Giustizia: reato di tortura, in Senato vince il Sap di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 luglio 2015 La Commissione Giustizia del Senato annulla le modifiche apportate dalla Camera al testo di legge. Se nulla cambierà in Aula, il testo torna alla Camera. Rimpallo continuo, a rischio la legge. "Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi". Il linguaggio è quello che è, tipico del leghista Matteo Salvini che il 25 giugno scorso aveva sintetizzato così la protesta del Sap, il sindacato autonomo di polizia tanto conservatore quanto minoritario all'interno delle forze dell'ordine. Ma il concetto è stato fatto proprio, né più né meno, dall'intera commissione Giustizia del Senato - Pd in testa - che ieri all'unanimità ha annullato di fatto le modifiche apportate alla Camera al testo della legge sulla tortura. In sostanza, la fattispecie del reato e le pene previste tornano alla stesura approvata in prima lettura dallo stesso Senato il 5 marzo 2014, e si allontanano sempre più dai trattati Onu pure ratificati dall'Italia. In poche parole, diminuiscono le sanzioni, e il reato - che pure rimane comune e non proprio di pubblico ufficiale, come prescritto dalla Convenzione di New York e come chiedevano Amnesty International e altre associazioni - diventa ancora più generico. Affinché venga considerata tortura, per esempio, la violenza e la minaccia deve essere reiterata. Per essere crudi, una testa sbattuta contro un muro una volta non è tortura. Spariscono perfino, tra le finalità elencate per definire meglio la fattispecie, quelle discriminatorie etniche, religiose o sessuali. Così come sparisce quella locuzione - "per vincere una resistenza" - che tanto aveva irritato certa polizia. "Bisognava pur tenere conto dei rilievi fatti dalle forze dell'ordine perché l'uso della forza non è solo facoltativo ma è d'obbligo durante atti legittimi come l'arresto", ha detto al manifesto il relatore del testo, Enrico Buemi (Autonomie), che si è detto "soddisfatto" del risultato anche se inizialmente "avevo proposto un reato specifico per pubblico ufficiale". Ora, se l'Aula di Palazzo Madama confermerà le modifiche approvate ieri dalla commissione, il testo dovrà tornare di nuovo all'analisi dei deputati, continuando così un rimpallo tra le due camere che dura dal marzo 2013 e che molto probabilmente finirà con l'affossare la legge, come vuole certa polizia (non tutta), e come già avvenuto nel corso della scorsa legislatura. E mostrando così ancora una volta l'equilibrismo del premier Matteo Renzi che solo tre mesi fa esortava a non avere paura dell'introduzione della tortura nel nostro ordinamento. "Anzi - aveva detto il premier/segretario - si deve avere paura che non ci sia". Il testo approvato ieri dalla Commissione di Palazzo Madama prevede pene che vanno da 3 a 10 anni di carcere (e non più, come nella versione licenziata dalla Camera, da 4 a 10) per "chiunque con reiterate violenze e minacce gravi (nella versione dei deputati era diventata "con violenza o minaccia"), ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico (non più solo "sofferenza psicologica grave" perché "non accertabile a distanza di tempo" secondo i senatori della commissione) a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa". Rimane dunque inalterata quest'ultima frase che, secondo i deputati di Sel, rischiava con la sua ambiguità di escludere automaticamente situazioni come quella verificatasi all'interno della scuola Diaz durante il G8 di Genova, nella quale le vittime non erano sottoposte a stato di fermo né a custodia degli agenti autori del massacro. Rimane l'aggravante se il reato è commesso da pubblico ufficiale ma la pena massima prevista (la minima è 5 anni) scende da 15 a 12 anni di carcere. Viceversa, è stato respinto l'emendamento del senatore Sergio Lo Giudice (Pd) che aboliva giustamente l'ergastolo previsto in caso di morte volontaria della vittima. "Non sono affatto soddisfatto di queste modifiche - ha confessato Lo Giudice al manifesto - anche se ho dovuto votare come il mio gruppo, come prescritto dal vincolo in commissione: la tortura è un reato specifico commesso da chi rappresenta lo Stato". Infine, un passo indietro nell'evoluzione democratica anche per quanto riguarda i respingimenti o le espulsioni: nel testo della Camera uno straniero non poteva essere rimpatriato verso uno Stato dove avrebbe potuto essere oggetto di persecuzione, ma per la commissione Giustizia in questo modo sarebbe stato impedito qualsiasi respingimento. Ecco perciò che l'inammissibilità del rimpatrio è stata vincolata al caso che "esistano fondati motivi di ritenere che la persona rischi di essere sottoposta a tortura". "Ma siccome i respingimenti si fanno alla frontiera - spiega Buemi al manifesto - gli agenti potranno attingere ad un elenco di Stati dove, secondo i report internazionali, si pratica abitualmente la tortura e la violazione dei diritti umani". Elenco dal quale ovviamente manca l'Italia. Almeno finora. Le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone Purtroppo era nell'aria e si capiva che la discussione attorno al disegno di legge sull'introduzione del reato di tortura si stesse incanalando nel sentiero sbagliato, fin da quando la Commissione giustizia del Senato ha audito informalmente solo i capi di tutte le forze di Polizia. Questo ramo del Parlamento pare reintrodurrà il plurale nel caso delle violenze, cosa che porterebbe a a configurare il reato solo nel caso in cui siano commesse reiterate violenze. Per cui andrebbe impunito il mono-torturatore, quello che per una volta ad esempio usi violenza inaudita fisica o psichica (ad esempio minaccia di morte i figli della persona sotto custodia legale). Un delitto che, così come configurato dalla Commissione giustizia di Palazzo Madama, sarà ancora più generico del già generico testo approvato dalla Camera. Il ping pong parlamentare rischia di rendere tutto evanescente e di non far arrivare a nulla. Ci appelliamo all'Aula del Senato affinché approvi subito il testo più conforme possibile a quello presente all'articolo 1 del trattato Onu. Chiediamo al Governo - assieme agli oltre 51.000 firmatari della nostra petizione - di darci una mano su questo terreno. Giustizia: il governo contro furti e scippi "triplicate le pene minime, basta scarcerazioni" di Liana Milella La Repubblica, 8 luglio 2015 Promessa. Garantita da indiscrezioni. Adesso messa su carta e in procinto di essere formalmente depositata alla Camera, in commissione Giustizia, dove si discute la riforma del processo penale. Sta per materializzarsi una forte stretta del governo su scippi, furti in casa e rapine. I reati più avvertiti dagli italiani, che minano la sicurezza della propria casa e la possibilità di muoversi liberi in strada. Per questo il governo ha elaborato aumenti di pena, mirati soprattutto a evitare che scippatori, ladri e rapinatori, una volta arrestati dalle polizie magari dopo fatiche investigative, vengano rimessi in libertà. Per una volta sono d'accordo Pd e Ncd, tante volte in conflitto sulla giustizia, ma decisi in questo caso a sostenere insieme i cambiamenti. Vediamoli subito. Ecco come saranno modificate le pene per i reati di "furto in abitazione e furto con strappo", ovvero l'articolo 624-bis del codice penale. Resta invariato il tetto di 6 anni della pena massima, ma la pena minima passa da un anno previsto oggi a ben 3 anni. È una modifica rilevantissima, perché ovviamente triplicare la portata della pena minima cambia la natura delle conseguenze penali del gesto criminale commesso. Ancora: se le caratteristiche del furto in casa o dello scippo sono aggravate da comportamenti violenti e dall'uso di armi la pena minima passa a 4 anni, mentre quella più elevata resta a 10 anni, com'è già oggi nel codice. Ma - è scritto nell'emendamento del governo, che vedrà la firma del Guardasigilli Andrea Orlando - "le circostanze attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alle aggravanti". Un passaggio fondamentale, destinato a bloccare scarcerazioni facili. Come dice il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, esponente di Ncd, "questo intervento mira a garantire la certezza della pena, non è un mero inasprimento della sanzione penale, ma vuole evitare definitivamente che il lavoro delle forze dell'ordine venga frustrato con agevolazioni di pena e scarcerazioni". Per questo, nelle motivazioni del governo che accompagnano l'emendamento, si parla di "sistema di sanzioni adeguato all'effettiva gravità dei reati". E ancora di "specifica disciplina del bilanciamento delle aggravanti con le eventuali attenuanti" per evitare "abbassamenti di pena non adeguati alla gravità dei fatti". Nel caso delle rapine (articolo 628 del codice) il meccanismo è identico. La pena minima, oggi di 3 anni, viene portata a 4, mentre la massima resta ferma a 10. Anche per le rapine aggravate aumenta il minimo della pena - da 4 a 5 anni, ma anche a 6 anni in casi di violenza efferata sulle persone-mentre resta invariato il tetto massimo di 20 anni. I centristi aggiungono, con un emendamento a firma di Alessandro Pagano, che vi sia l'obbligo di comunicare al cittadino che fa una denuncia l'esito delle indagini, anche in caso di archiviazione. Risalgono a marzo le prime indiscrezioni sulle misure antifurto e antiscippo che adesso prendono forma. In quel momento erano una risposta ai dati del Censis che rendevano noti dati di grave allarme. Come ricorda adesso Costa "rapine aumentate del 127% in 10 anni", ma soprattutto il dato simbolico di una casa svaligiata ogni due minuti. La stretta su scippi, furti e rapine diventa una risposta alle polemiche di Lega e M5S per via della legge sulla tenuità del fatto (niente carcere per reati bagatellari, dove ci sono le scuse del colpevole e il via libera della vittima, ma per reati con pene fino a 5 anni). Il ministro della Giustizia Orlando è convinto che siano necessarie, altrettanto lo è il collega dell'Interno Angelino Alfano. Non solo, Orlando punta anche su queste misure che potrebbero fungere da traino, insieme alla stretta sulle intercettazioni, per accelerare l'iter parlamentare del ddl sul processo penale, un provvedimento complesso, ampio, che prevede interventi sulle regole del processo d'appello e sui ricorsi in Cassazione, per ridurne possibilità e numero. Un ddl che oggi è al suo primo passaggio parlamentare in commissione Giustizia alla Camera e che sicuramente ha molta strada di fronte a sé per giungere in porto. Per questo gli alfaniani coltivano il progetto di accelerare i tempi, magari trasferendo le norme con gli inasprimenti di pena in un altro contenitore legislativo, come potrebbe essere un ddl del ministero dell'Interno in tema di criminalità. Giustizia: in arrivo aumenti di pena per fermare il boom di furti, scippi e rapine di Silvia Barocci Il Messaggero, 8 luglio 2015 In arrivo emendamenti del governo al ddl sul nuovo processo penale. Pugno duro del governo contro furti in appartamento, scippi e rapine, con aumenti di pena per limitare sia la concessione dei benefici condizionali sia il bilanciamento tra circostanze attenuanti e aggravanti. Gli emendamenti del governo sono pronti e saranno presto presentati dal Guardasigilli Andrea Orlando al disegno di legge sulla riforma del processo penale che, a causa di altre priorità d'aula, langue in Commissione Giustizia alla Camera. È il ddl che, tra l'altro, prevede la delega al governo sula riforma delle intercettazioni, argomento che doveva tornare in cima alle priorità del governo dopo le elezioni regionali ma che, causa anche la crisi greca, sembra passato in secondo piano rispetto ai dossier economia, scuola e immigrazione. Gli aumenti di pena per reati di grave allarme sociale da una parte vengono incontro alle richieste del Nuovo centro destra, il partito del ministro dell'Interno Alfano, dall'altro puntano - con un tema "popolare" - a tirare fuori dalle secche un testo che contiene molte altre novità. Senza contare, poi, che gli ultimi dati del Censis pare abbiano particolarmente colpito il Guardasigilli Orlando: i furti in abitazione sono aumentati del 126% negli ulti- mi dieci anni. In altre parole, le visite di ladri nelle case sono una ogni due minuti e 689 ogni giorno. Ebbene, il primo emendamento del governo riguarda proprio i furti nelle abitazioni e i furti con strappo (meglio conosciuti come scippi). In entrambi i casi, il massimo della pena resta immutato a sei anni di carcere mentre il minimo passa da uno a tre anni di detenzione (e così anche la multa minima sale da 309 a 927 mentre quella massima rimane 1.032 euro). Se scippo e furto in abitazione sono commessi in forma aggravata, allora il minimo della pena passa da tre a quattro anni, senza alcun aumento nel massimo (10 anni). Nel primo dei tre emendamenti è testualmente specificato che nel bilanciamento tra circostanze attenuanti e aggravanti, le prime non possono essere ritenute prevalenti o equivalenti rispetto a queste ultime. Il secondo emendamento riguarda il furto aggravato (art. 625 c.p.), la cui pena minima si innalza da uno a due anni, sei immutati nel massimo. Ma i dati del Censis sono allarmanti anche per quanto riguarda l'incremento delle rapine: +195,4% in dieci anni e l'incremento del 3,7% nel 2013 (anche se il 2014 segna una lieve flessione dello 0,2%). Il terzo emendamento prevede l'aumento da tre a quattro anni del reato di rapina (il massimo resta fisso a 10). Appena sei mesi in più nei minimo (da 4,6 anni a 5) nel caso della rapina aggravata. Con la previsione di incrementi sanzionatori in caso di concorso di due o più circostanze aggravanti. Giustizia: il giudice "à la carte" piace anche al Csm di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2015 Il 5 luglio Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, ha consegnato al Corriere della Sera una summa del suo pensiero sul ruolo dei giudici. Poche idee, confuse e contraddittorie. Poiché è avvocato e docente universitario, si può presumere che sia giuridicamente attrezzato. Sicché è ragionevole pensare che si sia prestato a fungere da portavoce di Renzi & C, notoriamente in difficoltà con Costituzione e codici: un po'umiliante per un giurista, del tutto normale per un politico. Il tema di fondo sta nell'enunciato iniziale: "I giudici non possono evitare di considerare le conseguenze delle (loro) decisioni". Che è una sciocchezza. La legge è emanata nell'intento di regolamentare le vicende umane in un determinato modo e non in altri astrattamente possibili. È il legislatore che deve porsi il problema di quali siano le sue conseguenze; non i giudici che hanno il solo dovere di applicarla. Per quanto inconcepibile sia la necessità di spiegare un simile concetto, pare proprio che farlo sia necessario. Attributo fondamentale della legge è l'essere eguale per tutti. E caratteristica ineliminabile per l'essere umano, anche per un giudice, è possedere autonome convinzioni. Sicché la valutazione delle conseguenze delle proprie azioni è soggettiva: un giudice che emetta sentenze valutandone le conseguenze adotterà decisioni che eviteranno quelle che a lui sembrano negative e produrranno quelle che ritiene positive. Ma un altro giudice che abbia convinzioni diverse, emetterà sentenze di segno opposto. La giustizia fondata sulla legge e non sull'opinione del Re serve a garantire l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Concetto che ogni figlio di giurista acquisisce con il latte materno; il che, apparentemente, non è accaduto a Legnini, pur oggi vicepresidente del Csm. Ma la legge può essere sbagliata e provocare conseguenze inique. Qui Legnini esce dall'astrattezza e rende noto il problema che lo angustia; meglio, quello che lo hanno incaricato di esporre: "Il rapporto tra decisioni dei giudici e vita delle imprese nonché il conflitto tra la tutela della salute e dell'ambiente, da un lato, e l'iniziativa economica e i livelli di occupazione, dall'altro, sono tornati in forte evidenza a seguito dei provvedimenti di sequestro preventivo presso Ilva e Fincantieri". È necessaria "piena consapevolezza della forte incidenza della giurisprudenza sul caso concreto e sul sistema in generale. Cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie, il loro impatto sull'economia e sulla società non può più essere considerato un tabù". Non capisce lo sciagurato (nel senso manzoniano del termine) che il dilemma cui egli fa riferimento non solo non può ma non deve essere risolto dai giudici. Meglio uccidere o garantire lavoro sono scelte di cui si risponde alla collettività, non alla propria coscienza. E i giudici, come ogni politico ha ripetuto almeno una volta nella sua vita, hanno vinto un concorso non una elezione democratica. Non hanno legittimazione a risolvere scelte politico-sociali, sono tecnici cui compete l'applicazione di norme scritte da altri. Non capisce nemmeno - Legnini - che, se non fosse così, ogni giudice deciderebbe in maniera diversa da un altro e la civile convivenza sarebbe impossibile. Qualche fondamentale giuridico occasionalmente emerge: "Occorre dar conto delle ragioni che inducono a scegliere una soluzione concreta a discapito delle altre". Legnini conosce dunque l'art. 111 comma 6 della Costituzione. Peccato che ne estenda l'applicazione a fattispecie che gli sono estranee: "Nella vicenda Fincantieri è certo che il diritto alla salute e a vivere in un ambiente salubre risultasse prevalente sul diritto al lavoro e alla libertà di impresa?" Davvero pensa che siano questioni di competenza del giudice ordinario? Non lo sa che, per risolvere problemi del genere, esiste una Corte Costituzionale? Certo che lo sa, come sa che è la legge che deve regolamentarli. Tanto è vero che fa orgoglioso riferimento all'adozione di un decreto legge per affrontare le emergenze produttive ed occupazionali conseguenti ai sequestri preventivi presso Ilva e Fincantieri. Il suo problema è che sa anche che si tratta di decreto legge illegittimo costituzionalmente; gli sarebbe tanto piaciuto (e non solo a lui) contare su una magistratura che, "consapevole delle conseguenze delle sue decisioni", avesse cavato le castagne dal fuoco. Legnini è un portavoce, come ho detto. Ma ricopre un ruolo che rende i suoi interventi drammatici per la vita democratica del Paese. Così, quando dice "Il Csm vuole formare un nuovo profilo di magistrato, capace di porsi in sintonia con le aspettative dell'Italia", quando promette che il Csm avvierà "un cammino riformatore sui percorsi di carriera, incarichi direttivi, valutazioni di professionalità, formazione e specializzazione dei magistrati"; agita lo spettro di una Giustizia asservita al Governo. A Mussolini sarebbe piaciuto. Giustizia: parte la Banca dati del Dna, sarà articolata su due livelli di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2015 Sperando che sia la volta buona. E che la promessa del ministro della Giustizia Andrea Orlando ("Banca dati del Dna entro il 2015") possa concretizzarsi. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera, ancora in via preliminare, allo schema di regolamento che dovrà permettere, a 6 anni dalla legge istitutiva (la n. 85 del 2009), la messa a regime dell'archivio dei profili genetici da utilizzare per contrastare la criminalità. Uno strumento da utilizzare anche in chiave internazionale, dopo che il trattato di Prum, ha impegnato gli Stati aderenti, tra i quali l'Italia, a creare schedari nazionali di analisi del Dna e a scambiare le relative informazioni sui dati immagazzinati. La Banca dati è istituita presso il ministero dell'Interno a cui si affianca il laboratorio centrale del Dna presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Grandi le aspettative, visto che, si sottolinea, la percentuale dei casi in cui è stato possibile individuare, grazie a un archivio nazionale, l'identità del soggetto che ha lasciato una traccia biologica sulla scena di un crimine è significativa: il 45% in Gran Bretagna, il 23% in Olanda, il 17% in Germania. Le prospettive di utilizzo sono varie, sottolinea il ministero della Giustizia: dalla riapertura di casi irrisolti alla migliore conduzione di indagini in corso, fino a una maggiore efficacia delle indagini su particolari categorie di reati come quelli a sfondo sessuale dove le tracce biologiche sono determinanti. La Banca dati sarà alimentata attraverso 3 grandi flussi di dati: quelli contenuti negli archivi attuali, attivi ma frammentati, tenuti dalle forze dell'ordine (caso classico quello dei Ris), quelli da ottenere attraverso il prelievo di campioni biologici nei confronti di detenuti, quelli relativi a persone scomparse, decedute o comunque non identificabili. Si potrà raccogliere il Dna, attraverso il prelievo di due campioni di mucosa orale, di autori o presunti autori di reati non colposi, condannati in via definitiva, arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo, a custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari. Ma sarà possibile anche catalogare materiale genetico di persone scomparse, decedute non identificate o non identificabili. La possibilità di raccogliere a livello nazionale anche il profilo del Dna dei cadaveri non identificati e dei consanguinei della persona scomparsa permetterà di facilitare l'identificazione degli scomparsi e dare una identità ai resti umani attualmente non identificati in attesa di un riconoscimento. Attualmente, i resti delle persone scomparse non identificate in Italia sono 1.283 a fronte di 29.763 persone scomparse ancora da rintracciare. I tempi di conservazione dei profili del Dna sono di 30 anni dalla data dell'ultima registrazione delle operazioni di identificazione e prelievo. Il periodo di conservazione è tuttavia elevato a 40 anni nel caso in cui il profilo del Dna si riferisce a persone condannate con sentenza irrevocabile per uno o più dei reati per i quali la legge prevede l'arresto obbligatorio in flagranza, o per uno dei reati di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale oppure ancora nel caso in cui sia stata affermata la recidiva in sede di sentenza di condanna irrevocabile. La Banca dati è strutturata su due livelli. I profili del Dna sono inseriti al primo livello a partire da un numero di loci (posizione all'interno del cromosoma) pari a 7. Solo i profili del Dna che hanno un numero di loci uguale o superiore a 10 sono inseriti al secondo livello. La norma vieta la trasmissione al secondo livello della Banca dati dei profili del Dna costituiti da una commistione di più profili. Viene, inoltre, specificata la modalità di raffronto tra due profili di Dna nella Banca dati: per dare una risposta di concordanza positiva fra i due profili deve esistere una concordanza di almeno 10 loci. Giustizia: in continua crescita i reati via internet di Marino Longoni Milano Finanza, 8 luglio 2015 Internet, i social network in particolare, sono visti dalla maggior parte delle persone come spazi di libertà, luoghi dove si può dire ed essere ciò che si vuole. La rete, per sua natura, tende ad accogliere l'individuo in una sorta di realtà virtuale, lontana dai problemi, dai dolori e dalle responsabilità della vita reale. Una second life dove i sogni si affrancano dalla vita di tutti i giorni. Ma è un'illusione. Pericolosa. Lo dimostra il fatto che il numero e la gravità dei reati commessi in rete è in continuo aumento, anche se due terzi delle persone che subiscono un attacco in un primo momento neanche se ne accorgono. L'anonimato, la gratuità, il superamento delle barriere spaziali, portano molti a pensare: su Internet faccio quello che voglio. Non è così: la giurisprudenza, che solo pochi anni fa vedeva la rete come fenomeno difficile da capire, ha elaborato, e sta cominciando a definire e ad applicare in modo sempre più convinto, una serie di reati legati proprio all'abuso degli strumenti informatici. Sono stati così identificati nei profili giuridici i reati di molestie via Facebook, di atti persecutori a mezzo social, di diffamazione sulla bacheca virtuale, di falso profilo, di pedopornografia, di cyber-stalking, di gogna digitale e così via. E non si è mossa solo la giustizia penale. Anche i giudici civili hanno ormai precisato percorsi tipici in grado di perseguire le condotte illecite attuate in rete. L'illusione che basti un nickname per garantirsi l'anonimato è dura a morire, ma non ha fondamento. Chi entra in rete è sempre rintracciabile. Il Far West è finito. Di fatto, chi ha la forza di rivolgersi alla giustizia riesce oggi a trovare qualche risposta concreta. Gli stupefacenti progressi delle tecnologie informatiche tendono ad abbagliare, invitano ad abbandonare il senso critico e i freni inibitori. Internet ha un'aureola da Paese dei Balocchi dove tutto è facile, e il soddisfacimento immediato. Non tutti si rendono conto che spesso l'informazione gratuita spacciata in rete non è altro che pubblicità camuffata. Oppure che le interazioni tra gli utenti dei social network, in apparenza del tutto spontanee, possono essere manipolate dagli uffici stampa delle aziende al fine di presentare nel miglior modo possibile i propri prodotti e nel peggiore possibile quelli dei concorrenti. Anche dietro il dibattito politico che si sviluppa sui siti o sui social si celano talvolta istituti specializzati nel pilotare le ondate emotive, con l'obiettivo di massimizzare il consenso per i committenti. Una delle attività più redditizie è raccogliere (o rubare) i dati personali per poi ordinarli e rivenderli a caro prezzo come liste di utenti profilati. Truffe, raggiri, menzogne, falsificazioni sono online 24 ore su 24. Lo schermo del computer o dello smart-phone può creare dipendenza da una realtà consolatoria ma irreale, affievolire il senso critico, disabituare all'uso della memoria, perché tanto c'è la rete che ricorda tutto. Al di là dei reati che, magari in modo non del tutto consapevole, si possono commettere o subire, questo è il punto più delicato. Lo sottolinea anche il Papa nell'ultima enciclica, Laudato Sì, dove denuncia "la mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere in una specie di inquinamento mentale". Che prima o poi presenterà il conto. Resta in panne la ricerca telematica dei beni del debitore di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2015 Puntava a sbloccare l'impasse sulla ricerca telematica dei beni da pignorare. Ma stando a una delle prime interpretazioni della norma, l'obiettivo del decreto legge sulla giustizia civile, il n. 83 del 2015, da poco entrato in vigore, è stato mancato. Stando almeno alla lettura data dal presidente del tribunale di Alessandria con provvedimento depositato il 30 giugno. Il presidente della sezione civile infatti ritiene comunque determinante l'assenza del decreto del ministero della Giustizia previsto dall'articolo 155 quater delle disposizioni attuative del Codice di procedura civile. Un'assenza che il decreto legge aveva invece provato ad aggirare, ritenendo comunque possibile per il creditore accedere alle banche dati pubbliche (quelle indicate dall'articolo 492 bis del Codice di procedura, in particolare anagrafe tributaria, pubblico registro automobilistico ed enti previdenziali) ottenendo dai gestore le informazioni sui beni del debitore, in attesa di un altro decreto del ministero della Giustizia, che dovrà attestare la funzionalità delle strutture tecnologiche necessarie a consentire l'accesso alle banche dati. Una chance a scadenza comunque, visto che è operativa per un massimo di 12 mesi dall'entrata in vigore delle legge do conversone del decreto. Insomma una soluzione un po' elaborata per un problema reale e segnalato in realtà da tempo, generato in larga parte dell'inerzia del ministero e in parte minore dalla successione di interventi della magistratura discordi l'uno dall'altro. A neutralizzare però anche questa soluzione arriva adesso il giudizio del presidente del tribunale di Alessandria, per il quale l'autorizzazione che deve essere data dalla stessa presidenza al creditore presuppone comunque sempre l'emanazione del decreto ministeriale primigenio, quello previsto dall'articolo 155 quater. Se questo manca, come continua a mancare, allora non rimane nulla da fare e "questa conclusione deve essere ribadita nonostante la modifica introdotta con il decreto legge 83/15 all'articolo 155 quinquies disposizioni attuative del Codice di procedura civile che ha aggiunto alla predetta disposizione un secondo comma, dal momento che l'adozione del decreto dirigenziale del ministero della Giustizia che attesta la piena funzionalità delle strutture tecnologiche necessarie a consentire l'accesso alle banche dati previste dall'articolo 492 bis del Codice di procedura civile presuppone pur sempre l'emanazione del decreto ministeriale di cui all'articolo 155 quater disposizioni attuative del Codice di procedura civile". Insomma, perno del sistema resta il decreto previsto dall'articolo 155 quater. Un provvedimento puntualizza ancora il provvedimento, che non solo dovrà individuare le altre banche dati cui rendere possibile l'accesso nella caccia a beni pignorabili, ma anche, se non soprattutto, dovrà identificare i casi, le limitazioni, e le modalità di esercizio della facoltà di accesso. Non solo: il decreto dovrà anche provvedere alla precisazione delle modalità di trattamento e conservazione dei dati e le cautele a tutela della riservatezza dei debitori. Diritto d'autore: la violazione prova già il danno di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2015 Per il risarcimento dei danni in caso di violazione del diritto d'autore non servono le prove dei pregiudizi subìti. La Corte di cassazione, con la sentenza 14060 depositata ieri, dà partita vinta agli autori di una mostra sul quale Rai Sat Spa aveva realizzato un servizio messo in onda senza il loro consenso e senza un corrispettivo. L'accusa da parte dei titolari del diritto era anche quella di aver ecceduto nella critica e di non aver rispettato i contenuti del vernissage violando così i diritti d'autore e quelli relativi allo sfruttamento economico dell'evento. Dal canto suo la Rai sollevava delle perplessità sul fatto che il danno morale potesse essere risarcito solo sulla base di un generico turbamento d'animo lamentato in primo grado, senza una concreta indicazione di fatti precisi anche relativi al malessere affermato. Ma la Suprema corte non ha dubbi: l'accertamento della violazione del diritto dell'autore di disporre dell'esclusiva della sua opera è già una prova del pregiudizio. E il titolare ha il solo onere di dimostrare l'estensione del danno. Per quanto riguarda l'entità valgono le regole che prevedono, in via estrema, anche il ricorso alla liquidazione equitativa. Scudo fiscale applicabile anche alle Spa se per l'emersione ha agito un dominus di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 7 luglio 2015 n. 28775. Lo scudo fiscale, ossia la chance messa a disposizione del contribuente per fare rientrare capitali detenuti all'estero dietro il versamento di un'imposta straordinaria, mette al riparo dalle sanzioni di vario genere non solo le persone fisiche ma anche le società commerciali. Lo precisa la Cassazione penale con la sentenza n. 28775/2015. La vicenda finita sul tavolo della Corte ha visto protagonista un soggetto che, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, aveva finito per indicare nelle dichiarazioni annuali del 2008 elementi passivi fittizi e quindi era stato imputato di dichiarazione fraudolenta (ex articolo del Dlgs 74/2000). Precedente giudizio - Nel precedente grado il Tribunale di Ancona aveva ritenuto che nella fattispecie non potesse trovare applicazione lo scudo fiscale in quanto si trattava di società commerciale. Ma sul punto la sentenza degli Ermellini ha inteso aderire a quanto precisato dalla circolare dell'Agenzia delle entrate 10 ottobre 2009 n. 43/E ossia che l'agevolazione trovasse spazio anche per le società commerciali quando emergeva con chiarezza chi fosse il dominus che le avesse poste in essere. Si legge nella sentenza, poi, che sebbene la circolare delle Entrate limitasse i benefici al campo tributario, per ciò che concerneva l'ulteriore estensione al campo penale occorreva tener conto di quanto disposto dal Dl 78 del 2009, articolo 13bis, comma 4 e quindi: "l'effettivo pagamento dell'imposta comporta, in materia di esclusione della punibilità penale, limitatamente al rimpatrio e alla regolarizzazione di cui al presente articolo, l'applicazione della disposizione di cui al già vigente legge 27 dicembre 2002 n. 289, articolo 8, comma 6 lettera c) e successive modifiche. Tale richiamata disposizione stabilisce che il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta per ciascuna annualità oggetto di integrazione l'esclusione a ogni effetto della punibilità per i reati di cui al Dlgs 10 marzo 2000 n. 74 articoli 2, 3, 4, 5 e 10 quando tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari o per conseguirne il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria". Conclusioni - Per concludere, quindi, alla luce del cosiddetto diritto vivente anche nell'ambito delle società l'istituto può operare ma solo con riferimento ai soggetti che all'interno delle società, possiedono i requisiti di diritto e di fatto per essere considerati alla categoria del "dominus". La Corte ha, pertanto, annullato la sentenza impugnata rinviandola al Tribunale di Ancona perché verifichi le due condizioni richieste dalla legge ossia che ci sia un nesso tra i reati tributari e il rimpatrio grazie allo scudo e che possa essere individuato un vero e proprio dominus dell'operazione di emersione. Spese di giustizia, sull'errore decide il tribunale ordinario di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2015 Tribunale di Milano - Sezione 3 - Sentenza 21 gennaio 2015 n. 2154. Scatta la competenza del giudice ordinario per la contestazione dell'errore nella quantificazione delle spese di giustizia relative ad un procedimento penale. Lo ha stabilito la III Sezione del Tribunale di Milano, sentenza 21 gennaio 2015 n. 2154, rifacendosi ad un precedente della Cassazione a Sezioni unite (n. 491/2011) e chiarendo che "non rileva a tal fine l'attribuibilità alla statuizione di detta condanna della natura di sanzione economica accessoria alla pena". Il caso - La vicenda parte da una cartella di pagamento notificata da Equitalia per le vacazioni liquidate in favore di un esperto del Tribunale per indagini chimiche e tossicologiche all'interno di un procedimento penale. Secondo l'attore però, per un errore materiale, tale importo gli era stato erroneamente attribuito dal momento che il procedimento per il quale era stato condannato riguardava il reato di ricettazione di una autovettura. La motivazione - Il tribunale ha accolto il ricorso stabilendo che "la domanda del condannato che, senza contestazione della condanna al pagamento delle spese del procedimento penale, deduca - sia quanto al calcolo del concreto ammontare delle voci di spesa, sia quanto alla loro pertinenza ai reati cui si riferisce la condanna - l'errata quantificazione, va proposta al giudice civile nelle forme dell'opposizione ex art. 615 c.p.c.". Per cui correttamente il cittadino ha adito il giudice civile e non il giudice della esecuzione penale. Anche se, prosegue la sentenza, l'articolo richiamato prevede due diverse competenze a seconda della già avvenuta, o meno, pendenza della esecuzione. Ove infatti, sia già pendente il processo esecutivo, l'articolo 615, secondo comma, del codice di procedura civile prevede che il giudice della opposizione sia il giudice della esecuzione medesima, da adire con ricorso. Nel caso invece in cui la esecuzione non sia ancora iniziata, e si voglia, pertanto, fare opposizione al precetto, vale a dire all'atto prodromico all'inizio della esecuzione medesima, l'articolo 615, primo comma,Cpc prevede che la opposizione debba introdursi con citazione dinanzi al giudice competente per materia o valore e territorio. E siccome nel caso affrontato siamo di fronte ad una "opposizione preventiva" e il valore delle causa di opposizione a precetto deve determinarsi (ai sensi dell'articolo 17, primo comma, Cpc) con riferimento alla somma contenuta nella cartella di pagamento, ha affermato la competenza del giudice di pace (competente per le cause aventi valore inferiore ai 5.000 euro). Contrariamente a quanto sostenuto da Equitalia, infatti, le spese di giustizia non sono né imposte né tasse, bensì mere obbligazioni civili nascenti ex lege dalla condanna penale, per cui non rientrano nella competenza per materia del Tribunale fissata per queste ipotesi dall'articolo 9 del Cpc. Gare pubbliche. Niente reato se la Pa non fa partire l'iter di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 25 giugno 2015 n. 26840. Il reato di turbata libertà di scelta del contraente non scatta se la pubblica amministrazione non inizia il procedimento amministrativo che si intendeva condizionare. La Cassazione con la sentenza 26840, respinge il ricorso del pubblico ministero contro le assoluzioni disposte nell'ambito di un'inchiesta sugli appalti truccati negli ospedali Lombardi. L'accusa era di associazione per delinquere allo scopo di indurre la Pubblica amministrazione a indire gare su misura "tarate" proprio sulle caratteristiche dei prodotti propagandati dalle ditte. Una contestazione, mossa sulla base dell'articolo 353-bis, che il giudice per l'udienza preliminare aveva lasciato cadere perché la norma invocata presuppone l'esistenza perlomeno dell'avvio di un procedimento amministrativo che dimostri l'interesse della Pa a concludere l'affare. Circostanza che, nel caso specifico, non si era concretizzata, forse anche per l'avvio delle indagini che avevano fatto seguito alle intercettazioni. La Suprema corte coglie l'occasione per ricordare che il delitto previsto dall'articolo 353bis del codice penale è un reato di pericolo. L'azione censurata consiste nel turbare con violenza, minaccia o doni il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. I giudici chiariscono che la norma punisce anche quando l'affare non va in porto: le interferenze sul bando sono, infatti, il fine perseguito per questo è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla sua realizzazione. Per la consumazione non serve che il bando venga effettivamente modificato in modo da orientare la scelta del contraente, ma è sufficiente che si verifichi un turbamento del procedimento amministrativo in modo tale che la concreta procedura di predisposizione del bando sia concretamente in pericolo. Tutto questo ovviamente non può avvenire se l'iter amministrativo non viene avviato affatto. L'articolo è stato introdotto dal legislatore con l'intenzione di dare rilevanza penale alle condotte di turbamento messe in atto prima della gara, anche per porre un argine all'orientamento della giurisprudenza che, prevalentemente negava la loro offensività, anche in termini di tentativo in assenza del presupposto della gara. Una scelta che allarga la tutela prevista dall'articolo 353 del codice penale il quale fa scattare la sanzione solo nel caso la gara venga indetta. La Corte di Cassazione sottolinea che non tutte le condotte che ricadono nel raggio d'azione dell'articolo 353-bis del Cp consumate prima del procedimento amministrativo sono irrilevanti dal punto di vista penale: lo sono solo quelle che precedono un percorso mai avviato. Lettere: io ci sto male, per loro è un mestiere di Patrizia Moretti (mamma di Federico Aldrovandi) Il Manifesto, 8 luglio 2015 Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi. Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l'azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla. I giudici hanno riconosciuto l'estrema violenza, l'assurda esigenza di "vincere" Federico, e una mancanza di valutazione - da parte di quei quattro agenti - al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario. Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere. O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli. Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso. L'orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l'onestà delle forze dell'ordine. Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all'amministrazione del mio Paese. Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico. Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così. Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l'amore per Federico. Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un'opinione. È stato un modo per crescere. Alcuni hanno colto l'occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l'ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico. Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l'unica strada, e non me ne pento. Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente. Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un "cucciolo di maiale", o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio. Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso. Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio. Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento. Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro - credo di capire - è un mestiere. Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull'onore e la dignità che essa avrebbe preteso. Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l'esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri. Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest'ultimo processo solo la semplice verità, tutta. Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore. E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l'occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni. Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c'è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l'hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti. Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere. Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche. A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un'imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro. Perciò ritirerò le querele ancora in corso. Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta. Non è il perdono, d'altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento. Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che - da quanto capisco - costruiscono la loro carriera sull'aggressività e sul rancore. Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio. Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po' più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell'associazione degli amici di Federico per l'introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia. C'è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo. Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo. Per me l'onore è un'altra cosa. L'onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l'arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all'omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio. Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa. Campania: la sfida alla giustizia che ha perso la prudenza di Giovanni Verde Il Mattino, 8 luglio 2015 Il nuovo governatore non ha perso tempo. Ha o ritiene di avere un conto aperto con la magistratura e dichiara, con sfrontatezza, che non saranno i magistrati a mettergli il bastone tra le ruote e che andrà avanti anche se ciò dovesse costargli avvisi di garanzia e processi penali. Nella sicurezza - è sottinteso - che tali processi non potrebbero non avere una miserevole fine, essendo egli un uomo integro e onesto, che potrà anche sbagliare, mai però per interessi personali o di parte, ma sempre perché è alla ricerca del bene comune. C'è in queste parole un sottofondo drammatico. Perché è drammatico che il politico debba quasi sfidare la giustizia e dire che andrà avanti anche contro la magistratura e senza farsi intralciare dalle indagini penali. No. Queste non sono le condizioni di un Paese normale. E i magistrati, prima di ritenersi offesi e prima di iscrivere De Luca tra le persone da tenere d'occhio, dovrebbero riflettere sul se non ci sia qualcosa di sbagliato nel governo da parte loro dell'indagine penale e del processo penale. A più riprese ho dichiarato che, anche se me ne fossi riconosciute le capacità, mai avrei accettato di fare l'amministratore della cosa pubblica, non essendo disposto a pagare il prezzo delle inevitabili intercettazioni disposte dalla magistratura non per trovare conferme circa possibili reati commessi, ma per trovare le prove di reati soltanto immaginati (una pratica abusiva che oramai è diventata un fatto acquisito). Ed in quanto amministratore, che è tale se opera scelte tra più posizioni contrastanti o tra più interessi configgenti nella ricerca, che può anche dare risultati negativi, della migliore delle soluzioni possibili, non vorrei correre il rischio di chi, deluso dalle scelte, denunzi ipotetici reati, dando così lo spunto per indagare. Di più. In ambienti largamente infiltrati dalla delinquenza organizzata, neppure vorrei correre il rischio di essere coinvolto in dichiarazioni di pentiti che spesso sono animate da spirito di vendetta o dal desiderio di compiacere chi procede alle indagini e contribuisce a tenere in vita il programma di protezione. Pertanto, a più riprese e in altre occasioni, ho invitato la magistratura alla prudenza, che deve essere assai maggiore quando il possibile indagato riveste cariche pubbliche importanti. E ciò non perché costui sia diverso e debba essere trattato con i guanti bianchi, ma semplicemente perché l'indagine compromette il corretto svolgimento della nostra vita istituzionale. E con grande prudenza dovrebbero essere manovrate figure di reato, quali l'abuso d'ufficio o il concorso esterno all'associazione per delinquere (che mi ostino a ritenere di dubbia legittimità costituzionale), perché il processo penale e la sanzione penale sono l'ultima risorsa alla quale lo Stato può e deve ricorrere per difendersi. Ed è una risorsa riservata a comportamenti che hanno un disvalore sociale tanto forte da non essere ritenuti intollerabili dalla collettività. E, come hanno dimostrato le recenti votazioni regionali, il cittadino campano non ritiene che sia intollerabile il disvalore sociale dell'amministratore (De Luca) che ha commesso un abuso d'ufficio (posto che l'abbia commesso) non per interessi di parte, ma unicamente per conseguire obiettivi di pubblico e generale interesse. Quante indagini condotte dalle Procure che operano nella nostra Regione si sono risolte, a conclusione dei dibattimenti, in un nulla di fatto? Sinceramente troppe. Ma nell'immediato quelle indagini hanno avuto effetti devastanti sulla vita delle persone, ma anche sulla sorte delle istituzioni. Il cittadino se ne è (dalle istituzioni) sempre più allontanato e diventa sempre più probabile che chi per natura abbia i talenti necessari per esercitare le pubbliche funzioni se ne tenga lontano o, peggio ancora, che rifugga dall'assumere responsabilità alla ricerca di uno scudo protettivo quale soltanto la magistratura - nel sistema che siamo andati creando - può dare. Occorre una pacata, ma seria riflessione collettiva, perché oramai siamo giunti al punto di non ritorno. Campania: caso De Luca e legge Severino, la politica sostituita dai giudici di Giuseppe Gargani Il Garantista, 8 luglio 2015 La politica è sempre più assente dalle questioni del Paese ed è per questo che il cittadino è abbandonato a se stesso senza riferimenti alle leggi convulse e contraddittorie e senza regole di comportamento e di conseguenza o rifiuta di dare il voto o reagisce votando "contro". L'elettore non apprezza il politico che rinunzia ad agire, ad intervenire, o peggio, delega ad altri le decisioni. E dunque non si rassegna. E di qualche giorno fa la notizia che un giudice monocratico ha dato legittimità al neo presidente della Campania Vincenzo De Luca e si è fatto carico di garantire la funzione del consiglio regionale appena eletto per rispettare il responso degli elettori. Una supplenza così marcata non si era ancora avuta nella storia della Repubblica e questo non è colpa di un destino cinico e baro ma della incapacità della politica a risolvere i problemi. Il Presidente del Consiglio dei Ministri sulla controversa vicenda delle elezioni regionali in Campania che hanno visto De Luca candidato alla Presidenza (nonostante una perversa legge che va sotto il nome di Severino stabilisse che chi ha una sentenza di condanna può sì candidarsi ma poi non può esercitare le funzioni) ha chiesto all'Avvocatura dello Stato un parere per cambiare la normativa. L'Avvocatura gli ha fornito il parere ma il Presidente Renzi ha preferito non proporre un decreto legge al Parlamento e ha sospeso De Luca dalle funzioni. De Luca ha adito la magistratura ordinaria e ha riottenuto le funzioni. Renzi ha fatto due cose negative: ha candidato De Luca a Presidente della Regione nonostante la legge lo impedisse contravvenendo a regole elementari che sono la condizione per far vivere la questione morale: ma poi, una volta eletto, ha rinunziato a proporre una modifica della legge da tutti riconosciuta perversa, non degna, aggiungo io, di essere pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, per richiedere al Parlamento una decisione in una situazione così complessa. La politica ha rinunziato al suo ruolo e la magistratura ha assunto il ruolo politico. L'episodio di grande rilievo, anche se limitato ad una Regione, ha contribuito a mettere in luce la crisi della politica e la sfiducia che determina il diritto incerto, la sfiducia generale verso le Istituzioni e dunque verso la politica inerte incapace di decidere e di assumersi le responsabilità. Una legge se è sbagliata per parere quasi unanime va corretta e la correzione non può essere considerata "ad personam". La Dc e i partiti del dopoguerra avevano una grande ispirazione culturale e una forza politica che ha costruito la democrazia; oggi invece i partiti sono "indistinti", senza identità. Non per un sentimento di nostalgia dico che è necessario rivendicare valori e strategie dei vecchi partiti che oggi non ci sono più. La sostanza culturale è il presupposto della politica, altrimenti la politica langue e chi invoca questa regola non si rifugia nel ricordo ma al contrario dimostra una grande determinazione nel modificare le cose e nel dare un contributo affinché, per far riferimento alle polemiche attuali, le riforme che si vogliono realizzare rispondano ad una idea organica di Stato e di società e non intacchino la democrazia nel nostro Paese. L'equilibrio dei poteri è compromesso in Italia perché la politica rinunzia ogni giorno al suo ruolo e alla sua funzione, come il caso di De Luca dimostra. Do perciò grande responsabilità a Renzi che aveva promesso di ridare contenuto al primato della politica ma si comporta diversamente. Ho svolto da tempo minuziose analisi sul rapporto tra politica e giustizia e sin dagli anni 70 ho individuato nella esasperata supplenza giudiziaria la crisi della giustizia e il rapporto anomalo con le altre Istituzioni, e dico oggi che il caso De Luca in Campania mortifica il diritto e la politica. Sono preoccupato della deriva qualunquistica a cui assistiamo con una democrazia senza corpi intermedi e senza rappresentanza sociale. Tutto avviene fuori dal Parlamento e la rappresentanza è compromessa. La sinistra del Pd fa uguali valutazioni: sul significato del patto del Nazareno sulla legge elettorale e sulle riforme del Senato che contraddicono alla idea che noi abbiamo delle Istituzioni e della democrazia e dunque dobbiamo agire insieme. I cattolici democratici hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese perché nella mediazione con le altre forze politiche e sociali sono riusciti a guidare i processi complessi che vi sono stati negli anni passati, e che hanno visto soluzioni non semplicistiche ma piene di contenuti culturali e politici per il bene comune. Oggi i problemi ancora più complessi, non possono avere risposte semplicistiche. Il personalismo e l'individualismo hanno messo in crisi la natura democratica dei partiti e hanno reso le Istituzioni prive di rappresentanza: si ritiene pertanto che il decisionismo possa essere affidato soltanto ad una persona che si fa carico di tutto. Si tratta di un errore che la democrazia non può sopportare perché si rende il sistema debole e si allontana la comunità civile dallo Stato, dalle Istituzioni. Mi si dice sovente che il mondo è cambiato e che non deve esserci nessuna nostalgia del passato, ma la risposta è: risvegliare i valori per i quali vale la pena di lottare. Se il mondo è cambiato una classe dirigente che si vuole imporre e vuol essere protagonista deve avere una idea dello Stato, della società, di che Italia e di che Europa vogliamo. Manca questa strategia e per questo sono preoccupato. Invocare le riforme senza sapere perché e per quale fine debbano essere fatte è molto pericoloso: si alimenta il qualunquismo. Bisognerebbe intervenire sullo squilibrio dei poteri che danneggia la democrazia e la rappresentanza. La politica è sempre più assente lo ripeto e questa non è una cosa alla quale ci dobbiamo rassegnare. Basta poco per essere protagonisti. Se un giudice monocratico si è fatto carico di garantire la permanenza del consiglio regionale della Campania, cioè del responso degli elettori ne deriva che la politica non può che essere disprezzata dai cittadini: è colpa della politica che non è in grado di risolvere i problemi. La rappresentanza come delega a decidere è in crisi e non solo in Italia. Se la Grecia è costretta a fare un referendum sulle proposte europee vuol dire che il Governo greco e il Parlamento non sono stati in grado di assumersi le responsabilità che si erano assunti pochi mesi fa. E anche questo non è colpa del destino cinico e baro ma della mancata unità politica dell'Europa. Sardegna: Uil-Pa, carenza di personale, nelle nuove strutture manca il 25% dell'organico Ansa, 8 luglio 2015 Nuove le strutture, ma è ancora carente il personale nelle carceri sarde. È la denuncia che arriva dalla Uil-pa Penitenziari della Sardegna. "Nulla pare essere stato investito - ha sottolineato il segretario generale Eugenio Sarno e inviata anche al ministro della Giustizia, Andrea Orlando - in termini di implementazione delle risorse umane. Gli organici delle varie professionalità fanno registrare gravi carenze. Un esempio su tutti: la Polizia penitenziaria in Sardegna (stabilito nel 2000) è determinato in 1.834 unità (1.636 uomini e 166 donne). Al 15 giugno 2015 risultavano, invece, amministrate 1.385 unità (1.278 uomini e 107 donne). Ovvero uno sbilancio negativo di 449 unità, pari a circa il 25% dell'organico prefissato". Altri problemi: "Né si può sottacere - continua il sindacato - come il 40% (4 su 10) degli istituti penitenziari sardi sia privo di un dirigente titolare (Is Arenas, Mamone, Tempio Pausania, Lanusei) e debba, di contro, avvalersi delle prestazioni a scavalco di dirigenti titolari della direzione di altri istituti". Tante le rivendicazioni: "Delle criticità strutturali, anche degli istituti di recente apertura - insiste l'Uil-Pa - abbiamo già ampiamente dato conto spesso a seguito di episodi che hanno visto in pericolo l'incolumità fisica del personale. Che la gestione complessiva delle detenzione in Sardegna abbia necessità di un piano definito si appalesa dai tanti, troppi, eventi critici che si registrano negli istituti: atti di autolesionismo, tentati suicidi, risse ed aggressioni al personale sono cronaca quasi quotidiana". Ora c'è un'altra novità: "Da alcuni giorni - prosegue il sindacato - si è deciso di assegnare un nuovo Provveditore regionale che ha già, però, la titolarità del Triveneto (ovvero il comprensorio penitenziario più vasto per estensione territoriale e che ha sul territorio 27 articolazioni e istituti penitenziari). Una scelta molto discutibile. Se è vero che la Sardegna è stata individuata come polo penitenziario di primo livello non può non essere gestita ed amministrata da un dirigente generale titolare non oberato da altre incombenze. Fra l'altro pur nella rigidità ragionieristica dei numeri ci sarebbe la possibilità di nominare un nuovo dirigente generale". Bologna: carenza di personale al Tribunale di Sorveglianza, il prezzo lo pagano i detenuti di Alessio Polveroni Il Garantista, 8 luglio 2015 Spaventosa carenza di personale: mancano i magistrati e gli impiegati. Il prezzo lo pagano i detenuti e i loro diritti. Che le carceri italiane siano un inferno lo scriviamo continuamente. Ogni giorno ci troviamo a raccontare storie terribili, che si consumano dietro le sbarre. La striscia di sangue che ha segnato dall'inizio dell'anno le cronache del carcere di Marassi. I morti di overdose del carcere di Sollicciano. Per aver un'idea della condizione disumana in cui vivono i carcerati, su tutte, basterebbe soffermarsi sulla storia di un detenuto del penitenziario fiorentino che, a marzo, dopo anni di carcere, si è impiccato dopo aver ricevuto la notizia della sua imminente scarcerazione. I problemi sono il sovraffollamento, le risorse scarse, il degrado, certo. Ma non solo. Basta riascoltare le parole che Massimo Brandimarte, ha continuato a ripetere nei giorni precedenti al suo anticipato addio alla magistratura. Lui che per vent'anni è stato il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto, non ha avuto dubbi. Sul banco degli imputati, se dovessimo trovare un colpevole per il quotidiano fallimento del sistema penitenziario, si deve sedere lo Stato. Perché ancora oggi il diritto alla salute dei detenuti è negletto. E solo due giorni fa, la denuncia della Segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, ha lanciato un nuovo allarme per la drammatica situazione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, causata da una spaventosa carenza di personale, sia riguardo ai magistrati, sia al personale di cancelleria e di altri profili lavorativi. Lo stato del Tribunale di Sorveglianza di Bologna è stato descritto puntigliosamente e senza mezzi termini dal presidente Francesco Maisto in una conferenza stampa del 23 giugno puntualmente riscontrata dalle agenzie di stampa e dai quotidiani locali: negli ultimi 6 anni, pur essendo aumentate le competenze, il personale ha registrato una riduzione del 37 per cento. A Bologna i giudici sono quattro più il presidente, come da organico, ma uno è in malattia e per far fronte al lavoro "ne servirebbero il doppio". Vacante è il posto previsto a Modena, cui fanno supplenza i giudici di Bologna. Ancora più seria è la questione dell'Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia dove c'è un solo magistrato (sarebbero due, da organico). Per far comprendere il "disastro", basti sapere che un unico magistrato di Sorveglianza, la dott.ssa Maria Giovanna Salsi, ha sotto la sua responsabilità i territori di Reggio, Parma e Piacenza, con due carceri (che ospitano anche i detenuti in regime di 41 bis e i "sex offenders"), l'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio che è ancora aperto, le nuove Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) e il Centro diagnostico terapeutico di Parma, che smista i detenuti pericolosi. A Reggio Emilia anche la situazione del personale è drammatica: a pieno organico dovrebbero essere nove persone, invece sono cinque di cui uno part time. In questa situazione che diverrà esplosiva con la concessione dei permessi estivi ai detenuti - ha dichiarato Rita Bernardini - sono pregiudicati i diritti umani fondamentali dei reclusi che non riescono e non riusciranno ad ottenere risposte alle istanze che per legge devono rivolgere ai magistrati di sorveglianza. Si prefigura, soprattutto per quel che riguarda l'Ufficio di Reggio Emilia, una vera e propria "interruzione di pubblico servizio" con tutto ciò che consegue in termini di violazioni del diritto vigente. Mi appello - ha concluso Bernardini -al Ministro della Giustizia Andrea Orlando affinché intervenga urgentissimamente, pronta ad intraprendere in caso di mancata necessaria risposta, con i miei compagni radicali, forme di lotta nonviolenta affinché siano salvaguardati i diritti non solo dei detenuti ma anche dei magistrati, i quali, non per loro responsabilità, si troverebbero nell'impossibilità di corrispondere alla loro funzione di servitori dello Stato. Bologna: il procuratore aggiunto Giovannini "scoperture organiche anche in Procura" di Luigi Spezia La Repubblica, 8 luglio 2015 Soffre anche il diritto dello Stato ad eseguire le sentenze di condanna a pene detentive: all'ufficio esecuzione, al momento, sono scoperti due posti delle cinque unità amministrative previste e a settembre si scenderà a due sole presenze. I vuoti d'organico non possono essere colmati. Per dare corso all'attività ordinaria ogni giorno si fanno i salti mortali. Lo ha affermato il procuratore aggiunto Valter Giovannini, che coordina l'Ufficio che si occupa della esecuzione dei provvedimenti di carcerazione. In un anno sono oltre duemila i provvedimenti sulla libertà personale in fase di esecuzione pena. In una situazione così critica, nei giorni scorsi per un errore era stato incarcerato una settimana il bodyguard Stefano Stefanelli, ma l'intervento di Giovannini segue l'allarme rilanciato dal segretario di Radicali Italiani Rita Bernardini per la "drammatica situazione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, causata da una spaventosa carenza di personale, sia riguardo ai magistrati, sia al personale di cancelleria e di altri profili lavorativi". Pochi giorni fa era stato lo stesso presidente del Tribunale di Sorveglianza Francesco Maisto che aveva segnalato l'estrema difficoltà a seguire gli affari penitenziari senza cadere in ritardi nocivi. "In questa situazione che diverrà esplosiva con la concessione dei permessi estivi ai detenuti - ha detto Rita Bernardini - sono pregiudicati i diritti umani fondamentali dei reclusi che non riescono e non riusciranno ad ottenere risposte alle istanze che per legge devono rivolgere ai magistrati di sorveglianza. Si prefigura, soprattutto per quel che riguarda l'Ufficio di Reggio Emilia, una vera e propria "interruzione di pubblico servizio" con tutto ciò che consegue in termini di violazioni del diritto vigente". "Mi appello - ha concluso Bernardini - al ministro della Giustizia Andrea Orlando affinché intervenga urgentissimamente, pronta ad intraprendere in caso di mancata necessaria risposta, con i miei compagni radicali, forme di lotta nonviolenta affinché siano salvaguardati i diritti non solo dei detenuti ma anche dei magistrati, i quali, non per loro responsabilità, si troverebbero nell'impossibilità di corrispondere alla loro funzione di servitori dello Stato". Rimini: si dimette il Garante per i detenuti "problemi insormontabili con il Comune" di Tommaso Torri riminitoday.it, 8 luglio 2015 L'avvocato Davide Grassi lascia l'incarico tra le polemiche: "l'Amministrazione interessata solo a organizzare feste".. È un addio polemico quello tra l'avvocato Davide Grassi, nominato da soli pochi mesi Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e il Comune di Rimini accusato di non aver messo il professionista nelle condizioni di gestire con serenità il proprio incarico. Ad annunciare la decisione è stato lo stesso Davide Grassi in un comunicato dove sottolinea che "pur essendomi sempre prodigato affinché venissero migliorate le condizioni di vita e di reinserimento sociale delle persone private della libertà personale e soprattutto per garantire i loro diritti all'interno della Casa Circondariale di Rimini, non sono stato messo nelle condizioni di gestire con serenità l'incarico. Ritengo di aver adempiuto correttamente al mio incarico fino ad ora ed ottenuto, pur con difficoltà e comunque in breve tempo, dei risultati significativi". "Altro il comportamento dell'Amministrazione Comunale di Rimini - prosegue Grassi - nei confronti della figura istituzionale e ad oggi fondamentale del ‘Garante dei diritti delle persone private delle libertà personale. Quando il Comune di Rimini ha deciso di assumersi la responsabilità di occuparsi delle condizioni di vita dei detenuti della Casa Circondariale di Rimini e di tutte le persone ristrette, ho condiviso con entusiasmo tale decisione. Ho creduto davvero che anche per il Comune di Rimini non vi fossero solo serate ludiche e feste da organizzare (sicuramente utili per il nostro turismo) ma un interesse serio per la tutela dei diritti individuali costituzionalmente garantiti. Tuttavia, poco dopo il mio insediamento, ho riscontrato degli ostacoli divenuti oggi "paradossalmente" insormontabili. Quando venni eletto "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale" mi venne assegnata una sede all'interno dell'ufficio Urp di Piazza Cavour da condividere un giorno alla settimana con altre figure professionali". "Da subito mi resi conto - aggiunge il legale - dal momento che conoscevo il funzionamento della figura del Garante in altri Comuni, che la nostra Amministrazione non avesse ben chiaro quali fossero gli strumenti e le prerogative dell'attività istituzionale del Garante. Primo fra tutti l'apertura di uno spazio adeguato che garantisse la privacy dei familiari delle persone private delle libertà personale e infine tutti quegli strumenti (posta elettronica, carta intestata, linea telefonica dedicata etc.) che avrebbero avuto un'esclusiva funzione di servizio all'ufficio del Garante. Quando feci presente all'assessore Gloria Lisi che il regolamento comunale del Garante fosse incompleto ed estrapolato parzialmente da quello di un altro Comune e quindi di per sé inattuabile non ebbi alcuna risposta. Al contrario, le osservazioni che venivano fatte dai miei interlocutori, ogni volta che io rappresentavo le difficoltà strumentali dello svolgimento del mio incarico, ricadevano sulla mancanza di fondi per quell'ufficio". "In parole povere - conclude Grassi - il Comune non era in grado di sopportare ulteriori spese, oltre a quelle previste come budget annuale pari a mille euro, per tutte le attività del Garante. E ciò senza che io chiedessi un'indennità come prevista peraltro nel regolamento degli altri Comuni d'Italia. Ora, è stato per me inevitabile aver provato una profonda delusione quando sono venuto a conoscenza del costo dei pannelli pubblicitari commissionati all'artista Cattelan (per inciso, non sono stato dalla parte dei critici verso questa modalità di promozione dell'immagine della città). Da tempo la Casa Circondariale di Rimini, anche mio tramite, lamentava le carenze strutturali di alcune aree (vedi il cortile esterno dedicato all'incontro con i figli dei detenuti) che non potevano essere ripristinate per mancanza di fondi; una nuova palestra per i detenuti come valvola di sfogo e magari altri interventi e collaborazioni con il Comune. All'epoca (mi riferisco a pochi mesi fa) il Comune non poteva intervenire con delle donazioni? E ancora, davvero il Comune non ha o non aveva finanze da investire per attrezzare una sede per l'ufficio del Garante dei detenuti e dare dignità a questa figura istituzionale così importante per la città? Sarebbe bastato un piccolo sforzo. Ritengo perciò giunto il momento di rassegnare le mie dimissioni, che presenterò formalmente al Consiglio Comunale di Rimini, senza le quali il mio incarico avrebbe dovuto concludersi nel 2017. Non credo, purtroppo, che l'Amministrazione di Rimini abbia una cognizione progettuale e organizzativa dei problemi propri di una comunità carceraria". Diversa la ricostruzione del vice sindaco Gloria Lisi che a sua volta, in un comunicato stampa diffuso dal Comune, accusa l'avvocato Davide Grassi di aver cercato in tutti i modi di ottenere delle sovvenzioni non previste dall'Amministrazione. "Non è certo un fulmine a ciel sereno - spiega la Lisi - la notizia, comunicata prima di tutto alla stampa con evidente rispetto del ruolo sin qui ricoperto, della rinuncia dell'incarico da parte del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, dottor Davide Grassi. Non si tratta di una sorpresa perché sin dai giorni successivi al suo insediamento il dottor Davide Grassi non ha fatto altro che cercare ogni pretesto per aprire un contenzioso con l'amministrazione comunale, che non ha mai avuto ragion d'esser nei fatti. Basta sfogliare una rassegna stampa degli ultimi mesi per rendersene conto: il dottor Grassi, o chi per lui, ha immediatamente cominciato a lamentare problemi logistici ma soprattutto a soffermarsi sul problema dell'indennità economica. Proprio così. Nonostante il regolamento approvato dal Consiglio comunale non la prevedesse, ad eccezione dei rimborsi spese, il dottor Grassi ha cominciato istantaneamente un ‘pressing' sotto forme diverse per avere somme in denaro che l'assise comunale non aveva concesso a larghissima maggioranza solo pochi giorni prima". "Questo, mi pare, sia il nocciolo del disagio di Grassi - prosegue il vice sindaco - e non inesistenti questioni organizzative, tenendo conto che a) ho personalmente proposto, sollecitato e seguito l'iter amministrativo per la istituzione della figura del garante; b) l'amministrazione comunale ha subito garantito la massima operatività, volendo però definire e formalizzare da subito le modalità di attuazione, proprio per evitare spiacevoli incomprensioni; c) l'Amministrazione comunale ha provveduto immediatamente a mettere a disposizione una sede adeguata, funzionale e riservata, all'interno dell'Ufficio relazioni con il pubblico del Comune di Rimini, in Piazza Cavour, per una giornata a settimana; d) l'amministrazione comunale e gli stessi responsabili della Commissione comunale 4. avevano comunque cercato di venire incontro alle sollecitazioni, proponendo due soluzioni alternative per la sede degli incontri settimanali (una al Marvelli, l'altra negli spazi comunali), entrambe rifiutate dal dottor Grassi; inoltre, un funzionario del Comune di Rimini era messo a disposizione del dottor Grassi (che non ha mai usufruito di questa opportunità logistica) per il ruolo di supporto al Garante in modo da gestire gli appuntamenti ed eventuali pratiche amministrative ed è in corso di ultimazione la procedura di attivazione della mail dedicata". "Evidentemente - conclude la Lisi - tutto questo, ed è un tutto approvato a larghissima maggioranza dal Consiglio Comunale, non è bastato al dottor Davide Grassi. Il quale, nella sua lettera di dimissioni, purtroppo conferma che oltre a ragioni economiche personali (ma allora avrebbe fatto meglio a esplicitarle prima dell'approvazione del regolamento in consiglio o almeno prima di accettare l'incarico) aggiunge opinioni politiche assai sterili su altri aspetti dell'agire amministrativo, evidentemente strumentali vista la distanza con il tema della tutela di chi sta in carcere. Tutto questo dispiace ma ce ne si farà una ragione visto che quello del garante dei diritti delle persone private della libertà personale è ruolo delicatissimo e fondamentale, ed appunto per questo dovrebbe essere altro rispetto a questioni di portafoglio e di strumentalizzazione partitica. Basta sfogliare il Piano di zona 2014 da pagina 170 a 181 per avere un'idea dei progetti avviati e attuati in questa direzione. L'amministrazione comunale di Rimini ringrazia comunque il dottor Grassi per il lavoro svolto in questi mesi". Dopo aver letto le dichiarazioni del vice sindaco Gloria Lisi, l'avvocato Davide Grassi ha bollato la ricostruzione come del tutto inveritiera e ha già annunciato di volersi tutelare nelle sedi adeguate. Roma: quando riciclo fa rima con sociale, Ricrea premia "Rebibbia Recicla" Adnkronos, 8 luglio 2015 Riciclo fa rima con sociale. Lo dimostra l'attività della cooperativa Rebibbia Recicla, formata da un gruppo di detenuti della casa circondariale di Roma, che ha ricevuto uno speciale premio per l'impegno volto al recupero e al riciclo degli imballaggi in acciaio. Il riconoscimento è stato assegnato da Ricrea, il Consorzio Nazionale Riciclo e Recupero Imballaggi Acciaio, nell'ambito di Comuni Ricicloni, l'iniziativa di Legambiente che ogni anno individua in Italia le amministrazioni locali con le migliori performance di raccolta differenziata e di gestione dei rifiuti. All'interno del penitenziario romano i detenuti della cooperativa, coordinati da un tecnico esterno, si occupano di separare gli imballaggi in acciaio, alluminio e plastica estraendoli dal materiale multi leggero raccolto. Grazie a uno speciale impianto di selezione e cernita vengono recuperati e avviati al riciclo barattoli, lattine, bombolette, tappi corona, fusti e scatolette. Tra i rifiuti trattati figurano anche quelli prodotti direttamente nella casa circondariale: imballaggi a "chilometro zero", che non escono, cioè, dal carcere. "L'esperimento nel carcere di Rebibbia - commenta Roccandrea Iascone, responsabile comunicazione Ricrea - è un successo non solo dal punto di vista ambientale, ma anche in ottica sociale ai fini del reinserimento occupazionale dei detenuti". I lavoratori infatti vengono assunti e possono svolgere la propria attività percependo un regolare stipendio, ma soprattutto acquisendo una formazione sul campo che poi possono spendere sul mercato del lavoro una volta finito di scontare la pena. Rebibbia Recicla opera per conto del Consorzio Rolando Innocenti, azienda specializzata nel settore della raccolta, trasporto e recupero di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, nel bacino est della regione Lazio. Oltre a Rebibbia Ricicla, Ricrea ha premiato per gli ottimi risultati raggiunti il Comune di Sala Baganza per il Nord Italia e il Comune di Sinnai per il Sud. "Sono eccellenze come queste, insieme a una sempre migliore efficienza gestionale - prosegue Iascone - che ci hanno consentito di ridurre ulteriormente il contributo ambientale per gli imballaggi in acciaio, che passerà dagli attuali 21 a 13 euro a tonnellata a partire dal 1 ottobre 2015. Un ulteriore segnale di riduzione dei costi per le imprese produttrici e utilizzatrici di imballaggi, che permetterà comunque di garantire il ritiro dei rifiuti urbani di imballaggio sull'intero territorio nazionale e il riconoscimento ai Comuni dei corrispettivi previsti dal nuovo Accordo Quadro Anci-Conai (420 milioni di euro stimati nel 2015)". Nel 2014 in Italia sono state avviate al riciclo 335.854 tonnellate di imballaggi in acciaio, sufficienti per realizzare ben 2.239 copie dell'Albero della Vita, icona del Padiglione Italia e simbolo di Expo 2015. Il tasso di recupero, pari al 74,3% delle quantità immesse a consumo (452.298 tonnellate), conferma il nostro Paese tra i migliori in Europa nell'attività virtuosa di assicurare nuova vita agli imballaggi in acciaio. L'acciaio è il materiale più riciclato in Europa: è facile da differenziare e viene riciclato al 100% e all'infinito senza perdere le proprie intrinseche qualità. Lamezia: illustrato stato di salute degli Istituti penitenziari della provincia di Catanzaro di Alessandra Renda lametino.it, 8 luglio 2015 Proprio a Lamezia, che si è vista da poco chiudere la casa circondariale, si è svolta, nella sala convegni del centro direzionale dell'Asp, una conferenza stampa per tracciare un bilancio sullo stato di salute degli istituti penitenziari della provincia di Catanzaro, relativi all'anno 2014. Presenti all'incontro moderato da Pasquale Natrella, i responsabili delle varie aree sanitarie, il commissario straordinario dell'Asp Giuseppe Perri e il referente salute negli istituti penitenziari, Antonio Montuoro. Come ha ricordato il commissario Perri, in apertura dell'incontro, il Dpcm del 2008 ha conferito alle aziende sanitarie il compito dell'organizzazione e della tutela della salute all'interno delle case circondariali. Uno sforzo che lo stesso Perri ha definito "grande e incessante nonostante ci sia ancora molto da fare" per migliorarne i servizi e le prestazioni. Il Commissario straordinario annuncia progetti che saranno a breve concretizzati, come l'apertura del Centro di Tutela della salute mentale presso la casa circondariale "Ugo Cariti" di Catanzaro, che prevede anche una sezioni per disabili fisici seconda in tutta Italia. Poi l'incremento dell'assistenza sanitaria h24 e la realizzazione e messa in funzione a breve di un centro diagnostico terapeutico strutturato in 4 piani. "Lo scopo è quello di intensificare un rapporto - ha precisato Perri - che dia risposte concrete ed immediate a persone che non meritano conseguenze negative che possano ostacolare il loro reinserimento nella società". Al referente salute degli istituti penitenziari della provincia, Antonio Montuoro, il compito invece di riassumere il rapporto sullo stato dei detenuti, che soffrono di tutte le patologie più diffuse nella società, ma in particolare di problemi psichiatrici e cardiovascolari. Il piano di rientro sul disavanzo della sanità calabrese, la chiusura di molte strutture, le conseguenze sul personale e il passaggio dei beni strumentali alle Asp non hanno però scoraggiato i progressi fatti par garantire l'assistenza ai detenuti negli istituti penitenziari della provincia. La casa circondariale di Catanzaro "Ugo Cariti" è la più importante della Calabria e ospita 700 detenuti in una struttura che ha visto di recente aprire un nuovo padiglione. Dai dati 2014 emergono 11.690 ore annue di assistenza giornaliera ai detenuti, senza far mai mancare assistenza infermieristica, piscologica e visite specialistiche che ammontano a 8.796 nel 2014. "Non è mai mancata nemmeno assistenza farmaceutica - precisa poi Montuoro - con il consumo totale di 25.000 confezioni nello stesso anno di riferimento. Progressi sono stati fatti anche nel campo dell'informatizzazione, con l'avviamento in particolare, del progetto di tele-cardiologia e l'acquisto di numerosi apparecchi elettromedicali. Un protocollo d'intesa sottoscritto nel 2013 ha permesso inoltre la realizzazione di un centro diagnostico terapeutico che si sviluppa in 4 piani con ambulatori per branche specialistiche, servizi per detenuti con disabilità motorie e una sezione destinata alla tutela della salute mentale fondamentale anche per il personale, in quanto in questo settore sono state sbloccate le assunzioni con l'implementazione di ore specialistiche senza vincoli per la sanità calabrese. Un lavoro che il dottore Montuoro definisce prodigioso anche per l'Istituto Minorile Silvio Paternostro di Catanzaro, con 1394 visite e 1113 interventi psicologici nell'anno 2014. Molto ancora deve essere fatto e tanti sono i servizi da implementare, ma si tratta sicuramente di quelli che il dottore Montuoro definisce come "i primi bagliori che annunciano l'alba di una nuova era per la sanità calabrese". Sulmona (Aq): coltivazioni tipiche curate dai detenuti, i complimenti della Regione rete5.tv, 8 luglio 2015 Il Consigliere regionale Lorenzo Berardinetti (Regione Facile), Presidente della Terza Commissione (Agricoltura, Attività produttive e Sviluppo Economico) e l'Assessore all'Agricoltura Dino Pepe, accompagnati dai funzionari del dipartimento delle politiche agricole, Massimo Pellegrini e Antonio Ricci, hanno visitato oggi a Sulmona la casa di reclusione. La delegazione - accolta dal direttore, Sergio Romice e dall'educatrice Fiorella Ranalli - si è poi incontrata con il formatore del progetto "Le Antiche Varietà", Franco Volpe e con l'assistente capo, Cesare Tarantelli. "Abbiamo visitato gli orti interni e esterni della struttura di Sulmona, coltivati dai detenuti e siamo rimasti positivamente colpiti dal progetto volto alla conservazione delle biodiversità e al recupero delle antiche varietà di cultivar agricole, tra cui spiccano i fagioli tipici come quello giallo di Pettorano sul Gizio, l'olio di Onna e l'aglio rosso di Sulmona - hanno dichiarato Berardinetti e Pepe. È nostra intenzione - hanno aggiunto - adottare tutte le misure necessarie per consolidare e rafforzare la collaborazione tra la Regione e la casa di reclusione, frutto di un protocollo d'intesa sottoscritto nel luglio del 2013. Riteniamo, infatti, che questi progetti siano fondamentali per garantire la rieducazione e il reinserimento nella società dei detenuti, grazie anche alle attività formative svolte dall'Istituto Tecnico Agrario di Pratola Peligna tanto che, da quest'anno, saranno possibili i primi esami di maturità". In conclusione, affermano Pepe e Berardinetti, "la visita ha rafforzato la nostra idea di elaborare, nel più breve tempo possibile, un quadro normativo avanzato volto a tutelare e valorizzare la biodiversità in Abruzzo, così da esaltare le peculiarità del nostro territorio. In questo senso, la casa di reclusione di Sulmona, svolgerà sicuramente un ruolo di primo piano, capace di coniugare le attività sperimentali con un percorso sociale volto al recupero di persone svantaggiate che devono essere prioritariamente ricollocate nella società civile". Empoli: una borsa shopper fatta dalle detenute, la presentazione al "Flo Concept Store" da Caritas Diocesana di Firenze gonews.it, 8 luglio 2015 Frutto di una sinergia, questo progetto iniziato alla fine del 2014 è finalmente giunto a conclusione, e gli enti coinvolti desiderano condividere l'esperienza e i risultati. Grazie al Prap (Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria), alla disponibilità del Direttore della Casa Circondariale femminile di Empoli, del personale educativo e della Polizia Penitenziaria, alla Caritas e Cooperativa Sociale San Martino (finanziatrice del progetto), alla Cooperativa Sociale Flo e, soprattutto, alle volontarie dell'Associazione "L'Acqua in gabbia", che da anni prestano la loro attività in carcere portando avanti un laboratorio di taglio e cucito con le detenute, è nato il progetto "Nuove trame in carcere". L'obiettivo del progetto è duplice: da una parte si punta a creare un'occasione di apprendimento per le detenute, per offrire loro la possibilità di acquisire competenze da spendere una volta uscite, dall'altra si cerca di attrarre le detenute offrendo un lavoro vero, occasione di impegno, di dignità ma anche di guadagno. Con la messa a disposizione da parte della Coop San Martino di un importo a sostegno del progetto, è stata pertanto coinvolta una sarta di maturata esperienza che con regolarità, per circa 5 mesi, ha prestato servizio assieme alle volontarie, rendendo capaci le detenute di fare fronte al loro primo ordine. Il Prap ha offerto una serie di tessuti, da anni dimenticati nei magazzini del carcere di Sollicciano, ormai risalenti agli anni 70 - quando in car-cere erano gli stessi detenuti a provvedere al proprio abbigliamento - perché potessero essere riutilizzati. La Cooperativa Sociale Flo ha ideato con quei tessuti delle shopper in stoffa, perfette da riutilizzare, che potessero essere un primo approccio al cucito per persone del tutto a digiuno della materia. Le detenute hanno frequentato, quindi, due volte la settimana il laboratorio e il loro lavoro è stato pagato sulla base dell'impegno che ognuna di esse ha messo nel progetto. Grande è stata la partecipazione delle volontarie, convinte dell'utilità di coinvolgere le donne in carcere in un percorso capace di offrire un possibile futuro sbocco lavorativo. La Caritas ha dunque finanziato grazie alla Cooperativa San Martino l'intero progetto, fornendo anche materiale da lavoro (macchine, asse da stiro, ferro e simili) e ha messo in ultimo a disposizione la sua struttura, "Casa Il Samaritano", utilizzandone il laboratorio di serigrafia. Su ciascuna shopper è stato, infatti, serigrafato il logo di Flo, Onlus fiorentina che gestisce una boutique in Lungarno Corsini, e una frase che racchiude l'intero progetto: "Shopper realizzata dalle detenute del carcere di Empoli, come espressione del loro desiderio di una nuova vita e un futuro diverso". Napoli: a Secondigliano 20 detenuti prendono il diploma di maturità col massimo dei voti Corriere del Mezzogiorno, 8 luglio 2015 I diplomi di ragioniere-perito commerciale agli alunni detenuti della sezione distaccata dell'Itc Enrico Caruso: tutti con ottimi voti dopo corso di 5 anni, scatta encomio. Venerdì 10 luglio, alle ore 9,30 presso il centro penitenziario di Secondigliano saranno consegnati i diplomi di ragioniere-perito commerciale agli alunni detenuti della sezione distaccata dell'Itc Enrico Caruso di Napoli operante presso la struttura penitenziaria. L'eccezionalità dell'evento è data dall'elevato numero di alunni detenuti neodiplomati, venti, tutti con ottimi voti. Gli alunni detenuti, 17 sottoposti al regime detentivo di alta sicurezza e 3 di media sicurezza, hanno compiuto un corso regolare di studi di cinque anni che li ha sostenuti nel percorso detentivo ed aiutati ad aprirsi alla speranza in una vita migliore. Uno dei detenuti neodiplomati ha meritato 100, cinque hanno conseguito votazioni superiori a 90. Gli alunni neodiplomati riceveranno in occasione della cerimonia anche l'encomio da parte dell'amministrazione penitenziaria, un importante riconoscimento riservato solo a quei detenuti che abbiano compiuto nel carcere un percorso umano e formativo modello. Gli esami di Stato sono stati condotti dalla I commissione sperimentale, presieduta dal professor Pietro Nardiello, e dalla XIII commissione, presieduta da Patrizia Assante. Le commissioni esaminatrici erano composte dai docenti esterni Luigi Lampitelli e Silvana Romeo (Diritto ed Economia Politica), Sergio Gambardella e Giacomo Stefanelli (Economia Aziendale), Oretta de Donato e Ermelinda Carbonara (Inglese) e dai commissari interni Antonella Capasso, Matilde Merendi, Carla Giustiniani, Silvio Gesualdo, Vincenzo Gallo. La cerimonia di consegna dei diplomi sarà un'occasione per ricordare anche le molteplici attività offerte dalla scuola nell'ambito delle attività trattamentali penitenziarie. Alla manifestazione, organizzata dal dirigente scolastico Vittorio Delle Donne insieme con il direttore del centro penitenziario di Secondigliano Liberato Guerriero sono stati invitati rappresentanti delle amministrazioni regionali penitenziaria e scolastica che sostengono il progetto di istruzione penitenziaria da oltre 20 anni, il sindaco e l'assessore all'istruzione del Comune di Napoli. Trapani: alla Casa circondariale si è concluso Corso di formazione per restauratori trapanioggi.it, 8 luglio 2015 Si è concluso ieri, alla Casa circondariale di Trapani, il corso per "Aiuto restauratore del Legno" svoltosi all'interno del laboratorio di falegnameria dell'Istituto e per il quale sette detenuti, nei prossimi giorni, dovranno affrontare gli esami per conseguire l'attestato. Il corso "Aiuto restauratore del legno" organizzato dall'ente di formazione Istreff è stato tenuto dai docenti Dario Roberto Tartamella e Maurizio Caporrimo, tutor Fabio Bongiovanni. I sette detenuti che hanno partecipato sono Gaspare Augugliaro, Giuseppe Avegna, Francesco Franco, Antonino Martino, Giuseppe Savalli, Massimiliano Longhitano e Gian Battista Lungaro. "I corsi di formazione professionali - sottolinea la nota diffusa dalla Casa circondariale - sono di vitale importanza per l'attuazione del dettato costituzionale, ovvero la rieducazione e il reinserimento del detenuto nella società, in quanto forniscono gli strumenti ai detenuti per acquisire professionalità e un attestato spendibile nel mondo del lavoro". Milano: le mamme borseggiatrici del metrò, in 5 hanno 25 figli, già arrestate 78 volte di Gianni Santucci Corriere della Sera, 8 luglio 2015 Arrestate di nuovo, tutte insieme, in metrò, fermata stazione Centrale: stavano sfilando il portafogli a una turista asiatica. Cinque donne e madri (in tutto) di 25 bambini. Una, per rubare, aveva al collo il figlio, 3 mesi. Quelle ragazze rom, due bosniache e tre italiane, negli ultimi anni hanno messo insieme 192 denunce, 78 arresti. Solo furti, sono borseggiatrici professioniste. Tra Roma, Milano, la Toscana. Alessia A., 29 anni, 9 figli, 115 identificazioni delle forze dell'ordine, 49 denunce, 16 arresti. Marta S., 21 anni, 4 figli, 152 identificazioni, 24 denunce, 25 arresti. Fanisa H., 29 anni, 5 figli, 24 denunce, 8 arresti. Serya O., 23 anni, 4 figli, 68 denunce, 22 arresti. E poi Debora H., 20 anni, 3 figli, 27 denunce e 7 arresti. Il 27 giugno scorso le hanno arrestate di nuovo, tutte insieme, gli agenti dell'Unità reati predatori della Polizia locale di Milano. In metrò, fermata stazione Centrale, stavano sfilando il portafogli a una turista asiatica. Cinque donne e madri (in tutto) di 25 bambini. Una, per rubare, aveva al collo il figlio di 3 mesi. Tutte insieme, quelle ragazze rom, due bosniache e tre italiane, negli ultimi anni hanno messo insieme un curriculum criminale elencato in decine di pagine: 192 denunce, 78 arresti. Solo furti. Furti "con strappo", furti "con destrezza". Borseggiatrici professioniste. Tra Roma, Milano, la Toscana. Carcere: quasi mai. Il codice penale rispetta le madri e i loro bambini. Ma così per quelle donne, di fatto, certi reati sono "depenalizzati". Queste sono le loro storie, raccontate attraverso i documenti di processi che di solito scivolano nelle aule di giustizia come in una catena di montaggio. Storie che dimostrano come il sistema di repressione di certa microcriminalità sia inceppato: il lavoro delle forze dell'ordine si avvita in una sequenza di arresti "a vuoto". Tribunale di Milano, 29 giugno, aula delle "direttissime". Alessia A., 29 anni, spiega al giudice: "Sono analfabeta. Non ho lavoro. Ho 9 bambini, un marito. Viviamo in un camper". Aggiunge: "Noi rubiamo agli stranieri, e non agli italiani, perché hanno meno capacità di reazione". È lei stessa a elencare le età dei suoi 9 figli: da un anno e mezzo a 11 anni. Marta S.: "Vivo in un camper. Ho 4 bambini, sono incinta al settimo mese". Il "lavoro": "Siamo entrate nel metrò con l'intenzione di rubare, ma non abbiamo fatto niente. C'erano solo italiani". Ancora, Fanisa H.: "Vivo in un camper, ho 5 figli. Stavamo andando a rubare, ma non abbiamo fatto niente perché gli agenti in borghese ci hanno fermato". Vengono condannate tutte e cinque (un anno e 8 mesi) e messe in libertà. Il giudice firma però un'ordinanza che punta a dare un segnale: divieto di dimora in tutte le città con la metropolitana, da Milano a Catania. Il comandante della Polizia locale di Milano, Tullio Mastrangelo, ha istituito una squadra dedicata ai soli "reati predatori", guidata dagli ufficiali Maccari e Sampieri: oltre 200 arresti in un anno e mezzo. Il gruppo antiborseggio della Squadra mobile, nei primi mesi del 2015, ha arrestato 94 persone. Lo sforzo delle forze dell'ordine, per questo tipo di reati, quando si tratta di donne rom "professioniste", si scontra con l'articolo 275 del codice di procedura penale: "Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a 6 anni... non può essere disposta né mantenuta la custodia in carcere, salvo esigenze di eccezionale rilevanza". Eccolo, il cortocircuito tra il diritto, la necessità sicurezza e, indirettamente, la tutela dei bambini delle madri borseggiatrici. Un tema sul quale riflette l'assessore alla Sicurezza di Milano, Marco Granelli: "Con l'Associazione nazionale dei Comuni stiamo lavorando a un decreto sicurezza urbana da proporre al ministro Alfano per dare più poteri ai sindaci e incrementare la collaborazione con polizia e carabinieri per la lotta alla microcriminalità. Le valutazioni prevedono anche l'inasprimento delle pene per situazioni specifiche come i borseggi reiterati". Come quello accaduto, sempre a Milano (metrò Lanza), il 4 luglio. Quattro ragazze bosniache: 2 hanno 6 figli, 2 sono incinte; derubano un turista russo; a loro carico, in totale, 73 denunce e 50 arresti. Fermate dalla Polizia locale in pattuglia per la sicurezza Expo. Stavolta però il giudice, in attesa dell'udienza (dopo domani), ha deciso che stiano in carcere: per i precedenti e "perché strumentalizzano la gravidanza per commettere più agevolmente reati". "Ho 6 figli e sono incinta di 6 mesi", ha spiegato Faria O. Per la prima volta nella sua "carriera" non è stata rilasciata il giorno stesso dell'arresto. Torino: Sappe; in perquisizione rinvenuti grappa e macchinette per tatuaggi nelle celle torinotoday.it, 8 luglio 2015 La grappa può dare corso a un commercio sotterraneo tra gli stessi ristretti, ovviamente illecito. Non solo: per quanto possa essere scadente, un'assunzione elevata fa ubriacare e questo, poi, determina atteggiamenti aggressivi. Un coltello rudimentale, una macchinetta per realizzare tatuaggi e circa 8 litri di grappa artigianale lasciata a macerare. È quel che ha trovato ieri mattina la polizia penitenziaria nel corso di una perquisizione nelle celle della Casa Circondariale di Torino, al secondo piano del Reparto incolumi. Un'operazione di servizio di routine, quella svoltasi stamane, che la polizia penitenziaria conduce regolarmente proprio per stroncare il possesso e la custodia, da parte dei detenuti, di oggetti e materiali non consentiti nelle celle. Sono in corso, da parte degli agenti che hanno condotto la perquisizione, gli accertamenti finalizzati a identificare i detenuti che custodivano illegittimamente il materiale sequestrato, ma il primo Sindacato dei Baschi Azzurri evidenzia con preoccupazione le conseguenze del possesso della grappa da parte dei detenuti. "I detenuti ottengono la grappa facendo macerare la frutta e distillandola con alambicchi di fortuna che costruiscono loro stessi - afferma il segretario generale del Sindacato Autonomo polizia penitenziaria Sappe Donato Capece. Ma la grappa può dare corso a un commercio sotterraneo tra gli stessi ristretti, ovviamente illecito. Non solo: per quanto possa essere scadente, un'assunzione elevata fa ubriacare e questo, poi, determina atteggiamenti aggressivi e violenti tra gli stessi detenuti ma anche contro i poliziotti penitenziari. È dunque un fenomeno, questo della realizzazione di grappa artigianale, che va stroncato sul nascere, mettendo in condizioni il Reparto di Polizia Penitenziaria di avere le risorse umane necessarie". Capece fa appello al Ministro della Giustizia Orlando, al quale chiede di "sospendere la vigilanza dinamica nelle carceri, ossia le sezioni detentive autogestite dai detenuti, che permette loro di girare liberamente, nei corridoi, senza fare nulla per molte ore al giorno, e che si sta rilevando non solo inutile ai fini del trattamento rieducativo dei detenuti ma assolutamente pericolosa, come confermano le molte aggressioni contro i poliziotti penitenziari e come avevamo noi stessi ipotizzato. Ogni giorno contiamo aggressioni e ferimenti a nostri Agenti favoriti proprio dall'eccessiva libertà di tanti detenuti in carcere determinata da questa organizzazione interna". E al Guardasigilli chiede interventi urgenti, "a cominciare da un tavolo tecnico di lavoro che riveda ed eventualmente ridiscuta l'organizzazione della vigilanza dinamica, anche alla luce di tutti i problemi di sicurezza che sono emersi nelle ultime settimane". Bologna: per il teatro all'Ipm del Pratello lo stop dei pompieri "la struttura non è sicura" di Paola Naldi La Repubblica, 8 luglio 2015 Dopo quindici anni di attività, per motivi di sicurezza chiude momentaneamente al pubblico il palcoscenico del Pratello, l'ex chiesa all'interno del carcere minorile usata per mettere in scena gli spettacoli realizzati dalla compagnia di ragazzi diretta da Paolo Billi. A lanciare l'allarme è stata la Garante regionale Desi Bruno che venerdì scorso si è recata in visita al Pratello apprendendo che i vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili, per oggettivi motivi di sicurezza, i locali adibiti alle rappresentazioni. "La situazione è kafkiana - commenta Paolo Billi. Un mese fa abbiamo saputo di questa ispezione ma non sappiamo esattamente quali sono le prescrizioni che permetterebbero l'accesso del pubblico. Per ora non sono preoccupato: fortunatamente la dirigente del Centro giustizia minorile Silvia Mei si è attivata per chiedere chiarimenti. E c'è tempo: il prossimo spettacolo dovrebbe andare in scena a novembre e, ironia della sorte, si tratta proprio de "Il Processo" di Kafka, ma agli inizi di settembre noi potremmo iniziare i laboratori con i ragazzi, come da calendario". La struttura penitenziaria possiede anche un vero teatro, chiuso da moltissimo tempo, ma negli ultimi anni gli spettacoli, che sono il risultato finale dei laboratori tenuti da Paolo Billi, sono stati presentati regolarmente in altri locali. "Posso pensare che le prescrizioni siano legate alla nuova legge sulla sicurezza degli edifici pubblici - ipotizza ancora il regista - Noi abbiamo l'obbligo di produrre una certificazione sugli impianti illuminotecnici e sulla scena, cosa che facciamo regolarmente. Alla proprietà spetta invece avere una certificazione sulla sicurezza dell'immobile. Certo sappiamo che ci sono alcune criticità in quello spazio, come ad esempio l'avere un unico ingresso, ma sappiamo anche che ci sono delle deroghe, e alla fine in questi quindici anni non abbiamo mai riscontrato alcun problema nell'ospitare il pubblico esterno". L'auspicio di Bruno è "che si possa arrivare ad una soluzione concordata, nel rispetto della normativa vigente, per non disperdere l'attività formativa pluriennale di Paolo Billi". Bologna: all'Ipm del Pratello i numeri sono tornati ai tempi del sovraffollamento del 2012 radiocittadelcapo.it, 8 luglio 2015 All'Istituto penale minorile regionale di Bologna "i numeri sono tornati ai tempi del sovraffollamento del 2012", ma sono "evidenti le migliorie alla qualità della vita dei ragazzi", perché "tutti svolgono qualche attività", come il laboratorio di musica rap e un progetto realizzato con la Onlus "Informatici senza frontiere". Lo segnala la Garante regionale delle persone private della libertà Desi Bruno, che venerdì scorso 3 luglio si è recata in visita al Pratello accompagnata dal direttore dell'istituto, Alfonso Paggiarino, e dal comandante della Polizia penitenziaria. A fronte di una capienza di 22 persone, al momento della visita i ragazzi erano 25, di cui cinque in aggravamento di pena: solo otto i minorenni e molti i giovani adulti, di cui 15 fino ai 21 anni e tre tra i 24 e i 25 anni. A preoccupare la Garante c'è però un recente intervento dei vigili del fuoco, che hanno dichiarato inagibili, per motivi di sicurezza, i locali adibiti alle rappresentazioni del Teatro del Pratello: il dirigente del Centro di giustizia minorile ha già inviato al Comando dei Vigili del fuoco una richiesta di eventuali prescrizioni da adottare per poter proseguire le attività del laboratorio teatrale, e l'auspicio di Bruno è che "si possa arrivare ad una soluzione concordata, perché è un vero peccato non poter proseguire l'attività laboratoriale, in un momento, tra l'altro, di grande impulso del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna". La proposta della Garante è di svolgere il laboratorio in altri spazio, mettendo poi in scena gli spettacoli all'Arena Del Sole, con un permesso speciale ai ragazzi. In ogni caso, assicura il Garante, "tutti i ragazzi sono occupati: dall'arte-terapia fino al laboratorio musicale di rap, che inizia con la fine dell'anno scolastico fino a settembre in preparazione di un nuovo docu-clip, a metà tra videoclip musicale e documentario, accompagnato da musica rap ideata dai ragazzi: è la loro sesta edizione e sarà presentata al Terra di Tutti Film Festival". Sono stati poi "avviati i rapporti con l'associazione "Mozart14" per realizzare il progetto "Leporello", voluto dal maestro Abbado, e con "Informatici senza frontiere" per un progetto digitale". Un occhio di riguardo anche alla frequenza scolastica: quattro le licenze medie ottenute e quattro i crediti rilasciati per la partecipazione a corsi per la ristorazione e al laboratorio di scenotecnica. Inoltre la palestra, inaugurata ad aprile, è "ben organizzata, ripulita e imbiancata". Infine, è stata costituita "la commissione vitto, formata da tre ragazzi- uno musulmano, due di altre fedi- e un operatore dell'area pedagogica, a garanzia della qualità del cibo e rispondenza alle esigenze particolari". Trieste: ShorTs Film Festival, oggi il premio "Oltre il muro" con il voto dei detenuti di Federica Gregori Il Piccolo, 8 luglio 2015 È il primo riconoscimento che viene assegnato in questa 16° edizione di ShorTs International Film Festival, a fare da apripista alla lunga serie di premi che saranno attribuiti nel gran finale di venerdì al Museo Teatrale "Schmidl" alla presenza di registi e giurati. Ma oggi a scegliere sono soltanto loro, i detenuti della Casa Circondariale di Trieste, una consuetudine iniziata nel 2009 e che il festival triestino rinnova anche per quest'anno, continuando a crederci e portando il suo cinema ancora una volta "Oltre il muro". Sono quindici i detenuti che in questi giorni stanno visionando una selezione dei corti italiani del concorso maggiore, guidati da consigli e "dritte" tecniche del regista triestino Davide del Degan: questo pomeriggio arriveranno a un verdetto e premieranno il corto da loro ritenuto più significativo. Corti italiani al centro anche del programma di stasera in piazza Verdi, con inizio alle 21.30, partendo da due volti noti come quello di Francesco Paolantoni e Patrizio Rispo, protagonisti di "Luigi e Vincenzo". Quattro minuti, scritti e diretti dal napoletano Giuseppe Bucci, che sembrano fare il paio ideale con "Snowflake" del sacilese Francesco Roder, passato al festival nella serata di lunedì: se lì era una malattia terminale a fare da sfondo a un amore lesbico, qui il tema è riproposto all'interno di un legame omosessuale declinato al maschile. Uno dei corti a tema Lgbt di maggiore successo nei festival internazionali, votatissimo in quelli di settore tra cui il "Queer" di Firenze e che, anche se un po' didascalico, non si può dire manchi d'efficacia nel rivendicare quei diritti negati anche dopo una vita d'amore passata tristemente in clandestinità com'è quella dei due protagonisti. Un amore, una vita, nessun diritto: è questa l'amara riflessione che chiude il corto, presente anche nel contest del Piccolo dove può essere votato e consigliato dai lettori assieme a un altro short in programma stasera in piazza Verdi, "Yo te quiero", la tenera amicizia tra un bimbo e un cavallino raccontata in un stop motion dall'argentino Nicolas Conte. Tra le cartucce sparate dalla selezione di oggi, da segnalare la sci-fi del britannico "The Nostalgist" dove, grazie a un avveniristico sistema, la realtà più degradata e sporca può essere resa più bella di un paradiso: ma un brutto giorno il sistema andrà in tilt. Le "Nuove Impronte" di oggi lasciano il segno più che mai, e dopo "Perfidia" e "Medeas", direttamente dal Sundance dove è stato presentato a gennaio, quindi alla Berlinale nella sezione "Generation", arriva oggi all'Ariston alle 20 l'ideale chiusura del cerchio con "Cloro" di Lamberto Sanfelice: l'ultimo, ma non in ordine d'importanza, di tre esordi di gran respiro che offrono, in modalità e stili differenti, un comune percorso di indagine che attraversa l'idea di famiglia come gabbia e luogo fecondo di ossessioni, di desiderio e di repressione. La riforma delle droghe parte da Udine di Franco Corleone Il Manifesto, 8 luglio 2015 Il 10 luglio a Udine, nella Sala Aiace del Palazzo comunale, si svolgerà un confronto sulla politica delle droghe e sulla urgenza di una riforma dopo la caduta della Fini-Giovanardi. La scelta della Società della Ragione e di tutte le associazioni che in questi anni hanno contrastato la svolta punitiva e proibizionista di trovarsi nella capitale del Friuli è legata alla volontà di festeggiare la piena assoluzione decisa il 13 maggio scorso dal Tribunale della città di Loris Fortuna per Filippo Giunta, l'organizzatore del festival di musica reggae SunSplash, accusato di agevolazione dell'uso di marijuana. La vicenda giudiziaria durata cinque anni è stata accompagnata da una incessante iniziativa politica e culturale per mettere sul banco degli imputati la legge che era responsabile della persecuzione di decine di migliaia di consumatori, piccoli spacciatori e tossicodipendenti e quindi della crisi della giustizia e del sovraffollamento delle carceri. Va ricordato in particolare il fatto che la campagna per l'incostituzionalità della Fini-Giovanardi iniziò proprio da Udine con la relazione di Luigi Saraceni l'1 giugno 2012, due anni prima della pronuncia della Consulta avvenuta il 12 febbraio 2014. Il successo è avvenuto per via giudiziaria, la più alta possibile e indiscutibile. Ora le questioni sul tappeto sono diverse e interpellano direttamente la politica: la direzione del Dipartimento per le politiche antidroga, la convocazione della Conferenza governativa prevista per legge ogni tre anni e che ha un ritardo sostanzialmente di ben quindici, il carattere della partecipazione dell'Italia alla Sessione straordinaria dell'Onu sulle droghe che si terrà a New York nell'aprile 2016. Questi temi sono stati posti il 24 giugno scorso con la presentazione in Parlamento del 6° Libro Bianco sugli effetti della legge sulle droghe dopo la Fini-Giovanardi. I dati del 2014 parlano da soli. Sono crollati gli ingressi in carcere per violazione della legge antidroga, calano i detenuti per detenzione di sostanze stupefacenti e diminuiscono, anche se in dimensione più contenuta, gli ingressi di tossicodipendenti nei penitenziari. Infatti gli ingressi in carcere per violazione dell'art. 73 sono passati dalla punta di circa 28.000 unità (pari al 32%) negli anni dell'era di Giovanardi agli attuali 13.000 pari al 28%; le presenze in galera per lo stesso reato sono passate da 26.000 a 18.000 con una percentuale scesa dal 40% al 33%. I tossicodipendenti entrati in carcere sono passati da 27.000 a 13.000 e le presenze da 15.000 a 13.000 persone. Insomma l'emergenza del sovraffollamento nelle carceri se si è ridotta trova la sua ragione nel ritorno alla legge Iervolino-Vassalli con la differenziazione di pena tra droghe pesanti e leggere e concretamente almeno 5.500 detenuti in meno sono determinati da questo fatto. D'altronde la persecuzione della canapa continua a fare la parte del leone nelle azioni di contrasto all'uso di droghe, infatti il 50% delle segnalazioni all'autorità giudiziaria è per detenzione di cannabis mentre le segnalazioni al prefetto per consumo di sostanze stupefacenti arrivano all'80% per i cannabinoidi. A Udine discuteremo con Pien Metaal del Tni di Amsterdam del quadro internazionale e delle iniziative di mobilitazione verso Ungass 2016 e apriremo il confronto sulle proposte di legge per cambiare radicalmente la legge sulle droghe in Italia con una depenalizzazione completa del consumo con l'abrogazione delle sanzioni penali e amministrative, con misure alternative efficaci alla detenzione, con programmi di riduzione del danno, e per una regolamentazione della produzione, vendita e consumo della canapa. Il movimento è partito, la parola al Parlamento. Svizzera: InOltre, a scuola per sperare Corriere del Ticino, 8 luglio 2015 Consegnati al carcere La Stampa 187 certificati di frequenza ai corsi organizzati per i detenuti. Visi commossi, volti appagati negli scorsi giorni, nella palestra del penitenziario penale della Stampa: da una parte i detenuti e dall'altra docenti ed autorità. Tutti riuniti in occasione della tradizionale consegna dei certificati di frequenza distribuiti ai carcerati che, durante il corrente anno scolastico, hanno frequentato uno o più dei numerosi corsi (circa duecento le iscrizioni) organizzati dalla Scuola InOltre (Sio). La struttura, (sotto sede, in pratica, della Spai di Locarno), è stata ideata nel 2006 da Mauro Broggini, che ne è pure il coordinatore. Come sempre, una quindicina i docenti attivi nella Scuola InOltre: questi insegnanti hanno permesso a decine di persone in espiazione di pena di apprendere lingue a loro sconosciute e studiare materie che in gioventù, probabilmente, hanno solo sfiorato, a causa dei più svariati motivi. Il bilancio positivo di questo nono anno scolastico è racchiuso, tra l'altro, anche nel Quaderno InOltre in cui autorità, docenti e detenuti raccontano esperienze, punti di vista, auspici. Pensieri vergati in modo semplice ma dai contenuti profondi quelli scritti dai carcerati. Che a volte tradiscono lo sconforto. Un esempio: "Fuori è ancora peggio che dentro. Tutto è crollato. Tutto il mio mondo non c'è più. I miei affetti, mio figlio, i miei "amici" o presunti tali. Nulla, non c'è più nulla". "Sarà tutto da ricostruire". Ma poi ritorna la speranza: "Si avvicina il giorno in cui sarò di nuovo libero. Non riesco a pensare ad altro; conto le ore e i minuti sono troppo lunghi". Soddisfatta anche Silvia Gada, responsabile della formazione professionale. I corsi, spiega, possono dare la possibilità pure ai detenuti di migliorare le loro conoscenze e di cogliere la preziosa occasione di riflettere e costruire delle competenze che serviranno loro al momento del rientro nella società. Gada sottolinea poi che i docenti interessati all'insegnamento in carcere hanno a loro volta la possibilità d'acquisire positive esperienze, constatando l'impegno di questi studenti e la qualità dei loro lavori Arabia Saudita: sono 4.209 i prigionieri nelle carceri di massima sicurezza Nova, 8 luglio 2015 I detenuti in Arabia Saudita sono in calo, mentre aumenta il numero dei detenuti simpatizzanti dello Stato islamico. Dal mese di marzo, quasi 2.300 sauditi sono partiti per la Siria per unirsi a gruppi jihadisti come lo Stato islamico e al-Nusra, secondo il ministero dell'Interno saudita. Nelle prigioni di sicurezza, il numero dei detenuti è sceso di quasi il 60 per cento, a 2.289 persone, nel novembre 2013, rispetto ai 5.501 detenuti registrati nel dicembre 2010. "Oggi ci sono 4.209 prigionieri di massima sicurezza", ha detto il direttore del carcere di Haer, Mohammed Abu Salman.