Se l'insegnante che tiene la lezione è un detenuto di Agnese Moro La Stampa, 10 maggio 2015 Riprendo il colloquio iniziato domenica scorsa con Ornella Favero, volontaria che ha scelto di lavorare con i detenuti, e non per i detenuti, direttore della rivista del carcere di Padova, Ristretti Orizzonti, www.ristretti.it. Quale è la tua speranza oggi? chiedo. "L'ultima sfida è stata far entrare in redazione quelli delle sezioni di Alta Sicurezza, i mafiosi, i "cattivi per sempre". Non sono un'ingenua, ma penso che se vogliamo che le persone si stacchino davvero dalia cultura delle associazioni criminali a cui appartenevano, dobbiamo fuori da quelle sezioni, dove uno ha per forza lo status di delinquente tutto di un pezzo, e cominciare a vederle in contesti di relazioni normali e dignitose. E dare a loro e ai loro figli una speranza. Il nostro giornale non avrebbe senso se in redazione noi - detenuta e volontari - non discutessimo, anche ferocemente, sui reati, sulla recidiva, su tutti i temi, anche i più spinosi, della detenzione. E così te persone possono crescere, cambiare, essere in grado di assumersi le proprie responsabilità. In redazione poi la vita non è "facile" perché il discorso sulla responsabilità per noi comporta che le persone che hanno fatto del male si misurino con la sofferenza provocata: e così è nato un percorso lungo e doloroso di confronto con vittime di reati, di approfondimento di una idea di giustizia mite, che cerchi di riparare il danno e la sofferenza creati". La soddisfazione più grande? "Quando camminiamo per Padova, tanti ragazzi giovani ci riconoscono come "quelli del carcere", quelli che li hanno accompagnati a fare una delle esperienze più formative del loro percorso scolastico: da ormai dieci anni infatti noi facciamo un progetto che porta i detenuti in classe e migliaia di studenti in carcere, a confrontarsi con le persone detenute sui comportamenti a rischio, le piccole trasgressioni, gli scivolamenti che alla fine possono portare anche a commettere reati. Perché una cosa è ascoltare un esperto dire che la droga fa male, un'altra è vedere dal vivo il risultato di certi comportamenti. Ma anche per le persone detenute questo è un progetto straordinario: perché di fronte a dei ragazzi che potrebbero essere i loro figli tutti sentono come un dovere di sincerità, e gli mettono a disposizione la loro testimonianza, trasformando in esperienza utile e positiva anche i disastri delle loro vite". Giustizia: ergastolo "ostativo", perché la legge va cambiata di Damiano Aliprandi Il Garantista, 10 maggio 2015 Pubblichiamo una lettera di Pasquale De Feo, condannato all'ergastolo ostativo, cioè senza alcuna speranza di uscire, mai, dove spiega perché questa pena è la più crudele di tutte. De Feo, l'ex boss della Piana del Sele nel Salernitano, in passato vicino alla Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo, attualmente e detenuto in Calabria, nella casa circondariale di Catanzaro, nel reparto AS1. L'onorevole Enza Bruno Bossio, deputata del partito Democratico e membro della commissione bicamerale Antimafia, ha portato in Parlamento una proposta di legge per modificare quelle norme dell'ordinamento penitenziario (art. 4 bis) che prevedono il divieto di concessione di ogni beneficio e misura alternativa alla detenzione ai condannati per taluni delitti definiti "ostativi" per il solo fatto della loro mancata "collaborazione". In particolare, questo divieto, nel caso dei condannati all'ergastolo, si traduce in una vera e propria "pena di morte occulta" come recentemente l'ha definita papa Francesco. La proposta è stata condivisa e sottoscritta anche dall'onorevole Walter Verini, capogruppo del partito Democratico in commissione Giustizia e dai deputati Roberto Rampi, Luigi Lacquaniti, Danilo Leva, Chiara Scuvera, Camilla Sgambato, Ernesto Magorno, Gea Schirò, Federico Massa, Cristina Bargero, Romina Mura e Alfredo Bazoli del partito Democratico, Pia Locatelli del partito Socialista Italiano, Paola Pinna di Scelta Civica per l'Italia e Franco Bruno di Alleanza per l'Italia. "Con questa norma sarà possibile - ha dichiarato Bruno Bossio - far venir meno il divieto d'accesso al lavoro esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata anche quando risulti che la mancata collaborazione del condannato non faccia venir meno il sussistere dei requisiti, diversi dalla collaborazione medesima, che di quei benefici permettono la concessione, ai sensi dell'ordinamento penitenziario". Questa proposta prevede che non si debbano esprimere pareri ma fornire elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l'attualità di tali collegamenti e che gli eventuali pareri espressi non possano essere utilizzati nella motivazione delle decisioni giurisdizionali. "In tal modo soprattutto la pena dell'ergastolo - chiude Bruno Bossio - verrà finalmente resa maggiormente compatibile con gli standard richiesti dalla nostra Costituzione e dal diritto dell'Unione Europea ribadendo il principio secondo il quale, dopo un lungo periodo di detenzione, debbano prevalere le esigenze umanitarie". "Sto dormendo da 30 anni. Vi prego, svegliatemi" di Pasquale De Feo (detenuto nella Casa circondariale di Catanzaro) Come ha detto Papa Francesco, vivere tutta la vita in prigione è una condanna a morte. Fatemi uscire da qui. Vi prego, svegliatemi, perché sto dormendo da trent'anni. Siccome Marco Travaglio ha scritto che un ergastolano sconta solo sette anni e mezzo, allora ho scontato già quattro ergastoli. Quando mi scarcerate? La realtà è un'altra. In questi tempi si è fatto crescere un allarmismo ingiustificato, dato che nella storia degli ultimi cinque secoli in Italia i reati, tutti senza esclusione, non sono mai calati così drasticamente. Possiamo dire che negli ultimi dicci anni, guardando alle persone morte in carcere, ha ucciso più lo Stato che la criminalità, mentre nelle statistiche europee siamo uno degli ultimi Paesi per numero di omicidi e l'Italia è ritenuta dall'Unione Europea fra i Paesi più sicuri. Chi commette un reato è giusto che paghi la sanzione, ma la situazione oggi è che bisogna fare i conti con una legislazione che calpesta i diritti umani, straccia la Costituzione e regredisce la civiltà a quella del Medioevo. L'ergastolo ostativo, l'art 4bis, il 41bis, il 416bis (cito solo i più importanti) sono degli obbrobri paragonabili solo alla legge Pica, la madre di tutte le leggi repressive, del 1863, arrivata, anche se con nomi diversi, fino ai nostri giorni. Inquinati a mio parere ancora oggi dalle teorie razziste di Cesare Lombroso che affermava che i meridionali erano geneticamente "difettati" per conformazione fisica ed etnica con una naturale propensione a delinquere, dunque criminali per nascita, eredi di un'atavica popolazione "difettosa", che niente e nessuno poteva sottrarre al suo destino. Non delinquenti per un atto cosciente e di libera volontà, ma per innate tendenze malvagie. Alcuni dati. L'ergastolo ostativo interessa al 99% meridionali; l'art. 4 bis lo stesso; i 41 bis degli ultimi venti anni sono stati e sono al 100% meridionali; il 416 bis (associazione di tipo mafioso), al 99% è applicato a meridionali. E c'è chi dice che l'ergastolo in Italia non esiste. Va a finire che ce lo siamo sognati e stiamo vivendo in un sogno. Ripeto: vi prego, svegliatemi, perché sto dormendo da trent'anni. Come una volta erano stati separati i detenuti in due classi, recuperabili e irrecuperabili, così 6 stato fatto con l'ergastolo, una pena di morte diluita nel tempo. L'efferatezza di questa pena è doppiamente crudele, non ti tolgono la vita ma te la rendono insopportabile, tenendoti nel limbo di un eterno presente. Costringendoti a vivere con la più spietata delle torture: la speranza del nulla. Mentre tanti sono seppelliti vivi nel regime di 41 bis. L'ergastolo è la più arcaica e residuale delle sanzioni medievali, ti "marchiano" con un timbro sulla fronte - non adatto al mondo esterno, una schiavitù perpetua simile all'ergastulum romano. Da quel momento la vita non ti appartiene più. Ti prendono anche in giro, ti vogliono recuperare ma per tenerti chiuso tutta la vita in una cella; un loculo che i signori del Dap ora vogliono imporci di condividere con un altro schiavo. I maiali per legge devono avere nove metri quadrati di spazio, mentre a noi non vogliono concedere neanche i sette metri di spazio stabiliti dal Cpt. Valiamo meno degli animali. L'ergastolo ostativo è una tortura istituzionalizzata e chi lo subisce viene presentato come un mostro per legittimare agli occhi della gente la sua disumanità, Come disse Aldo Moro, "l'ergastolo è più crudele della pena di morte". L'avevano già capito i rivoluzionari francesi oltre due secoli fa: avevano abolito l'ergastolo perché ritenuto più disumano della pena capitale, e d'altronde la pena di morte ha bisogno di un coraggio momentaneo. L'ergastolo ha bisogno di un coraggio mostruoso perché dura tutta la vita, Sono un morto vivente, in attesa che il tempo, boia della sentenza, porti a termine il suo compito, con la fine biologica. Il giorno in cui spedisco questa lettera compio 53 anni. Mi sembra ieri che sono entrato in questo girone dantesco, ero un ragazzo, con la convinzione di essere il padrone del mondo. La potenza onnipotente dei giovani, forse è meglio dire la stupidità ottusa dei ragazzi. I giovani non sono stati vecchi pertanto non hanno esperienza, sono convinti che tutto gli sia dovuto. I vecchi sono stati giovani e hanno l'esperienza per capire come va il mondo, e possono correggere gli errori e insegnare i rimedi. Per me è tardi, ma voglio augurarmi che con quello che scrivo possa riuscire a consigliare e insegnare qualcosa di buono anche a una sola persona. Nel Talmud c'è scritto: "Chi salva una sola persona, salva il mondo intero". Giustizia: il super-pm Armando Spataro sbotta "cari colleghi magistrati, ora basta" di Piero Sansonetti Il Garantista, 10 maggio 2015 Bordate ad alzo zero contro i magistrati protagonisti, i magistrati "eroi", moralisti, maestri di storia, faziosi, narcisi... e poi contro i giornalisti servili. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c'è scritto che una notizia è notizia quando l'uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l'antimafia. Spataro è un'icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti "eroi", i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D'Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l'immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po' di servilismo). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo. I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati - nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura - a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all'interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l'ha sempre avuta con "Magistratura Democratica" e oggi gli tira un po' di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò - come vedrete - lo espone a impietosi paragoni con ministri dell'Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torino, senza cambiare una virgola Protagonismo dei magistrati "È una fortuna che sia finita l'era di mani pulite e l'era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell'importanza della notizia in prima pagina che non dell'esito del processo. "Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. È giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica". "Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c'è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c'è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l'impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all'ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile". Boccassini e Pignatone "Poi c'è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall'inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: "Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord", oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti. Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia". Giovanna D'Arco "Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c'è male, e loro sono una sorta di Giovanna D'Arco, e sono alla continua denuncia dell'isolamento nel quale si trovano. Ma l'isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà". La stampa "Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l'indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l'indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: "Ma qui c'è la stampa", alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. Alfano, Rognoni e le balle su terrorismo e migranti "Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l'allora ministro dell'Interno (Virginio Rognoni, ndr). Avevo 31 anni, mi emozionai (in verità ne aveva 33, anche lui bada un po' alla sua immagine e si cala l'età... peccato veniale, ndr) Il ministro mi chiamò per dirmi: "lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell'arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini". Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?". Conclusioni Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro. Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l'aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo), oggi esiste solo se la critica parte dall'interno della magistratura. Giustizia: lavoro in carcere; il Terzo settore tra burocrazia, pochi fondi e licenziamenti di Stefano De Agostini Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2015 I detenuti che lavorano per un soggetto esterno al carcere secondo gli ultimi dati sono solo 2.324, di cui solamente 707 come dipendenti di cooperative sociali. La legge Smuraglia prevede sgravi fiscali per chi assume, ma i finanziamenti disponibili si fermano a 5,9 milioni contro i 9 "prenotati": così 220 imprese e coop hanno subito tagli lineari e hanno dovuto licenziare. Da Milano a Napoli, però, ci sono anche casi virtuosi. Lavorare in carcere, grazie al terzo settore. Un lusso per pochi detenuti, una possibilità ulteriormente ridotta dalla scarsità di fondi e dagli ostacoli burocratici denunciati dagli addetti ai lavori. Infatti, anche le cooperative che riescono a passare le mura dei penitenziari hanno una vita tutt'altro che facile, costrette a vedersela con risorse insufficienti e a licenziare dipendenti. Il tutto mentre le pratiche virtuose - che certo non mancano - sono messe all'angolo. Pochi detenuti al lavoro per le coop. "E il carcere diventa scuola di delinquenza". Ma partiamo dai numeri. Secondo i dati del ministero della Giustizia, alla fine del 2014 2.324 detenuti lavoravano per un soggetto esterno al carcere e di questi solo 707 erano dipendenti di cooperative sociali. Una goccia nel mare, se si pensa che alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria lavoravano più di 12mila reclusi. "Per difficoltà organizzative e burocratiche - si legge nell'ultimo rapporto dell'Osservatorio Antigone, da sempre impegnato sul fronte carcerario - le imprese faticano moltissimo a entrare in carcere". Il risultato è una presenza trascurabile delle aziende all'interno dei penitenziari. Al tempo stesso, spiega il rapporto, i 12mila dipendenti dell'amministrazione carceraria portano avanti un lavoro frammentato e mal retribuito. "Negli ultimi anni, i posti di lavoro sono stati notevolmente frazionati, con una conseguente riduzione degli orari di lavoro e della spesa per l'amministrazione penitenziaria - si legge nel documento. Il numero assoluto dei lavoranti nell'anno è quindi rimasto costante, ma il budget speso per il lavoro dall'amministrazione penitenziaria è calato moltissimo. Con conseguente riduzione degli stipendi. Si è passati dai 71,4 milioni del 2006 ai 49,6 del 2013?. "Noi cerchiamo di professionalizzare il detenuto, favorendo un suo reinserimento lavorativo una volta uscito dal carcere", spiega Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Giotto, cooperativa attiva all'interno delle carceri (rinomati i dolci prodotti in quello di Padova). "Nei lavori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, invece, non c'è nulla di tutto questo, mancano le figure adatte. Non è un lavoro, ma un sussidio diseducativo. E così si perde la funzione rieducativa della pena: le carceri diventano scuole di delinquenza". Tante richieste, pochi fondi. E le cooperative devono licenziare. Ma anche chi riesce a entrare in carcere poi non ha certo vita semplice. La legge Smuraglia, che risale al 2000, prevede sgravi fiscali per le aziende e le cooperative sociali che assumano detenuti. Per il 2015, imprese e coop hanno fatto richiesta al governo di agevolazioni per un totale di poco superiore a 9 milioni di euro. Peccato che prima un decreto legge e poi una nota del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) abbiano quantificato in 5,9 milioni di euro la cifra disponibile per finanziare il credito d'imposta. La doccia fredda è arrivata da una Circolare del ministero della Giustizia, datata dicembre 2014: dopo avere constatato "una richiesta superiore del 34,71% rispetto alla reale disponibilità finanziaria", il documento spiega che "si rende necessario procedere alla rideterminazione degli importi fruibili in misura proporzionata alle risorse stesse". Insomma, tutte le 220 imprese e cooperative hanno subito una riduzione di un terzo rispetto alle proprie domande. "Non è stata verificata la consistenza delle varie attività - spiega Boscoletto. Hanno fatto richiesta di agevolazioni fiscali anche molte imprese nuove, alcune con progetti inesistenti. Il risultato è che si è proceduto a tagli lineari nei confronti di tutte le realtà. Con il risultato di penalizzare le attività consolidate e determinare decine di licenziamenti in tutta Italia". Il caso del servizio mensa. A questo colpo, si aggiunge un'altra batosta per le cooperative in carcere. Da gennaio in dieci istituti italiani il servizio mensa è stato tolto alle imprese sociali che lo gestivano da dieci anni, producendo lavoro per 170 detenuti e 40 operatori, per tornare in capo al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il progetto, nato come sperimentazione, è stato finanziato in questi anni dalla Cassa delle ammende, fondo del Dap alimentato dalle sanzioni comminate dai tribunali. Ma quest'anno, dopo lo scandalo Mafia Capitale che ha visto al centro una coop attiva anche al reinserimento degli ex carcerati, è arrivato lo stop agli stanziamenti. Il viceministro della Giustizia Enrico Costa ha spiegato che i contributi devono essere "limitati nel tempo e per progetti che, in prospettiva, prevedano una reale concreta possibilità di continuità autonoma, non assistita da ulteriori sovvenzioni". Eppure, da anni le cooperative chiedevano che, alla luce dei risultati positivi riconosciuti dallo stesso dipartimento, il progetto passasse da sperimentale a strutturale. Così non è avvenuto e l'esperienza è stata chiusa, determinando il licenziamento di decine di detenuti. "Speriamo ancora - prosegue Boscoletto - nella promessa del ministro Andrea Orlando, che la chiusura del progetto sia solo un fatto temporaneo e si trovi il modo idoneo e più esteso di ripartire". L'esempio di Palermo: i detenuti riaprono un sito archeologico - Al di là dei diversi ostacoli da superare, il terzo settore vanta un universo variegato di realtà che si impegnano per il reinserimento sociale dei detenuti. Nel campo strettamente lavorativo e in quello del volontariato, fuori e dentro il carcere. Solo per citare alcuni esempi, a Milano c'è il laboratorio di moda della cooperativa Alice, in Puglia ci sono le borse confezionate da Made in carcere, nelle carceri di Padova, Busto Arsizio e Torino i detenuti producono dolci. E infine c'è la cooperativa Padre Nostro di Palermo. Qui il lavoro di quattro detenuti-volontari ha permesso alla cittadinanza di riscoprire un sito archeologico prima inaccessibile. Si tratta di un'area di otto chilometri quadrati, che contiene testimonianze della dominazione araba di Palermo. Negli anni Ottanta c'erano stati scavi, ma poi il sito era stato abbandonato all'incuria, diventando in parte un parcheggio abusivo. I detenuti del carcere Pagliarelli hanno restituito questo spazio alla città e ai turisti, con le bonifiche terminate nel maggio 2014, dopo un anno di lavoro. La comunità Padre Nostro, inoltre, coinvolge circa altri trenta carcerati in lavori di pubblica utilità, come accoglienza di minori in comunità, doposcuola, trasporto disabili, assistenza di anziani. "Abbiamo anticipato tutto di tasca nostra - spiega Maurizio Artale, presidente della cooperativa - La Regione Sicilia ci deve 1,5 milioni di euro circa per le attività degli anni 2013 e 2014. Se non arriveranno questi soldi, ci affosseranno definitivamente". Giustizia: Massimo Bossetti e quelle immagini barbare rubate in galera di Astolfo Di Amato Il Garantista, 10 maggio 2015 Di Bossetti sappiamo ormai tutto. Non solo quale è stata la vita sua e di tutta la sua famiglia. Ma anche cosa pensa, come si muove, cosa fa quando si sveglia, etc. L'unica cosa che non sappiamo è se ha ucciso la povera Yara. E, anzi, più sappiamo di lui e più la verità si allontana e il suo coinvolgimento appare sempre meno giustificato. Oggi veniamo a sapere, perché addirittura trasmessi in televisione, che ci sono i video dei suoi colloqui con la moglie in carcere. Spiato, dunque, per cogliere anche i momenti più intimi della sua esistenza. Una barbarie. La quale trova spiegazione, oltre che in una evidente percezione attenuata del valore delle dignità che spetta a qualsiasi uomo, anche il più indegno, anche nella circostanza che l'accusa si scopre debole. La famosa prova di un Dna scomposto in due parti tra loro incompatibili finisce con l'essere troppo fragile; la devastazione della vita privata del muratore non ha portato risultati apprezzabili; l'esito negativo della ricerca di tracce biologiche di Yara nel furgone è diventata una prova importante a favore di Bossetti. Se, poi, dal caso di Yara si passa a guardare gli altri casi non risolti o non risolti in modo chiaro (basta citare tra gli ultimi il caso Meredith, il caso Scazzi, il caso Poggi, il caso Loris) si deve rilevare un comune denominatore: la inadeguatezza della attività investigativa. Spesso compensata da una vera e propria brutalità nell'uso della carcerazione preventiva e degli altri mezzi di costrizione e dalla pretesa di compensare l'assenza di prove con la fede nelle proprie intuizioni. In alcuni casi, leggendo le decisioni, si ha addirittura l'impressione che chi scrive la motivazione in realtà riversi sul caso, inverandole, alcune proprie pulsioni profonde, che sono sotto controllo e che la necessità di dare un senso alla condotta degli altri consente di fare emergere. Tutto questo ha una spiegazione. Il codice di procedura penale del 1989 ha dato risposta ad una antica e, per molti versi legittima, richiesta della magistratura. Quella di mettere la Polizia Giudiziaria alla diretta dipendenza delle Procure della Repubblica, in modo da evitare che poteri estranei all'ordine giudiziario potessero influire sulle indagini. È così accaduto che il Pubblico Ministero non è più solo il titolare dell'azione penale e, cioè, colui che porta avanti l'accusa, ma anche il capo degli investigatori. Mentre in precedenza riceveva dalla polizia giudiziaria una proposta di accusa e la vagliava per decidere se portarla avanti o no, oggi è colui che guida la polizia giudiziaria, ipotizza l'accusa e decide se portarla avanti. Il sistema, perciò, finisce con l'essere caratterizzato da due profili di criticità. Innanzi tutto ha perso un filtro: prima il pm operava una valutazione di correttezza e di attendibilità della attività della Polizia Giudiziaria. Oggi ne è il capo ed è il protagonista dell'indagine, con la quale si identifica. Non svolge più, dunque, quel ruolo di filtro. In secondo luogo, una attività complessa, quale quella investigativa, è stata affidata a degli incompetenti. Il magistrato è, per formazione, un giurista. Non ha, perciò, gli strumenti concettuali e le categorie logiche necessari per svolgere una attività complessa e specifica come quella investigativa. E, ciononostante, è colui che la dirige, che prende le decisioni, che ne assume la responsabilità. Si tratta di una incongruenza che non sarebbe accettata in nessun altro ambito organizzativo. È, difatti, di palmare evidenza la inadeguatezza che ne può facilmente derivare, l'incremento dei margini di errore, l'incapacità di leggere appropriatamente i fatti. Si tratta, poi, di una inadeguatezza ancora più accentuata dalla mancanza di separazione tra giudici e pubblici ministeri. Può, difatti accadere (ed accade) che un magistrato che sino al giorno prima ha prestato servizio come giudice civile, il giorno dopo si trovi a svolgere le funzioni di Pubblico Ministero ed a guidare le indagini. È facile immaginare con quanta competenza. Ecco, allora, come può spiegarsi il ricorso ossessivo a strumenti invasivi della libertà e della vita intima: forme di tortura volte ad ottenere la confessione ed a spiare, se possibile, l'anima. Ecco, ancora, come si spiega la fiducia cieca nei risultati delle indagini scientifiche. Nel momento in cui la filosofia della scienza è unanime nel ripudiare la scienza come fonte di certezze, in sede giudiziaria ci si ostina ad affidare alla scienza, ed alla sola scienza, la soluzione di molti casi. Le incertezze di questo modo di procedere sono sotto gli occhi di tutti. Ed impongono che, tra i tanti problemi che affliggono la giustizia, sia messo all'ordine del giorno anche il recupero di una professionalità investigativa a monte del processo penale. Lettere: i confini della Consulta e le priorità del governo di Romano Prodi Il Messaggero, 10 maggio 2015 Già in passato alcune sentenze della Corte Costituzionale avevano profondamente influenzato la vita sociale, politica ed economica del Paese. È sufficiente ricordare la recente dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale e le decisioni che hanno riguardato la fecondazione assistita. Tuttavia la sentenza n.70 del 2015 contiene caratteri di novità e solleva interrogativi di straordinaria importanza. Come è ben noto, essa stabilisce che la decisione, presa dal governo Monti durante l'emergenza finanziaria del 2011, di sterilizzare l'adeguamento all'inflazione delle pensioni superiori di tre volte rispetto alla pensione minima, è in contrasto con la nostra carta costituzionale. Una decisione che, dovendo essere subito applicata e non prevedendo ricorsi, esige un'immediata variazione della strategia economica del Governo, che si trova improvvisamente scoperto per una somma che, secondo le stime che corrono, non è inferiore a 15 miliardi di euro. La motivazione della sentenza è lunga ed articolata ma, nel suo significato più profondo, può essere riassunta nella frase che dice che la mancata rivalutazione, "violando il principio di proporzionalità tra "pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altererebbe il principio di "eguaglianza e ragionevolezza, causando un'irrazionale discriminazione in danno della categoria dei "pensionati". È chiaro che, con questa motivazione, la Corte si assume il compito di decidere sull'equità di una misura di politica economica anche sotto l'aspetto quantitativo, stabilendo che il multiplo di tre volte rispetto al minimo è troppo basso per garantire il rispetto della giustizia distributiva da parte di una misura che corregge pesantemente il livello delle pensioni di oltre cinque milioni di persone. Con questa decisione la Corte interviene nella discrezionalità della politica, stabilendo quali principi di proporzionalità e quali livelli di progressività delle pensioni siano compatibili con i principi fondamentali della nostra Costituzione. Da questa sentenza, di cui non metto in discussione i corretti fondamenti giuridici, viene messa in un rilievo nuovo la complessità dei rapporti fra la Corte Costituzionale da un lato e il Parlamento, il Governo e il Presidente della Repubblica dall'altro. Si aprono cioè interrogativi molto importanti per il nostro futuro, dato che questi rapporti debbono essere gestiti nell'interesse comune. Il primo problema che si pone è quello della tempestività perché una sentenza che arriva dopo tanti anni impone al legislatore correzioni appesantite da interessi ed arretrati, per cui mettere rimedio alle iniquità diventa ancora più gravoso e difficile. Altrettanto importante si presenta il problema della certezza dei dati di partenza e delle dimensioni delle correzioni che debbono essere necessariamente applicate per venire incontro alle richieste della Corte. La trasparenza dei processi decisionali diviene a questo punto un problema di importanza fondamentale anche perché sia la Corte che il legislatore debbono valutare il rischio di fare scattare pesanti procedure di infrazione da parte delle autorità europee. Nel pieno rispetto della Costituzione e della rigorosa indipendenza dei diversi organi costituzionali bisogna quindi procedere nella direzione di una necessaria cooperazione, volta a regolare i limiti e le prerogative delle fondamentali istituzioni dello Stato. Questo proprio per rispettare la critica che la Corte ha espresso nei confronti dell'esecutivo quando ha rilevato che non erano state sufficientemente motivate le ragioni economiche contingenti che sottostavano alla decisione del governo. Si apre quindi un complicato cammino per il governo che deve approvare le nuove disposizioni. Esse debbono essere in linea con le esigenze espresse dalla Corte ma, nello stesso tempo, non in contrasto rispetto alle norme dei censori di Bruxelles. Un esercizio che andrà probabilmente nella direzione di una diversa distribuzione dei pesi, chiedendo sacrifici più gravosi a coloro che godono di pensioni più elevate ed innalzando l'asticella delle esenzioni, come era stato proposto dai precedenti governi. Un esercizio possibile, anche se non sarà facile reperire le ingenti risorse necessarie per riportare i conti pubblici nel pur complicato equilibrio che esisteva prima della sentenza. Mi auguro che questo processo di correzione possa procedere in modo spedito ma in ogni caso la regolamentazione dei rapporti fra il potere esecutivo e la Corte Costituzionale resta un problema difficile e delicato. Pur essendo molto sensibile ai richiami di equità richiamati dalla Corte credo infatti che sia un compito irrinunciabile del governo interpretare il modo con cui la solidarietà si esprime in un preciso momento storico ed in una precisa situazione politica e sociale. Dovrà essere ad esempio il Governo a decidere se sia opportuno distribuire più risorse a favore del sostegno alle pensioni o dell'aiuto all'occupazione delle classi giovanili, mentre la Corte dovrà giudicare se queste difficili scelte siano messe in atto nel rispetto dei diritti fondamentali e dei principi di "eguaglianza e ragionevolezza". Nei mobili confini della vita politica non è facile definire con precisione questi diversi compiti. Mi auguro tuttavia che la maturità democratica dell'Italia sia in grado di risolvere i potenziali conflitti in modo armonico e costruttivo, come già avviene in altri Paesi. Sardegna: la denuncia del deputato Mauro Pili "70 detenuti mafiosi sbarcati ad Alghero" www.buongiornoalghero.it, 10 maggio 2015 "Un volo charter atterrato oggi ad Alghero ha portato in Sardegna 70 detenuti, a giudicare dalla segretezza dell'operazione potrebbe trattarsi di carcerati in regime di 41 bis". La denuncia di Mauro Pili, deputato di Unidos, va in onda su Facebook. Il parlamentare ed ex presidente della Regione Sardegna ha postato una serie di filmati e di fotogrammi che documentano in maniera piuttosto circostanziata quello che sta succedendo da tre ore a questa parte. "Non meno di cento posti a sedere nei pullman piccoli e grandi dell'amministrazione penitenziaria - scrive Mauro Pili - la tipologia della detenzione è coperta, ma potrebbero esserci i mafiosi insieme a detenuti extracomunitari". Secondo il reportage del politico di Iglesias, "il primo mezzo ha lasciato l'aeroporto di Alghero in direzione del carcere di Nuchis, a Tempio - riferisce Pili - mentre altri 35 detenuti sono in partenza per Cagliari". Da Uta a Nuchis, passando per Bancali, "sono state già posizionate le brande a castello". Dai video pubblicati sulla pagina Facebook di Pili, sulla 131 appare un continuo viavai di mezzi della polizia penitenziaria "diretti all'aeroporto di Alghero per caricare i detenuti". "Doveva restare tutto segreto - denuncia Pili - il governo Renzi e il Ministero della Giustizia stanno trasformando l'isola in una Cayenna, potrebbero essere centinaia i detenuti spostati dal Nord Italia in Sardegna". Per il deputato è "uno scandalo senza precedenti, l'aereo charter è stato fatto arrivare ad Alghero per depistare l'opinione pubblica, poi si sono messi in viaggio da Alghero a Cagliari pullman e mezzi di ogni genere, con costi impressionanti e uno spreco di risorse incredibile". Calabria: Bonofiglio (Centro Studi su illegalità) "istituire Garante regionale dei detenuti" Il Velino, 10 maggio 2015 Il Garante dei detenuti esiste in ben 23 paesi dell'Unione europea. Nella Regione Sicilia è stato istituito nel 2005 ed è previsto anche sul piano nazionale da una apposita legge. Sul piano storico nasce in Svezia, paese da sempre all'avanguardia sul piano dei diritti civili, addirittura nel lontanissimo 1809 ed innumerevoli sono le figure dei garanti per i detenuti che sono state istituite sul territorio nazionale nell'ambito regionale, provinciale ed in molti casi anche comunale. Con ambiti e funzioni ben definite in Calabria deve essere colmata tale evidente lacuna considerando le tante situazioni allarmanti vissute quotidianamente nei penitenziari calabresi. A tal proposito il responsabile del Centro studi regionale sull'illegalità, Gianfranco Bonofiglio, già responsabile negli anni passati dell'Osservatorio sulla trasparenza e legalità della Provincia di Cosenza, rivolge un appello al governatore Mario Oliverio affinché possa promuovere quanto necessario per l'istituzione della figura del Garante dei detenuti. In tal senso verrà promossa anche un'apposita raccolta di firme aperta anche alle associazioni impegnate nel fronte dello sviluppo della cultura per la legalità. "Il tanto auspicato nuovo corso della Regione Calabria - ha dichiarato Bonofiglio - passa anche attraverso iniziative mirate a colmare dei vuoti che non possono e non meritano di essere ulteriormente trascurati e sottovalutati". Parma: la Garante; servono più opportunità di lavoro per chi ha lunghe pene da scontare Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2015 Sono 63 i detenuti nel carcere di Parma attualmente sottoposti al regime di 41bis, il cosiddetto "carcere duro" che si applica per reati come l'associazione mafiosa oppure per crimini con finalità terroristica, e a questi si aggiungono altre 189 persone nel circuito differenziato dell'alta sicurezza. A renderlo noto la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, che dopo la visita della scorsa settimana, in cui ha anche incontrato il nuovo direttore Carlo Berdini, coglie l'occasione per delineare la situazione della struttura. A fronte di una capienza tollerabile di 652 persone, nell'istituto di pena se ne trovano al momento 53: si può quindi considerare superata l'emergenza sovraffollamento, in una struttura che al 31 dicembre 2013 contava quasi 170 detenuti in esubero. Non si fermano in ogni caso, riferisce la Garante, i lavori inseriti nel Piano carceri nazionale, che prevede la costruzione di un nuovo padiglione per ulteriori 200 posti. Tra le migliorie in programma, la direzione intende anche portare avanti "la riqualificazione dell'area verde da utilizzare per i colloqui con i familiari durante il periodo estivo e la riorganizzazione dello spazio per l'accoglienza dei figli minori". Dei 370 condannati in via definitiva, 80 sono ergastolani, e anche per questo motivo, spiega Bruno, "è emerso, da parte della nuova direzione, l'intendimento di valutare l'opportunità di un incremento delle attività lavorative, con particolare riguardo a coloro che hanno lunghe pene da scontare, sfruttando gli spazi presenti della struttura penitenziaria inutilizzati, anche con l'eventuale coinvolgimento della società esterna". Solo 8 detenuti, infatti, sono al momento autorizzati a lavorare all'esterno. Secondo la Garante, "la complessità degli istituti di Parma è legata alla presenza di rilevanti criticità sanitarie": nella struttura infatti ha sede uno dei Centri diagnostici e terapeutici dove l'amministrazione penitenziaria assegna, anche con provenienza extraregionale, i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso. Al momento sono 28 i pazienti in carico, a cui si devono aggiungere 9 tetraplegici detenuti nella struttura. Risulta però costante la totale copertura dei posti disponibili: di conseguenza un numero eccessivo di detenuti affetti da gravi patologie, in ragione dei posti limitati a disposizione, viene collocata nelle ordinarie sezioni detentive (ambienti inidonei per una persona malata) nell'attesa, spesso lunga, che si liberi un posto. Da un lato quindi si sono verificate difficoltà a sottoporre i detenuti ad esami specialistici all'esterno, dall'altro la crescente promiscuità determinata dalla convivenza di persone sane e malate ha fatto lamentare ai detenuti coinvolti un netto peggioramento delle condizioni di vita complessive. Nonostante ciò, riporta la Garante, persiste la prassi di trasferimenti e di assegnazioni per motivi di salute, giustificati per assicurare cure più adeguate al detenuto rispetto al carcere di provenienza, ma senza che preventivamente sia valutata l'effettiva sostenibilità della presa in carico nel breve periodo. Al nuovo direttore, la Garante è tornata a segnalare le condizioni della sezione Iride, destinata anche a ospitare i detenuti in isolamento disciplinare ai quali viene applicato un regime di particolare rigore. Per tutta la durata della sanzione disciplinare i detenuti permangono in celle senza suppellettili: non sono presenti né uno scrittoio né la televisione e nemmeno una sedia, fornita solo al momento dei pasti, e anche l'armadietto con gli indumenti è posizionato nel corridoio all'esterno della cella, con il detenuto che, se vuole cambiarsi, ha bisogno quindi di chiedere all'operatore penitenziario. Inoltre, manca una porta che separi la camera di pernottamento dal bagno con la turca. "È una rigidità, quella delle attuali restrizioni, che configura profili di scarsa proporzionalità rispetto agli obiettivi per cui viene irrogata la sanzione disciplinare - conclude Bruno - non ravvisandosi un congruo contemperamento fra esigenze di sicurezza e tutela dell'equilibrio psico-fisico delle persone". Al termine dell'incontro con la direzione la Garante ha incontrato personalmente una decina di detenuti, ristretti presso l'Istituto di Parma, che ne avevano fatta richiesta. Teramo: calano suicidi e proteste nel carcere strapieno, nel 2014 sono entrati 888 detenuti Il Centro, 10 maggio 2015 Calano i suicidi e i tentati suicidi tra i detenuti del carcere teramano di Castrogno (uno solo nel 2014 e 8 tentati rispetto ai 16 del 2012) e diminuiscono anche le iniziative di protesta (dimezzate quelle individuali, da 72 del 2013 a 46, ma soprattutto collettive, da 10 dell'anno precedente a 3): sono questi alcuni dei risultati sottolineati da Igor De Amicis, vice comandante degli agenti di polizia penitenziaria di Teramo, che ieri ha celebrato l'annuale festa del corpo. De Amicis ne ha attribuito il merito al ruolo degli agenti in sevizio nel penitenziario teramano, nonostante le notevoli difficoltà numeriche. "Un trend positivo", ha detto, "nonostante problemi e difficoltà di una struttura come quella teramana di notevole complessità e problematicità. Ciò è ascrivibile al comportamento e alla professionalità della Polizia penitenziaria, dimostrati sia nella ordinaria amministrazione che nella gestione delle sezioni più complesse". In calo anche i gesti di autolesionismo (da 63 a 37) e le aggressioni e ferimenti (da 35 a 21). Castrogno resta uno dei carceri più sovraffollati della regione: l'anno scorso sono entrati 888 detenuti. Il personale del nucleo, ha assicurato 1.215 traduzioni 1.780 detenuti tradotti. Complessivamente sono state effettuate 6 perquisizioni straordinarie nelle camere di pernottamento per motivi di sicurezza e ben 2.651 ordinarie, con 226 procedimenti disciplinari a carico dei detenuti. Trend positivo confermato anche dal direttore della struttura Stefano Liberatore. "Siamo sulla buona via per contenere sia il sovraffollamento", ha detto, "che garantire gli spazi vitali per i detenuti; le innovazioni normative poi hanno prodotto un mutamento sostanziale nel sistema penitenziario e si prevede che attraverso questi rimedi sia stata tracciata una linea di gestione del trattamento penitenziario più conforme alle esigenze di umanità e di rieducazione". Nel corso della manifestazione di ieri sono state assegnate le onorificenze al vice commissario de Amicis, all'ispettore capo Antonio Murrone, agli assistenti capo Raffaele La Torre, Letizia Armaroli, Iole Altana, Massimo Trosini, Silvio Serafini, Osvaldo Restauri, Pasquale Tarli, agli ispettori capo Antonio Murrone e Giuseppe Pallini, al sovrintendente Orazio Nocente, all'ispettore superiore sostituto commissario Robertino Salemme. Trapani: la denuncia della senatrice Orrù "carcere sovraffollato e pochi servizi sanitari" di Margherita Leggio La Sicilia, 10 maggio 2015 Sovraffollata, carente di personale, mancante di alcuni servizi sanitari che costringono a ricoveri o visite ambulatoriali esterne e con una struttura in generale degrado e con problemi igienico-sanitari sia per i detenuti sia per gli agenti penitenziari: è il quadro che viene tracciato del carcere San Giuliano in una interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia e della quale è prima firmataria la senatrice Pamela Orrù che 8 mesi fa aveva visitato la struttura con l'on. Roberto Giachetti. L'interrogazione, con la quale si chiedono al ministro quali azioni intende avviare per accertare le condizioni strutturali del carcere e di vita del personale impiegato, segue il sopralluogo del 23 aprile dal sindacato Uil-pa che ha documentato con foto lo stato di precarietà di alcune aree del carcere non più idonee alla detenzione e al lavoro dei poliziotti penitenziari. Nell'interrogazione, che ne segue una analoga del sen. Vincenzo Santangelo del M5S, si rileva che il carcere è stato progettato nel 1949 e inaugurato il 30 maggio 1965. Ha una capienza di 358 posti "ma alla data del 31 luglio 2014 risultavano presenti 495 detenuti che a seguito di un sopralluogo effettuato dalla Uil-pa sarebbero 420". Parma: i detenuti preparano il "Pane di padre Lino" per i poveri La Repubblica, 10 maggio 2015 La produzione è affidata a dodici reclusi con pene che arrivano anche all'ergastolo. Lunedì la presentazione dell'iniziativa. I detenuti preparano il "Pane di padre Lino" per i poveri. I Frati dell'Annunziata di Parma, il Direttore degli Istituti penitenziari di Parma dr. Carlo Berdini e il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri nelle scorse settimane hanno collaborato per la realizzazione di un progetto nato dal desiderio dei detenuti del circuito detentivo dell'Alta Sicurezza di partecipare alla vita comunitaria della città di Parma dedicandosi una volta alla settimana alla preparazione di pane e prodotti da forno che saranno destinati alla Mensa di Padre Lino. I detenuti che hanno presentato la loro proposta al cappellano del carcere Fratel Giovanni Mascarucci lavoreranno a titolo volontario e produrranno prodotti da forno che i volontari della Mensa di Padre Lino trasporteranno ogni mercoledì alla mensa dei poveri in Strada Imbriani. Qui, tra i borghi dell'Oltretorrente, in mezzo alla povera gente, ha trovato "sfogo" la santità di Padre Lino e oggi tutti, a Parma, conoscono la mensa a lui dedicata nella quale, quotidianamente, vengono accolti per il pranzo oltre 150 persone indigenti delle quali alcune, poi, vengono ospitate dai Frati, che hanno attrezzato un'ala del convento proprio per la prima accoglienza. L'inaugurazione del progetto coincide con la celebrazione della settimana dedicata a Padre Lino e i Frati dell'Annunziata hanno voluto dare concreta forma al desiderio dei detenuti coinvolgendo la Direzione del carcere ed il Garante dei detenuti del Comune di Parma con i quali si sono condivisi le finalità dell'iniziativa. I l Frate di Parma Padre Lino è stato per oltre 10 anni cappellano dell'antico carcere ‘San Francescò, in centro città. Il Francescano è Venerabile e si sta attendendo un miracolo per avviare il suo processo di beatificazione. Padre Lino ha potuto farsi carico della condizione dei detenuti perché, intelligentemente, ha collaborato con la Direzione del Carcere di allora e le Istituzioni della Città, da solo avrebbe potuto far poco! Su questa indicazione Fr. Andrea Grossi, Superiore dei Frati dell'Annunziata, ha accolto con gioia ed emozione questa iniziativa come un segno dal cielo in questi tempi difficili. L'attività del pane dei detenuti per la Mensa padre Lino, è un'autentica azione gratuita di solidarietà di chi, come i poveri della Città, conosce l'indigenza non chiusa in se stessa, sterile e apatica, ma aperta alla condivisione e che vuole essere un eloquente segno di sostegno per quella rete di solidarietà che il Comune, la Chiesa e tante Associazioni portano avanti per costruire insieme, a Parma, una città in cui nessuno si senta solo e abbandonato. La produzione del pane sarà realizzata da 12 detenuti con pene anche dell'ergastolo che si sono impegnati a operare gratuitamente a favore dei più poveri della città, un gesto di testimonianza erestituzione che vuole dare vita ad un collegamento tra carcere e città nella speranza che questo diventi sempre più saldo e forte. L'iniziativa sarà presentata alle autorità il prossimo 11 maggio nel corso di un incontro che si terrà presso il carcere. Ivrea (To): Sappe; detenuto dà fuoco alla cella, una decina di agenti intossicati Ansa, 10 maggio 2015 Un incendio è divampato nel pomeriggio all'interno del carcere di Ivrea, nel Torinese. Ad appiccarlo un detenuto marocchino, che per protesta ha dato fuoco alla sua cella. Una decina gli agenti di polizia penitenziaria intervenuti per mettere in salvo i detenuti e spegnere le fiamme. Lo rende noto il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, che in una nota parla di "momenti di grande tensione e pericolo". L'episodio, aggiunge il segretario generale del sindacato, Donato Capece, è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività". Torino: Sappe; sventata evasione dal carcere Lorusso-Cutugno di detenuta per stalking www.grnet.it, 10 maggio 2015 Ha tentato di evadere dal carcere di Torino Lorusso-Cutugno ma è stata prontamente acciuffata dai poliziotti penitenziari, che sono però rimasti contusi nelle fasi concitate dell'evento critico. È accaduto ieri pomeriggio a Torino, protagonista una detenuta italiana - B.R.T., ex infermiera, ristretta per il reato di stalking. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Racconta Donato Capece, segretario generale del Sappe: "L'episodio è accaduto ieri verso le 13, durante l'ora d'aria. Nel cortile la detenuta ha tentato di fuggire ma le poliziotte, che si sono accorte del suo intento, l'hanno prontamente bloccata. Detenuta e 4 poliziotte sono rimaste ferite nella concitazione ma solo grazie alla professionalità del personale di Polizia Penitenziaria veniva bloccata la donna. Grazie all'attenzione e alla professionalità dei Baschi Azzurri, dunque, una clamorosa evasione è stata sventata in tempo". Il Sappe, con il Segretario Regionale del Piemonte Vicente Santilli, denuncia come "l'episodio è accaduto proprio nel giorno dedicato alla Festa della Polizia Penitenziaria e dimostra che da festeggiare c'è ben poco. Quelli di ieri nel carcere di Torino sono stati momenti di grande tensione e la possibile evasione è stata sventata dall'ottimo intervento delle agenti di Polizia Penitenziaria. Avevamo denunciato nelle scorse settimane che il numero degli eventi critici accaduti nei penitenziari piemontesi è costante E la clamorosa tentata evasione sventata in tempo dalla Polizia Penitenziaria ne è la conferma più evidente". Biella: detenuti fuori dal carcere per il torneo di calcio a cinque "Ricominciare" La Provincia di Biella, 10 maggio 2015 Torna oggi il popolarissimo torneo organizzato dall'associazione Gufo Re. È arrivato all'undicesima edizione il torneo di calcio a cinque "Ricominciare", organizzato dal Ministero della Giustizia in collaborazione con l'associazione "Gufo Re". L'evento si svolgerà oggi pomeriggio dalle 14 alle 19 al Palazzetto dello Sport di Biella di via Pajetta. L'iniziativa prevede un'unica partita giocata tra detenuti ed una rappresentativa della città di Biella. A seguire si disputerà anche un quadrangolare di giovani "pulcini". La squadra che proviene dal carcere è composta da dodici giocatori dodici individuati attraverso una valutazione del G.O.T. con una preventiva verifica dei requisiti che consentono la fruizione di benefici premiali e secondo criteri di affidabilità e merito dei soggetti. I detenuti usciranno previa concessione da parte del magistrato di sorveglianza di permessi premiali orari con scorta o con variazioni temporanee al programma di trattamento (ex art. 21 O.P.). Le premiazioni dell'evento, che ha una forte risonanza sul territorio e un impatto positivo che mette in luce l'istituto penitenziario come parte integrante della città, sono previste per le 17. Libri: "Cattivi", carceri formato matriosca recensione di Luigi Manconi Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2015 Il romanzo di Maurizio Torchio "Cattivi" ci rende partecipi della mostruosa condizione dei detenuti, ridotti a "nuda vita". Il carcere è il luogo della nostra organizzazione collettiva dove più alta è la percentuale di analfabeti e di analfabeti di ritorno. Allo stesso tempo, è il luogo dove la miseria sociale e culturale può giungere ad attivare le strategie più tenaci di resistenza e di emancipazione, affidate a faticosi processi di formazione e di autoformazione. In genere percorsi individuali, perseguiti attraverso la ricerca dolorosa di spazi propri e personali, all'interno di una dimensione congestionata e affollata. E affollamento non è quello che si crede abitualmente. Non è la proiezione concentrazionaria di una spiaggia del litorale romagnolo a ferragosto. È, piuttosto, la promiscuità fisica e mentale e, per così dire, spirituale. È l'addensarsi impudico di corpi e il mescolarsi soffocante di fiati odori umori, che realizzano una sorta di spoliazione della personalità, ridotta alla mera dimensione fisica (la "nuda vita"). Qui, in questo abisso - dove in due metri quadrati trovano posto il water, la doccia, il fornello e il cibo - davvero ci si può perdere, scoprendo di essere niente più che le proprie elementari funzioni biologiche. Oppure, toccato il fondo, ci si può salvare perché si rintraccia il nocciolo essenziale di se stessi. Quel fondamento irriducibile della persona ha bisogno di una voce per parlare, dentro il frastuono assordante e ottundente di un ossessivo accalcarsi. Talvolta la scrittura soccorre. Proprio li la scrittura, a confronto con l'essenzialità dell'individuo spossessato di tutto, può essere la forma altrettanto essenziale della sopravvivenza: una forma scarnificata e ridotta all'osso, com'è nelle esercitazioni letterarie di molti detenuti (va ricordato che all'interno delle carceri italiane, in quella povertà assoluta, si tengono decine di corsi di scrittura creativa). Nel romanzo Cattivi, Maurizio Torchio, che detenuto non è e non è stato, non ricorre al meccanismo della finzione artistica, né a una spericolata procedura di immedesimazione. Il suo io narrante conserva il connotato dell'essenzialità - dire ciò che si deve dire, nell'esatto modo di dire - in virtù di un timbro letterario particolarmente nitido. E ciò dentro una concezione del mondo e del mondo prigioniero che rivela una sua ispirazione classica. Non a caso, il libro si apre con una citazione della Politica di Aristotele: "chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza o è bestia o dio". Mentre il filosofo greco descriveva il funzionamento delle comunità organizzate e indagava oneri e diritti della cittadinanza, Torchio raccoglie da terra ciò che Aristotele aveva scartato. E lo visita: palmo a palmo. Gli uomini che non sono "parte dello stato" li trova oggi rinchiusi dentro le mura di un carcere e dentro i confini di un'isola. Essi sono non solo fuori dalla collettività dei cittadini ma, per cosi due, si trovano al limite dell'umanità stessa: bestie o dèi Delle bestie hanno il richiamo continuo e feroce ai bisogni del corpo, l'assoggettamento doloroso alle necessità che non danno loro tregua. E che li richiamano, nonostante tutto, alla vita. I loro corpi sono "rubinetti che perdono": perdono linfa ogni giorno, perdono denti, perdono colore dalle guance, perdono peso, perdono ogni accenno di cura e di bellezza. Ma questi avanzi di uomini hanno anche qualcosa degli dei: dei lontani e "impotenti" che non possono fare nulla della propria o dell'altrui vita. Eppure "dei pericolosi, perché criminali". Trovarsi al di là o al di qua del muro è un attimo, un inciampo nella vita, come uno scatto fotografico mal riuscito: "un istante dà il nome a tutta la tua vita. Ma chiunque ne esce male, a ricordarlo soltanto per la cosa peggiore che ha fatto". Il libro di Torchio è cosi vero non perché riesce a comunicare una verità anche sociologica, ma perché il suo vigore narrativo trasforma l'esattezza della descrizione in un'emozione capace di deflagrare nell'intelligenza e nel cuore del lettore. Torchio va dritto alla carne, realizzando un contatto quasi fisico con il carcere, senza guanti di lattice. E qui sta la potenza della sua scrittura: la letteratura, com'è sempre negli scrittori di valore, non anestetizza il dolore. Ce lo restituisce in tutta la sua violenza, in un libro dove il corpo è, allo stesso tempo, contenuto e forma espressiva. Materia del racconto e strumento del racconto. Libri: "Accogliamoli tutti", la vita è un diritto universale recensione di Maurizio Maggiani Il Secolo XIX, 10 maggio 2015 Sono andato nei giorni scorsi alla presentazione di un libro; cosa rara, rarissima, evito le presentazioni librarie come la peste, comprese le mie. Ma il libro che si presentava, un pamphlet denunciava l'invito, trattava di un argomento scottante e portava un titolo agghiacciante: "Accogliamoli tutti". Nientemeno. A esporsi al pubblico linciaggio con una certa qual provocatoria aria di mite fermezza i due autori; Luigi Manconi e Valentina Brinis. Conosco il primo, è un senatore della Repubblica, gruppo Pd, presidente della Commissione tutela Diritti umani, fondatore dell'associazione "A Buon Diritto", a cui ho affidato il mio testamento biologico in attesa che uno straccio di legge in proposito me lo faccia consegnare nelle mani dello Stato. A dirla tutta non conosco il senatore Manconi solo per le sue encomiabili azioni e intraprese etiche, ma anche, direi preminentemente se non me ne vergognassi, per quel nostro vizietto comune di intestardirsi dietro alle canzonette (alla Musica che è Leggera, per citare un suo aureo volume di qualche anno fa), che lo ha portato nel corso dei decenni a sfidarmi sul duro terreno di chi ne sa di più e le sa meglio. Magari lui di canzonette ne sa anche più di me, ma io le canto meglio, questo è un fatto. Ma lasciamo stare i vizi e passiamo alle virtù. In questo "Accogliamoli tutti" i due autori si servono di dati puramente materiali, e statistici, per dimostrare che l'accoglienza dei migranti non solo è un peso sostenibile, ma vantaggioso. Vantaggioso per l'economia e la stabilità della comunità che li accoglie. Evitano di porre questioni inerenti il volontarismo etico e gli imperativi morali, che tanto da quell'orecchio non ci sente quasi più nessuno, singoli che siano o istituzioni locali, nazionali, transnazionali. Insomma, è possibile una politica di accoglienza e integrazione a puro fine egoistico. Naturalmente una politica intelligente e previdente e accorta, la qual cosa ora come ora semplicemente non esiste, comunque non in questo Paese. Anche se, vedi un po', le comunità locali, le più periferiche, stanno dando prova di pensarci e di cominciare a metterle in pratica idee intelligenti, previdenti e accorte. Per chi ne avesse voglia, dare un'occhiata sul net a quello che succede in questi giorni a Fabbriche di Vergemoli, sperdutissimo comune di 700 anime nel folto della Lucchesia che ospita 20 richiedenti asilo. Ma qualcuno ne ha voglia? C'è qualcuno che ha voglia di comprarsi il libretto di Manconi e Brinis per vedere se sono davvero fuori di testa o magari dicono qualcosa su cui star su a pensarci un attimo? Mah. Il libretto è vecchio, ha un anno e più. Nel frattempo le cose vanno di male in peggio, giorno per giorno, i morti che ingombrano il mare ormai si contano pro forma. Una signora ieri al banco del pesce si chiedeva, lo giuro, se con tutti quei morti qualche pezzetto non se lo fossero mangiato i pesci che stava per comprare e cuocere. I suoi erano interrogativi di natura più igienica che etica. Il senatore Manconi e la sua commissione non se ne sono stati con le mani in mano e hanno prodotto proposte, ad esempio i corridoi umanitari, che non se le fila nessuno, a parte la Comunità di Sant'Egidio e le chiese Valdesi. Sono proposte talmente sensate che escono fuori tra i denti anche dalle bocche di ministri italiani e esteri, persino da membri della Commissione Europea, ma restano lì, nell'aria. Pare che nessuno che ne abbia potestà si possa assumere la responsabilità di azioni sensate essendo, o sentendosi, ostaggio dell'insensatezza dei suoi elettori. L'idea che va per la maggiore è di affondare le imbarcazioni coinvolte nel trasporto dei migranti. Come a dire che, preso atto dello sterminio dei lager nazisti, gli alleati avessero programmato di bombardare i treni adibiti alla deportazione. O una serie di omicidi mirati per far fuori i macchinisti. A tal proposito, vorrei far ricordare che i lager non furono inizialmente costruiti da Hitler per gli ebrei, non fino a che la sua idea di "soluzione" della questione ebraica rimase quella dell'allontanamento, cacciarli via dal suolo tedesco. Idea che ebbe un insuccesso clamoroso perché quella gente non la volle nessuno, e i casi di respingimento di massa sono da dividersi equamente tra tutti i paesi che poi si costituirono in possente fronte democratico. Così Hitler passò ad altra soluzione, come sappiamo. Questo si parva licet, naturalmente, se gli uomini sono tutti quanti uguali agli occhi del creatore e degli uomini, dovrebbe dirci qualcosa anche oggi. E allora voglio porre la più antipatica delle domande, quella a cui è più incomodo rispondere, quella che pone Manconi e la sua commissione Diritti Umani senza avere risposta. Siamo noi l'umanità che può ancora permettersi il lusso di pensare con fede sincera che a prescindere - attenzione: a prescindere - da qualsiasi considerazione sociale, religiosa, economica, tutti gli uomini abbiano diritto in quanto semplicemente umani alla vita e alla dignità della vita? E che è dovere di ogni umano agire perché questo diritto sia salvaguardato? Sono ormai duecento anni che periodicamente i più alti consessi sanciscono questo principio con grande solennità e sfarzo letterario, ma ne resta qualcosa nelle nostre menti, nei nostri cuori? Chi ci crede ancora che quel negro ivoriano, per non parlare di quello zingaro ladro e bugiardo, appartenga allo stesso mio genere? Per nascita, non per merito. Che il diritto alla condizione umana non sia come il diritto al voto o alla pensione, che vanno guadagnati, ma che appartiene al sé per sé, a prescindere da tutto il resto. Con quello che ne consegue. Immigrazione: Mattarella "basta egoismi, l'Italia chiede alla Ue un impegno comune" di Paolo Foschini Corriere della Sera, 10 maggio 2015 "Ci vuole meno egoismo per affrontare in modo positivo il dramma delle migrazioni". La frase del presidente della Repubblica Sergio Mattarella fa rumore nel giorno della Festa dell'Europa, che celebra i 65 anni dalla dichiarazione di Robert Schumann grazie alla quale il 9 maggio 1950 si aprì la strada dell'integrazione nel nostro continente. L'Italia chiede alla Unione Europea un impegno comune per risolvere il dramma profughi. "È una vergogna che l'Europa si svegli solo di fronte ai morti", dice l'Alto rappresentante Affari esteri dell'Unione Europea Federica Mogherini: e gli oltre mille liceali venuti ad ascoltarla nell'Auditurium dell'Expo applaudono. "Senza una maggiore solidarietà tra gli Stati membri - aggiunge accanto a lei il presidente dell'Europarlamento Martin Schulz - il problema dei rifugiati non potrà essere risolto": e i ragazzi applaudono di nuovo. "Ci vuole meno egoismo", sintetizza da Roma il presidente Sergio Mattarella. Questo mentre il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, aveva già detto agli europarlamentari: "Ne ho abbastanza di parole, proporrò una ricollocazione" dei migranti "in tutta l'Unione". Con un "sistema di quote", aveva precisato. Così a 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e a 65 dalla dichiarazione di Robert Schumann che il 9 maggio 1950 aprì la strada all'integrazione europea, celebrata ieri con la Festa dell'Europa, il dramma dei migranti e le sfide su fame e lavoro hanno innescato in una misura mai toccata finora una serie di moniti dell'Europa non solo a se stessa ma ai governi dei Paesi che la compongono. Da parte dei suoi massimi rappresentanti. I primi sono stati appunto all'Expo di Milano, dove nell'Europe Day di ieri si inaugurava il Padiglione Ue, Schulz e Mogherini. "Da oltre vent'anni in Europa - esordisce il presidente dell'Europarlamento - si discute di immigrazione, gli immigrati sono sempre di più ma la politica è ferma. La colpa non è dell'Europa ma dei governi degli Stati membri, che non vogliono assumersi responsabilità. Manca il senso di solidarietà. Metà dei rifugiati viene accolta da Italia, Svezia e Germania, il 90 per cento si dirige complessivamente in nove Paesi. Ma gli Stati membri sono 28 e le responsabilità devono dividerle. Pensare di farcela da soli è da perdenti. Quindi ai cittadini europei dico: non chiedetevi che cosa fa l'Europa per l'immigrazione, ma che cosa sta facendo il vostro governo. E quello italiano sta già facendo moltissimo". L'Alto rappresentante nonché vicepresidente della Commissione Ue Mogherini in effetti rivendica la "risposta comune" data con la "decisione di triplicare la missione Triton quando fino a una settimana fa sembrava impossibile anche solo mantenerla". Determinanti, dice, saranno i prossimi appuntamenti: a cominciare da quello di domani quando sarà "a New York per informare il Consiglio di Sicurezza dell'Onu" sul traffico dei migranti nel Mediterraneo. Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, dopo un colloquio a Mosca con il suo omologo Sergej Lavrov dice che su questo anche la Russia sarebbe disposta a collaborare. E Mogherini, ancora, dirigendosi al padiglione di Save the Children: "Ci auguriamo che l'agenda per l'immigrazione che presenteremo mercoledì a Bruxelles con la Commissione europea e poi la riunione dei ministri degli Esteri e della Difesa di lunedì 18 maggio possano prendere decisioni importanti". La portavoce di Juncker, Natasha Bertaud, dice che "il presidente crede fortemente" in un "meccanismo doppio di quote". E precisa che "ci saranno ancora riunioni e cambiamenti", ma che "mercoledì avremo un testo finale". Anche il capo dello Stato, Sergio Mattarella, nella sua dichiarazione in memoria di Schumann parla di solidarietà e dice che "ci vuole meno egoismo per dare ai nostri giovani europei una prospettiva di lavoro", ma anche "meno egoismo per affrontare in modo positivo il dramma delle migrazioni" e "meno egoismo per svolgere un ruolo efficace di pace in Africa e nel Medio Oriente". Sullo stesso tema anche la dichiarazione congiunta dei presidenti emeriti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano: "L'Europa, per crescere economicamente e progredire socialmente, non ha altra strada che quella di una sempre più stretta integrazione. E di una sempre più stretta unione in senso politico tra i suoi Stati e i suoi popoli". Droghe: la falce del governo taglia la marijuana terapeutica di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 maggio 2015 Rischio chiusura per l'unico centro abilitato alla sperimentazione. Nella tagliola della spending review il 50% dei centri di ricerca agricola. Il ministro: "La decisione non è definitiva". Nemmeno il tempo di ottenere il primo raccolto, e la produzione italiana di cannabis terapeutica è già in fase di declino. Con buona pace delle 11 Regioni che hanno già approvato una legge per garantire ad un gran numero di pazienti la gratuità dei farmaci a base di Thc. Il primo passo è stato siglato venerdì sera con la nota ufficiale del commissario nominato dal ministero delle Politiche agricole recapitata al Cra-Cin (l'ente pubblico di ricerca e sperimentazione in agricoltura e per le colture industriali) di Rovigo per annunciarne la chiusura, a causa dei tagli imposti dalla spending review avviata ad ottobre scorso dal governo Renzi. Il centro di ricerca rodigino è l'unico luogo in Italia dove la marijuana può crescere legalmente perché la coltivazione avviene a scopo scientifico, ed è da lì che provengono le piantine fornite allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, dove da ottobre 2014 è stata avviata - con grande enfasi dei ministri Lorenzin e Pinotti - la produzione sperimentale del primo farmaco italiano equivalente al Bediol, attualmente importato dall'Olanda per le centinaia di pazienti italiani (si stima il 5% della popolazione) che ne hanno bisogno. Quella di Rovigo è una delle sedi del Cra da tagliare, secondo il "piano triennale per il rilancio e la razionalizzazione delle attività di ricerca e sperimentazione in agricoltura" a cui sta lavorando il commissario ad hoc Salvatore Parlato, nominato appena pochi mesi fa, proprio mentre si inaugura l'Expo e si punta al "rilancio dell'agricoltura italiana". Al ministero dell'Agricoltura, però, tengono a puntualizzare che il problema delle "articolazioni territoriali" del Cra - che secondo il piano andrebbero ridotte di "almeno il 50%", insieme alle spese correnti dell'ente da tagliare di "almeno il 10%" - sta "nell'inadeguatezza degli immobili rispetto agli obiettivi della ricerca". Comunque, assicurano le fonti di via XX Settembre, "la proposta del commissario non è ancora stata approvata dal ministro". E "in ogni caso, il know how dei centri di ricerca non andrà perso". E invece Gianpaolo Grassi, primo ricercatore del Cra di Rovigo, "un centro che ha cento anni di storia, fondato nel 1912 dall'agronomo Ottavio Munerati", è preoccupato: "Così salta la sperimentazione italiana della cannabis terapeutica perché lo stabilimento di Firenze, che è l'unico autorizzato a trasformare la pianta in farmaco, non avrà un secondo raccolto, dopo il primo previsto per il prossimo giugno e ottenuto con le 80 piantine selezionate da noi in dieci anni di studi". "Purtroppo non abbiamo avuto l'autorizzazione a produrre noi direttamente il farmaco, malgrado ne abbiamo il know how. Abbiamo invece dovuto istruire i tecnici dello Stabilimento militare di Firenze". Nel centro di Rovigo, sede distaccata del Cra di Bologna, uno staff di nove persone tra ricercatori, tecnici, amministrativi e agricoltori lavora "su un campo sperimentale di 60 ettari, serre e laboratori per un investimento complessivo di 2 milioni di euro - riferisce Grassi - ma se lo dovessimo costruire oggi costerebbe almeno 3 milioni". Ovviamente non lavorano solo sulla canapa: è in capo a loro, per esempio, il servizio di certificazione sementi. Ma l'istituto veneto è diventato un centro di rilevanza internazionale nello studio della canapa indica con o senza Thc. "Dovrebbero rafforzare il programma, invece di ridurlo - conclude Grassi - Nello stabilimento di Firenze è prevista una produzione, a pieno regime, di cento chili l'anno, che equivale al fabbisogno di un centinaio di pazienti, non di più. E invece, tanto per fare un esempio, solo nell'unità antalgica dell'ospedale pubblico di Pisa, il dottor Paolo Poli che lo dirige nell'ultimo anno ha trattato con farmaci a base di cannabis 500 pazienti, e il numero è in crescita". D'altronde, è difficile emanciparsi totalmente dalla cultura proibizionista - da noi imperante e nel resto dell'occidente ormai quasi residuale - che ha finito per rendere la marijuana la pianta più demonizzata in Italia. Come denuncia da tempo la segretaria dei Radicali italiani, Rita Bernardini, mostrando urbi et orbi le "cinquanta piante di marijuana che ho sul terrazzo ma nessuno mi arresta, mentre le carceri sono piene di persone che hanno fatto, in questo campo, molto meno di me". Droghe: Million Marijuana March, a Roma per il diritto alla coltivazione di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 10 maggio 2015 La richiesta è solo una: "Ribadire per malati e consumatori il diritto a coltivare una pianta". Dopo 8 anni di Fini-Giovanardi dove esisteva "l'istigazione al consumo", che ha portato addirittura i festival (vedi il "reggettaro" Rototom ad abbandonare l'Italia), la 15esima edizione italiana della Million Marijuana March diventa stanziale. Dentro Roma, alla Città dell'altra economia, ieri dalle 13 a notte diverse migliaia di persone sono scese in strada per dire no al proibizionismo, per ribadire il diritto alla coltivazione di un pianta. Una legge infatti, per l'appunto la Fini-Giovanardi, considerata la più proibizionista d'Europa, approvata nel 2006 inserita abilmente nel decreto sulle Olimpiadi invernali di Torino del 2006, per poi essere approvata a Camere sciolte e con doppio voto di fiducia dal terzo governo Berlusconi, è stata dichiarata incostituzionale nel febbraio del 2014. "È trascorso un anno da quando i giudici hanno messo nero su bianco questa cosa - spiegano gli organizzatori - e in carcere tuttora restano migliaia di persone che sono state condannate in base a una legge non più in vigore". È così in molte città, dove soltanto con l'intervento di un avvocato il procedimento viene avviato. "In Italia non siamo tutti uguali davanti alla legge", denunciano i promotori. La norma in questione, prevedeva ad esempio l'inversione dell'onere della prova, in pratica il dover dimostrare di non essere uno spacciatore ma un consumatore. Dopo aver letto quella parte si dice che nei palazzi del potere europeo siano saltati dalle sedie. "Con quella legge - continua la rete italiana antiproibizionista che ogni anno organizza questo evento - l'Italia si era posta al di fuori persino dei pilastri europei in materia, che prevedono politiche di riduzione del danno e soprattutto del rischio. In pratica quelle che servono a tutelare la salute delle persone". Momenti di tensione si sono registrati con i venditori abusivi. Suscitando diverse polemiche quest'anno anche l'edizione italiana era diventata un happening stanziale, in un'area pubblica, abbandonando la manifestazione in stile "street parade". Una scelta analoga era stata fatta da tempo in altre parti del mondo (oggi la stessa manifestazione si è svolta in quasi 700 città). Gli organizzatori ci tengono a dire "sarà così, almeno per ora". Il motivo lo si è visto poche ore dopo l'inizio dell'iniziativa. Quando i venditori della camorra, che imperversano in tutte le manifestazioni capitoline, hanno iniziato a invadere lo spazio per vendere da bere e in questo caso anche erba. La musica è stata spenta. "Doveva reagire la piazza - spiegano ancora gli organizzatori - quelli che vengono qui dovrebbero avere la consapevolezza di cosa significa essere contro le mafie, contro il "sistema"". È servito controllare gli ingressi, per una manifestazione che va specificato è totalmente gratuita, per far sì che i venditori abusivi restassero all'esterno, praticamente tutti provenienti dell'hinterland partenopeo. In quella che è diventata una piazza a favore dell'autoproduzione con 7 sound system, le associazioni che si battono per la qualità della vita e l'ambiente, workshop informativi, dibattiti, autoproduzione agroalimentare a chilometro zero. Siamo qui tutti insieme per dire no alla trasformazione di un monopolio in un duopolio, perché non vogliamo che alle mafie si sostituiscano le concessioni rilasciate alle multinazionali del tabacco e del farmaco", continuano. La richiesta è solo una: "Ribadire per malati e consumatori il diritto a coltivare una pianta". Iraq: 72 morti nel corso di una rivolta nella prigione Al-Khalis, a nordest di Baghdad Ansa, 10 maggio 2015 È salito a 72 morti il bilancio di una rivolta scoppiata nella prigione Al-Khalis, nel nordest di Baghdad, da cui sono fuggiti almeno 40 detenuti. Le vittime sono 50 carcerati e 12 poliziotti, deceduti nel corso della rivolta e durante la caccia all'uomo scattata dopo la maxi-evasione. Lo riferiscono fonti del carcere e della polizia. Le violenze sono esplose venerdì. Un detenuto si è impossessato della pistola di una guardia carceraria e "dopo averla uccisa ha sequestrato le armi presenti in un magazzino" della struttura, ha spiegato Saad Maan, portavoce del ministero degli Interni. Approfittando della rivolta, circa 40 prigionieri sono fuggiti. "Nove di loro erano stati arrestati con accuse relative al terrorismo", ha aggiunto Maan. Egitto: presidente Hosni Mubarak condannato a 3 anni di carcere per malversazione www.lettera43.it, 10 maggio 2015 L'ex-presidente egiziano Hosni Mubarak è stato condannato assieme ai suoi due figli a tre anni di reclusione nella riedizione del processo per malversazione di fondi destinati ai palazzi presidenziali. La sentenza della Corte d'assise del Cairo è stata letta in tivù ma è appellabile. Mubarak nel maggio 2014 era stato condannato a tre anni di carcere ma in gennaio la sentenza era stata annullata. Vista la custodia cautelare già scontata, non è chiaro se l'ex-rais tornerà ad essere piantonato nell'ospedale militare del Cairo dove alloggia per motivi di salute e sicurezza. Su Mubarak, 87 anni, inoltre pende ancora un ricorso della procura contro l'assoluzione nel processo per l'uccisione di manifestanti e per il quale nel 2012 era stato condannato all'ergastolo con una sentenza poi annullata nel novembre scorso. Oltre alla condanna a tre anni di reclusione, l'ex dittatore egiziano e i figli Gamal e Alaa sono stati condannati al pagamento di una penale di 125,78 milioni di sterline egiziane (pari a 14,7 milioni di euro e corrispondente alla malversazione di cui erano accusati). I Mubarak dovranno anche restituire 21,1 milioni di sterline (2,5 milioni di euro). La sentenza implicherebbe anche il ritorno in carcere dei due figli dell'ex-rais a piede libero da gennaio. Una fonte della sicurezza egiziana ha riferito all'Ansa che sono stati arrestati per essere portati in carcere. Secondo gli avvocati della difesa però, i due hanno già scontato in custodia cautelare la pena inflitta e quindi dovrebbero essere rilasciati. Mubarak ha ascoltato la sentenza dietro la griglia della gabbia degli imputati nel tribunale riunito in un'Accademia di polizia: portava occhiali da sole e aveva indosso una giacca scura e non più la tuta blu dei condannati (a conferma che fino ad oggi era in libertà pur risiedendo all'ospedale militare). L'ex-rais ha risposto con la mano a suoi sostenitori che in aula lo salutavano sbracciandosi e mandandogli baci. Nei primi commenti in tv si azzardano calcoli su quanti mesi dei tre anni inflitti Mubarak debba effettivamente scontare dato che l'ex presidente deposto dalla Primavera araba nel febbraio 2011 è già stato in custodia cautelare in carcere dall'aprile di quell'anno sino all'agosto 2013 per poi essere detenuto nell'ospedale militare di Maadi, nella parte sud del Cairo. Olanda: insulta il re e rischia il carcere; protesta sul web "stop al reato di lesa maestà" di Anais Ginori La Repubblica, 10 maggio 2015 La pena prevista è di 5 anni: "Reato del passato, eliminatelo". Ma ci sono paesi nel mondo in cui si può anche essere condannati a morte. Sembra un reato del passato. E invece è ancora possibile in Europa rischiare di finire in prigione e pagare una multa salata per lesa maestà. Il militante antirazzista olandese Al-Jaberi aveva urlato davanti alle telecamere "Fuck de Koning" (in olandese) durante una manifestazione a novembre per protestare contro "Pietro il moro" un personaggio della tradizione locale, dalle sembianze di uno schiavo e considerato da molti come un cliché della dominazione coloniale. Al-Jaberi è stato fermato dalla polizia ma si è rifiutato di pagare la multa di 500 euro che gli è stata verbalizzata durante il corteo. Per lui c'è stata quindi una denuncia per lesa maestà, reato che prevede fino a 5 anni di carcere e una sanzione di 20mila euro. Non accadeva da tempo nei Paesi Bassi, nazione della tolleranza e dove la libertà di espressione è sacrosanta. Intorno al caso si è aperto un dibattito politico che non ha solo opposto i classici sostenitori e detrattori della monarchia ma anche intellettuali olandesi, attaccati al diritto di critica. Alcuni deputati hanno presentato un'interrogazione al governo, puntando in particolare sulla sproporzione della pena prevista da una legge del lontano 1881, ormai definita da tanti come "arcaica". Su Twitter, l'hashtag #fuckdekoning è diventato uno dei più popolari. Il sindaco di Amsterdam, Eberhard van der Laan, ha raccontato di essere "scoppiato a ridere" scoprendo l'entità delle pene previste per il militante denunciato. Lo stesso re "insultato", il quarantenne Guglielmo Alessandro, salito al trono due anni fa, è un sovrano moderno così come la popolarissima regina Máxima. La coppia reale sarebbe rimasta imbarazzata dalla procedura, anche se non ci sono dichiarazioni ufficiali. "Penso che Guglielmo Alessandro ha una visione più democratica di quanto prevede la legge" ha commentato il sindaco di Amsterdam. Il reato di lesa maestà esiste in altri paesi dove ci sono ancora monarchie, per esempio in Svezia e Norvegia, ma con sanzioni minime. In Gran Bretagna la legge non viene applicata da cent'anni: nei fatti è prevista una moratoria. Il paese che più tutela i propri sovrani è la Tailandia, dove si rischia teoricamente anche la pena capitale e le condanne sono aumentate dopo il colpo di Stato di un anno fa. Nella notte tra mercoledì e giovedì qualcuno ha scritto "Fuck the Koning" sui muri del palazzo reale, in segno di solidarietà con il militante antirazzista denunciato. La procura di Amsterdam si è ritrovata sotto attacco. Adesso un portavoce annuncia che il caso sarà riesaminato e forse archiviato. "Non avevamo previsto tutto questo clamore" ha confessato Willem Nijkerk, rappresentante della procura. Alla fine, il passo indietro dei giudici è un tentativo di calmare le acque e restituire la pace in Casa d'Orange-Nassau che ha attraversato già due secoli, superando attacchi e insulti ben più gravi.