Armando Di Landro Corriere della Sera, 11 maggio 2015 Emiliano Facchinetti racconta il giorno in cui si sostituì al fratello Pierluigi, rapinatore di spicco. Lo scambio nella stanza dei colloqui. "Fuga da Fresnes" sarà un libro sulla storia della "Banda dei bergamaschi": il giallo dell’incarico per uccidere Berlusconi. Quando i detenuti uscivano dalle celle del carcere di Fresnes, in Francia, per andare in parlatorio, le guardie penitenziarie dovevano fare un timbro su una mano, da controllare poi al loro rientro: un metodo per evitare scambi di persona in carcere. Ma nella primavera di trent’anni fa, a Trescore Balneario, Emiliano Facchinetti progetta proprio uno scambio. Ha 21 anni, una passione per l’arte e la necessità di dare una mano nel bar di famiglia, in centro al paese. Ma soprattutto, è legatissimo al fratello, 8 anni più di lui, che a Fresnes è in cella: si chiama Pierluigi Facchinetti, un nome che nel 1985 è sulla lista nera delle polizie di mezza Europa. Nato a Berna, dove il papà pasticcere era emigrato, era cresciuto a Trescore, e in Val Cavallina aveva conosciuto Amadio Bettoni, "Mentone", sei anni più di lui. Le prime rapine, insieme o in solitaria, risalgono al 1978, come un colpo alle Poste di viale Giulio Cesare. Ma è solo l’inizio. Ben presto, quella che sarà ribattezzata la "banda dei bergamaschi", o "della Val Cavallina", punta alle banche svizzere. Colpi milionari ed evasioni, come nel 1981, quando il bandito di Trescore scappa con l’anarchico svizzero Marco Camenish e altri complici dal carcere di Regensdorf (Zurigo): una guardia penitenziaria viene uccisa, un’altra gravemente ferita. È ricercato, la Svizzera lo vuole ad ogni costo, lui ripara in Francia, dove viene arrestato e resta in cella, a Fresnes, in attesa dell’estradizione a Zurigo. Ed è in quella primavera di trent’anni fa che il fratello Emiliano inventa l’impossibile. È affezionatissimo a Pierluigi: "Ogni settimana partivo da Trescore e andavo a Fresnes a trovarlo, per portargli anche abiti puliti". E fa due calcoli: entrando in carcere al posto di Pierluigi rischia un’accusa per favoreggiamento in evasione, non più di tre mesi di detenzione. E allora studia i dettagli. A partire da quel timbro delle guardie su una mano dei detenuti chiamati a colloquio. "Eravamo d’accordo - racconta Emiliano seduto di fronte a un caffè, al bar Marylin, che un tempo era il locale di famiglia, vicino al municipio di Trescore. Pierluigi si fasciò una mano e un giorno, prima di un colloquio con me, la guardia gli fece il timbro sulla fasciatura. Lui mi spedì le bende e io, utilizzando una lampada uv, riuscii a riprodurre il timbro del carcere. Che utilizzai sulla mia mano". Tutto pronto, il 30 maggio del 1985. "C’erano otto parlatori, uno in fila all’altro. Due guardie camminavano partendo da lati opposti dello stanzone - ricorda Emiliano. Si incrociavano lungo il cammino. Io riuscii a distrarli tirando fuori un dizionario di francese, dicendo che non l’avevo lasciato all’ingresso tra i vestiti da portare dentro a mio fratello. L’alternanza tra le guardie si spezzò, tutte e due vennero vicino a noi, poi entrambe, ci voltarono le spalle". C’è solo un vetro basso, da scavalcare, e in un lampo il fratello più giovane salta dalla parte del detenuto, e viceversa. "Un altro carcerato, che vide lo scambio, ci fece un segno di approvazione. E quando io entrai nessuno aveva capito che non ero mio fratello, nemmeno i compagni di cella. Ricordo che da tempo Pierluigi portava la barba, io invece no. Per confondere gli altri lui se la tagliò il giorno prima della fuga". Il super ricercato è libero, l’incensurato che invece ha progettato l’evasione (im)possibile è in cella. Ma poco tempo dopo, di fronte al giudice di Parigi che sta per estradare Facchinetti in Svizzera, il finto Pierluigi si trova costretto a parlare. "Non sono io". Il magistrato non capisce, ordina alle guardie di tornare a Fresnes e prendere l’uomo giusto. Emiliano alza la mano e si spiega come meglio può, svela lo scambio. "Vidi il giudice diventare rosso in faccia e mi misi a ridere. Una risata che mi costò l’accusa di oltraggio all’autorità giudiziaria. Mi spedirono nella cella di sicurezza del tribunale di Parigi, dove per due giorni presi parecchie botte. Alla fine restai in carcere fino al luglio del 1986". Tredici mesi tra Fresnes e la leggendaria "Santè" di Parigi, la casa circondariale del 1867 chiusa negli anni 90 per le condizioni non più accettabili del regime di detenzione. "Ci davano, ad esempio, un unico detersivo, per i piatti e per lavare i denti...", ricorda Emiliano. "Fuga da Fresnes" sarà il titolo del suo libro. La pubblicazione (Milieu edizioni), è prevista per la fine del mese. Eloquente il sottotitolo, che mette in evidenza come l’evasione del 30 maggio 1985 sia stata solo una delle imprese criminali di Pierluigi Facchinetti e di chi lo sosteneva, per affetto o per complicità in affari. "Storia del bandito bergamasco che doveva uccidere Berlusconi". Una misteriosa organizzazione francese, aveva rapito Facchinetti in un appartamento di Perpignan, perché il gruppo non aveva tenuto fede a un impegno: uccidere quell’imprenditore rampante delle tv, che era arrivato anche Oltralpe, con "La Cinq". Ma c’era anche un presunto militare inglese, che si era messo in affari con i bergamaschi: spesso suggeriva loro di rapinare grosse somme di denaro, che lui stesso aveva messo in alcune cassette di sicurezza, chiedendo però di sottrarre documenti da altre cassette vicine. La "banda dei bergamaschi" si era fatta un nome. E Facchinetti, da bandito con agganci internazionali, aveva anche imparato a guidare l’elicottero. Un’ascesa continua, fino all’epilogo del 20 novembre 1987: una soffiata alla polizia mette la squadra mobile di Brescia sulle tracce dei banditi a Polaveno, sulla strada per la Valtrompia. Stanno andando ad acquistare armi. Finisce a colpi di mitra e pistola: l’amico e complice Mauro Nicoli, resta gravemente ferito, Pierluigi Facchinetti muore nell’abitacolo di una Lancia bianca, contro un muro. È la fine di una banda, la fine di un vero romanzo criminale bergamasco. Migranti, il piano Ue all’Onu ma l’obbligo di accoglienza sarà solo per i primi ventimila di Andrea Bonanni La Repubblica, 11 maggio 2015 La commissione Ue definisce l’Agenda europea per le migrazioni che dovrebbe essere approvata mercoledì. In via di urgenza dovrebbe essere decisa l’accoglienza di un numero limitato di rifugiati da distribuire tra gli Stati membri. La cifra proposta dalla Commissione si situerà tra dieci e ventimila rifugiati, attualmente nei centri di accoglienza in Italia, a Malta e in Grecia. Oggi l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, illustrerà al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la drammatica situazione dei migranti nel Mediterraneo e la decisione del Consiglio europeo di condurre una missione per la distruzione delle barche usate dai trafficanti di esseri umani. L’obiettivo è quello di ottenere al più presto il via libera ad una risoluzione dell’Onu che autorizzi l’intervento delle forze europee nelle acque territoriali libiche e possibilmente anche nei porti che vengono utilizzati come base di partenza delle carrette del mare. Non sarà facile. Ci sono resistenze soprattutto all’ipotesi di missioni aeree per la distruzione delle imbarcazioni. Ma sembra certo che gli europei riusciranno comunque ad avere la benedizione del Palazzo di vetro, che darebbe alla loro azione la richiesta legittimità internazionale. In questo caso, il piano di azione preparato da Bruxelles dovrebbe finire sul tavolo dei capi di governo al prossimo Consiglio europeo di giugno. Quindi toccherà ad una coalizione di Paesi europei su base volontaria mettere insieme le forze di intervento necessarie, che saranno con ogni probabilità coordinate dall’Italia. Mercoledì, invece, il collegio dei commissari dovrebbe approvare l’Agenda europea per le migrazioni, un documento che stabilirà una serie di principi per far fronte in modo strutturale alla questione degli immigrati, sia di quelli che cercano asilo, sia di quelli irregolari, sia dei migranti che richiedono un permesso di lavoro. Il documento prevede, tra l’altro, l’obbligo di ridistribuire i profughi tra i vari Stati membri tenendo conto della popolazione, del Pil e del numero di rifugiati già ospitati. Un obiettivo ambizioso, che infatti suscita forti resistenze da parte di molti Paesi, a partire dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, dall’Ungheria e da numerosi governi del Nord e dell’Est europeo. Il dibattito sarà lungo. E difficilmente i primi atti legislativi concreti potranno vedere la luce prima dell’autunno prossimo. Per sbloccare la situazione, la Commissione ha deciso di ricorrere all’articolo 78.3 del Trattato, che dà all’esecutivo comunitario la possibilità di proporre "misure di urgenza" sulle quali il Consiglio deve decidere a maggioranza "sentito il Parlamento europeo", il cui via libera non è dunque vincolante. Queste misure di urgenza riguarderebbero l’accoglienza di un numero limitato di rifugiati da distribuire tra gli stati membri sempre in base alla stessa chiave di ripartizione. Quale sarà questo numero non è ancora deciso in via definitiva. In un primo momento si era parlato di cinquemila, cifra scartata perché considerata irrisoria. Alla fine è comunque probabile che la cifra proposta dalla Commissione si situerà tra dieci e ventimila rifugiati attualmente ammassati nei centri di accoglienza in Italia, a Malta e in Grecia. La procedura di urgenza dovrebbe anche consentire di evitare che si crei una minoranza in grado di impedire l’approvazione della proposta della Commissione. Infatti, poiché si riferisce alle procedure di richiesta di asilo, la norma di fatto consente un "opt-out" di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Se decidessero, come è probabile, di esercitare il loro diritto a chiamarsi fuori dal provvedimento, i tre Paesi sarebbero anche esclusi dalla votazione e tra i rimanenti non dovrebbe essere difficile raccogliere la maggioranza qualificata necessaria. Migranti, cosa chiede l’Ue all’Italia: le condizioni che ci penalizzano di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 11 maggio 2015 Le clausole per iniziare l’esame del testo che obbliga tutti i Paesi all’accoglienza. Squadre di tecnici stranieri e centri di raccolta per identificare i profughi. La proposta è valutata dai tecnici del Viminale come una sorta di commissariamento. C’è una vera e propria clausola che l’Italia dovrà accettare prima del via libera alla distribuzione dei profughi in tutti gli Stati europei. Una condizione preliminare contenuta nel piano messo a punto dai tecnici dell’Unione Europea che dovrà essere discusso mercoledì. Prevede l’invio in Italia di commissioni internazionali per il foto segnalamento degli stranieri e la creazione sul nostro territorio di centri di smistamento dove i migranti dovranno rimanere fino al completamento della procedura per l’accertamento dell’identità. Solo se questa parte del progetto diventerà operativa, verrà avviato l’esame della proposta per far diventare obbligatoria e non volontaria l’accoglienza da parte dei 28 Paesi e per una revisione del Trattato di Dublino. La possibilità che la cooperazione dell’Ue fosse condizionata era apparsa chiara già durante il vertice del 23 aprile scorso convocato dopo il naufragio che aveva provocato la morte di oltre 700 persone. Eloquenti furono le parole della cancelliera tedesca Angela Merkel: "Siamo pronti a sostenere l’Italia ma la registrazione dei rifugiati deve essere fatta in modo adeguato secondo le regole Ue". Nella proposta messa a punto a Bruxelles e trasmessa adesso a tutti gli Stati per le valutazioni preliminari il vincolo appare chiaro. È infatti previsto l’arrivo di team stranieri composti da funzionari di Frontex, Europol ed Easo (l’Ufficio europeo per i richiedenti asilo) che si affiancheranno ai poliziotti italiani per effettuare l’identificazione di chi sbarca sulle nostre coste e per collaborare alle indagini sugli scafisti. Già durante la riunione convocata d’urgenza si era parlato di questa eventualità, valutata però dai tecnici del Viminale come una sorta di commissariamento. Non a caso nei giorni scorsi il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione del ministero dell’Interno, di fronte alla commissione parlamentare sui centri di accoglienza aveva messo in guardia circa il rischio di "accettare impegni immediati in cambio di promesse future". E adesso che l’invio delle squadre è contenuto nella relazione ufficiale, l’Italia risponderà con controdeduzioni. C’è un altro aspetto sul quale si dovrà discutere. Riguarda quelli che nel testo preparato a Bruxelles vengono definiti "punti di difficoltà". Sono veri e propri centri di accoglienza che l’Italia dovrà impegnarsi a creare e dove i migranti dovranno rimanere fino al termine della procedura per l’accertamento dell’identità o, nel caso dei richiedenti asilo, fino a che non sarà verificata l’esistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato. Si tratta evidentemente di una proposta che di fatto prevede lo stato di custodia di queste persone in modo che non lascino l’Italia per spostarsi in altri Stati. Nella relazione i tecnici impegnano l’Unione Europea a uno stanziamento di 60 milioni di euro per contribuire all’allestimento delle strutture e al mantenimento degli stranieri. Al di là della congruità della cifra, il piano messo a punto dal ministro Angelino Alfano la scorsa settimana al termine dell’incontro con governatori e sindaci già prevede l’allestimento di centri di smistamento in ogni Regione, ma le regole non sono così rigide e soprattutto non è prevista alcuna supervisione straniera. E dunque anche in questo caso bisognerà vedere quale sarà la controproposta messa a punto dagli sherpa italiani. Soltanto se questi due punti otterranno il via libera, comincerà la discussione in sede Ue per modificare le attuali regole e prevedere l’obbligo per tutti gli Stati ad accogliere i profughi anziché la disponibilità come avviene ora. Qualora passasse la linea, le quote saranno fissate in base al Pil, il prodotto interno lordo, e al Fondo sociale. Si tratta del primo passo, tutt’altro che scontato, per la revisione del trattato di Dublino che impone la permanenza dei richiedenti asilo nel Paese del primo ingresso, ma appare evidente che i tempi non potranno essere brevi mentre il flusso degli arrivi dall’Africa continua inarrestabile. Non a caso gli stessi funzionari di Bruxelles riconoscono la necessità di stanziare aiuti per lo sviluppo in Africa con un’attenzione particolare all’Eritrea e al Niger, lì dove è maggiore il numero di persone che si mette in viaggio per fuggire da guerra e miseria. In attesa delle decisioni dell’Onu, nulla viene specificato sulla distruzione dei barconi ma si propone una collaborazione dell’Europol nelle indagini sugli scafisti. E anche su questo il sì dell’Italia potrebbe non essere scontato. India: tribunale assolve ex governatrice Tamil Nadu, era in carcere per arricchimento illecito Ansa, 11 maggio 2015 L'ex governatrice del Tamil Nadu, nell'India meridionale, Jayaram Jayalalithaa, in carcere per arricchimento illecito, è stata assolta oggi da un tribunale di secondo grado. L'influente leader ed ex attrice era stata condannata a quattro anni di prigione nel settembre dello scorso anno ed era stata costretta a dimettersi dalla carica di "chief minister" che deteneva dal 2011. La notizia del rilascio di Jayalalithaa, nota come "Amma" (madre) ha scatenato la gioia dei suoi sostenitori. Centinaia di persone con dolci e fiori stanno celebrando in queste ore davanti all'alta Corte di Bangalore (Karnataka) dove è stato presentato l'appello e davanti alla sua residenza a Chennai, capoluogo del Tamil Nadu. I media indiani riportano che la 66enne leader dell'influente partito regionale Aiadmik (terza forza nel Parlamento nazionale) intende ritornare immediatamente al suo posto. Il 27 settembre un tribunale del Karnataka l'aveva ritenuta colpevole di aver accumulato un patrimonio di oltre 10 milioni di dollari, tra cui diversi chili d'oro e un guardaroba di migliaia di sari. Secondo i giudici, che avevano emesso la sentenza dopo un processo durato 18 anni, la sua fortuna sarebbe stata frutto di corruzione durante la sua trentennale carriera politica. L'ex attrice ha però sempre smentito le accuse definendole un complotto ordito dai suoi rivali.