Carceri e trasparenza di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2015 Giovanni Donatiello è un redattore di Ristretti Orizzonti, che dopo 29 anni di galera, di cui 15 in Alta Sicurezza, è stato ritenuto ancora "indegno" di essere declassificato, e a causa della chiusura delle sezioni AS di Padova trasferito a Parma. A un incontro con i dirigenti del Dap, che si occupano dei circuiti AS e delle declassificazioni, il 10 aprile 2015, ci è stato detto "Per quanto riguarda le attività trattamentali abbiamo prestato particolare attenzione per l'assegnazione in istituti dove i detenuti potevano continuare con le stesse attività intraprese a Padova, perché anche negli altri istituti si fanno attività trattamentali non soltanto a Padova ovviamente". Quello che segue è il diario minuzioso di Giovanni da Parma, non chiediamo ovviamente di credergli, per carità, chiediamo però di rendere le carceri così TRASPARENTI e aperte ai controlli, che sia facile verificare che cosa davvero si fa in quel carcere, quali attività REALI, quanti detenuti sono coinvolti, per quante ore alla settimana. È chiedere troppo? Parma, Alta Sicurezza 1, diario da un luogo immobile di Giovanni Donatiello (Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2015 "Ho imparato a ricostruire pazientemente la mia vita, come suggerisce Ornella Favero, la direttrice di Ristretti Orizzonti, di cui sono diventato uno dei redattori". Con queste parole inizio da dove finisce il mio intervento al convegno del 22 maggio "La rabbia e la pazienza" presso il carcere di Padova e con esso finì anche la mia permanenza in quel carcere. Infatti a distanza di pochi giorni sono stato trasferito in questo istituto di Parma. Già ero a conoscenza del trattamento esistente, ma come spesso accade noi detenuti tendiamo un po' ad esagerare. Invece in questo caso proprio no! Anzi, nonostante la mia lunga permanenza nel circuito AS1, non immaginavo che si praticasse un regolamento che io credo sia davvero poco rispettoso della persona, ma per non apparire fazioso mi sono imposto che non altererò minimamente con giudizi soggettivi o di valore la descrizione di quanto in questa sezione avviene quotidianamente. Capitolo 1 Le attività presenti a Parma Qualsiasi attività presente si svolge tassativamente dalle ore 9.00 alle ore 11.00 e dalle ore 13.00 alle ore 14.45, in perfetta coincidenza con gli orari di accesso al passeggio, non esistono eccezioni. Accade così che gli studenti, i quali sono autorizzati ad accedere a una sala predisposta per lo studio, non hanno possibilità di accedere al passeggio se non rinunciando alla sala studio. Come supporto "questi privilegiati" possono usare il computer, in tutto quattro, che mette a disposizione l'amministrazione. Si potrebbe obiettare: allora vi è una attenzione per gli studenti? Ebbene i computer sono così predisposti che si può solo usare un programma di scrittura. Inoltre, non è consentito scrivere nemmeno una lettera ai propri cari, solo ed esclusivamente testi o elaborati di studio! E siccome è un privilegio, in questo istituto non ti permettono di stampare assolutamente nulla, nemmeno i testi di studio, si è costretti a ricopiare a mano quello che già è stato elaborato al computer, assurdo! Quindi questa "concessione" della sala studio poi rischia di tradursi in un vero e proprio "ricatto morale", perché per accedere alla sala studio ti perdi sistematicamente ogni altra attività presente, palestra, campo sportivo, e perfino la messa, e per giunta ti obbligano a sprecare il tempo per lo studio facendoti fare il doppio del lavoro necessario. Un effettivo supporto viene dato dai volontari che accompagnano i detenuti studenti, anche in questo caso invece di implementare questa attività la si limita al minimo. Infatti, gli incontri sono limitati per via della regola che permette il loro accesso nella fascia antimeridiana, ossia dalle 9.00 alle 11.00, per solo due giorni settimanali, durante i quali ottemperare alle istanze di tutti gli studenti presenti in questo istituto. Accade così che con queste regole l'attesa per incontrare il volontario può prolungarsi di alcune settimane. Ho voluto iniziare appositamente da quell'attività più "sensibile" e importante per la crescita personale che è lo studio, attraverso il quale si possono acquisire quegli strumenti che ti possono permettere di vedere le cose da altre prospettive, e come risultato di questa attenta analisi sulle "possibilità" offerte ai detenuti si possono trarre le dovute conclusioni, non sta a me dare giudizi, me lo sono ripromesso! Quest'anno a partire dallo scorso mese di maggio una dozzina di detenuti svolge del volontariato producendo pane, pizzette e focacce che verranno distribuite presso la mensa dei poveri dei frati francescani. È un'attività che i partecipanti svolgono con molta passione e impegno, dimostrando tutta la buona volontà ad essere impegnati anche nel sociale. Lavorano per quasi sei ore, peccato che questa attività viene svolta un solo giorno alla settimana. Esperienze di questo genere, con i risultati raggiunti, stanno a dimostrare che le risorse umane presenti in questo istituto sono valide e andrebbero valorizzate. Infatti, la manifattura è di ottima qualità, ma poi mi pongo una domanda, oltre a quelle soddisfazioni personali che uno prova, cosa avrà come riconoscimento? Questa domanda introduce il tema delle sintesi e delle declassificazioni. Un'altra cosa da sottolineare è che le attività trattamentali vengono sospese dal 13 giugno fino alla fine di settembre. Altra sospensione di un mese è prevista per le festività natalizie e un altro mese per quelle pasquali. In un anno si hanno cinque mesi di vuoto mai visti in nessun altro istituto. Sempre restando in tema di trattamento, l'indicazione del detenuto da sottoporre alle sintesi trattamentali pare sia di pertinenza del capoposto che è responsabile del pianterreno dove c'è l'accesso al passeggio. L'incaricato ti registra l'orario di entrata e d'uscita dal passeggio, nonché registra le compagnie che si frequentano al passeggio, a volte al passeggio si rimane in due o tre persone. Credo che su questi presupposti vengono indicati i detenuti "meritevoli" di sintesi: cioè, mi pare di capire, nessuno! Capitolo 2 Sintesi e declassificazioni La declassificazione è un problema comune in tutti i circuiti AS1, i motivi sono ben noti per chi segue il lavoro che svolge "Ristretti Orizzonti". È stato scoperchiato un sistema di immobilità diffusa e così anche in questo istituto le declassificazioni sono quasi del tutto inesistenti. In oltre ben otto anni, da quanto mi è dato sapere, ci dovrebbe essere stata una sola declassificazione, con una motivazione che possiamo definire "compassionevole". Infatti il soggetto era totalmente assuefatto agli psicofarmaci e passava intere giornate a letto e questo per diversi anni. L'aspetto più rilevante, che non veniva preso nella giusta considerazione, era quello che non aveva neppure il titolo di reato per essere allocato in questa sezione. Credo sia stato trattenuto per diverso tempo ingiustamente, avendo già scontato il reato ostativo. E stava scontando una pena residua per reati comuni. Un discorso a parte va fatto per le sintesi trattamentali. Se nelle declassificazioni la maggiore responsabilità di quell'immobilismo diffuso è certamente addebitabile soprattutto al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, per le sintesi, la responsabilità sarebbe a carico del Gruppo di Osservazione e Trattamento (GOT) di questo istituto, che mi pare di capire non preveda assolutamente che siano redatte le sintesi trattamentali. Solo su sollecitazione di qualche interessato, a seguito di presentazione di richiesta di declassificazione, si sono impegnati a stilare qualche relazione. Spesso accade che qualcuno faccia richiesta della sintesi trattamentale, ci sono casi che stanno aspettando da oltre due anni che si possa riunire il GOT, sarebbe interessante capire perché, se le cose stanno effettivamente in questo modo, è così difficile che il GOT si esprima sul percorso individuale delle persone detenute. Con il risultato che anche in questo carcere nella sezione AS1 le persone sono destinate a rimanere "fossilizzate" a vita. Capitolo 3 I rapporti con i famigliari I rapporti con i famigliari, come previsto dall'Ordinamento penitenziario, si mantengono attraverso i colloqui visivi e i colloqui telefonici. I colloqui telefonici vengono rilasciati nella misura di una telefonata settimanale se la data di arresto è precedente al settembre del 2000, diversamente si è autorizzati a solo due telefonate al mese. I giorni previsti per le telefonate sono il martedì, giovedì, sabato, e la domenica solo nella mattinata quando il sabato la fascia oraria coincide con la fascia pomeridiana. Per essere più preciso in merito, ogni mese viene affisso il calendario delle telefonate in cui vengono indicate le fasce orarie previste. L'orario per effettuare la chiamata si deve comunicare il giorno precedente all'agente, che ti mette in lista. L'ora indicata non viene mai rispettata, c'è sempre uno sbalzo di almeno 20 minuti. La privacy è inesistente, infatti la cabina telefonica si trova in mezzo alla sezione di fronte alle celle dei detenuti a meno di 2 metri di distanza. I detenuti che si trovano nelle vicinanze sono costretti a chiudersi il blindato per non ascoltare le conversazioni, ma anche questo non è sufficiente perché si sente ugualmente. Nonostante le ripetute segnalazioni anche attraverso il reclamo al magistrato di Sorveglianza, dsi continua a telefonare nelle condizioni che ho detto sopra. Questa situazione è stata segnalata anche al Garante regionale, il quale ha verificato l'inadeguatezza del posizionamento della cabina telefonica. L'intervento del Garante è stato richiesto a seguito del rigetto del reclamo inoltrato da un detenuto, il quale dopo le sue lagnanze ha trovato sempre ostilità rispetto alle altre richieste inoltrate. L'intervento del Garante risale a oltre un anno fa, ma nulla è cambiato! Per quanto concerne i colloqui visivi, è da segnalare che sono organizzati in modo tale, da creare inevitabilmente disagi. Si possono effettuare nella sola giornata del lunedì. La durata massima è di 4 ore, ma per poter fruire di questa possibilità le famiglie devono trovarsi all'ingresso alle 8.00 del mattino altrimenti se arrivano dopo non ti permettono le 4 ore di colloquio. Ciò comporta che le famiglie devono assolutamente pernottare il giorno prima con impiego di risorse notevoli .Se invece queste possibilità non si hanno, le famiglie devono sobbarcarsi anche oltre 1000 km per fare appena 2/3 ore di colloquio. Tutti i detenuti presenti nella sezione AS1 sono meridionali e i più vicini sono distanti 7/800 km (i campani). Le sale colloqui sono predisposte con dei tavolini e sgabelli fissi. Al posto del vecchio bancone divisorio hanno escogitato questo sistema che impedisce ugualmente il contatto fisico. Solo ai bambini è consentito stare vicino al proprio famigliare. Inoltre, c'è da segnalare anche la presenza di una sala colloquio con dei tavoli fissi in fila che ricordano i vecchi banconi e nella sostanza non c'è nessuna differenza. Nella sala colloquio è consentito portare ai propri familiari una bottiglia d'acqua, una confezione di biscotti, qualche caramella e merendina. Una volta che il colloquio termina sei obbligato a portare in cella quello che è rimasto, non lo puoi dare assolutamente ai famigliari, neanche nell'ipotesi della presenza di bambini. Gli alimenti che possono portare i famigliari sono rigidamente elencati, non ci sono forme di tolleranza, se non corrispondono alla lettera vengono restituiti ai familiari dopo che sono usciti dal colloquio, il che comporta che al rientro dal colloquio non ti ritrovi quanto i famigliari ti hanno detto che ti hanno portato. Anche in questo c'è una particolarità, diversamente dalla stragrande maggioranza delle carceri non è consentita l'entrata di generi alimentari (salumi, formaggi) nelle confezioni sottovuoto per non darti la possibilità di conservarli. Questa disposizione è valida anche nella ricezione dei pacchi postali. Capitolo 4 La camera di pernottamento Restando 20 ore su 24 chiusi è difficile definirla camera di pernottamento, quando si è costretti a stare sul letto per mancanza di spazio allora la notte vale il giorno. Lo spazio calpestabile è di 5,70 mq. Da dividere in due detenuti, 2,85 mq a persona. Ciò sta a significare che in due non ci si può muovere se non alternandosi, questa allocazione in due per cella contravviene ai parametri stabiliti dalla sentenza Torreggiani v.s. Italia nella quale sono previsti, nella camera di pernottamento, minimo 3 mq a detenuto. La struttura della cella poi è davvero problematica. Il soffitto basso di appena 2,70 metri comporta una scarsa aerazione, si è costretti a tenersi per la gran parte della giornata la finestra aperta e anche di notte non se ne può fare a meno. Le brande sono a lato della finestra e non puoi far nulla per evitare che gli spifferi di vento quando sei a letto ti raggiungano sulla testa anche quando dormi. Il bagno di dimensioni ridottissime è senza finestre, vi è un piccolo aspiratore che non serve a niente. Inoltre, nel bagno, hanno previsto anche la doccia che comprende solo un impianto dove esce acqua calda nelle ore stabilite: 8.30-11.00; 13.00-15.00; 18.00-20.00. Non vi è un piatto doccia ma solo un buco di scolo dove defluisce l'acqua. L'inadeguatezza del locale bagno per fare la doccia comporta che quando si è finito di fare la doccia devi pulire tutto il bagno perché l'acqua è schizzata dappertutto e devi asciugare sia il pavimento sia i muri. Per lavarti mentre sei in doccia devi aprire almeno 20 volte il pulsante che fa sgorgare l'acqua e ogni volta la durata è di pochi secondi, così il momento che doveva essere di relax si traduce in una ripetizione meccanica di gesti. Un'altra impresa è quando si usa il lavandino. Per solo lavarti il viso, sei costretto a venire fuori dal bagno, la dimensione è pari ai lavandini che sono predisposti nei bagni degli aerei, e nello stesso lavandino si lavano i piatti e le pentole. La luce del bagno è pari a un lumino di camposanto! Radersi è un'impresa perché manca la luce necessaria e lo specchio non è in vetro e riflette il viso distorto, sei costretto a raderti "al tatto", seguendo con le mani i contorni del viso. Anche il lavandino è dotato di pulsante erogatore che devi aprire continuamente, il dosaggio non supera il litro e mezzo d'acqua per volta, la durata è di cinque secondi, stessa routine della doccia. Sono rimasto sorpreso di un particolare: sul pulsante erogatore come per fatalità è impresso il nome del modello "Presto, presto". Mi viene il dubbio che sia stato scelto non a caso, visto il tempo che si ha in questo carcere per oziare. L'arredo è composto di due mobiletti piccoli, due mobiletti più grandi dove puoi appendere gli abiti, due scrittoi, due sgabelli e un apparecchio televisivo. Quest'ultimo è incassato nel muro e chiuso in una nicchia con un vetro spesso a protezione del televisore. Tanto comporta che non puoi vedere la TV se non in una sola direzione. Devi stare in piedi perché seduto l'angolazione non ti permette di vedere il quadro nitidamente. L'orario dell'accensione e spegnimento della TV va dalle 7.00 del mattino alle 2.00 della notte. I canali predisposti sono soltanto dodici di cui due non si ricevono bene: Rai uno e Rai uno sport. Le radio sono tre: radio uno, due e tre, quest'ultima non prende il segnale Nella camera è predisposta una condotta d'aria calda per asciugare i capelli. Il comando è dell'agente che devi chiamare ogni volta che ne hai bisogno. Da questa condotta viene fuori aria puzzolente e spesso polvere, tanto che non ne fa uso nessuno. Sotto l'apparecchio televisivo è predisposto un quadro di comandi, luce, fon chiamata agenti con relativo altoparlante, con il quale si potrebbe interloquire perché provvisto anche di microfono. È fuori uso, anzi è staccato, così sei obbligato a strillare per ogni incombenza . Oltre i mobiletti è previsto di tenere tre cestelli in plastica, che puoi comprare nella spesa, ma nonostante questa "alta" concessione si è costretti a mettere sul pavimento le varie confezioni di alimenti che non puoi mettere altrove per mancanza di spazio. Tutto è rigorosamente fisso: brande, mobiletti, scrittoi, non ci sono tavoli, solo gli sgabelli sono mobili, tutto il resto è immobile. Come immobile sembra il sistema di amministrazione di questo istituto. Capitolo 5 Spazi all'aria aperta e saletta Ogni sezione ha il suo passeggio assegnato, le dimensioni sono identiche. Gli spazi sono ridottissimi, quando scendono oltre dieci persone sei costretto a camminare formando delle file come un plotone di militari. Nello stesso spazio si corre seguendo il perimetro del muro e spesso quando si è in molti si è costretti a sedersi sui gradini presenti, perché non trovi nemmeno lo spazio per passeggiare mentre gli altri corrono. In questo spazio è consentito giocare al calcetto, solo per un'ora, dalle 13.00 alle 14.00. L'accesso al passeggio è al mattino dalle ore 9 alle 10.50, al pomeriggio dalle ore 13.00 alle 14.45. Non è consentito portare al passeggio nulla oltre il tuo vestiario. Nel senso che se volessi portare un asciugamano per usarlo come tappetino da mettere a terra per fare esercizi di ginnastica, è assolutamente vietato. Se durante l'orario di passeggio vieni chiamato dal medico e sali, non si può più scendere, devi ritirarti in cella. In alternanza al passeggio si può accedere a una saletta presente in sezione, la quale dovrebbe sostituire lo spazio all'aria aperta se nella stagione invernale non si può accedere al passeggio quando il tempo non lo permette. La saletta misura all'incirca 20 mq, c'è un calcio balilla, dei tavolini con sedie. In sezione sono presenti ventotto detenuti, vale a dire che ognuno di noi ha diritto a quattro mattonelle 40x40. Non dico una baggianata se azzardo che i criceti godono di gabbie più spaziose! Capitolo 6 Il sistema sanitario Nonostante il sistema sanitario regionale dell'Emilia Romagna sia tra i più efficienti d'Italia e spesso viene segnalato come modello da seguire, in carcere le cose vanno diversamente. Le attese per le visite specialistiche nelle strutture esterne sono lunghissime. A Parma è presente un centro clinico che fornisce servizi settimanali per ogni specialista (dentista, urologo, ortopedico, ecc), ma gli appuntamenti così regolati pare non siano sufficienti al fabbisogno della popolazione detenuta e ne consegue che i tempi d'attesa vengono dilatati. Le visite mediche di sezione si possono effettuare solo due giorni a settimana, il mercoledì e il sabato. Molto spesso non vengono effettuate e trascorrono anche dieci giorni prima di essere visitati. Se vi sono urgenze vengono segnalate per telefono e capita anche che ti fanno la diagnosi e prescrivono i farmaci per telefono. È accaduto proprio a me di avere un dolore particolarmente acuto nella zona inguinale, causa dei postumi di una partita a calcio, e ho chiesto del medico. L'agente ha segnalato la situazione e dopo un po' si è presentato con la terapia: due compresse di Voltaren. Ma nel lontano 1992 sono stato colpito da uno shock anafilattico causa un'allergia proprio al Voltaren. Questa non è allora una dimostrazione della superficialità del servizio? Infatti, sulla mia cartella clinica è messa in evidenza questa allergia, e la prescrizione di farmaci senza il controllo della cartella clinica non dovrebbe proprio mai avvenire. Ritornando alle visite specialistiche che si effettuano nel centro clinico ed in particolare la visita cardiologica di primo ingresso per poter accedere al locale palestra, i tempi diventano particolarmente lunghi. È quasi un mese che aspetto quest'esame, ma c'è gente che è in attesa da sei mesi con il risultato di non poter fruire delle ore di palestra previste settimanalmente . Non so se sia una coincidenza il ritardo sproporzionato per queste visite, ma ho comunque imparato che nulla in questo carcere è dovuto al caso. Capitolo 7 Servizio spesa Potrebbero mai mancare anche qui le stranezze? Ebbene si, prima di tutto non ci sono giorni prefissati per consegnare la lista delle ordinazioni. Le ordinazioni vengono stabilite mensilmente, con quale criterio è difficile capire. In tutte le carceri italiane ci sono giorni prestabiliti, qui a Parma invece no! Non puoi ordinare più di due pezzi per prodotto, finanche la carta igienica ha il suo limite consentito. Il paradosso sta nel fatto che questo divieto è finalizzato a non far creare accumulo di generi, ma anche volendo accumulare si è costretti a tenere a terra le confezioni. Per le bevande alcoliche, vino o birra, viene autorizzato l'acquisto solo con prescrizione medica che dovrà certificare l'idoneità al consumo. Vuol dire, in parole povere, che si inverte l'onere della prova, mentre in tutti gli istituti penitenziari, dove si possono acquistare le bevande alcoliche è il medico che segnala il divieto di acquisto per motivi di salute o perché sottoposti a terapie particolari, qui a Parma devi richiedere una visita medica per farti rilasciare il nullaosta per l'acquisto delle bevande alcoliche dimostrando che non sei un ubriacone o un malato. Sulle confezioni di vino o di birra viene impresso con un pennarello il nome dell'acquirente ed i vuoti, anche i cartoni del Tavernello, devi consegnarli una volta svuotati, pena la mancata consegna delle altre confezioni. Capitolo 8 Servizio magazzino Il limite vestiario previsto ti impone di prenotarti il martedì sera per il mercoledì per recarti al magazzino. Se per dimenticanza non lo fai, devi aspettare quindici giorni per il cambio della biancheria. I capi d'abbigliamento consentiti sono: 1 giubbotto, 1 k-way, 3 pantaloni, 2 tute, 4 camice, 3 paia di scarpe, 2 paia di ciabatte, 1 accappatoio o 1 telo da bagno, 3 asciugamani da viso, 3 da bidet , 1 cinta, 10 magliette tra magliette intime e maglie ordinarie, 6 paia di calzini, 6 mutande. Ogni capo d'abbigliamento usurato, anche le mutande, devi consegnarlo per la sostituzione. Oltre questo servizio il magazzino svolge il servizio di consegna di alcuni oggetti che si acquistano alla spesa. Se acquisti il tagliaunghie devono rompere la limetta prima di consegnartelo e registrarlo. Vengono restituiti e consegnati dal magazzino oggetti quali forbicine, cestini, ganci a ventosa, pentole varie e oggetti per uso della cucina. Per consegnarti le forbicine devono finanche registrarle dall'agente di sezione. Gli oggetti "a registro" ti vengono consegnati se ne sei sprovvisto o con il cambio di quello già in possesso. Capitolo 9 Servizio lavanderia L'unico servizio che funziona puntualmente. Il lunedì c'è il cambio delle lenzuola che ti fornisce l'amministrazione, perché non è consentito avere lenzuola personali. Oltre alle lenzuola fornite dall'amministrazione non è possibile lavare nessun altro capo. Capitolo 10 Servizio cucina Il vitto somministrato è di qualità mediocre, anche nel rispetto del menù ministeriale la preparazione è scarsa, come il condimento. La pasta arriva puntualmente scotta. Anche questo servizio non manca di una particolarità. Infatti, è il primo istituto, fra quelli dove sono stato, dove, nonostante sia previsto dal menù ministeriale, non vengono distribuite le crostatine la domenica e i giorni festivi. Il dolce è un lusso! Capitolo 11 Gli assurdi in nome della "sicurezza" Perché non si possono avere le pinzette? Risposta: "Per la sicurezza". E solo cinque ganci a ventosa "per la sicurezza", e il tagliaunghie senza limetta "per la sicurezza", e i vuoti del vino e della birra "per la sicurezza", e la carta igienica solo due rotoli "per la sicurezza". E via discorrendo, tutto in nome della "sicurezza", ma ne siamo proprio sicuri? Ebbene, ho vissuto un'esperienza identica nel carcere di Sulmona, stesso modello, stesse limitazioni, stesse operazioni come la battitura e la conta tre volte al giorno e un continuo andirivieni di notte, a porre fine a queste abnormità si giunse solo dopo una tragedia che colpì la direttrice. Ne seguì un avvicendamento e le cose cambiarono. E qui cambierà mai qualcosa? Aggiungo che non a caso nel capitolo 1 delle attività presenti non ho menzionato un corso culturale, che è ancora in atto, di "Etica e legalità". Ma paradossalmente mi viene spontanea una riflessione: corsi di questo tipo non sarebbero più idonei se fossero frequentati da coloro che amministrano tante carceri in modo poco civile? Non è una polemica, ma il fatto che in carcere ti scontri spesso con una arroganza dei tutori della legalità, che troppe volte non rispettano la legge in nome della legge stessa! Questo stato di cose non mi lascia affatto indifferente, mi inquieta perché sono cosciente del fatto che in altri tempi non avrei pazientato tanto. Sto resistendo al rischio di farmi prendere da impulsi irrazionali, ma in questo istituto la possibilità di dialogo ho l'impressione che non ci sia, devi solo tacere e accettare le loro regole e questo lo subisco in modo rabbioso. Mi viene in mente il convegno "La rabbia e la pazienza", a cui ho partecipato a Padova, e come una detenzione rabbiosa possa trasformarsi in una detenzione riflessiva, ora mi trovo sul punto di passare da una detenzione riflessiva a una rabbiosa, anzi, vergognosa! Questo è difficile da accettare, l'unica condizione per far sentire la propria presenza è chiedere di essere allocato nella sezione di isolamento, cosa che farò! Voglio terminare proprio con il capitolo sulla sezione isolamento. Capitolo sezione isolamento (sezione iride) Credo che dagli anni settanta, che non ho vissuto nelle carceri, ma di cui ho testimonianza, non si vedeva una sezione isolamento come quella del carcere di Parma. Nella suddetta sezione la cella è liscia, ciò vuol dire che è spoglia di ogni arredo, è provvista solo di uno "sgabello" e un "tavolino" in cemento. Chi chiede di essere allocato nella sezione in oggetto o viene sanzionato, non può tenere nulla in cella ad eccezione degli indumenti indossati, è costretto a dormire sul materasso di gommapiuma, spesso senza lenzuola, con il blindato chiuso anche d'estate. La struttura è fatiscente, e quando piove l'acqua entra in cella e bagna tutto, cioè il materasso. Non è consentito l'acquisto di generi, ad eccezione di sigarette e acqua (posto che quella che esce dal rubinetto ha un colore rossastro e si suppone che sia altamente inquinata a causa del termovalorizzatore della città di Parma che dista solo qualche centinaio di metri dal carcere, motivo per il quale veniamo sottoposti ad esami delle urine per controllare i valori che segnalano la presenza delle polveri sottili); non si può leggere, giornali e libri non sono consentiti, non c'è televisione e non si può avere neppure la radio. La cosa più triste è che se ti vengono a trovare i tuoi famigliari e ti portano dei generi alimentari, non ti vengono consegnati, sono lasciati nel posto di guardia a marcire. Ho cercato minuziosamente di descrivere questo ghetto, ma mi domando anche: qualcuno ha voglia di provare a ristabilire le regole di uno stato di diritto, che puntualmente vengono violate, calpestando i principi universali riconosciuti, quali quello della dignità umana e del divieto di tortura? Giustizia: stretta del Governo su furti e rapine, sanzioni più severe e senza sconti di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 "Bene gli aumenti del minimo di pena per furti in abitazione, scippi e rapine nonché le misure che incentivano riti alternativi e puntano al risparmio di risorse e di tempo. Mi preoccupano, invece, alcuni proposte della maggioranza che vanno nella direzione opposta alla semplificazione del processo (nel rispetto delle garanzie) e che, quindi, rappresentano un passo indietro rispetto all'originario disegno governativo". Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia della Camera è anche relatrice del ddl governativo sul processo penale nel quale da ieri sono trasmigrati (come emendamenti del governo) anche gli inasprimenti delle pene minime dei cosiddetti "reati di strada", che nelle intenzioni originarie dell'Esecutivo (annunciate nei giorni scorsi) dovevano far parte di un imminente decreto legge sulla "sicurezza urbana". Ferranti, alle prese con oltre 300 emendamenti al ddl, si accinge a dare, tra oggi e martedì prossimo, i suoi pareri e a preoccuparla sono soprattutto alcune modifiche targate Nuovo centrodestra, che, recependo le istanze degli avvocati penalisti, toccano punti nevralgici della riforma (appello, ricorso in Cassazione, iscrizione nel registro delle notizie di reato, ingiusta detenzione) rischiando, se approvati, di "svuotarla". Modifiche su cui sarà difficile una mediazione, anche se è questo l'appello della relatrice a Governo e maggioranza "altrimenti - osserva polemicamente - finiamo per approvare un testo soltanto per limitare la pubblicabilità delle intercettazioni telefoniche". Il ddl sul processo penale fa parte del pacchetto di riforme varate lo scorso agosto dal governo, anche se in Parlamento si è materializzato solo a inizio d'anno. Contiene norme diverse (anche penitenziarie) ma punta essenzialmente a snellire il processo penale e dovrebbe andare in Aula il 27 luglio, anche se il voto potrebbe slittare a settembre. Ieri il governo ha presentato sei emendamenti, di cui tre sull'aumento delle pene minime per furti, scippi e rapine, su cui c'è accordo nella maggioranza. Inasprimenti "che da un lato cercano di evitare condanne troppo esigue, dall'altro - spiega Ferranti - vanno a compensare la previsione secondo cui, in caso di furto mono aggravato senza violenza, con il risarcimento del danno o la restituzione il reato si estingue". Qui l'accordo è pieno, e così pure sugli emendamenti che estendono la partecipazione dell'imputato al dibattimento in videoconferenza e incentivano il ricorso al rito abbreviato per le contravvenzioni (la pena si riduce della metà e non di un terzo). Manca invece l'accordo su alcuni emendamenti di Ncd, come quello (proposto anche da Scelta civica) che impone al giudice di verificare (ex post) la tempestività dell'iscrizione della notizia di reato. "Sono contraria - dice Ferranti. Meglio chiedere un controllo più efficace dei capi delle Procure". Contrario anche del governo. Il no si estende ad altre modifiche che, malgrado l'accordo in Consiglio dei ministri, sopprimono le novità per semplificare appello e ricorso in Cassazione. Ferranti propone una mediazione, e cioè che, a fronte del percorso guidato imposto al giudice, anche chi impugna segua un percorso guidato sui motivi di appello (soluzione recepita dai lavori della commissione Canzio, cui parteciparono anche gli avvocati penalisti). Si vedrà nei prossimi giorni. Giustizia: Antigone "no agli aumenti di pena, non è così che si contrasta il crimine" Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2015 "I più grandi studiosi di diritto penale ci hanno insegnato che il sistema penale deve essere impermeabile agli umori dell'opinione pubblica. Oggi su un grande quotidiano c'è addirittura un sondaggio on-line nel quale si chiede se siamo d'accordo all'aumento di pena carceraria per scippi e furti in appartamento. Su questi temi vince sempre chi la spara più grossa. Su questi temi vince sempre il Salvini di turno perché parla alla pancia e non alla ragione delle persone" sono le parole di Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone. "Noi siamo contrari ad ogni ipotesi di aumento di pena per reati contro il patrimonio. In Italia i reati più gravi (ad esempio omicidi e violenze sessuali) sono in diminuzione. Che facciamo dunque, cambiamo le pene riducendole o aumentandole nella loro entità alla luce del dato statistico?" si chiede ancora Gonnella. "Il codice penale deve essere sempre lo stesso. Deve essere frutto di scelte razionali e non emotive. Bisogna assolutamente evitare di creare una nuova emergenza sicurezza. Non c'è un allarma in questo senso. L'emergenza è quella sociale non quella penale. Gli allarmi sicurezza, avallati da alcuni organi di stampa, hanno negli anni passati determinato il sovraffollamento carcerario che ora stiamo cercando di contrastare. Il carcere è sempre l'esito delle politiche penali". "Pertanto - conclude il presidente di Antigone - chiediamo al governo di evitare di fare oggi quelle scelte penali che domani potrebbero portare a nuove ondate di ingressi in carcere di persone che provengono dagli strati sociali marginali. Meglio concentrarsi sui grandi crimini e sui grandi criminali." Giustizia: Orlando "oltre 13mila stranieri nelle carceri italiane, in atto trend decrescente" Adnkronos, 9 luglio 2015 "Al 6 luglio 2015 erano presenti negli istituti penitenziari, a vario titolo di reato, 13.400 cittadini extracomunitari, di cui 7.885 in esecuzione di sentenza definitiva (7.308 definitivi puri e 577 misti con definitivo) e 2.809 in attesa di primo giudizio". Lo ha riferito il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in audizione in commissione Affari costituzionali del Senato, sottolineando che "si registra un trend decrescente rispetto ai 17.030 detenuti stranieri presenti al dicembre 2013, con 9.050 definitivi e 2.861 in attesa di primo giudizio". Nel dettaglio, ha spiegato il ministro, "sono presenti negli istituti di custodia 1.560 detenuti extracomunitari destinatari di decreto di espulsione non eseguito o non eseguibile, in maggioranza di nazionalità albanese, marocchina, tunisina e nigeriana. Con riferimento, invece, ai detenuti, italiani e stranieri, ristretti per i reati previsti dal Testo unico sull'immigrazione, dai 1.133 del 2013, si è passati ai 1.406 attuali (di cui 661 condannati)". Per quanto riguarda i flussi in entrata e in un uscita, ha ricordato ancora Orlando, "si registrano: nel 2013, 59.390 ingressi complessivi, di cui 18.503 stranieri extracomunitari, e 52.727 soggetti rimessi in libertà, tra cui 17.584 stranieri extracomunitari; da gennaio 2015 ad oggi, 24.660 ingressi complessivi, di cui 8.078 stranieri extracomunitari, e 20.780 soggetti rimessi in libertà, tra cui 7.144 stranieri extracomunitari". A giudizio del guardasigilli "deve senza dubbio registrarsi una notevole riduzione della popolazione detenuta straniera, che ha corrisposto a una generale diminuzione del numero complessivo di detenuti, nonostante l'aumento consistente dei migranti che arrivano nel nostro Paese", e a produrre effetti positivi sono stati "oltre allo sforzo di trasferimento dei detenuti condannati nei Paesi di origine, certamente alcune recenti modifiche normative stanno producendo effetti positivi". Il riferimento è in particolare "all'approvazione della legge che, in attuazione della direttiva rimpatri, ha anticipato l'avvio delle procedure di identificazione per gli stranieri fin dal momento del loro primo ingresso in carcere". Giustizia: il "Garantista" deve vivere, è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio di Andrea Cuzzocrea Il Garantista, 9 luglio 2015 Nel nostro paese è attuale più che mai la questione meridionale. E dentro questa esiste una gravissima questione calabrese: probabilmente l'emergenza più grande di tutte. Le differenze in termini di ritardo di sviluppo sono state aggravate dalla crisi di questi anni e piuttosto che un'inversione di tendenza si registrano ancora oggi, quando nel resto d'Italia appaiono i primi timidi segnali di ripresa, tendenze sociali ed economiche che non lasciano presagire nulla di buono per il futuro. In questi anni di Mezzogiorno si è parlato sempre meno e sempre peggio in Italia. Dal pensiero di Giustino Fortunato a quello di Gramsci, da Salvemini a Dorso, fino alle impietose analisi fatte ai giorni nostri da Sylos Labini o da Vito Teti, il Sud è stato relegato al rango di problema irrisolvibile, di battaglia persa, ma soprattutto ammantato di inaccettabili luoghi comuni. La questione meridionale ha finito così per essere rimossa e sostituita dalla questione criminale. La politica nazionale non ha voluto occuparsi del Sud con investimenti cospicui, capaci di creare lavoro e di rendere più competitivo il territorio e, grazie alla subalternità e incapacità della classe dirigente locale, è stato più facile appellarsi ad una lotta alla ‘ndrangheta che non sempre, ma spesso si è tradotta in un'adesione fideistica a determinate tesi e non in un'azione incisiva, politica e culturale, volta a recuperare effettivamente allo Stato una parte del Paese. Sull'altare di una giusta lotta alla criminalità si sono usati e si usano strumenti non degni di uno Stato di diritto, che raggiungono l'unico obiettivo di desertificare sempre di più il territorio e di non aggiungere nulla, anzi paradossalmente aggravare la presenza mafiosa. Senza pretese di elaborazione intellettuale ripetiamo ancora una volta che l'antidoto alla mafia sono il lavoro, l'imprenditoria pulita; sono la scuola e la cultura, nelle quali lo Stato deve investire di più, al Sud più che altrove; è la rinnovata capacità di sentirsi parte dello Stato, e non carne da macello per le carriere di tanti uomini dello Stato. Per questi motivi, esattamente un anno fa, insieme ad un gruppo di piccoli e coraggiosi imprenditori, abbiamo ritenuto di sposare la proposta di Piero Sansonetti di fondare un nuovo quotidiano, il primo nato in Calabria e nel Sud Italia, a diffusione nazionale. Un giornale garantista, come recita coraggiosamente il titolo, ma soprattutto un giornale libero, capace di dare voce a chi crede ancora nello Stato di diritto e soprattutto non si rassegna a vedere morire la propria terra, dove vivono i propri figli, sotto i colpi di un giustizialismo cieco, in nome del quale si chiudono, con misure del tutto antidemocratiche e incostituzionali, imprese ed attività economiche. Su tutte, la ben nota questione delle informative interdittive, atti amministrativi che paralizzano e fanno finire nel lastrico centinaia di imprese, troppe volte colpevoli di nulla se non di appartenere a questo territorio. La sfida, animata innanzitutto da un grande senso di Giustizia sostanziale, è stata avvincente. Ci siamo tuffati a capofitto in questa avventura animati dalle migliori intenzioni, da tanto entusiasmo ma forse anche da un pizzico di incoscienza, incuranti delle preoccupazioni e dei consigli di chi, standoci accanto, ci metteva in guardia dai pericoli dell'editoria. Rischi economici, innanzitutto. Ma per chi nella vita fa l'imprenditore rientrano nell'ordine naturale delle cose. Ma anche rischi sociali, relazionali, politici. Abbiamo investito tutte le somme che ci era possibile investire in questa avventura. Ci abbiamo messo denaro e passione, nella speranza che il prodotto potesse attecchire su un mercato complicatissimo e nella consapevolezza che non sarebbe stato facile. Certamente avremo commesso errori, ma solo chi non opera non sbaglia. La guida della Cooperativa ora passa di mano, ma il mio non è un messaggio di commiato. Questo giornale, creatura di Piero Sansonetti, ha bisogno di essere sostenuto, nell'imperante conformismo ipocrita e giustizialista, la voce del Garantista deve contribuire, in modo sempre più incisivo, ad alimentare la speranza che la politica, la stampa e la magistratura svolgano il ruolo che spetta nei sistemi democratici e che la tripartizione dei poteri e delle funzioni di Montesquieu sia effettiva e non puramente teorica. Il "quarto potere" dovrà continuare a vigilare sugli altri, con autorevolezza, autonomia ma anche senso di responsabilità. Il Garantista deve vivere perché la sua sopravvivenza è un bene per il mercato editoriale, un bene per la libertà d'informazione e un bene per la nostra comunità. Gli uomini liberi che ho avuto il privilegio di conoscere e che fanno sentire le loro voci dalle colonne del giornale, devono poter ancora a lungo esprimere il loro pensiero non conformista, ad una platea sempre più ampia di lettori. Perché è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Giustizia: compravendita Senatori; Berlusconi condannato in primo grado a 3 anni di Adriana Pollice Il Manifesto, 9 luglio 2015 "Pagato De Gregorio per far cadere Prodi". La prescrizione arriverà a novembre. Ma secondo il pm Fabrizio Vanorio questo "primo caso in cui si affronta il tema della corruzione parlamentare farà giurisprudenza". Stessa pena per Lavitola. Silvio Berlusconi e Valter Lavitola sono stati condannati ieri a 3 anni per corruzione dal Tribunale di Napoli per la compravendita di senatori che portò alla caduta del governo Prodi nel 2008. Secondo il pm Fabrizio Vanorio, la sentenza "farà giurisprudenza perché è il primo caso in cui si affronta il tema della corruzione parlamentare" anche se il processo andrà prescritto il 6 novembre. In udienza nei mesi scorsi è stato ascoltato anche Prodi: "C'erano voci, ma, come dissi al giudice, non ne sapevo nulla. Se lo avessi saputo sarei ancora presidente del Consiglio". Duro il pm Henry John Woodcock: "Siamo di fronte, in fondo, a un banale contratto illecito, una questione di vile pecunia, di scambio, di baratto tra soldi e tutto ciò che rientra nella funzione parlamentare. I motivi politici rimangono sullo sfondo". E per chiarire il concetto è ricorso al delitto Matteotti: "Chi può negare che vi siano stati motivi politici? E ciò elide la rilevanza penale? io dico no". "È una sentenza che riteniamo clamorosamente ingiusta e ingiustificata. Siamo convinti che in appello e in Cassazione ci sarà l'assoluzione nel merito. Decideremo se rinunciare alla prescrizione quando questa maturerà" ha commentato a caldo Niccolò Ghedini. Lo scontro tra accusa e difesa è ruotato intorno all'articolo 318 del Codice penale secondo la formulazione fatta nel 2012, in cui si parla di "asservimento" della funzione pubblica. I legali della difesa hanno sostenuto che non poteva essere applicato in quanto emanato in un periodo successivo ai fatti contestati. Secondo i legali di Berlusconi, Michele Cerabona e lo stesso Ghedini, e quelli di Fi, Franco Coppi e Bruno Larosa, sono state "ragioni essenzialmente ed eminentemente politiche" quelle invocate dalla pubblica accusa. Per la difesa non ci fu invece alcun reato: i tre milioni consegnati all'allora senatore Sergio De Gregorio, uno dei quali al suo movimento Italiani nel Mondo, rientravano nell'ambito del finanziamento alla politica. De Gregorio, che con le sue dichiarazioni diede avvio all'inchiesta, ha già patteggiato un anno e 8 mesi di reclusione. Alla fine i giudici hanno dato ragione all'accusa, si è trattato di "un colossale investimento economico" per far cadere il governo che si reggeva, a Palazzo Madama, su una maggioranza di 158 a 156. "Operazione libertà" l'avevano chiamata. L'ex cavaliere aveva anche provato a smontare il processo presentando un'istanza di insindacabilità alla Giunta delle autorizzazioni della camera: avrebbe dovuto presentarsi ieri in parlamento ma martedì ha deciso di ritirarla poiché era apparso chiaro che la sua tesi sarebbe stata bocciata, cioè che i voti di De Gregorio sarebbero stati coperti dall'insindacabilità dell'azione parlamentare e quindi dall'immunità. M5S pronti alle barricate e Pd non disposto al salvataggio, Berlusconi ha evitato di moltiplicare la sconfitta, nonostante Ignazio La Russa si fosse speso in soccorso, promettendo un'attenta valutazione. L'indagine era cominciata grazie a tre interrogatori di De Gregorio. La presidenza della commissione difesa del Senato, ottenuta con i voti della destra, e tre milioni di euro sarebbero stati il prezzo pagato dall'ex premier per farlo passare dall'Idv a Forza Italia per fare cadere il governo Prodi: "L'accordo si consumò nel 2006 - ha raccontato - con il mio incontro con Berlusconi a palazzo Grazioli che servì a sancire che la mia previsione di cassa. Ho ricevuto 2 milioni in contanti da Lavitola a tranche da 200/300mila euro". Affari e politica legano il leader di Fi a Valter Lavitola, ex direttore dell'Avanti!, faccendiere e imprenditore. A inguaiare Valterino una lettera ritrovata nel computer di Carmelo Pintabona, 20 pagine datate 2011 in cui elenca i favori che avrebbe fatto a Berlusconi: 500mila euro per distruggere Fini, l'impegno per comprare i senatori, la distruzione di foto dell'ex premier con alcuni camorristi. Lettera che è costata nel 2013 a Lavitola una condanna definitiva a un anno e 4 mesi per la tentata estorsione. Giustizia: morte di Carlo Giuliani, i poliziotti non diventino pasdaran dell'ideologia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 luglio 2015 Non era un eroe Carlo Giuliani. Era un ragazzo. E questo c'è scritto, "ragazzo", sulla lapide voluta da famiglia e amici che, con assai esigua maggioranza, il Comune di Genova collocò in piazza Alimonda per ricordarlo. Ci si potrebbe fermare qui: forse, ci si dovrebbe. Per rispetto della morte. Per pietà. Perché tutto il resto attiene all'insanabile malattia ideologica del nostro Paese che ancora sente il bisogno d'accapigliarsi sulla tragedia di due suoi figli (Carlo aveva 23 anni; non ancora 21 ne aveva - quel 20 luglio 2001 degli scontri per il G8 - il carabiniere Mario Placanica verso il quale stava tirando un estintore e che gli sparò per legittima difesa, come hanno stabilito i giudici). Quest'Italia intossicata continua a brandire quel giorno di dolore, l'anarchico e il carabiniere come vessilli, senza comprenderne errori e orrori, perpetuando la guerriglia civile tra "noi" e "loro" come stolido riflesso degli anni di piombo. Ci siamo abituati. Più difficile è accettare che nella bagarre si calino alcuni poliziotti. Lascia perplessi l'iniziativa del Coisp ligure (un sindacato minoritario delle forze dell'ordine) che promuove per il 20 luglio una manifestazione proprio in piazza Alimonda, aperta da una raccolta di firme per rimuovere la lapide a Giuliani. Ora, su quel blocco di granito i cittadini genovesi hanno ogni diritto di dibattere, se necessario. Ma non si vede la necessità che servitori dello Stato ci aggiungano un carico, infiammando gli animi. I poliziotti, tantissimi, che rischiano per noi la vita e ai quali va il nostro grazie, non hanno bisogno di pasdaran nelle piazze. Gli stessi pasdaran che si contrapposero in una polemica crudele a Patrizia, la mamma di Federico Aldrovandi, morto durante un controllo nel 2005. E sfregiarono così, una volta in più, l'immagine dell'istituzione. Chi veste la divisa dello Stato può commettere anche sbagli assai gravi. Ma non può essere né dei "nostri" né dei "loro": perché è di tutti. Giustizia: morte di Carlo Giuliani, che pena un sindacato che festeggia un omicidio di Piero Sansonetti Il Garantista, 9 luglio 2015 Per la prima volta, in Italia, si svolgerà quest'anno una pubblica manifestazione per rivendicare un omicidio. Non era mai successo, credo. Non era mai successo che si festeggiasse per un'uccisione. Non mi pare che si sia mai svolta una celebrazione neppure per ricordare ed esaltare l'uccisione di Mussolini, il 28 aprile. Invece c'è un sindacato di polizia, il Coisp, che ha convocato una manifestazione per ricordare l'assassinio di Carlo Giuliani. La manifestazione si svolgerà a Genova, in piazza Alimonda, la settimana prossima, il 20 luglio, e cioè si svolgerà nel luogo e nel giorno nei quali, esattamente 14 anni fa, fu ucciso Giuliani, 23 anni. Chiederà che sia rimossa la lapide intestata a lui. La storia della morte di Giuliani è abbastanza nota. La riassumo. Carlo era un ragazzo genovese che quella mattina di luglio stava per andare al mare. Poi seppe della grande manifestazione che il movimento no-global aveva organizzato contro la riunione del G8, che si temeva in città, con Bush, Berlusconi e tutti gli altri, e decise di partecipare. La manifestazione fu attaccata all'improvviso da polizia e carabinieri e iniziarono scontri molto duri. Carlo era in Piazza Almonda quando alcuni manifestanti attaccarono una camionetta dei carabinieri che era rimasta staccata di qualche metro dagli altri mezzi della polizia. Impugnò un estintore, vuoto, non si sa se per difendersi o se per lanciarlo contro la camionetta. Un estintore vuoto, però, non è molto pericoloso. Invece un carabiniere che stava dentro la camionetta - che era una camionetta blindata, con le inferriate ai finestrini - si impaurì, anche perché altri manifestanti stavano colpendo la camionetta con bastoni e assi di legno. Si impaurì, tirò fuori la pistola e sparò. Era un carabiniere calabrese, più o meno della stessa età di Carlo, senza esperienza, gettato lì nella mischia dai suoi superiori. Sparò con la pistola puntata orizzontalmente. Cioè non sparò in aria. Prese Carlo alla testa, e Carlo cadde. Poi la camionetta fece marcia indietro, e poi di nuovo marcia avanti, e sul corpo di Carlo Giuliani un paio di volte e lo finì. Carlo era vestito con una canottiera, un passamontagna e al braccio, vicino alla spalla, aveva un rotolone di scotch, di quello per impacchettare o chiudere gli scatoloni. Non si sa cosa ci facesse con quello scotch, però si sa che se l'anello di cartone di un rotolo di scotch può scorrere oltre il gomito di un ragazzo di 23 anni, beh, vuol dire che quel ragazzo è magrolino ed è difficile assai che sia un picchiatore pericoloso. Carlo era uno scricciolo. Polizia e carabinieri cercarono subito di sviare l'opinione pubblica. Cercarono di sostenere che Carlo era stato ammazzato da una sassata tiratagli per sbaglio da un compagno. Un poliziotto piazzò un sasso vicino alla testa di Carlo e iniziò a gridare contro un manifestante: "L'hai ucciso, tu, l'hai ucciso tu". Però quel giorno la piazza pullulava di giornalisti. E i giornalisti videro, raccontarono e scrissero. E le autorità furono costrette ad ammettere. Intervenne la magistratura. Ci fu un'inchiesta. Il carabiniere fu assolto, gli riconobbero la legittima difesa. Furono giorni davvero cupi, quei giorni di fine luglio 2001. Io mi ricordo perfettamente il primo attacco della polizia, improvviso, violento, contro la testa del corteo che scendeva da Corso Gastaldi. Il corteo era pacifico, in testa c'erano le famose tute bianche di Luca Casari-ni, tutte bardate con scudi di gommapiuma, ma senza neppure un bastone, né tantomeno una molotov. I Black Block erano lontani, facevano azioni improvvise di guerriglia, ma non erano nel corteo. La famosa zona rossa (dove la polizia aveva vietato a tutti di entrare) era a molte centinaia di metri, era difesa da gabbie invalicabili, non era in pericolo. La polizia fece scattare l'attacco contro il corteo senza alcun motivo. Non so chi diede quell'ordine folle. Mi ricordo il futuro sindaco di Milano, allora deputato, Giuliani Pisapia, insieme ad un'altra parlamentare, Graziella Mascia, che cercavano di convincere i capi della Ps e dei carabinieri a fermarsi, a smetterla di caricare e di tirare lacrimogeni. Ma non serviva a niente. Sparavano candelotti all'impazzata, ad altezza d'uomo. Un candelotto mi sfiorò la faccia e si schiantò contro il segnale del divieto di sosta. C'erano dei ragazzini di 15 o 16 anni terrorizzati. Via Castaldi è un budello, difficile scappare. Scappammo un po' nei vicoli vicini, verso piazza Alimonda. Ma anche lì era pieno di polizia. E lì iniziò lo scontro tra carabinieri e manifestanti, e fu ucciso Carlo Giuliani. Poi sapete come andarono le cose. Il giorno dopo fu ancora peggio. Un corteo gigantesco, di 100 mila persone, fu attaccato di nuovo, molto brutalmente. Furono picchiati a sangue i ragazzini, i vecchi, i preti, persino le suore. E poi la notte ci fu l'attacco feroce alla scuola Diaz. Quello per il quale l'Italia è stata condannata alla Corte di Giustizia europea per tortura giusto qualche mese fa, dopo 14 anni. E il giorno dopo le torture aumentarono, alla caserma di Bolzaneto. Con la collaborazione di ufficiali e persino di alcuni medici. Uno scempio. Furono i giorni della vergogna per la polizia e per i carabinieri italiani. La reazione dell'opinione pubblica nazionale e internazionale fu così forte che da allora non è più successo niente del genere. Nessuno ha mai capito bene perché le forze dell'ordine si comportarono in quel modo dissennato. Sul piano della strategia militare fu una sconfitta ro beffare da due o trecento ragazzi dei Black Block, che agirono a loro piacere, indisturbati: non ne arrestarono nemmeno uno. Sul piano della politica resta il mistero. Si sa che Fini, che era il vicepresidente del Consiglio e aveva ancora addosso un po' la fama del fascista, stava in una caserma dei carabinieri, e pare che da lì dirigesse le operazioni. Chissà se è vero. Chissà se il governo aveva deciso di mettere in scena una spettacolare operazione di repressione "cilena" per fare buona impressione con Bush. Chissà se qualcuno si era impaurito per la forza che il movimento no-global iniziava a dimostrare, e aveva pensato che una sana "mattanza" lo avrebbe scontrato. Magari gli storici scopriranno i motivi nascosti di quelle giornate infami. Noi no, siamo solo giornalisti. E possiamo soltanto dire, senza rancore, senza violenza, che proviamo un po' di pena per questo sindacato di polizia che vuole trascinare in piazza la gente, per cancellare la targa a Carlo Giuliani e per esaltare il suo omicidio. Molta, molta pena. Giustizia: Balduzzi (Csm); magistratura rispetta legge, non è né pro né contro le imprese Askanews, 9 luglio 2015 "La vicenda del sequestro preventivo presso la Fincantieri e l'Ilva e del successivo dissequestro a seguito dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 92/2015 ha dato origine a un vivo dibattito sui rapporti tra magistratura e scelte politiche, oltre che sul possibile conflitto tra tutela della salute o dell'ambiente e tutela dell'occupazione o dell'impresa". Renato Balduzzi affronta oggi sulla sua rubrica "Pane e Giustizia" pubblicata dal quotidiano Avvenire un tema complesso ma attualissimo. "Conflitti difficili - aggiunge Balduzzi, anche perché si tratta di beni spesso intrecciati: la perdita del lavoro e le difficoltà economiche comportano anche, in generale, una minor tutela della salute. Mi limito a due osservazioni nel merito. I diritti fondamentali tutelati dalla nostra Costituzione - osserva Renato Balduzzi - si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri: non sono parole mie, ma della sentenza Silvestri n. 85 del 2013 della Corte costituzionale, che affermò la legittimità del decreto-legge del Governo Monti sul caso Ilva. Il bilanciamento tra i diversi diritti spetta al legislatore, ma il giudice, soggetto alla legge e soltanto a essa, non ne è un mero e passivo esecutore, in quanto può sempre, ricorrendone i presupposti, chiedere alla Corte costituzionale di verificarne la compatibilità con la Costituzione". Ecco perché - scrive Balduzzi - "non è appropriato vedere la magistratura come una "manina" pro-impresa o tantomeno come anti-impresa: essa è un'istituzione soggetta soltanto alla legge, quantunque non semplice "bocca" della medesima. Un'ultima notazione, più in generale: coerenza vorrebbe che tutti i commentatori, in particolare quelli che soltanto due settimane fa hanno giustamente valorizzato l'enciclica di Francesco sulla casa comune, non se ne dimentichino a proposito del conflitto ambiente-sviluppo. In particolare, due inviti del Papa non andrebbero trascurati: il primo, "a cambiare il modello di sviluppo globale", cioè a ridefinire la nozione di progresso; il secondo, ad accettare "una certa decrescita in alcune parti del mondo, procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti". Siamo sicuri - si chiede concludendo Balduzzi - che non abbiano a che fare con il nostro tema?". Mail copiate dalla Finanza, respinti i ricorsi del Cda di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Limiti stretti ai ricorsi contro i sequestri probatori eseguiti dalla Gdf durante la verifica fiscale. I giudici di Cassazione (Terza penale, sentenza 29072/15 depositata ieri) ribadiscono infatti che l'impugnazione del provvedimento di ricerca della prova è ammissibile solo se mirata a riottenere la "disponibilità" fisica della cosa finita sotto sigilli, mentre il ricorso non può reggersi - e non può essere quindi accolto - se costruito solo su presunte illegittimità nella acquisizione "forzata". Il caso, piuttosto complicato, era nato dopo che la Guardia di Finanza di Bologna in sede di verifica fiscale di una multinazionale aveva copiato alcuni account di posta elettronica dell'ad, del presidente del cda, infine di consiglieri e dirigenti aziendali apicali. Dall'analisi di quei file - di fatto migliaia di messaggi di posta, alcuni dei quali anche con professionisti e consulenti esterni della società - era nato un procedimento penale per omessa dichiarazione, considerato che la sede lussemburghese formale, alla luce delle fitte corrispondenze, appariva un mero espediente di evasione tributaria. Secondo i difensori degli indagati le modalità di acquisizione della prova avrebbero violato una serie di diritti personali (mancata "doppia riserva di giurisdizione") e procedurali, poiché gli account acquisiti nella verifica amministrativa erano stati di fatto utilizzati nel nascente procedimento penale senza il necessario decreto preventivo del pubblico ministero. In sostanza la strada percorsa dalla difesa avrebbe portato a un giudizio (peraltro interno cautelare) sulla legittima acquisizione e pertanto sulla utilizzabilità processuale degli account "indizianti". Tanto più che le eccezioni sollevate dai legali puntavano a contestare anche la violazione della segretezza della corrispondenza con i professionisti, nemmeno mai avvisati dello screening investigativo a cui le loro mail erano state sottoposte. Tuttavia la Terza penale, riprendendo un filone giurisprudenziale omogeneo e con un unico precedente contrario (36775/03), ha sottolineato che l'impugnazione del sequestro richiede la legittimazione di chi lo propone e, non meno importante, l'interesse a tornare nella disponibilità della cosa sottratta. Di fatto, argomenta la Corte, il ricorso serve (solo) ad emendare "le conseguenze pregiudizievoli per la parte derivante dal vincolo di indisponibilità imposto sulle cose oggetto di sequestro". Altrimenti, se si facesse luogo anche a una valutazione sulla procedura di acquisizione, si anticiperebbe un giudizio sulla utilizzabilità della prova, previsto invece (e se mai vi si arrivi) in una fase più avanzata del procedimento. Quindi, per tornare ai fatti di causa, la Terza bolla come "carenti di interesse" i ricorsi dell'ad e del presidente del cda, non avendo mai i due indagati patito una vera e propria "sottrazione" del loro account di posta elettronica, che invece era stato semplicemente "copiato" dai finanzieri su propri pc. Diffamazione a mezzo stampa: no alle multe pesanti di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Corte europea dei diritti dell'Uomo - Sezione IV - Sentenza 23 giugno 2015 - Ricorso n. 32297/10. Le sanzioni penali per i giornalisti non convincono la Corte europea dei diritti dell'uomo, anche quando si tratta unicamente di sanzioni pecuniarie. Con la sentenza del 23 giugno (Niskasaari contro Finlandia), Strasburgo fissa i paletti al margine di discrezionalità concesso agli Stati e in particolare ai giudici nazionali chiamati a decidere tra due diritti in gioco: libertà di espressione e tutela della reputazione. Con un preciso obbligo, cioè considerare che la posizione del giornalista è diversa da quella di chi si avvale generalmente della libertà di espressione. A rivolgersi a Strasburgo, l'editore e un giornalista di un magazine, che aveva pubblicato un articolo critico nei confronti di un collega della televisione pubblica per un reportage sulle foreste, con alcuni dati falsi. Citati in giudizio, i due erano stati condannati: il giornalista a una multa di 240 euro e 2mila per i danni, l'editore a 4mila euro per danni e 25mila per i costi sostenuti dal diffamato in tribunale. Una conclusione che non ha convinto la Corte europea. Per Strasburgo è vero che gli Stati e quindi le autorità giurisdizionali nazionali hanno un certo margine di apprezzamento nello stabilire a quale diritto dare la prevalenza - reputazione o libertà di espressione (articoli 8 e 10 della Convenzione) - ma la Corte europea mantiene il diritto di supervisionare il pieno rispetto della Convenzione. Tanto più che i tribunali interni sono tenuti a seguire i parametri fissati dalla Corte e, quindi, nei casi in cui è in gioco la libertà stampa, accertare il contributo al dibattito su questioni di interesse generale, la notorietà della persona oggetto dell'articolo e il contenuto, la condotta della persona interessata, il metodo utilizzato per ottenere informazioni e la veridicità, il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione e la severità della sanzione. La Corte utilizza la congiunzione "e", segno che tutti gli elementi devono essere oggetto di valutazione, con un margine che così diventa ristretto. Tanto più che - scrivono i giudici internazionali - solo se sussistono forti ragioni è possibile sostituire i parametri individuati dalla Corte con quelli propri dei giudici nazionali, tenuti a considerare il ruolo particolare del giornalista. Proprio a quest'ultimo aspetto i giudici interni non avevano prestato sufficiente attenzione, mentre avrebbero dovuto farlo secondo Strasburgo, che così tiene a sottolineare la necessità di un diverso trattamento per la stampa. La sanzione, poi, era stata sproporzionata confrontando le misure previste dal diritto finlandese per altri reati. Di qui la condanna dello Stato in causa, tenuto a versare 32mila euro per i danni patrimoniali, 1.500 per quelli non patrimoniali e 3mila per le spese. Il legittimo fine pubblico non esclude la turbativa d'asta se la gara è irrituale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 8 luglio 2015 n. 29156 Turbativa d'asta e falso in atto pubblico per i dipendenti comunali che danno il via libera alla demolizione dei cartelloni pubblicitari in violazione delle norme sugli appalti. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 29156/15 depositata ieri e che ha cassato la sentenza che aveva stabilito il non luogo a procedere. Sotto accusa erano finiti il comandante della Polizia locale e due dipendenti comunali per aver proceduto in maniera irrituale all'indizione di una gara (per il ricorrente "fittizia") che si era conclusa con l'assegnazione dell'appalto per lo smantellamento a una stessa impresa già appaltatrice per lo smaltimento Rsu nel Comune. Inoltre, prima dell'attività di demolizione erano state emesse delle sospensive di tale attività dal competente giudice amministrativo. La cassazione della sentenza - Per La Corte di legittimità il Gup aveva escluso la sussistenza del reato mancando tra gli elementi probatori l'indizio di motivi personali degli imputati. Anche se, come rileva il ricorrente e tiene in considerazione la Cassazione, è indubbio comunque il vantaggio attribuito alla ditta appaltatrice. La condotta che secondo la Cassazione rileva è sicuramente quella del comandante di Polizia in quanto figura apicale a cui i due dipendenti comunali non aveva fatto altro che aderire in adempimento dei rispettivi e diversi ruoli pubblici. Nell'accogliere il ricorso la Corte ricorda che in base al proprio orientamento anche se con la condotta messa in atto si persegue una legittimità finalità pubblicistica ciò non consente alcuna deviazione dalle regole sull'affidamento degli appalti. Il fatto - La demolizione dei cartelloni pubblicitari era stata effettuata in assenza dello svolgimento di una gara ad hoc ed era avvenuta poche ore dopo la sospensiva del Tar sull'ordine di demolizione. Ma questo ultimo punto non è quello che più rileva, infatti, la sentenza afferma che la non conoscibilità della sospensiva date le circostanze era ammissibile escludendo il dolo. Ciò che, invece, appare più rilevante è l'obbligo di procedere a una regolare gara per affidare lo specifico appalto. E, quindi al contrario è configurabile il reato di turbativa d'asta per il mancato svolgimento della gara in forma corretta. Il Gup aveva escluso il reato anche in capo al Comandante della Polizia locale tenuto conto della completa deregulation in atto nel Comune sulla cartellonistica stradale e affermando che l'illiceità della procedura non può rilevare in un caso dove si sarebbe potuto procedere anche all'affidamento diretto dell'attività. Così la Cassazione ha accolto il ricorso e ha annullato la sentenza del Gup solo nei riguardi del Comandante avendo ravvisato nel comportamento dei due dipendenti comunali per scala gerarchica solo l'adempimento di quanto loro prescritto dal proprio superiore. Per contestare una discarica abusiva non serve alcuna consulenza tecnica di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 luglio 2015 n. 29084. Il reato di discarica abusiva non necessita di alcuna consulenza tecnica. Per contestare il reato previsto dall'articolo 734 del codice penale è sufficiente considerare una certa quantità di materiali accumulati su una determinata area. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 29084/2015. La Corte si è così espressa non accogliendo le richieste avanzate in sede di legittimità. Il ricorso - In particolare gli appellanti avevano fatto presente come non fosse stata accertata la composizione morfologica dei materiali rinvenuti mediante apposita ctu, così come mancava un'espressa verifica sulla quantità dei materiali rinvenuti mediante pesatura. Al tempo stesso i ricorrenti avevano eccepito come il Tribunale non si fosse interessato sui movimenti del materiale e sulla temporaneità del deposito. La Cassazione, tuttavia, in linea con i giudici di merito, ha rilevato come per la configurabilità del reato di discarica abusiva non è necessario effettuare una consulenza tecnica per accertare la natura e la composizione dei rifiuti né, tantomeno, la loro pesatura per verificarne la quantità esatta quando, come nel caso concreto, tali dati siano verificabili attraverso l'esame diretto. Si legge testualmente nella sentenza come le caratteristiche del rifiuto e la sua classificazione - considerata la natura - non necessitano di particolari verifiche, essendone immediatamente rilevabile la provenienza e trattandosi di materiali dei quali normalmente ci si disfa, salvo destinarli a successivi impieghi che vanno però dimostrati, cosa che non è avvenuta nel caso in esame. I ricorrenti lamentavano, inoltre, come si trattasse di materiale stanziato temporaneamente e che fossero semplici sottoprodotti. Anche sul punto la Corte è stata perentoria rilevando come i rifiuti risultassero livellati e accumulati sul posto nel corso degli anni, probabilmente attraverso l'ausilio di mezzi meccanici. Il principio di diritto - Di qui la Corte ha espresso il seguente principio di diritto ossia "i materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge". L'avvio dell'impianto fotovoltaico abusivo autorizza il sequestro preventivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 luglio 2015 n. 29085. Anche se l'opera è ormai ultimata, la semplice messa in funzione dell'impianto fotovoltaico realizzato senza la prevista autorizzazione amministrativa regionale integra quel periculum in mora che ne autorizza il sequestro preventivo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 29085/2015 rigettando il ricorso del rappresentante legale di una società abruzzese. La vicenda - La misura cautelare era stata disposta ipotizzandosi diversi reati (articolo 181 Dlgs 42/2004 e 44 lett. a) e c) Dpr 380/01) nella costruzione di un impianto a terra, di potenza pari a 993.60 Kw, in un'area dichiarata di notevole interesse pubblico e posta a meno di 150 metri dal fiume Sangro. La contestazione, fra l'altro, riguardava la artificiosa parcellizzazione dell'impianto per mantenere la soglia di potenza al di sotto di 1 Mw in modo da usufruire fraudolentemente della "procedura amministrativa semplificata", in luogo della prevista "autorizzazione unica regionale". Secondo il ricorrente, però, non sussisteva alcun periculum in mora in quanto trattandosi di un intervento ormai ultimato "non vi sarebbe la necessità di impedire ulteriori conseguenze, poiché l'impianto fotovoltaico, per sua natura, non comporta alcun aggravio del carico urbanistico", mentre il suo funzionamento "sarebbe irrilevante, diversamente da quanto avviene, ad esempio, con gli impianti eolici, quando la messa in esercizio comporta il movimento delle pale". La motivazione - Una ricostruzione bocciata dalla Suprema corte che in proposito richiama un proprio precedente (n. 2043/2013) che segna il passaggio da quella che viene efficacemente definita "concezione statica della realizzazione degli impianti" ad una "concezione dinamica del loro impatto sul territorio", giungendo alla conclusione che l'esercizio di un impianto fotovoltaico "non può essere considerato esclusivamente sotto il profilo della mera presenza fisica". Una posizione completata dalla sentenza odierna secondo cui "l'utilizzazione di impianti fotovoltaici costruiti in assenza della prescritta autorizzazione continua a produrre, anche dopo la loro ultimazione, una lesione dei bene giuridico protetto che la legge individua nell'interesse dell'autorità competente alla permanente vigilanza non solo sulla realizzazione ma anche sull'esercizio degli impianti". Infatti, diversamente da quanto prospettato nel ricorso, la conduzione di un impianto fotovoltaico "comporta la presenza di personale per attività di manutenzione e controllo, finalizzata alla piena efficienza dei pannelli solari, alla verifica e sostituzione di parti meccaniche ed elettriche, alla pulizia, nonché alla sostituzione e successivo smaltimento come rifiuto dei pannelli". Del resto l'autorizzazione unica regionale è necessaria non soltanto per la costruzione degli impianti ma anche per il loro l'esercizio. Abusi edilizi, sanzioni in base al peso urbanistico di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Consiglio di Stato - Sezione VI - Sentenza 23 giugno 2015 n. 3179. Sanzioni severe sugli abusi edilizi che modificano fondamenta o sottotetti di costruzioni già esistenti. Questo l'orientamento del Consiglio di Stato espresso nelle due sentenze della sezione VI n. 3179/2015 (presidente Patroni Griffi, estensore De Michele) e della sezione IV n. 2980/2015 (presidente Giaccardi, estensore Maggio). Nel primo caso, l'edificio aveva un piano in più non realizzato in elevazione, ma attraverso lo sbancamento di tre metri di terreno. Il notevole aumento di volume aveva indotto il Comune ad adottare una sanzione di totale demolizione, ritenendo che il manufatto fosse diventato un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetria. Lo sbancamento, infatti, si cumulava a un mutamento di destinazione e ad altri abusi di minore entità. L'aspetto interessante è che l'abuso lasciava apparentemente immutata la costruzione, perché l'ulteriore livello era ricavato al di sotto di quello assentito. Tale circostanza è stata sottolineata dai giudici amministrativi precisando che le sanzioni urbanistiche prevedono in astratto la "rimozione" delle difformità rispetto al progetto assentito. La sanzione, tuttavia, non può essere irrazionale, perché principi di rilevanza anche comunitaria impongono proporzionalità e ragionevolezza. Applicandoli al caso specifico è stata esclusa la demolizione dell'intero manufatto, ma al Comune è rimasta la via dell'ordinanza di ripristino (interramento) e della sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore. Stesso ragionamento è quello svolto dal Consiglio di Stato nella seconda sentenza: la realizzazione di un'altezza superiore nel sottotetto va sanzionata in misura pari al doppio del valore dell'intero volume, senza detrarre quello del sottotetto originariamente esistente. Anche in questo caso la demolizione è stata esclusa, perché avrebbe pregiudicato strutture legittime (l'edificio). Ma la sanzione pecuniaria è stata molto elevata (270mila euro per un ex sottotetto), perché i lavori abusivi avevano reso utilizzabile a fini residenziali una superficie in precedenza adibita a ripostiglio-lavanderia. La repressione degli abusi edilizi, in entrambi i casi, si basa sul peso urbanistico dell'intervento e non delle opere edili necessarie a modificare le costruzioni. Il problema era già stato affrontato dal Consiglio di Stato nella sentenza 127/1983, escludendo che il valore del volume preesistente l'abuso potesse essere portato in detrazione dalla sanzione pecuniaria. In altri termini, se per realizzare un nuovo volume residenziale si rinuncia a un locale accessorio, la sanzione pecuniaria che il Comune può irrogare in alternativa alla riduzione in pristino sarà pari al doppio del valore della residenza, senza detrarre il valore di quanto preesisteva all'abuso. Il Durc può essere rilasciato anche in assenza di pagamento integrale dei contributi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2015 Tribunale di Cosenza, ordinanza 1° luglio 2015. Se sia destinata a fare giurisprudenza è presto per dirlo. Di certo l'ordinanza con la quale la sezione Lavoro del tribunale di Cosenza ha dato il via libera all'emissione del Durc per un'impresa in concordato con continuità, pur non essendo previsto il pagamento integrale dei debiti contributivi, ha il sapore della novità assoluta. E potrebbe contribuire a rendere un po' più facile la vita a quelle aziende che più hanno a che fare con la pubblica amministrazione. Quest'ultima infatti esige la produzione del Durc per potere eseguire i pagamenti, in sua assenza tutto si blocca con danni evidenti per la prosecuzione dell'attività imprenditoriale, accresciuti se l'impresa si trova in concordato con l'obiettivo di proseguire l'attività. L'ordinanza, depositata il 1° luglio, ha affrontato la situazione di una casa di cura che eroga prestazioni di assistenza psichiatrica per contro dell'Asp di Cosenza; la forma giuridica con la quale viene svolta l'attività è quella della società a responsabilità limitata. La srl è stata ammessa alla procedura di concordato preventivo in continuità e si è rivolta all'autorità giudiziaria dopo che, nel maggio scorso, ha dovuto subire l'emissione di un Durc negativo da parte dell'Inps, che, a sua volta, con il diniego metteva in evidenza l'irregolarità contributiva in cui era incorsa l'azienda. Il terreno di contrasto è dato dalla presenza di un concordato preventivo che prevede il pagamento non integrale dei debiti contributi. Tanto basta a Inps per negare il Durc, sulla base del presupposto per cui, in caso di concordato preventivo in continuità, per i crediti previdenziali l'adempimento consiste solo nel loro soddisfacimento integrale. Tuttavia, fa notare l'ordinanza, anche per i crediti privilegiati è permesso un soddisfacimento non integrale e la possibilità in astratto di un pagamento non completo dei crediti previdenziali è previsto dall'articolo 182 ter della Legge fallimentare sulla disciplina della transazione fiscale. La sezione Lavoro osserva che la legittimità del soddisfacimento non integrale deve essere valutata nella singola procedura concorsuale, ma l'Inps si è limitata a un'opposizione di principio corroborata solo dal richiamo a propri atti interni. Il piano di cordato della Srl, invece, è stato approvato dai creditori, senza che l'Inps esprimesse neppure in quella sede un giudizio negativo sul pagamento incompleto dei crediti. Il rilascio del Durc, peraltro, è assolutamente necessario alla casa di cura, che aveva proceduto con procedimento d'urgenza sulla base del "classico" articolo 700 del Codice di procedura civile, perché le entrate dipendono quasi esclusivamente dai pagamenti effettuati dall'Asp. Con quest'ultima che, come attestato da delibere, subordina i versamenti a fronte delle prestazioni effettuate alla verifica della presenza del Durc in capo all'azienda. Una situazione che espone molto concretamente l'azienda al rischio di fallimento, non potendo più disporre di risorse per fare fronte agli impegni del piano di concordato. Di qui la decisione del tribunale di ordinare a Inps (in attesa di possibile impugnazione) di rilasciare alla Srl l'attestazione di regolarità contributiva. Lettere: studiare in carcere, un valore e un investimento di Gabriella Imperatori Corriere Veneto, 9 luglio 2015 Ogni volta che un essere umano uccide un altro essere umano, specie se con modalità atroci, ci s'interroga sulla personalità dell'assassino, sulle possibili cause del delitto, cause di cu la cronaca offre spesso un catalogo atroce: gelosia, sete di denaro, vendetta, odio politico, motivi sociali. Detto altrimenti, con il supporto di antropologia, neuroscienze, psicologia, la spiegazione la si trova nella "teoria dei bisogni progressivi", che spaziano dai bisogni primari come cibo e sicurezza a quelli di gratificazione emozionale e sessuale, fino al bisogno di autostima, cioè di sentirsi qualcuno, ricco, potente, ammirato. Ma anche nei più clamorosi deliri di onnipotenza può accadere che il killer commetta un errore grossolano che lo porta all'arresto, come se la parte "buona" del proprio "io" volesse, con l'espiazione, punire la parte "cattiva" predominante. Nei giorni scorsi s'è riaperto l'interesse per il falegname Michele Fusaro che, nel 2007, ha sequestrato, ucciso e fatto a pezzi Jole Tassinari di Castelfranco Veneto. Storia tragica, dolorosissima per la famiglia; processi celebrati con condanna definitiva a trent'anni. Ma la notizia fresca è il diploma di ragioniere conseguito in prigione dall'assassino, dopo un impegno coronato da una tesina che ha valso al neodiplomato le lodi dei suoi insegnanti e, forse, un momento di sollievo dalla depressione che oscurava la sua mente. Depressione perché il carcere, per quanto meritato, è deprimente. Certo, ma forse anche perché con lo studio è iniziata la fase della consapevolezza, del pentimento, dell'espiazione che fa intravedere, in fondo al tunnel, la luce della resurrezione. Ce lo hanno spiegato molti classici, a cominciare dai grandi lussi. Il carcere è dunque, come vuole la legge, afflittivo ma insieme rieducativo attraverso lo studio e il lavoro. Non occorrono gli eccessi di durezza dei Paesi dove l'ergastolo è una lunga morte. E nemmeno le tenerezze dei Paesi dove pedino un serial killer colpevole della strage di settanta giovani è stato condannato a soli vent'anni e ha ottenuto una carcerazione a cinque stelle, completa di tutto ciò che un carcerato può desiderare. Senza questi eccessi, nel carcere Due Palazzi dì Padova si può migliorare attraverso lavori anche creativi o attraverso lo studio. Questo però lascia molti scontenti. Anzitutto i familiari della vittima, che non riavranno più la loro cara, e vanno pienamente capiti. E poi coloro che, in rete, protestano contro il "buonismo" che permette il "lusso" dello studio gratuito in galera a chi ha un passato di disumana criminalità. Sono reazioni inevitabili. Ci saranno. Ma nascono da uno spirito di vendetta degno di codici preromani e precristiani, e non considerano come la redenzione sia anche un vantaggio per lo Stato: un investimento, non solo morale e culturale, ma perfino economico, privo del costo delle recidive. Lettere: parcelle indifendibili per l'amministrazione dei beni sequestrati di Antonio Galdo Il Mattino, 9 luglio 2015 Rischio paralisi nei Tribunali italiani: è quanto paventano gli amministratori giudiziari e alcuni magistrati. Il motivo? Un decreto del governo, firmato dal ministro Andrea Orlando che si è permesso, lesa maestà, di calmierare i compensi dei professionisti chiamati dai giudici ad amministrare, temporaneamente, le aziende sequestrate ai clan della malavita organizzata. L'intervento di Orlando, ispirato a un minimo di buonsenso e di trasparenza, mette le mani su una torta finora spartita senza alcun controllo. Cosicché l'unica vera paralisi di cui sotto sotto ci si preoccupa riguarda se mai un carrozzone costruito, pezzo su pezzo, nel nome di una lotta per la legalità non priva di effetti paradosso. Un'inchiesta del Mattino, a firma di Andrea Bassi, ha dimostrato, cifre alla mano, l'enorme spreco che avvolge la nube dei beni sequestrati. Stiamo parlando di 8mila aziende confiscate (solo a Napoli sono più di duecento), e di immobili per un valore complessivo di oltre 30 miliardi di euro. Un patrimonio che potrebbe alleggerire i conti dello Stato se si procedesse, con tempestività e regole chiare, a farlo fruttare o a rimetterlo sul mercato. E invece la vendita dei beni risulta quasi impossibile e il destino delle imprese coincide molto spesso con il fallimento. In un caso e nell'altro non senza che i Tribunali, cioè lo Stato, cioè noi, abbiano corrisposto agli amministratori parcelle quasi sempre laute, talvolta imbarazzanti. Il tutto nella più totale discrezione dei singoli tribunali, senza un criterio omogeneo, senza alcuna pubblicità, come in una qualsiasi una trattativa privata. Una procedura che, se fosse adottata nello stesso modo da un normale amministratore pubblico, finirebbe nove volte su dieci con un avviso di garanzia a suo carico, una denuncia della Corte dei Conti e un processo con relativa condanna. Invece accade il contrario. In un momento in cui l'intera pubblica amministrazione è sottoposta a un controllo di legalità pervasivo e puntiglioso da parte della magistratura, l'unica zona franca rischia di essere quella di casa propria. Non c'è alcuna forma di pubblicità sulle modalità e sull'entità delle tariffe riconosciute a ciascun amministratore giudiziario. Poi ogni tanto si scopre che, per esempio, a Napoli l'amministratore di alcune aziende sequestrate al gruppo Ragosta si è visto riconoscere un credito di un milione e 800mila euro e liquidare un anticipo di 75mila euro, facendo così infuriare i dipendenti in cassa integrazione. L'anomalia non è sfuggita a Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità contro la corruzione, e allo stesso governo che finalmente ha deciso di intervenire in questa zona grigia della burocrazia giudiziaria. Apriti cielo. Mentre il decreto si prepara ad approdare in Consiglio dei ministri per l'approvazione definitiva, il muro corporativo delle due categorie cointeressate si è alzato come un riflesso condizionato. Con i soliti slogan: se passa il provvedimento è rischio paralisi. Ma la tesi addotta per difendere la giungla delle parcelle a molti zeri è la seguente: un amministratore giudiziario non può essere equiparato a un curatore fallimentare, poiché il suo compito è molto più complesso. Nella percezione del cittadino tuttavia la distinzione tra i due suona così: il curatore fallimentare amministra il patrimonio di un'impresa fallita, l'amministratore giudiziario la porta nella maggior parte dei casi al fallimento. Insomma, se il timore di chi si oppone al provvedimento è la paralisi, non c'è niente di più paralizzato di una gestione amministrativa nel complesso fallimentare, che induce il cittadino a nutrire una sfiducia radicale nei confronti dello Stato. Un singolare gioco delle coincidenze vuole, infine, che la picaresca protesta nei tribunali arrivi nello stesso giorno in cui l'Inps comunica le classifiche sulle pensioni degli italiani. Indovinate quale categoria è in cima alla lista? I magistrati ovviamente, con 9.573 euro lordi mensili, ben 6mila euro in più della seconda classificata, quella del personale universitario. Non sarà che da una simile altezza retributiva sia difficile riconoscere lo scandalo di parcelle esagerate? Lettere: pene e sentenze, le colpe dei politici ricadono sui giudici di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2015 Quando non sono occupati nella critica della sentenza, i tifosi delle vicende giudiziarie, soprattutto quelle penali, disapprovano le pene inflitte: le considerano - in genere - troppo lievi. La critica alla decisione, spesso espressa in vere e proprie gazzarre mediatiche, è quasi sempre dovuta all'ignoranza delle leggi che la impongono (prescrizione, non rilevanza penale di fatti percepiti come meritevoli di condanna); ed è quindi irrilevante giuridicamente e spesso inaccettabile per il modo in cui è espressa. La critica alla misura della pena è più comprensibile; la valutazione della gravità del fatto e dell'intensità della colpa o del dolo è in effetti molto soggettiva. Si tratta sempre delle stesse domande: quanto è stato cattivo quest'uomo? La pena che gli sarà inflitta lo indurrà a pentimento o lo inasprirà? La risposta non è mai facile. C'è sempre la possibilità di dover giudicare in futuro un reato della stessa specie ma ancora più grave: se oggi si applica il massimo della pena, quale condanna si infliggerà domani? E poi reati che offendono lo stesso bene protetto, per esempio la vita, possono differenziarsi sul piano soggettivo. Per un omicidio volontario, commesso allo scopo di occultare un altro reato (per esempio uno stupro) è previsto l'ergastolo. Chi ha cagionato per colpa la morte di una o più persone guidando in stato di ubriachezza ha certo commesso un reato gravissimo, ma non può essere trattato nello stesso modo: uccidere volontariamente e per motivi abbietti è assai più grave della più grave delle imprudenze. Fino a qui, è piuttosto semplice. Ma quale pena infliggere nel caso concreto? La legge aiuta, prevede una forbice tra il minimo e il massimo. Certo, dal punto di vista della vittima e dei suoi familiari, anche il massimo è troppo poco. E però il giudice deve guardarsi bene d al l ‘immedesimarsi in loro: giustizia non è vendetta; le società dove questo avviene sono barbare. E poi la pena ha sempre due aspetti: è una punizione; ma anche un'occasione di ravvedimento. Qui il dilemma è ancora più difficile perché pene troppo lievi possono generare la convinzione che delinquere conviene. Ma pene troppo afflittive trasformano il colpevole a sua volta in una vittima, producono rancore e desiderio di vendetta. E sono comunque obiettivamente ingiuste. Tutto ciò detto, il legislatore (cioè, tanto per cambiare, la politica) ha gravi responsabilità. In molti casi, reati di intrinseca maggiore gravità sono puniti più lievemente di altri meno gravi. Un furto in appartamento (senza aggressione alle persone, in questo caso sarebbe una rapina) è punito più di un falso in bilancio, di un'evasione fiscale milionaria o di uno scempio ambientale. Naturalmente il giudice non può che applicare la legge; ma la severità nei confronti dei miserabili e la connivenza con i predatori più potenti non è degna di una società civile. D'altra parte, la soluzione adottata dalla politica è inaccettabile: pene fino a 4 anni di reclusione non sono in concreto espiate. Che significa sommare ingiustizia a ingiustizia. In tal modo l'impunità è garantita anche a quella fascia di criminali che dovrebbero invece scontare le loro condanne, ancorché lievi in confronto alla gravità dei reati commessi. Così il vivere civile si trasforma in una permanente razzia e molti, constatandone la debolezza, abbandonano la comunità degli onesti. Emilia Romagna: solidarietà a Davide Grassi da Desi Bruno, Garante regionale detenuti Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2015 Desi Bruno esprime solidarietà al Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Rimini, Davide Grassi, che nella giornata di ieri ha annunciato le sue dimissioni irrevocabili dall'incarico. A fondamento della propria decisione il collega di Rimini, con il quale in questi mesi l'Ufficio del Garante regionale ha avuto modo di collaborare, anche intraprendendo iniziative congiunte, relativamente alle questioni attinenti alla Casa Circondariale di Rimini, ha posto la mancanza di un adeguato supporto in termini organizzativi e strumentali che, nei fatti, non ne ha agevolato lo svolgimento dell'incarico, non potendo disporre, tra le altre cose, di una sede in maniera esclusiva. È convincimento dell'Ufficio del Garante regionale che gli enti locali, ad ogni livello territoriale, una volta deciso di istituire un organo di garanzia per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e per il loro reinserimento sociale debbano anche dare piena dignità al ruolo, in ragione delle competenze specifiche necessarie, della complessità delle questioni che si vanno ad affrontare e dell'indipendenza a cui deve essere orientato il mandato. Piena dignità del ruolo che non può che passare attraverso il riconoscimento di un congruo supporto in termini organizzativi e strumentali. Sardegna: il Provveditore De Gesu lascia dopo 4 anni, al suo posto Enrico Sbriglia Ansa, 9 luglio 2015 "Porterò con me, di questa esperienza in Sardegna, quello che mi hanno insegnato i vari direttori, il personale e i miei collaboratori. Quando si dice che i sardi sono i migliori poliziotti penitenziari d'Italia, si dice solo la verità". Così Gianfranco De Gesu, il provveditore regionale della polizia penitenziaria, ha descritto la sua esperienza sull'isola. Oggi che lascia l'incarico per dirigere unicamente - visto che già ricopriva questo ruolo - la Direzione generale risorse delle materie, dei beni e dei servizi del Dipartimento della Penitenziaria. Al suo posto, come provveditore reggente, arriverà Enrico Sbriglia che è già provveditore del Triveneto. "È stata un'esperienza importante - ha evidenziato De Gesu - che porterò sempre con me". Si può dire che durante la sua permanenza abbia cambiato la geografia penitenziaria della Sardegna con la chiusura delle vecchie carceri e l'apertura delle nuove. "È stata una bella sfida aprire gli istituti - ha detto il provveditore uscente - non è detto che fosse scontata l'apertura. Ho anche gestito la chiusura di Buoncammino, un'esperienza unica in Italia. Sono soddisfatto perché nei quattro anni del mio lavoro sull'isola ho fatto arrivare, anche attraverso la collaborazione dei sindacati locali, circa seicento agenti. Il problema dell'organico rimane, rispetto alla pianta organica di circa 1800 uomini siamo sotto di 400 unità. Chiaramente bisogna considerare che con ogni aumento di organico in Sardegna c'è una riduzione di quello in continente". Ma ci sono altre criticità che non sono ancora state risolte. "Abbiamo sei direttori per dieci istituti - ha detto ancora De Gesu - in questo momento abbiamo direttori di grandissima professionalità, mentre non ci sono domande disponibili per venire in Sardegna. In questi quattro anni ho provato in tutti i modi a risolvere il problema". Tra i fiori all'occhiello dell'attività svolta dal provveditore sono le colonie penali in cui hanno scelto di lavorare circa 300 detenuti. "Abbiamo il più alto tasso di detenuti che lavorano in Italia - ha concluso - un basso tasso di affollamento (in questo momento i detenuti sono circa 1900 con una disponibilità di 2350 posti), e il tasso di recidiva è la metà del tasso in Italia". Parma: interrogazione sul trasferimento di altri 15 detenuti AS1 dal carcere di Padova Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2015 Pagliari, Lo Giudice. Al Ministro della giustizia. Premesso che: da quanto viene riferito è previsto un trasferimento di altri 15 detenuti dal carcere di Padova, appartenenti alla sezione AS1 (detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso), nella stessa sezione del carcere di Parma; la decisione ha suscitato molte perplessità, in quanto la situazione della sezione AS1 del carcere di Parma è già molto precaria; il 17 giugno 2015, con una lettera aperta inviata al capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, al provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria, al direttore degli istituti penitenziari di Parma, ai parlamentari e alle associazioni di volontariato impegnate nel penitenziario di Parma, il Garante dei diritti delle persone private della liberà personale del Comune di Parma, Roberto Cavalieri, ha espresso le proprie perplessità in merito a questa decisione che andrebbe a peggiorare le condizioni di vivibilità ed i percorsi rieducativi dei detenuti della sezione AS1 del carcere di Parma; Nel carcere di Parma, infatti, negli spazi non ampi della succitata sezione AS1 del carcere di Parma, si trovano attualmente 28 detenuti, 6 dei quali sembra che vivano in celle in cui lo spazio calpestabile è inferiore a 3 metri quadri. Il che comporterebbe la violazione dell'art. 27 della Costituzione e della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario); a causa di tale condizione, le attività della sezione, infatti, hanno subito una contrazione a discapito della vivibilità della struttura e dell'attività di rieducazione dei detenuti; l'assegnazione di altri detenuti non sembra essere giustificabile, si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga opportuno rivedere tale decisione. Santa Maria Capua Vetere (Ce): l'emergenza acqua in carcere arriva sul tavolo del governo di Biagio Salvati Il Mattino, 9 luglio 2015 La Sgambato chiama in causa i sottosegretari De Caro e De Micheli per superare l'impasse burocratica. Gli annosi problemi di approvvigionamento idrico che, soprattutto d'estate, interessano la struttura del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere dotato di un impianto di potabilizzazione, ma non allacciato alla infrastruttura idrica del comune sono stati ancora una volta al centro di un intervento politico. Nella fattispecie, quello della deputata Pd Camilla Sgambato che, prendendo le parti dell'amministrazione comunale, a proposito dell'allacciamento da realizzare, parla di "impedimenti di ordine amministrativo-contabile, che hanno reso irrealizzabile l'opera. I fondi, infatti, non possono essere trasferiti dal Ministero della Giustizia ad un ente locale, che nel caso di specie dovrebbe assumere le vesti di sta -zione appaltante, trattandosi di lavori da svolgersi per la maggior parte al di fuori dell'area demaniale dell' amministrazione penitenziaria". Pertanto, spiega la deputata "Mi sono rivolta direttamente al Governo, ai due sottosegretari Umberto Basso De Caro e Paola De Micheli, perché si possa trovare una soluzione che consenta di superare gli impedimenti burocratici e, finalmente, dare corso all'opera di allaccio alla rete idrica comunale del carcere di Santa Maria Capua Vetere". Si tratta di un'opera da un milione di euro con fondi stanziati dal Dap e che da anni incontra difficoltà tecnico-contabili che costringono la direzione del carcere a risolvere il problema idrico con autobotti. Circostanza che provoca spesso reazioni e proteste delia popolazione detenuta in periodi caldi come quello di questi giorni. Tutto ciò - come hanno evidenziato in passato anche la stessa direzione del carcere e la commissione ad-hoc per i detenuti della Camera Penale presieduta dall'avvocato Nicola Garofalo - lede il diritto, dei detenuti e del personale, di fruire di acqua come gli altri cittadini, causando anche esborsi non irrilevanti per la direzione della struttura, in caso di emergenze e manutenzioni specifiche. Ma c'è anche chi è pronto a sollecitare la questione in Regione Campania in virtù di un accordo già siglato in passato con il Provveditorato regionale degli affari penitenziari, teso a finanziare le opere necessarie a restituire il diritto vitale all'accesso all' acqua per la popolazione detenuta nella casa circondariale sammaritana, impegnandosi al finanziamento dei lavori necessari. Siena: strade e aree verdi, il Comune di Monsummano mette al lavoro i detenuti di Luca Signorini Il Tirreno, 9 luglio 2015 Firmata una convenzione tra Monsummano e il carcere di Santa Caterina. È la prima del genere in provincia, il progetto partirà a settembre. Il Comune si fa paladino del reinserimento sociale dei detenuti: alcuni di loro presteranno la loro opera gratuita alla cura del territorio. Si tratta di una sorta di "risarcimento alla società" dopo i reati commessi. Per il municipio è invece forza lavoro in più in momenti di tagli e assunzioni bloccate. La convenzione firmata dall'amministrazione e dalla casa circondariale di Pistoia è unica nel suo genere in provincia (la decina di detenuti che già da due anni lavorano per il Comune di Pistoia, infatti, ricevono un rimborso spese mensile e non sono impiegati gratuitamente). Il progetto partirà a settembre e avrà durata sperimentale di un anno: inizialmente saranno impiegate due persone, a cui se ne aggiungeranno altre a rotazione a seconda degli interventi da realizzare (per un tetto massimo comunque di 36 ore settimanali). Saranno inquadrate ai dipendenti in servizio al magazzino comunale di via Toscana, e "assegnate per obiettivi", che in pratica significa per singoli interventi di manutenzione a viabilità, aree e verdi pubblici ed edifici scolastici (i dettagli delle mansioni verranno comunicati al momento della temporanea "assunzione"). "Il progetto nasce da un protocollo d'intesa firmato dalle amministrazioni carcerarie con l'Anci (Associazione nazionale comuni italiani, ndr) - spiega Tazio Bianchi, direttore del penitenziario di Santa Caterina in Brana, a Pistoia - a Monsummano abbiamo riscontrato una sensibilità notevole sulla questione. I detenuti svolgeranno lavori socialmente utili in affiancamento al personale del Comune. Naturalmente sarà impiegato chi è già ammesso a misure alternative alla reclusione ed è a fine pena, cioè chi tra massimo un paio di anni terminerà del tutto con il regime carcerario". Naturalmente ci sarà la massima attenzione nella selezione dei detenuti. "Saranno persone meritevoli di tentare questo approccio innovativo verso il reinserimento sociale, chi da tempo si è messo in gioco all'interno del carcere con varie attività. Ogni progetto per detenuto deve poi essere approvato da me e dal magistrato di sorveglianza. Noi abbiamo un compito di risocializzazione e vigileremo sul corretto svolgimento del servizio concordato" conclude il direttore di Santa Caterina. "Sono due gli aspetti molto importanti di questa collaborazione - aggiunge il sindaco Rinaldo Vanni - il primo riguarda l'aiuto di carattere sociale che il Comune, e con lui la collettività, offre ai detenuti. Il secondo è l'attenzione alla cura del territorio con l'incremento della forza lavoro che verrà impiegata e che ci consentirà do svolgere interventi aggiuntivi. Altra cosa da sottolineare è che i termini dell'accordo sono stati approvati all'unanimità da tutto il consiglio comunale, minoranze comprese, segno che gli obiettivi del progetto sono condivisi. Da circa un anno l'assessore Simona De Caro e il consigliere Maurizio Venier lavorano a questo progetto innovativo, che oggi può dirsi a tutti gli effetti operativo". Roma: la telemedicina del "San Giovanni" per controlli cuore ai detenuti Regina Coeli Adnkronos, 9 luglio 2015 La telemedicina per controllare il cuore dei detenuti. È il progetto di teleconsulto cardiologico tra la Casa circondariale di Regina Coeli e l'Azienda ospedaliera San Giovanni-Addolorata di Roma. Nel maggio scorso è stata siglata una convenzione tra il S. Giovanni, l'Asl Rm/A e la Casa circondariale per lo svolgimento del Servizio di telemedicina in favore della popolazione in essa detenuta. Dopo una fase preparatoria e di sperimentazione il servizio prenderà il via venerdì. Gli elettrocardiogrammi effettuati a Regina Coeli saranno refertati dai cardiologi del S. Giovanni che, oltre al referto, potranno fornire indicazioni e suggerimenti diagnostici e terapeutici. Da un punto di vista informatico il carcere sarà visto come un reparto del S. Giovanni che potrà, in caso di necessità, usufruire di consulenze interne. Il servizio di teleconsulto - avverte l'Ao S. Giovanni - ha un duplice scopo: supportare i medici del Centro clinico del Regina Coeli con una second opinion e sostenerli nella decisione di trasferire o no il paziente in ospedale. Si ricorda che il trasferimento in sicurezza di un detenuto al Pronto Soccorso ha un costo di circa 2.200 euro. In una prima fase il servizio sarà attivo dalle ore 8 alle ore 14, ma a breve diventerà H24. Il Centro Telemedicina del S. Giovanni lo start up del progetto, la formazione e farà da ‘help desk' per i medici e infermieri del Regina Coeli. Il progetto è stato sostenuto dal Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio che ne ha garantito il finanziamento. Pescara: detenuto tenta il suicidio in cella, non c'erano posti nel reparto psichiatrico abruzzolive.it, 9 luglio 2015 È affetto da gravi problemi psichici il detenuto di etnia rom che ieri pomeriggio ha tentato il suicidio nel carcere di Pescara ingerendo del detergente usato per le pulizie ma è stato salvato dal pronto intervento della Polizia Penitenziaria. La particolarità sullo stato di salute del recluso è stata resa nota dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Il detenuto è stato prontamente soccorso dal personale di Polizia Penitenziaria addetto alla vigilanza del reparto e portato all'ospedale civile di Pescara dove, dopo una lavanda gastrica, è rientrato in istituto", spiega il segretario provinciale Sappe Felice Rignanese. "Lo scampato pericolo, deve farci riflettere perché nella casa circondariale di Pescara il detenuto che ha tentato il suicidio era in regime di grande sorveglianza per problemi psichiatrici trasferito da poco da un altro istituto. Invece di esser ubicato nell'apposito reparto, quello psichiatrico limitato a 8 posti già tutti occupati, stava in una normale sezione di reclusione a regime aperto dove erano presenti altri 45 detenuti". Aggiunge da Roma il segretario generale Sappe Donato Capece: "La situazione nelle carceri resta allarmante: altro che emergenza superata! Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. I numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti e i tentati suicidi si verificano costantemente, con poliziotti feriti e celle devastate. Il ministro della Giustizia Orlando e il Capo dell'Amministrazione Penitenziaria Consolo adottino con tempestività urgenti provvedimenti, a cominciare dalla sospensione della vigilanza dinamica delle sezioni detentive, provvedimento che ha favorito e favorisce questa ignobile e ingiustificata violenza facendo stare i detenuti fuori delle celle a non fare nulla tutto il giorno". Conclude Capece: "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Pescara - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri abruzzesi e del Paese tutto". Santa Maria Capua Vetere (Ce): da detenuti a imprenditori, con un progetto in carcere Ansa, 9 luglio 2015 Tutoraggio e formazione per impresa da realizzare dopo carcere. Si chiama "Idee d'Impresa per la libertà" il progetto che ha coinvolto 15 detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) attraverso un corso di tutoraggio finalizzato a sviluppare delle piccole imprese da realizzare una volta scontata la detenzione. L'iniziativa è stata promossa dalla società di formazione Meta S.p.a. in collaborazione con la Regione Campania che l'ha anche finanziata. Il tutoraggio, con 300 ore di formazione e didattica, si è svolto a partire da febbraio all'interno della casa circondariale casertana in un laboratorio informatico; a rendere possibile la "trasformazione" delle idee proposte è "Prevedo- Start Up", un software per lo sviluppo di business plan ideato da Aldo Chiapparino, pioniere di programmi per la nascita di nuove imprese. "Prevedo", donato gratuitamente ai detenuti, è stato utilizzato da quest'ultimi per sviluppare le future piccole imprese, da un campo di addestramento per cani ad aree per la coltivazioni di funghi e asparagi passando per l'organizzazione di tour cittadini a bordo di vespe d'epoca. Le idee imprenditoriali e la cronistoria del tutoraggio in carcere sono raccolte in un libro. "Dopo il tutoraggio i detenuti hanno tutti gli strumenti per realizzare i loro progetti - spiega Donato Alberico di Meta S.p.a. - ma vogliamo seguitare il progetto per supportarli anche nella fase di realizzazione e proseguire con la nostra iniziativa confidando nel supporto del Garante dei detenuti e nella sinergia delle forze che hanno operato all'iniziativa". Pavia: detenuto in sciopero della fame "fatemi vedere i miei tre figli" La Provincia Pavese, 9 luglio 2015 Da dicembre dell'anno scorso è in carcere per avere cercato di entrare nell'abitazione dell'ex moglie e avere aggredito i carabinieri intervenuti per calmarlo. E da allora Vincenzo Calì, rinchiuso nel carcere di Torre del Gallo, non vede i suoi tre figli piccoli. I conflitti con la sua ex moglie ma anche l'intervento dell'assistente sociale glielo impediscono. Ma l'uomo, che ha 37 anni ed è residente a Barbianello, non si vuole arrendere. Da qualche giorno il detenuto è in sciopero della fame. Una forma di protesta estrema, resa ancora più rischiosa dalle temperature di questi giorni. L'uomo rifiuta il cibo che gli viene dato dal personale della struttura, ingerendo solo acqua e tè zuccherati. "Sto sentendo troppo la mancanza di miei figli e andrò avanti fino a che non mi sarà permesso di vederli - fa sapere il detenuto attraverso una lettera scritta di suo pugno in cella -. Sono la mia vita e per loro sono disposto a tutto". L'uomo, nella sua richiesta di attenzione, fa anche riferimento ai conflitti con l'ex moglie e chiede di mettere da parte i rancori affinché gli sia permesso di "vedere ancora i bambini". Lo sciopero della fame è cominciato il 25 giugno, quindi dura ormai da quasi due settimane. I vertici del carcere di Pavia e il personale che ha a che fare ogni giorno con il detenuto stanno monitorando la situazione, per scongiurare il peggio. I colloqui con i minori sono vincolati all'autorizzazione dei vertici del carcere, una volta verificata la disponibilità di un adulto ad accompagnare i bambini nella struttura carceraria. Un ostacolo, a risolvere al meglio la vicenda, sembra però essere rappresentato proprio dal passato dell'uomo, che aveva già avuto guai con la giustizia e che alcuni mesi fa, secondo quanto contestato dalla procura, era stato protagonista di un tentativo di intrusione in casa dell'ex moglie. La donna, spaventata, aveva chiamato i carabinieri e quando erano arrivati l'uomo aveva perso la testa e si era scagliato contro i militari. Dal carcere ora lancia il suo appello. Torino: al carcere Lorusso e Cotugno un percorso di fede per i detenuti musulmani di Irene Famà La Stampa, 9 luglio 2015 La Casa circondariale Lorusso e Cotugno decide di scommettere sull'integrazione. Dalle prossime settimane verrà assicurata l'assistenza spirituale ai detenuti musulmani. Una ventina di volontari delle moschee torinesi di corso Giulio Cesare e di via Chivasso si sono resi disponibili ad offrire a chi è in carcere un sostegno nella fede per aiutarli a riflettere sugli errori commessi e su come reinserirsi nella società. L'idea, risultato di un lungo studio e confronto, nasce da una collaborazione con il forum "Politiche di integrazione e nuovi cittadini" della Circoscrizione 7. Territorio particolarmente eterogeneo e multietnico che cerca di favorire l'incontro, la conoscenza e il rispetto tra le diverse culture. "Su 1.300 detenuti - spiega il direttore del carcere delle Vallette, Domenico Minervini - il 60% sono extracomunitari. Più del 40 proviene dal Medio Oriente ed è di religione islamica. Considerati i numeri, abbiamo deciso di proporre anche l'assistenza spirituale musulmana. Il nostro è un esperimento. In un contesto complesso, detentivo, puntiamo sull'integrazione. Abbiamo scelto di dare un segnale di distensione tra le diverse tradizioni e i diversi paesi". La risposta della comunità musulmana è stata immediata e propositiva. "Chi è in carcere ha sicuramente sbagliato - dichiara Brahim Baya di Taiba, del centro di culto di via Chivasso costruito nel 2006 dall'Associazione Islamica delle Alpi. Ha commesso errori, ma rimane, nonostante tutto, una persona. I detenuti sono uomini con doveri, diritti e bisogni. Oltre alle necessità primarie c'è anche quella spirituale. Ecco perché il nostro gruppo è orgoglioso di poter dare una mano ai fratelli che hanno smarrito la retta via". La normativa Sostegno anche dall'Afaq, Associazione Culturale e di Sviluppo che gestisce la sala di preghiera di corso Giulio Cesare. "Chi è in prigione, sovente scopre o rafforza il legame con la fede - racconta il referente Hassan El Batan. In un contesto di solitudine, molte sono le domande che sorgono sui fondamenti della religione, sul ramadan, sui profeti. Credere è un importante strumento di pentimento e riabilitazione". Tra i volontari che offriranno ai detenuti assistenza spirituale, ci saranno anche alcuni Imam. Per questi, però, servono permessi particolari e si sta ancora aspettando il parere del Ministero. "Questo progetto - dichiara Diletta Berardinelli, coordinatrice del Forum - è un primo passo verso un percorso di integrazione detentiva che in molti altri paesi è regolato a livello nazionale, mentre qui, invece, è ancora privo di normativa". Brindisi: dal Csv Poiesis progetto "Il Carcere degli Innocenti", via alla quinta edizione brundisium.net, 9 luglio 2015 Nei giorni scorsi sì è svolto presso la Casa Circondariale di Brindisi, l'incontro di presentazione del progetto "Il Carcere degli Innocenti" giunto alla quinta edizione. L'iniziativa che si terrà durante il periodo estivo, è organizzata dal CSV Poiesis, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Brindisi, ed è rivolta ai figli dei detenuti in visita ai genitori nei mesi estivi, in concomitanza con la chiusura delle scuole. All'incontro di presentazione sono intervenuti il presidente del CSV Rino Spedicato (Centro Servizi al Volontariato della provincia di Brindisi), la direttrice della Casa Circondariale di Brindisi Annamaria Dello Preite, la referente del garante per i diritti dei detenuti Isabella Lettori e la commissaria della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Brindisi Ilaria Lomartire. "Il progetto, avviato cinque anni fa - afferma Annamaria Dello Preite - si propone di accogliere i bambini che accedono in Istituto per incontrare il papà, aiutandoli a vivere al meglio questo momento così importante in una condizione di quasi normalità. "Il Carcere degli innocenti" è il nome dato all'iniziativa. Gli innocenti sono proprio i figli dei genitori detenuti costretti loro malgrado a vivere una condizione personale difficilissima a causa della rottura dei legami familiari conseguenti alla carcerazione di uno o di entrambi i genitori. Il progetto pensato e realizzato dal CSV di Brindisi, quest'anno si è arricchito del contributo, assolutamente spontaneo, di un gruppo di ragazzi del catechismo della parrocchia della Pietà di Brindisi i quali, con il ricavato della vendita di alcuni prodotti realizzati con materiale di scarto, hanno acquistato e donato al carcere un gazebo che è stato installato nella zona destinata all'accoglienza dei bambini. Il progetto si inserisce all'interno di una serie di interventi organizzativi e strutturali attuati negli ultimi tempi con l'obiettivo di migliorare le condizioni detentive. In relazione al mantenimento delle relazioni familiari, mi riferisco all'adeguamento della sale destinate ai colloqui con i familiari, all'interno delle quali il vecchio bancone divisorio è stato sostituito con tavolini, all'allestimento di una sala riservata ai colloqui con i figli minori che sarà attivata a breve, alla previsione dei colloqui in una giornata festiva, ed inoltre, una volta alla settimana, nelle fasce orarie pomeridiane per consentire ai ragazzi di incontrare il padre senza la necessità di assentarsi dalla scuola". La particolare valenza dell'iniziativa rileva anche sotto un altro aspetto: per quanti partecipano quotidianamente alla realizzazione del progetto, sostenere la genitorialità in carcere significa farsi carico concretamente dei bisogni di chi vive la condizione detentiva, vuol dire fare volontariato non in maniera assistenzialistica ma secondo modalità di autentica partecipazione, perfettamente in linea con la riforma del sistema penitenziario che vuole sempre più una società civile parte attiva della fase della esecuzione della pena, nel convincimento che la risocializzazione del condannato intanto è possibile in quanto alla privazione della libertà si accompagni un processo di responsabilizzazione e di riconciliazione del reo con la comunità. E non solo. "Sostenere la genitorialità in carcere - conclude la direttrice - significa anche fare prevenzione sociale. Ogni anno sono 75.000 i bambini che in Italia varcano le porte del carcere per visitare i genitori detenuti. Occuparsi di loro significa farsi carico delle ricadute che l'interruzione dei legami affettivi conseguente alla carcerazione di uno o di entrambi i genitori ha anche sulla società (è stato statisticamente provato un aumento dei fenomeni di abbandono scolastico, di devianza giovanile, di disagio giovanile fra i figli di genitori detenuti). Un merito particolare, infine va riconosciuto ad un detenuto della Casa Circondariale di Brindisi che con competenza ed impegno costante ha realizzato il giardino all'interno del quale ogni giorno vengono accolti volontari e bambini. Anche quest'anno saranno tanti i volontari che singolarmente o attraverso le associazioni di appartenenza con responsabilità, competenza e soprattutto creatività parteciperanno all'edizione del 2015". A tutti è stato rivolto un pensiero di gratitudine e di affetto. Vigevano (Pv): "Recito quindi sono", i detenuti attori sul palcoscenico di Expo di Denis Artioli e Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 9 luglio 2015 Nel padiglione del Qatar proporranno uno spettacolo ispirato all'Odissea Francesco: "Ulisse vuole tornare a casa come io voglio rivedere i miei bambini". Gli attori detenuti del carcere di Vigevano reciteranno anche ad Expo. Venerdì, infatti, "Io che non sono nessuno", spettacolo ispirato all'Odissea, misto di recitazione e musica, frutto del laboratorio teatrale tenuto da Alessia Gennari alla casa di reclusione di Vigevano andrà in scena al padiglione del Qatar - palco esterno. L'evento, denominato "Recito quindi sono: il teatro in carcere e altre storie" è organizzato dalla polizia penitenziaria e coinvolgerà anche le compagnie teatrali del carcere di San Vittore, di Bollate e di opera. L'inizio è previsto intorno alle 19 e ad ogni compagnia teatrale sarà riservata mezz'ora per proporre il proprio spettacolo. Per quanto riguarda i detenuti vigevanesi, dopo il successo ottenuto a maggio proprio nella città ducale, ora la magistratura di sorveglianza ha riconosciuto l'importanza e l'utilità di queste esperienze, con grande soddisfazione del direttore della struttura Davide Pisapia e dell'educatore Giuseppe Vullo. "Mi avevano chiesto di provare questa esperienza - racconta Francesco, uno dei detenuti attori - e ho provato. Ora penso che anche una volta uscito dal carcere continuerò con il teatro, perché mi ha aiutato tantissimo. Qui siamo riusciti a "smontare la mentalità carceraria", siamo usciti dagli schemi, mi spiego: quando si entra in carcere tutta una serie di emozioni non si provano più, perché si è lontani dalla famiglia, dagli amici da tutto. Mi ero dimenticato cosa fosse, per esempio, l'imbarazzo. E l'ho provato proprio in questa occasione, prima nel provare a mettermi in gioco, poi nel salire sul palco davanti al pubblico. Quando si recita si torna liberi. Anche la trama dello spettacolo, poi, la sento molto "mia": Ulisse vuole tornare a casa, come io voglio tornare dai miei bambini". "L'emozione più forte - aggiunge Bruno, che oltre a recitare, sul palco suona anche la chitarra - è stato l'applauso del pubblico a fine spettacolo. Qualcuno si è anche commosso ed è venuto a stringerci la mano. Il teatro ha davvero un grande valore educativo e rieducativo, perché ti da comunque disciplina, si deve studiare, imparare, fare quello che c'è scritto nel copione". "è la prima volta che entro in carcere - ha concluso Ermal - sono qui da due anni. Fare teatro è come fare qualcosa per noi stessi. L'Odissea poi ha dietro una guerra, un po' come noi che lottiamo per tornare uomini liberi". Saranno 11 i detenuti di Vigevano che saliranno sul palco. "Lo spettacolo - spiega Alessia Gennari - è il capitolo conclusivo di un percorso comune". Per assistere agli spettacoli basta prendere il biglietto serale - dalle 19 in poi - al costo di 5 euro. Libri: "Abolire il carcere", esiste un modo per liberarci dalla necessità del carcere? recensione di Giancarlo Capozzoli huffingtonpost.it, 9 luglio 2015 "Abolire il carcere" di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta è un libro, uscito da qualche mese, importante per diverse ragioni. Innanzitutto ha il merito di portare all'attenzione di un pubblico sempre più vasto di cittadini un argomento che riguarda davvero tutta la comunità, il corpo sociale in quanto tale. Cittadini che oggi, a mio avviso, anche hanno la possibilità e i mezzi di meglio informarsi e battersi per le questioni che concernono i diritti della persona. È pertanto evidente che parlare di detenuti, dei diritti dei detenuti è un tema che riguarda tutti noi, e il nostro vivere sociale. Non fosse che per la gravità e la vastità e la quotidianità di un problema che riguarda un numero molto elevato di cittadini, vittime e familiari. Uno dei meriti principali di questo libro, a mio avviso, è questo gettare una luce nuova su questo argomento. C'è da dire che giustamente il focus è puntato alla tutela degli ultimi, dei detenuti appunto. Ma è proprio questo rivolgere la propria attenzione ai diritti degli ultimi (nella scala sociale i detenuti sono gli ultimi) significa occuparsi di un problema sociale e politico importante, e della sua soluzione. Occuparsi degli ultimi, significa però anche occuparsi di chi davvero non vede i propri diritti rispettati, o quasi. I detenuti sono solo gli ultimi della scala sociale, ma bisogna partire da loro per risalire la china. Il rispetto della dignità e dei diritti della persona partono dagli ultimi. È questa la lezione fondamentale che si trae dalla lettura di questa proposta ragionevole, laica, illuminista. È un libro interessante ed utile perché nel ripercorrere le tappe della legislazione europea in materia, ci svela come tale legislazione abbia negli ultimi anni progressivamente riconosciuto sempre maggiori diritti (e responsabilità) ai detenuti. A partire dai tre metri quadrati necessari alla persona detenuta e al rispetto di questo apparentemente semplice principio, fino a quella che è la proposta vera e propria, di sostituzione graduale del sistema detentivo con altre misure cautelari, soprattutto nei confronti dei reati minori. La parte relativa alla legislazione europea e italiana è la parte più teorica e tecnica del libro, necessaria in vista del sistema legislativo vigente. Nel volume, sotto ogni punto di vista, legislativo appunto, politico, culturale sociale ed economico, l'argomento procede progressivamente nel mostrare limiti, difetti e acquisizioni anche dei diritti dei detenuti nel corso degli anni. La novità è questo nuovo schierarsi decisamente contro un sistema che ha mostrato tutti i suoi limiti per le ragioni ora accennate. Si inserisce in quella corrente progressista di cui il mondo ha fatto esperienza e che emerge nonostante il lungo periodo di difficile situazione e economica-sociale e culturale. Ciò che voglio sottolineare è che nonostante tutto non si può negare una evoluzione, un progresso che, anche a voler essere contemporanei soltanto, dagli albori del secolo scorso, seppur lentamente, ha apportato delle modifiche sostanziali a livello politico e culturale, di cui, oggi beneficiamo quotidianamente Questa continua evoluzione che ha conosciuto tragici momenti di arresto, riflessione, travisamenti e ripensamenti persino in certi drammatici casi, riprende inevitabile il suo corso, in vista di un miglioramento generale delle condizioni dell'uomo. Come questa battaglia a favore dei detenuti. È una battaglia di diritti, ciò di cui si dibatte. È la battaglia di chi vuole costruire un mondo migliore. Di chi riesce a pensarlo, a proporlo. Battaglia che necessita di essere condivisa e pertanto diffusa e conosciuta al fine di spiegarne le ragioni. È necessario domandarsi di nuovo: c'è stata una evoluzione nel rispetto della dignità, dei diritti e delle condizioni stesse dei detenuti negli ultimi decenni? Se la risposta può essere comunque affermativa, bisogna, come sembrano suggerirci gli autori di questo volume, fare esperienza, ri-partire, cioè, da quelle lotte umane, tanto umane semplicemente, perché sociali, politiche culturali, parlamentari, in vista di un miglioramento ancora e maggiore delle condizioni degli ultimi. A partire dagli ultimi, appunto in vista di un miglioramento generale. Il carcere, la questione del carcere ha, naturalmente, delle questioni specifiche. Questo è il compito del diritto e della giurisprudenza: garantire nel concreto le migliori condizioni di vita alla maggior parte delle persone. Dunque migliorare/abolire il carcere è lo spunto per una riflessione più ampia sulle condizioni dell' uomo. Nel momento in cui si dà concretamente la possibilità di una realtà liberata dalla necessità del carcere, è accaduto già un ripensamento rivoluzionario di un contesto sociale e politico appunto nuovo, attuale. Se davvero si ha il fine di raggiungere una legislazione che prevede il massimo di pena detentiva nei tre anni di cui aveva scritto Foà, citato nel libro, ad esempio, ma è per semplificare, e senza perdere di vista, più per un senso di protezione che di vendetta, direi, chi invece un reato ha subito, le vittime appunto, si dovrebbe (si potrebbe forse: sarebbe necessario) agire prima ancora a livello sociale e culturale. Il carcere è, come sostiene giustamente uno degli autori, discarica sociale, emarginazione di corpi, uomini e donne, già emarginati. Periferici, si potrebbe dire. La realtà di cui ognuno di noi che si occupa di carcere vede e vive è che la gran parte dei detenuti proviene da quella fascia della popolazione che è esclusa dalla società ufficiale, dagli incarichi, dal prestigio, e dalle condizioni riservate invece alle classi più abbienti. Agire a livello sociale e culturale per prevenire e arginare il fenomeno è forse l'unica soluzione. La diffusione di un maggior benessere economico anche, evidentemente. Questo libro è fondamentale per i tanti spunti di riflessione che detta, a noi contemporanei, e non solo. È una linea da seguire anche in vista della formazioni di giovani giuristi e semplicemente di giovani cittadini. Questo libro ci (a tutti noi) dà la traccia da seguire per una lotta fondamentale, quella del rispetto dei diritti di tutti. A partire dagli ultimi. Una lotta che non si può arrestare perché tremendamente umana. Guinea Equatoriale: caso Berardi; il rilascio diventa mistero, protesta sotto la Farnesina latinaquotidiano.it, 9 luglio 2015 Una manifestazione sotto il Ministero deli Esteri per chiedere la liberazione di Roberto Berardi. Lo ha indetto il Comitato Liberiamo Roberto Berardi dal Carcere della Guinea Equatoriale. L'appuntamento è per venerdì 10 luglio alle 9.30 in Piazzale della Farnesina. La manifestazione è stata indetta dopo che per l'ennesima volta è stata rinviata la liberazione dell'imprenditore pontino detenuto in Guinea Equatoriale. Berardi doveva essere rilasciato ieri, ma in Tribunale mancavano tutti i magistrati assenti per un funerale. Per la famiglia è l'ennesima beffa. E oggi non sono state diffuse notizie sul rilascio. Questa assenza di comunicazioni non fa che alimentare l'angoscia e l'esasperazione nei confronti di una vicenda che si trascina ormai da troppo tempo. I familiari di Roberto Berardi, appresa la notizia ieri, non hanno esitato a parlare di sequestro di persona. La famiglia in una nota scrive di aver constatato, per l'ennesima volta "Il perpetrarsi di un assordante silenzio da parte proprio del Ministero degli Affari Esteri e delle istituzioni italiane". Dopo la mancata liberazione dello scorso 19 maggio, che già fu considerata un abuso, neanche ieri c'è stata la scarcerazione. "Di fronte a questo ennesimo abuso giudiziario - si legge nella nota - l'Italia, il suo Governo, la sua diplomazia e l'Unione Europea appaiono non solo impotenti ma anche pericolosamente e drammaticamente silenti nei confronti dei loro omologhi equatoguineani, oltre che inadempienti, allo stato attuale, degli impegni presi con la Famiglia Berardi". A maggio infatti il Ministero degli Affari Esteri e l'Alto Commissario Ue agli Affari Esteri ed alla Cooperazione si erano impegnati a fornire "tutta l'assistenza necessaria a tutelarne l'incolumità". Alla situazione di Berardi si aggiunge anche quella di altri 5 connazionali, 3 dei quali detenuti in carcere, anche loro senza nessuna accusa formalizzata. La manifestazione di venerdì servirà a dare voce anche alla loro vicenda e ai familiari che chiedono solo di poter riabbracciare i loro cari ingiustamente detenuti in Guinea. Svizzera: nelle carceri ticinesi quasi tutto esaurito, 230 detenuti a fronte di 250 posti ticinonews.ch, 9 luglio 2015 I detenuti hanno superato quota 230, di fronte a una capienza massima di 250 posti. Ma presto la situazione potrebbe migliorare. Le carceri ticinesi negli ultimi mesi sono sempre più affollate. I picchi registrati di recente parlano di più di 230 detenuti ospitati ogni giorno presso le strutture della Stampa, della Farera e dello Stampino, di fronte ad una capienza massima dell'intero complesso di 250 posti. "Dallo scorso gennaio ad oggi" ci spiega il direttore delle Strutture Carcerarie ticinesi Stefano Laffranchini: "Abbiamo registrato un aumento delle presenze presso le nostre strutture". Un quasi tutto esaurito, che ha portato la media degli ospiti da gennaio ad oggi attorno alle 220 unità, e che recentemente ha superato quota 230, ci spiega il direttore. Una problematica che è già stata registrata in passato, ma con quote inferiori e su periodi più brevi. Nessun allarmismo comunque, la tendenza dovrebbe attenuarsi nei prossimi mesi. Anche se il tutto potrebbe già risolversi con i lavori di manutenzione, previsti prossimamente. Le migliorie porteranno alcune celle fuori uso presso la Stampa ad essere di nuovo operative, come ci conferma Laffranchini. E così la struttura potrà ospitare fino a 145 detenuti, contro i 134 attuali, portando una boccata d'ossigeno all'intero complesso. Mauritania: "mio fratello, condannato a morte per offese al Profeta (e alle caste)" di Michele Farina Corriere della Sera, 9 luglio 2015 L'ingegner Mohamed Ould M'kheitir, 29 anni, vive in due metri di cella, senza finestra. Capita - una volta alla settimana, oppure ogni tre - che lo facciano uscire nel cortiletto, per 10 minuti. Appestato anche da condannato: in isolamento perché gli altri detenuti lo ucciderebbero. Un giorno hanno cercato di avvelenarlo con il cibo. "La cosa che gli manca di più - dice la sorella Aisha - è leggere e scrivere. Non gli è permesso". Visita parenti, 10 minuti ogni 7 giorni. Prima ci andava la madre, poi le è mancata la forza. Ora è la sorella l'unico ponte. La moglie, Khairatte, dopo la sentenza è stata costretta dalla legge islamica a divorziare. "Ma non ho avuto il coraggio di dirlo a Mohamed", spiega Aisha. Quando si vedono, fratello e sorella si siedono su un rialzo del pavimento, sotto l'occhio di guardie e telecamere. "Finge di star bene, per non darci pena. L'ultima volta, gli ho detto che venivo in Italia. Mi ha pregato di chiedere scusa agli italiani, perché non poteva scrivervi una lettera come si deve". Mohamed è stato condannato a morte per apostasia a Nouadhibou, la città del pesce e del ferro in Mauritania, il 24 dicembre 2014. Condannato per offesa al Profeta, per aver scritto su Facebook che l'Islam ha tollerato le diseguaglianze sociali anche ai tempi di Maometto. Il processo d'appello sarà forse in autunno. Ribaltare un verdetto applaudito anche dal presidente della Repubblica sarà dura: non c'è avvocato disposto a difendere il giovane. Chi ci ha provato ha avuto minacce di morte e il fuoco in casa. I difensori d'ufficio si sono scusati con la corte. Mohamed, contabile in un'azienda metallurgica, scriveva di democrazia su Facebook, dal basso della sua casta dei maalemine (i fabbri): "Uno che non poteva permettersi di dire certe cose", osserva Nicola Quatrano, presidente dell'Osservatorio internazionale per i diritti (Ossin) che ha invitato la sorella del condannato in Italia per dare uno spicchio di luce al suo caso. E raccogliere fondi per la sua difesa. "Un amico di Mohamed ha scritto cose ben peggiori su Internet - racconta Aisha - ma siccome appartiene a una casta superiore non è stato sfiorato dalle accuse". Al processo Mohamed ha detto che non voleva mancare di rispetto al Profeta ma criticare il sistema sociale. "La sua tesi è che spetta alla politica e non alla religione il compito di ridurre le disuguaglianze" spiega Aminetou Mint Moctar, presidente di un'associazione che, dovendo bandire dal proprio nome ogni riferimento ai diritti umani pena la censura, si è chiamata genialmente "Associazione delle donne capo famiglia". Unica a essersi schierata per l'assoluzione del giovane, Amineotu ha accompagnato Aisha in questo viaggio. Prima a Roma, da Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani del Senato; poi a Napoli, per una manifestazione alla Camera Penale. Anche l'imam del capoluogo campano, Abdallah Cozzolino, si è espresso contro la condanna. Strumentalizzare la religione: lo fanno con gran cassa mediatica i tagliagole dell'Isis, lo fanno in silenzio giudici e potenti di Paesi "moderati" modello Mauritania. È il primo Paese al mondo per numero di schiavi. Gli attivisti anti-schiavitù in Mauritania trovano facilmente chi li difenda. Sono accorti, uniti, si tengono alla larga da territori "pericolosi" come la religione. Invece nei suoi due metri di cella, senza libri né penna, con una condanna a morte sulla testa, Mohamed Ould M'kheitir resta un lupo solitario, forse maldestro, uno sbarbatello della democrazia. Come i truci lupi solitari delle stragi, merita un titolo, una luce. E anche, lui sì, almeno un avvocato che lotti per la sua vita. Medio Oriente: tensioni fra Hamas e Anp dopo campagna arresti degli ultimi giorni Nova, 9 luglio 2015 Il movimento islamico palestinese di Hamas ha lanciato un avvertimento all'Autorità nazionale palestinese (Anp) per la campagna di arresti condotta ai danni dei suoi uomini in questi giorni in Cisgiordania. Il dirigente del movimento islamico, Abdel Rahman Shadid, ha tenuto una conferenza stampa a Gaza affermando che "i militanti di Hamas stanno subendo una campagna di arresti in Cisgiordania al punto che dal 2 luglio si contano in carcere 200 nostri uomini". Ieri si è svolta a Gaza una manifestazione in solidarietà con le persone arrestate. Per l'altro dirigente di Hamas, Mushir al Masri "l'Anp sta conducendo una campagna fallimentare per eliminarci dalla Cisgiordania". Iraq: condannati a morte i 24 detenuti accusati della strage di Camp Speicher Nova, 9 luglio 2015 Il Consiglio giudiziario supremo iracheno ha comminato la pena di morte a 24 detenuti accusati di aver partecipato alla strage di Camp Speicher in cui morirono circa 1.700 studenti, avvenuta nella base aerea posta nei pressi di Tikrit nella provincia di Salahuddin. Il portavoce dell'istituzione giudiziaria irachena Abdul Sattar Bayrakdar, ha detto che "quattro dei 28 accusati sono stati ritenuti non colpevoli non essendo trovate provate adeguate ad avvalorare l'ipotesi di un loro coinvolgimento nella strage". Il massacro di Camp Speicher risale al 12 giugno del 2014. Nella base militare Usa sono state uccise dallo Stato islamico (Is), prevalentemente a colpi di arma da fuoco, non meno di 160 reclute dell'Aeronautica militare irachena, sebbene il loro numero sia ancora imprecisato. L'Is ha reclamato pubblicamente l'uccisione di 1.700 sciiti, mentre il 17 settembre 2014 il governo iracheno in una dichiarazione ufficiale ha stabilito in 1.095 il numero delle vittime. In base alle foto e ai video pubblicati dai membri dell'Is, i terroristi hanno sparato da distanza ravvicinata, quindi hanno sepolto i corpi in fosse comuni come ribadito anche dai rapporti stilati dalle organizzazioni internazionali, con le Nazioni Unite che hanno definito l'eccidio un "crimine di guerra".