Giustizia: il carcere non può essere una pena di Glauco Giostra Corriere della Sera, 7 luglio 2015 Un'emblematica coincidenza: mentre tra pochi giorni l'ordinamento penitenziario compie quarant'anni, in Parlamento è iniziato l'esame del disegno di legge delega per la sua riforma. L'ottimismo con cui saremmo indotti a brindare a questo compleanno così foriero di promettenti prospettive è "guastato" da alcuni inquietanti interrogativi, cui non è facile dare una risposta incoraggiante. Come è possibile che con un ordinamento penitenziario al tempo tra i più avanzati del mondo siamo giunti a subire una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, per trattamento inumano e degradante delle persone detenute? Come è possibile che il disegno di legge delega miri "all'effettività rieducativa della pena", quando è già la nostra Costituzione a esigerlo da quasi settant'anni? Come è possibile che oggi l'aratro della riforma insista, a ben vedere, sugli stessi solchi tracciati dalla legge penitenziaria di quarant'anni fa? A questo sconfortante bilancio hanno concorso molteplici cause, ma la causa delle cause risiede nella diffusa convinzione che il carcere sia l'unica risposta alle paure del nostro tempo e nella corrispondente tendenza politica - elettoralmente molto redditizia - ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento meno impegnativo e più inefficace: aumentare le fattispecie di reato e l'entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile. Una politica penale di tal fatta si è espressa ciclicamente con "scorrerie legislative" di segno involutivo e "carcerocentrico", che non potevano non produrre un crescente sovraffollamento penitenziario e minare la credibilità stessa della funzione risocializzativa della pena. Il problema, dunque, è culturale, prima che normativo. Verosimilmente, è proprio con questa consapevolezza che il ministro della Giustizia ha voluto affiancare alla riforma legislativa in corso un'iniziativa inedita: gli Stati generali dell'esecuzione penale. Una iniziativa che intende sollecitare per circa sei mesi l'attenzione pubblica e il dibattito culturale sulla complessa problematica della pena, specie carceraria. Sono stati costituiti tavoli tematici su aspetti nevralgici della realtà dell'esecuzione penale, interpellando quelle professionalità e quelle esperienze (circa duecento persone) che per ragioni diverse la intersecano (e ciò dovrebbe bastare a chiarire quanto fosse "in difficoltà di senso" la polemica dei giorni scorsi sul caso Sofri). Il lavoro dei tavoli, che prende avvio proprio in questi giorni, potrà avvalersi anche delle indicazioni provenienti dalla "consultazione pubblica" promossa in varie forme dal ministero della Giustizia e sfocerà in proposte da sottoporre a un Comitato scientifico, a cui spetterà il compito di compendiarle in un articolato prodotto finale, oggetto di seminari e dibattiti aperti alla cittadinanza. Una tale mobilitazione culturale e sociale dovrebbe apportare significativi contributi alla riforma normativa e organizzativa del nostro sistema penitenziario. Ma soprattutto, sensibilizzando l'opinione pubblica, potrà costituire una sorta di "placenta culturale" per tale riforma, preparandone l'habitat sociale, nella consapevolezza che nessuna novità legislativa farà mai presa sulla realtà, se prima le ragioni che la ispirano non avranno messo radici nella coscienza civile del Paese. Nel nostro quotidiano il carcere resta fuori - per così dire - dal campo visivo dello sguardo sociale, salvo poi rievocarlo dall'ombra quando efferati fatti di cronaca ce ne ricordano o ce ne fanno reclamare la necessità. Solo allora torniamo a "vedere" il carcere come il luogo dove rinchiudere illusoriamente tutti i nostri mali e le nostre paure. Puntare a lungo il riflettore dell'attenzione collettiva sull'esecuzione della pena significa, invece, indurre a guardare, a conoscere, a capire; a pensare che la sacrosanta esigenza di vedere rispettate le ragioni di chi subisce le conseguenze, spesso gravissime, di un reato non si debba necessariamente risolvere in una cieca punizione del colpevole, ma possa tradursi, tra l'altro, nella valorizzazione delle attività del reo volte a compensare il danno morale e materiale ingiustamente causato; a comprendere che l'espiazione della pena deve essere anche occasione per il condannato di avvalersi di opportunità di risocializzazione, responsabilizzandone rigorosamente le scelte, in un contesto però rispettoso della sua dignità e dei suoi diritti, che ripudi ogni processo di "incapacitazione", vòlto a indurre una rassegnata minorità. Significa, soprattutto, offrire all'opinione pubblica gli strumenti per smascherare la inconsistenza di certi sensazionalismi mediatici e di certi demagogici allarmismi. Ci si potrebbe tardivamente render conto, ad esempio, di quanto mistificante fosse il termine "svuota carcere" con cui sono stati etichettati gli ultimi provvedimenti legislativi: un termine che evocava l'idea di un cieco "sversamento" nella società del pericoloso contenuto dei penitenziari, mentre con quei provvedimenti si cercava soltanto di evitare la permanenza o l'ingresso in carcere di chi - secondo la Costituzione e il buon senso - non avrebbe dovuto né restarvi, né entrarvi. Ma nell'odierna informazione fast-food le parole-concetto contano più della realtà: la tossina della mistificazione, una volta inoculata nelle vene mediatiche, non conosce antidoto efficace. Si comprende bene, quindi, quanta parte del successo di questa sfida culturale dipenderà dalla capacità di coinvolgere i mass media. È fondamentale che gli operatori dell'informazione abbiano la piena consapevolezza della loro grande responsabilità, soprattutto in questo settore: la quantità e la qualità delle notizie riguardanti il crimine e la pena incidono sulla percezione sociale dei pericoli e, di conseguenza, sulla politica penale del legislatore. Non può non far riflettere, ad esempio, che da una indagine sulle principali testate televisive dei maggiori Paese europei, risulti che in Italia l'informazione televisiva dedica alle notizie riguardanti la criminalità circa il triplo dello spazio (il 58% dell'intera offerta informativa) ad essa riservato in Paesi come la Francia e la Germania (Rapporto dell'Osservatorio europeo sulla sicurezza, 2014), nei quali il ricorso alle misure alternative al carcere era, sino a qualche anno fa, quasi dieci volte superiore a quello italiano: è difficile non dare un significato a questa correlazione. Una stampa meno sensazionalistica, più tecnicamente provveduta e documentata potrebbe dare un apporto determinante a quella crescita della cultura penale perseguita dagli Stati generali, che le potrebbero fornire dati, documenti e analisi. Avrebbe gli strumenti, infatti, per spiegare che la criminalità non si fronteggia vessando i responsabili già individuati e puniti, ma ponendo le premesse socioeconomiche per ridurre al minimo le ragioni del delinquere e fornendo alle forze di polizia risorse, personale e strumenti per prevenire e contrastare le manifestazioni delittuose, nonché per accertarne le responsabilità; che non vi è alcuna correlazione tra il tasso di incarcerazione, da un lato, e il livello di criminalità e di sicurezza sociale, dall'altro; che le misure alternative alla detenzione, favorendo un progressivo reinserimento nella società del condannato, non rappresentano un modo per rendere ineffettiva la pena, bensì per renderne effettiva la funzione assegnatale dalla Costituzione; che l'espiazione non esclusivamente carceraria della pena abbatte drasticamente l'indice di recidiva e quindi riduce, non aumenta, le ragioni dell'insicurezza sociale; che l'evasione o l'azione criminosa di un soggetto ammesso a una misura alternativa (evenienza molto rara, ancorché amplificata a dismisura dai media) non è necessariamente frutto di un errore del magistrato che l'ha concessa o di una disfunzione del sistema, ma è il tributo che si paga a una scelta di politica penale che, dati alla mano, offre enormi vantaggi proprio in termini di sicurezza. È dunque all'evidenza un progetto culturalmente molto ambizioso, quello degli Stati generali. Trattandosi di una iniziativa inedita e di grande respiro non mancheranno inadeguatezze operative, resistenze politiche e culturali, risultati inappaganti. Talvolta, forse, si dovrà orazianamente prendere atto che maiores pennas nido ("ali più grandi del nido"), cioè le aspirazioni sono superiori alle possibilità. Di certo, come il passato insegna, sarà votato all'insuccesso ogni tentativo di affidare soltanto alle norme un mutamento della cultura penale nel nostro Paese. Giustizia: l'Ucpi; riforme disomogenee, a rischio modello accusatorio e giusto processo Ansa, 7 luglio 2015 Gli interventi legislativi che da un anno stanno investendo il sistema penale rappresentano un "serio problema per la tenuta dell'intero assetto del modello accusatorio e del giusto processo". Lo afferma l'Unione Camere Penali che, facendo il punto sulle riforme in tema di giustizia, sottolinea che occorre "capire se dietro tali disparati interventi vi sia un disegno politicamente coerente o se i disomogenei progetti di riforma si vadano sviluppando a causa della spinta di nuovi fattori o di nuove esigenze". I penalisti parlano di "populismo penale" attraverso cui la riforma si va facendo strada "sulla base di un sapiente utilizzo dello strumento mediatico-giudiziario-emergenziale": e così viene considerata "necessaria ed urgente in relazione a questo o quel caso giudiziario, nella cui eco appare, di volta in volta, assolutamente imprescindibile abolire o allungare la prescrizione, triplicare le pene edittali di questo o quel reato, abolire o ridurre i mezzi di impugnazione". E ancora, per l'Ucpi, sebbene gli interventi strutturali che incidono sulla libertà, sulle condizioni carcerarie e sulla qualità della pena "sono da accogliere con favore", non può non sottolinearsi che la "spinta è stata determinata dall'Europa, piuttosto che da una autonoma e convinta volontà politica radicata nei valori della Costituzione". Infine, sul ddl penale anche l'Ucpi ha formulato emendamenti alla proposta governativa, presentati da parlamentari di diversi schieramenti politici, focalizzati sui punti nevralgici della riforma. "La speranza - sottolineano i penalisti - è che almeno una parte di essi sarà recepita". In particolare l'Ucpi ha insistito sulla necessità di non limitare l'appello, di definire regole certe per l'iscrizione della notizia di reato nel relativo registro, di stabilire prescrizioni in materia di garanzia di riservatezza delle comunicazioni e di tutela della funzione difensiva nei rapporti tra assistito e avvocato"; ha contrastato invece l'estensione indiscriminata delle leggi antimafia ad altri reati, l'ampliamento delle misure di prevenzione e l'introduzione della sentenza di condanna su richiesta dell'imputato. Giustizia: nasce la app "Telefono giallo", sarà un aiuto per i figli di genitori detenuti 9Colonne, 7 luglio 2015 Sono 100mila i bambini che, ogni anno, entrano in carcere per incontrare il papà o la mamma detenuti. Il diritto dei minorenni al mantenimento del legame affettivo e, al contempo, il diritto alla genitorialità, è riconosciuto dalla Carta dell'Onu. La onlus Bambinisenzasbarre, insieme al ministro della Giustizia e al Garante dell'Infanzia e dell'Adolescenza, nel 2014 ha firmato, per l'Italia, la Carta dei Figli di Genitori Detenuti- Protocollo d'Intesa, unico in Italia e in Europa e ora presenta la app Telefono Giallo per rispondere alle migliaia di domande dei bambini figli di genitori detenuti e delle loro famiglie. "Come faccio a dire ai miei compagni che mio papà è in carcere? E se viene a saperlo la maestra? Se non c'è nessuno che mi accompagna a trovare la mamma in prigione, come faccio? C'è una sala per i bambini?". Telefono Giallo risponde a queste domande ed è di aiuto anche per avvocati, magistrati, psicologi, docenti, ecc.. nella loro relazione con i minori e i familiari. La app affianca il centralino (tel. 02.711998), che risponde da lunedì a venerdì in orari di ufficio e il sito www.bambinisenzasbarre.org. Telefono Giallo si affianca e si integra con il Progetto Spazio Giallo, già presente in diverse carceri del nord Italia, con l'allestimento di apposite aree per l'accoglienza dei bambini in attesa del colloquio con i genitori. Telefono Giallo è anche una campagna crowdfunding. C'è tempo fino a domani per sostenere il progetto. L'obiettivo è di raggiugere 28mila euro. Giustizia: "illegalità gravissime", Comune di Roma sotto giudizio, ipotesi legge speciale di Carlo Bonini La Repubblica, 7 luglio 2015 Imminente la relazione Gabrielli. La normativa ad hoc darebbe poteri per risanare la burocrazia corrotta. Cominciano oggi i giorni decisivi per il destino della Giunta Marino. Perché è oggi che comincerà a prendere forma la risposta alla domanda se il Comune Capitale d'Italia debba o meno essere sciolto per mafia. Il prefetto Franco Gabrielli riunirà il Comitato provinciale per l'Ordine e la sicurezza pubblica (cui parteciperanno il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il questore e i comandanti provinciali di Carabinieri, Finanza e Forestale) durante il quale Verranno discusse le conclusioni delle mille pagine di lavoro consegnate lo scorso 16 giugno dalla commissione di accesso agli atti del Comune insediata dal precedente prefetto Pecoraro e, con loro, l'orientamento maturato in queste tre settimane dallo stesso Gabrielli con la sua bozza di relazione finale. Se la discussione dovesse registrare un orientamento comune, la consegna della relazione di Gabrielli al ministro dell'Interno Alfano e alla Commissione parlamentare Antimafia (che ne ha fatto richiesta nei giorni scorsi), prevista per il prossimo venerdì, potrebbe anche essere anticipata di un giorno. Per dire cosa? Al netto di un "segreto" sul lavoro della commissione prefettizia che, come ha sottolineato ironicamente lo stesso Gabrielli, "ha incredibilmente resistito", il quadro di questa "stretta finale" è definito. Per quanto infatti non se ne conosca il dettaglio, la Commissione insediata da Pecoraro, nel delineare un quadro di sistematica e capillare distorsione delle prassi amministrative della macchina comunale, di una spesa fuori controllo per dolo e negligenza nei controlli, di regole sugli appalti regolarmente aggirate in nome della "somma urgenza", sarebbe giunta a conclusioni severe che, di fatto, raccomanderebbero lo scioglimento del Comune. Conclusione su cui, al contrario, il Prefetto Gabrielli nutrirebbe dubbi sostanziali. Alimentati da almeno due ordini di considerazioni. La prima: l'analisi che lo stesso Procuratore Pignatone ha reso pubblica la scorsa settimana durante la sua audizione alla Commissione Antimafia, secondo cui esiste un'oggettiva "discontinuità amministrativa" tra quella che è stata la giunta Alemanno (organica a Buzzi e Carminati, al punto da vedere l'ex sindaco indagato per associazione mafiosa) e quella che è oggi ed è stata a partire dal 2013 la giunta Marino. La seconda: che lo scioglimento per mafia prevede un inquinamento in atto della vita politica e amministrativa della città da parte di organizzazioni mafiose. Una circostanza, questa, che, con lo smantellamento dell'intera banda Buzzi-Carminati e le dimissioni e gli arresti delle figure politiche macchiate anche durante la prima parte della stagione Marino, non fotografa l'attuale situazione della Giunta. Il sentiero di fronte a Gabrielli, del resto, è assai stretto. Perché, al contrario di quanto pure si è sostenuto, sarà solo sull'ipotesi di inquinamento mafioso che il Prefetto sarà chiamato a pronunciarsi (articolo 143 del Testo Unico di legge sugli Enti Locali) e non sulle "persistenti e gravi violazioni di legge" (articolo 141), che pure prevede la legge ma che sono estranee a questa procedura e che dunque, in questo caso, non potranno essere invocate per il commissariamento. Un fatto è certo. Se Gabrielli dovesse alla fine concludere per la mancanza dei requisiti necessari allo scioglimento per mafia, non per questo il quadro della sua relazione suonerà confortante per la Giunta Marino o una cambiale in bianco alla sua longevità politica. Anzi, le difficoltà politiche potrebbero moltiplicarsi. Il quadro definito dall'indagine prefettizia - a quanto se ne sa - è infatti devastante. La corruzione che si è mangiata pezzi interi della burocrazia comunale è ormai allo stadio della metastasi. E dunque la relazione, pur non raccomandando lo scioglimento (decisione che comunque dovrà assumere Alfano sottoponendola, entro tre mesi, al Consiglio dei Ministri) potrebbe aprire uno scenario di iniziativa politica inedito. Su cui, non a caso, si è pronunciata anche Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia. Una legge speciale per Roma che immagini poteri (e magari anche fondi) straordinari e che consenta di incidere immediatamente sul tessuto necrotizzato dell'amministrazione pubblica (sono 50 mila i dipendenti del comune, comprendendo le municipalizzate e le controllate) e sulla spesa. Da affidare a una struttura di governo della città "allargata". Non insomma una "giunta bis dei Migliori", ma una giunta Marino sostenuta da una struttura amministrativa o prefettizia "speciale" immaginata appunto per legge. Giustizia: attacco all'azienda italiana che vende software spia "lavora per le dittature" di Fabio Chiusi La Repubblica, 7 luglio 2015 Blitz in rete: trafugati e pubblicati migliaia di file della Hacking Team società milanese specializzata in intrusioni informatiche. Da Hacking Team a "Hacked Team" in una notte. Ieri mattina l'azienda milanese che produce software per compiere intrusioni informatiche a fini di intercettazioni legali si è scoperta infatti a sua volta vittima di una intrusione informatica, profilo Twitter compreso, a opera di ignoti. Gli stessi che avevano violato le difese della concorrente Gamma International ad agosto 2014. L'hack odierno è tuttavia dieci volte più corposo: 400 gigabyte di mail, fatture e file audio della società con sede in via Moscova, contro i 40 prelevati alla rivale anglo-tedesca. "Gamma e Hacking Team colpite", ha scritto su Twitter il profilo @GammaGroupPR, ritenuto affiliato ai responsabili. "Ne mancano ancora un po'", ha poi minacciato: se si considera che il mercato della sorveglianza digitale vale "miliardi di dollari", secondo gli ‘SpyFiles'di Wiki-Leaks, il rischio è rivedere prossimamente lo stesso film. Il materiale pubblicato, ancora privo di verifica indipendente, sembrerebbe indicare che Hacking Team abbia venduto i suoi prodotti anche a regimi dittatoriali. Circostanza ripetutamente smentita dai vertici dell'azienda, e che tuttavia troverebbe conferma in una lista di clienti apparsa in rete contenente spie e agenzie governative di Arabia Saudita, Kazakhstan, Etiopia, Egitto, Emirati Arabi, Oman, Uzbekistan e altri, per un totale di 38 Paesi. Il catalogo combacia con quello, pubblicato lo scorso anno, dal Citizen Lab di Toronto. Il centro di ricerca aveva già più volte incalzato Hacking Team chiedendo conto delle tracce di utilizzo del suo potente Remote Control System, capace di violare le protezioni crittografiche delle comunicazioni, così da monitorare file e mail cifrate, conversazioni via Skype, attivare da remoto e di nascosto telecamera e microfono del computer della vittima - senza distinzione tra Windows, OSX, Linux, Android e Blackberry. Tecnologie "controverse", ha scritto Ryan Gallagher di The Intercept, "non ultimo perché Hacking Team vanta sul suo stesso materiale pubblicitario di poterlo adoperare "per un intero Paese" così da spiare le comunicazioni di oltre 100 mila persone simultaneamente". Non a caso, Reporters Without Borders aveva inserito la società tra i "Nemici della rete" in un suo rapporto del 2013. Tra i bersagli non ci sarebbero solo quelli legittimi, i criminali. Anzi, a sollevare le critiche della comunità anti-sorveglianza sono le risultanze delle analisi tecniche che suggeriscono come i sistemi di Hacking Team sarebbero stati adoperati dall'Etiopia per monitorare giornalisti negli Stati Uniti - dalle carte risulta una fattura da un milione di euro - e dal Marocco per fare altrettanto. Negli Emirati Arabi a essere spiato è stato l'attivista per i diritti umani Ahmed Mansoor. Messico, Colombia e Turchia, a loro volta nel catalogo, rientrano tra i 20 Paesi più letali per i giornalisti secondo il Commitee to Protect Journalists. Nella lista figurano poi Sudan e Russia, anche se con la misteriosa dicitura "non ufficialmente supportati". Il rappresentante italiano presso l'Onu aveva smentito, marzo 2015, che Hacking Team avesse relazioni d'affari con il Paese africano, ma una fattura da 480 mila euro datata tre anni prima, e il lavoro del Citizen Lab che considerava i suoi programmi ancora operativi nel 2014, sembrano smentirlo. Il valore totale delle fatture contenute nei documenti sarebbe, dice Steve Ragan di Cso Online, "oltre 4,3 milioni di euro". La società ha ribattuto via Twitter tramite uno dei suoi dipendenti, Christian Pozzi, che ha avvertito di non scaricare l'enorme file torrent condiviso dagli hacker perché a suo dire avrebbe contenuto un virus, e soprattutto perché "molto di quello che sostengono gli attaccanti sulla nostra compagnia non è vero. Per favore", ha chiesto prima che il profilo venisse hackerato a sua volta e fosse rimosso, "smettetela di diffondere false bugie sui servizi che offriamo". Quanto al contrasto delle violazioni dei diritti umani, il co-fondatore David Vincenzetti ha affermato già nel 2011 di prestarvi "estrema attenzione". Tra le rivelazioni di queste ore emerge che lo stesso Pozzi, il suo ingegnere per la sicurezza, usava password facilmente violabili come "passw0rd" e "passw0rd81" per accedere a social media e profili per le transazioni finanziarie. L'ultimo tassello dell'intricato puzzle viene dal Guardian, che sottolinea come una fattura rivelerebbe gli affari tra Hacking Team e l'azienda brasiliana YasNiTech, che avrebbe avuto accesso per 3 mesi al suo prodotto di intercettazione da remoto per consentirle di violare telefoni Android e Blackberry, oltre ai device che usano Windows. La società milanese, sul suo sito, scrive al contrario di fornire i suoi software "solo a governi e agenzie governative". Misure cautelari a prova di riforma di Marco Bellinazzo Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2015 Corte di Cassazione - IV Sezione penale - Sentenza del 6 luglio 2015, n. 28640. La Cassazione torna sul tema della riforma della custodia cautelare, con la sentenza n. 28640, depositata ieri, confermando che le modifiche introdotte con la legge n. 47/2015 (pubblicata nella "Gazzetta Ufficiale" del 23 aprile) non sono retroattive e non si applicano nei giudizi in corso. In particolare, i giudici della Quarta sezione penale, richiamandosi a un precedente delle Sezioni Unite del 2011 (sentenza n. 27919) hanno ribadito che, "in assenza di una disciplina transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione non può subire modifiche unicamente per effetto della nuova e più sfavorevole disposizione". Di conseguenza, "l'idea stessa di processo implica l'incedere attraverso il susseguirsi atomistico, puntiforme, di molti atti che compongono, infine, la costruzione. Tale edificazione rischierebbe di crollare dalle radici come un castello di carte se la cornice normativa che ha regolato un atto potesse essere messa in discussione successivamente al suo compimento, per effetto di una nuova norma". Per questo motivo la Cassazione ieri ha respinto il ricorso di un indagato che chiedeva la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. Sullo stesso piano si è espressa la Cassazione nella prima sentenza che ha preso in esame la legge entrata in vigore l'8 maggio scorso. In quel caso i giudici di legittimità hanno escluso l'applicazione retroattiva della riforma nella parte in cui considera necessaria l'attualità del pericolo della commissione di nuovi gravi reati da parte dell'indagato per autorizzare la detenzione preventiva. Il Procuratore generale della Cassazione era intervenuto nella vicenda sul piano formale, sollecitando la Corte a prendere in considerazione il nodo dell'applicabilità della legge n. 47 del 2015 sulle vicende in corso di esecuzione e la Corte ha precisato che, appunto, il principio tempus regit actum, che regola il diritto processuale e il principio di inviolabilità della libertà personale, impongono al giudice di definire se le norme in discussione appartengono o meno alla sfera del diritto penale materiale: in questo caso a prevalere è il principio della irretroattività della legge meno favorevole e l'obbligo collegato di applicazione della legge più vantaggiosa. In quest'ottica la Cassazione ha osservato che l'articolo 274 del Codice di procedura penale, che definisce l'ambito della motivazione sul punto delle esigenze cautelari, appartiene alla sfera del diritto processuale e dunque è soggetta alla regola del tempus regit actum, "non potendosi dunque ritenere carente di motivazione, il provvedimento che abbia trascurato di esaminare profili delle esigenze cautelari non contemplati dalla norma vigente nel momento in cui è stato pronunciato". Dipendenti della Pa, sul rimborso delle spese legali decide l'avvocatura dello Stato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2015 Cassazione n. 13861/2015. Il "parere di congruità" sul rimborso delle "spese legali" sostenute da un dipendente pubblico, per difendersi da un'accusa poi rivelatasi infondata, spetta all'Avvocatura dello Stato che dunque può ben decidere di ridimensionare la parcella richiesta dal legale, anche se validata dal Consiglio dell'ordine forense. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 13681/2015, depositati rigettando il ricorso di un sottufficiale della Marina. Il militare aveva chiesto il ristoro integrale dei costi affrontati per il procedimento giurisdizionale ma l'amministrazione, acquisito il parere dell'Avvocatura, ha rimborsato soltanto 13 dei 39mln di lire effettivamente spesi per la difesa. E la Corte di appello di Messina, vista "la necessità di contenimento della spesa pubblica quale criterio di contemperamento della liquidazione, posta a carico dell'erario "nei limiti del necessario"", non ha accordato rilievo al parere favorevole del Coa. Un giudizio condiviso dalla Cassazione secondo cui lo Stato deve poter sempre controllare le spese da sostenere che, dunque, non possono essere rimesse ad un semplice accordo tra privati, il cliente e l'avvocato. Se infatti la ratio dell'articolo 18 del Dl 67/1997 (convertito dalla legge 135/1997) è quello di "tenere indenni i funzionari pubblici che abbiano agito in nome, per conto e nell'interesse dell'amministrazione", nel porre a carico dell'erario una spesa aggiuntiva, il Legislatore ha dovuto "contemperare le esigenze economiche dei dipendenti e quelle di limitazione degli oneri posti a carico dell'amministrazione". E siccome il debito del cliente dipende anche molto dal "soggettivo andamento impresso al rapporto professionale" (numero di consultazioni, trasferte, scritti difensivi) diventa "improponibile" trasferirlo così com'è all'amministrazione. In questo senso si giustifica l'intervento dell'Avvocatura, la cui "posizione di autonomia" dovrebbe metterla al riparo da qualsiasi sospetto di parzialità. Nel formulare il proprio giudizio, infatti, "l'Avvocatura non può avere quale riferimento esclusivo né l'interesse del dipendente a risultare sempre e in ogni caso indenne da ogni costo difensivo, né quello dell'amministrazione a minimizzare la spesa, poiché il parere deve essere reso in termini di congruità". Per cui nella sua "discrezionalità tecnica" dovrà "valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli erano state mosse ed ai presupposti, alla rilevanza e all'andamento del giudizio penale, sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale o ai compensi contemplati secondo i vigenti parametri". Ma "non deve limitarsi a prendere atto" dell'eventuale parere del Coa e tantomeno "disconoscere "singole voci", ma deve esprimersi in modo da fornire all'amministrazione "gli strumenti per motivare comprensibilmente la eventuale riduzione rispetto alla pretesa di rimborso". Mentre il vaglio finale del giudice assicura il "necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione". In ultimo, precisa la sentenza, il richiamo "al limite delle spese strettamente necessarie" non va inteso "pedissequamente", soprattutto dopo il venir meno del "sistema" delle tariffe forensi, "nel senso cioè di ritenere legittima solo l'applicazione dei minimi tariffari". Autorizzazione per le indagini bancarie e utilizzo di indizi acquisiti irritualmente Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2015 Accertamento tributario - Utilizzazione di elementi indiziari acquisiti irritualmente - Ammissibilità - Fondamento - Limiti. In tema di accertamento tributario, è legittima l'utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. • Corte di cassazione, sezione VI - 5, ordinanza 28 aprile 2015 n. 8605. Accertamento delle imposte sui redditi - Indagini bancarie - Autorizzazione - Motivazione - Necessità - Esclusione - Fondamento. In tema di accertamento delle imposte l'autorizzazione necessaria agli Uffici per l'espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall'indicazione dei motivi, non solo perché in relazione ad essa la legge non dispone alcun obbligo di motivazione ma anche perché la medesima, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente, l'articolo 3, comma I, della L. n. 241/1990, e l'articolo 7 della L. n. 212/2000, prevedono l'obbligo di motivazione. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 3 agosto 2012 n. 14026. Tributi - Attribuzioni e poteri degli uffici I.V.A. - Autorizzazioni per espletamento indagini bancarie - Autorizzazione - Motivazione - Necessità - Esclusione - Fondamento. In tema di accertamento dell'I.V.A., l'autorizzazione necessaria agli uffici per richiedere alle aziende ed istituti di credito copia dei conti correnti intrattenuti con il contribuente, con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti, non deve essere obbligatoriamente corredata dell'indicazione del motivo, dello scopo o delle ragioni logiche e giuridiche poste a fondamento di essa o della preventiva richiesta. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 13 aprile 2012 n. 5849. Tributi - Accertamento delle imposte sui redditi - Poteri degli uffici delle imposte - Accertamenti bancari - Necessità della previa autorizzazione - Sussistenza - Obbligo degli agenti di esibirla al contribuente - Esclusione. Affinché l'erario possa utilizzare il risultato di accertamenti bancari effettuati nei confronti del contribuente è necessario che tali accertamenti siano stati debitamente autorizzati, ma non anche che il provvedimento di autorizzazione venga esibito al contribuente. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 15 giugno 2007 n. 14023. Lettere: per non dimenticare le carceri "speciali" di Carmelo Musumeci imgpress.it, 7 luglio 2015 Per non dimenticare le carceri speciali. Per non dimenticare Pianosa e l'Asinara. Per non dimenticare il diritto calpestato e stuprato. Perché qualcuno sappia ciò che è accaduto. Arrivai il 26 agosto 1992 all'Asinara, sez. 41bis Fornelli. Una prigione nella prigione, una fogna dentro una fogna. La sezione 41 bis dell'Asinara è stata partorita da alcuni uomini in nero del Ministero di Disgrazia e d'Ingiustizia per dare la possibilità al sistema, di nascosto da tutto e da tutti, di distruggere i prigionieri con un metodo atrocemente malvagio, illegale e dittatoriale. Accadeva di tutto, piccole e grandi violenze, pestaggi ed umiliazioni, guardie che rubavano e brutalizzavano in nome del popolo italiano. Le istituzioni non potevano ignorare, ma l'hanno fatto, hanno chiuso un occhio, a volte tutt'e due, per convenienza, per far pentire i furbi e i malvagi. All'Asinara in quel tempo non c'era legge, quindi non c'erano diritti né giustizia. Veniva smorzato ogni tipo di spirito di rivolta attraverso precise tecniche psicofisiche, insomma, si veniva gradualmente annientati. Come ulteriore colpo di viltà, anche i magistrati di sorveglianza, che nonostante tutto avrebbero avuto la possibilità di discernere il vero dal falso facendo appello al buon senso (ma anche questo, quando c'era, restava nascosto) non agivano per paura del senso comune. Là dentro non avevano più nulla, tranne noi stessi. Alcuni si limitavano a sopravvivere ridotti quasi come degli animali, altri decisero di usare la giustizia per alleviare le loro sofferenze e si pentirono. Io mi ribellai in vari modi, feci anche lo sciopero della fame per oppormi all'oppressione e all'ingiustizia… e sì, ce l'ho fatta, sono partito con la stessa dignità con cui sono arrivato nella maledetta isola del diavolo. Ho lottato molto, ho lottato sempre per potercela fare. Pochi ce l'hanno fatta e per quei pochi è stata una vittoria. Nei momenti più duri la mia famiglia era l'unica ragione di vita, non avevano altro obiettivo che lottare per uscire da quel posto. Nei momenti più brutti mi ripetevo: "Carmelo, devi farcela". Quando tutto mi sembrava impossibile, quando soffrivo atrocemente, anche in quei momenti ritrovavo l'incredibile forza di reagire. Reagivo soprattutto con la speranza di ritrovare la via del ritorno. Quando ti trovi in momenti drammatici, tutto appare più chiaro e ti aggrappi ai veri valori della vita: l'amore e la dignità. Continuavo a lottare, era uno modo per sconfiggere la cattiveria dei miei aguzzini, dovevo credere, credere fortemente in me stesso. Ricordare quei momenti mi provoca una profonda rabbia, è difficile ripensare a quei giorni senza rabbia e senza provare di nuovo l'angoscia di allora, quando temevo che la capacità di reagire del mio fisico non fosse pari alla mia volontà. L'alimentazione era scarsa e cattiva, i topi erano ospiti fissi nella cella,una sola doccia di due minuti la settimana, mancava l'igiene… ma andiamo per ordine. Dopo i gravi fatti accaduti nel paese, venni sottoposto allo stato di tortura dell'art. 41 bis O.P. e tradotto nella famigerata sezione Fornelli del carcere dell'Asinara, in Sardegna. Un viaggio allucinante: venni prelevato individualmente, messo in branco insieme ad altri compagni, tutti trasportati prima con aerei militari (sempre con le manette ai polsi) e dopo in elicottero. Appena arrivati sull'isola fummo immediatamente oggetto di soprusi e violenze. Un incubo fatto di sadismi, umilianti perquisizioni ad oltranza, spogliati delle nostre piccole cose, derisi; i nostri pacchi e vestiti mandati indietro, se non "persi", oppure saccheggiati, eravamo in balia di aguzzini con la licenza di fare come gli pareva, se gli pareva, quando gli pareva. Una volta messo nudo in cella, con solo un paio di pantaloncini ed una maglietta, uno spazzolino e dentifricio (che in seguito presi ad usare per lavare i piatti), provai un senso di torpore che mi ammaliava la mente, spingendomi verso l'accettazione meccanica del fatto che mi trovavo in grossi guai, ostacoli insormontabili. Eppure si nascondeva nella mia mente confusa la forza di non arrendermi ai vari soprusi che si delineavano, indurito da una determinazione interiore che avrebbe sostenuto la mia anima quando il cuore e la ragione avessero ceduto. Dopo i primi giorni avvenne il primo pestaggio: quando si usciva all'aria gli sgherri si mettevano in fila con i manganelli in mano. Un compagno anziano, lento nei movimenti, rimasto indietro, venne preso a calci, pugni e manganellate. Sentivamo urla strazianti. Al ritorno vedemmo il sangue sparso nel corridoio, ma eravamo tutti troppo impauriti per potergli offrire la nostra solidarietà e quella nostra debolezza fu l'inizio della fine, poiché fatti analoghi, in seguito, si ripeterono sovente. In quel periodo imparai a conoscermi, a crescere dentro, scoprii che lo Stato era peggio di quel che credevo, mi faceva conoscere privazioni, torture e patimenti nell'assenza più totale di legalità, giustizia e umanità. In quella maledetta isola, dove persino i gabbiani erano infelici per quello che vedevano, nell'estate del 1993 iniziai lo sciopero della fame. Risparmio la descrizione dello stato in cui mi ero ridotto, dico soltanto che, nonostante le mie precarie condizioni, subivo comunque continue provocazioni d'ogni genere da parte del personale di custodia. Vivevo quei giorni terribili con una segreta tristezza, così profonda che mi pareva impossibile vederne il fondo. Più i giorni passavano, più mi sentivo debole, sia nel corpo che nella mente; i morsi della fame erano terribili, mi sentivo isolato e disperato, internato in un mondo escluso dal mondo umano. Una mattina chiesi un bicchiere di caffè, ma mi venne negato, per averlo avrei dovuto interrompere lo sciopero della fame, rimasi stravolto dalla rabbia, non riuscivo a formulare nessun pensiero. Quell'aguzzino che mi aveva negato un bicchiere di caffè (acqua sporca) nelle condizioni in cui mi trovavo, mi aveva fatto capire che non c'era ragione di aspettarsi che un uomo libero fosse moralmente migliore di uno prigioniero e che un uomo prigioniero fosse meno di un uomo libero. Tutti i giorni, con sufficienza, venivo visitato e pesato da un dottore. Da 73 chili, il mio peso forma, ero sceso a 56 chili ed era appena passato un mese e mezzo da quando avevo iniziato lo sciopero della fame. In quelle condizioni sentivo che il cervello non mi funzionava più come prima. Il mondo mi sembrava capovolto. Le convinzioni, i fatti della mia esistenza mi apparivano alterati, in disordine, qualcosa stava andando in pezzi. Di me non c'era più niente, solo un fantasma che cercava, nonostante tutto, d'essere uomo. Fortunatamente in quel periodo iniziarono i miei processi ed il presidente della Corte di Assise di Massa, sapendomi ancora in sciopero della fame, mi tolse il 41 bis, ma dopo un breve periodo il Ministero di Disgrazia e Ingiustizia me lo rimise. Arrabbiato e deluso, incassai quel nuovo trauma per assimilarlo e riporlo assieme alle molte violenze subite dal mio spirito. Non potevo certo di nuovo iniziare lo sciopero della fame, avevo giurato solennemente alla mia famiglia di non farlo più. Inoltre, sia fisicamente che mentalmente, non ero nelle condizioni di procedere con quell'atroce agonia. Ritornai all'Asinara, dove le cose non erano migliorate, anzi erano peggiorate: soliti pestaggi per lo sfortunato di turno e solito trattamento crudele, disumano ed ingiusto. E così passarono gli anni, pensavo di avere raggiunto il fondo, ma mi sbagliavo, non c'era mai fine al peggio. Mi comunicarono l'inizio dell'isolamento diurno di 18 mesi. Mi sembrò assurdo, illegittimo, nello stesso periodo ero sottoposto a due misure di rigore, sia l'isolamento che il 41 bis. Avrei dovuto essere sottoposto solo ad una delle due, ma in quella maledetta isola del diavolo non c'era legge. Il tutto era per me ancor più pesante, perché rifiutavo di diventare un vegetale e tentavo in ogni modo di resistere e di conservare la mia identità umana. Dopo cinque anni, finalmente lasciai l'Asinara, dove ho visto tanto, di tutto e di più: uomini trattati alla stregua di bestie da altri uomini. I nostri aguzzini erano convinti che il male si confonde col bene. Invece non è così, dal male può nascere solo il male. Basilicata: De Biasi (Pd) "Rems di Tinchi esempio di civiltà e di applicazione della legge" ilfarmacistaonline.it, 7 luglio 2015 Così la Presidente della Commissione Sanità del Senato, ha commentato la visita odierna di una delegazione della Commissione da lei guidata alla nuova Rems di Tinchi di Pisticci (Matera), struttura prevista dalla legge per il superamento degli Opg. "Un'opera importante per la sua efficienza e la sua umanità costruita in pochissimo tempo, 105 giorni". "Un esempio di civiltà e di applicazione della legge che supera gli Ospedali psichiatrici giudiziari". Così Emilia Grazia De Biasi (Pd), Presidente della Commissione Sanità del Senato, ha commentato la visita odierna di una delegazione della Commissione da lei guidata e composta dai Senatori Luigi d'Ambrosio Lettieri (Cri) e Nerina Dirindin (Pd), alla nuova Rems di Tinchi di Pisticci (Matera), struttura prevista dalla legge per il superamento degli Opg. "Un'opera importante - ha dichiarato la senatrice - per la sua efficienza e la sua umanità costruita in pochissimo tempo, 105 giorni, con la grande volontà di un lavoro di squadra per il quale non posso che congratularmi con la Regione Basilicata, con l'assessore alla Sanità, Flavia Franconi, con il prefetto, con il sindaco e con il personale psichiatrico e sanitario, persone che - ha concluso De Biasi - sotto lo sguardo tenace del Sottosegretario Vito De Filippo, hanno dato vita a quello che considero esempio di civiltà e di applicazione delle legge che supera gli Ospedali psichiatrici giudiziari". Genova: il viaggio nel carcere di Marassi e una ragionevole proposta "abolire le prigioni" di Giovanni Maria Bellu liberidiraccontare.it, 7 luglio 2015 Ha saputo stamattina che sua madre è morta. Il funerale è fissato per domani alle 9,30, a Savona. Ha chiesto il permesso per potervi partecipare e adesso - sono le 18 di venerdì 3 luglio - domanda all'ispettore della polizia penitenziaria se il giudice di sorveglianza ha dato l'autorizzazione. L'ispettore non lo sa. Il detenuto insiste. Attorno a lui ci sono altri cinque compagni di reclusione che silenziosamente lo spalleggiano. L'ispettore assicura che prenderà informazioni e che in casi del genere il nulla osta nel novanta per cento dei casi arriva. Qua c'è solo un problema di tempi burocratici: è troppo tardi per contattare il giudice di sorveglianza e domani è sabato. Inoltre per raggiungere Savona dal carcere di Marassi ci vogliono una quarantina di minuti. Il detenuto un uomo sulla cinquantina, tarchiato, le braccia tatuate che sbucano da una canottiera nera, è sgomento. Mantiene la calma, ma è evidente che teme che l'autorizzazione arrivi troppo tardi. E i suoi compagni con lui. Gli sono attorno, come volessero sostituire i familiari che forse il loro compagno domani non riuscirà a vedere. È un frammento di vita quotidiana incontrato durante una delle visite che l'Associazione Antigone sta realizzando in tutte le carceri per aggiornare il suo dossier sulle condizioni della detenzione in Italia. Queste visite sono cominciate - su autorizzazione del ministero della Giustizia - fin dal 1998, prima con cadenza biennale, dal 2007 ogni anno. Il "Rapporto Antigone" è lo strumento più puntuale e aggiornato sul nostro sistema penitenziario. Per ogni carcere c'è una scheda dettagliata e questo consente di confrontare, carcere per carcere, la situazione attuale con quella dell'anno passato. È quanto facciamo a Genova col direttore del carcere di Marassi, Salvatore Mazzeo, il quale confronta le "cose da fare" indicate nella scheda elaborata meno di un anno fa, dopo la precedente visita degli osservatori di Antigone, e le "cose fatte": le docce in quasi tutte le celle, il completamento dell'area verde, il rifacimento della pavimentazione del campo di calcio e soprattutto il teatro, realizzato per buona parte in legno dai detenuti che lavorano nella falegnameria interna. All'interno del Centro clinico, l'unico in tutta la Liguria, uno dei sei attivi in Italia, è stata realizzata una piccola sezione, denominata "la Lanterna", che può ospitare un massimo di 5 detenuti (oggi sono 3) che necessitano di una speciale osservazione di carattere psichiatrico. A visitare le sezioni si ricava un'impressione di "buona amministrazione carceraria". La situazione è in apparenza tranquilla, gli ambienti appaiono puliti e curati. È vero che si può sempre fare meglio, ma qua sembra che davvero si faccia quel che si può, con i mezzi e le strutture disponibili. E questo rende la visita ancora più interessante. Rispetto agli anni passati, infatti, il giro di ispezioni di Antigone cade in una fase nuova del dibattito sul sistema penitenziario. Un carcere "ben amministrato" consente di individuare i nodi della questione più nitidamente e ridà attualità a considerazioni come questa: "Per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere non lo si può modificare in senso sostanziale. Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c'è che una riforma carceraria da effettuate: l'abolizione del carcere penale". Lo scrisse nei primi anni della Repubblica Altiero Spinelli a Piero Calamandrei e la frase è citata in un saggio a più mani (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federico Resta) uscito alcuni mesi fa per Chiarelettere. Il titolo è una perfetta sintesi del confronto in atto: "Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini: abolire il carcere". Un'ipotesi più che antica. Anzi, è l'idea che la reclusione sia il solo strumento per colpire i rei e garantire la sicurezza sociale a essere relativamente recente. In passato non era così. Ma ciò che caratterizza il dibattito in atto è che oggi la tesi degli "abolizionisti" si fonda non tanto su argomentazioni etiche e filosofiche, ma su dati statistici. Dati dai quali emerge che il carcere, semplicemente, "non funziona". Per esempio si è constatato che quanti scontano l'intera pena dietro le sbarre in sette casi su dieci tornano a commettere reati, mentre tra quelli che hanno scontato la pena attraverso l'affidamento in prova ai servizi sociali i casi di recidiva sono due su dieci. È vero che chi beneficia della misura alternativa al carcere è stato sottoposto a un preventivo vaglio di "affidabilità", ma lo scarto percentuale di 50 punti "è talmente consistente da non poter essere ignorato". Un altro argomento che fa riflettere è quello dei costi. Lo Stato per ogni detenuto rinchiuso nei penitenziari spende 125 euro al giorno. Moltiplicando questa cifra per i 365 giorni dell'anno e per il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane (circa 60mila) si arriva a un totale di tre miliardi di euro. Una montagna di denaro che va quasi esclusivamente al pagamento del personale e al mantenimento della struttura. Solo un irrisorio 2,5 per cento è destinato all'esecuzione penale esterna, cioè alle misure - già previste - che potrebbero consentire di sperimentare l'efficacia delle pene alternative. E gli Uffici di esecuzione penale esterna - sottolinea ancora la "ragionevole proposta" di Luigi Manconi e degli altri studiosi - "non hanno strutture, non hanno automezzi, indispensabili per svolgere la funzione di coordinamento sul territorio dei vari servizi…". In definitiva non hanno niente. Come se lo Stato si fosse rassegnato alla sostanziale irriformabilità del sistema carcerario. Percorriamo le sei sezioni (che complessivamente ospitano poco meno di 700 detenuti). A un certo punto dal fondo di un corridoio appare una figura incongrua. È un uomo anziano che muove solo la testa. Il resto del corpo è totalmente paralizzato su una carrozzina. Siamo in una sezione ordinaria, non nel Centro clinico. E dunque questa condizione sarebbe "non ostativa" alla detenzione. Certamente è ritenuta tale. È una delle situazioni che si determinano senza che sia ben chiaro perché, attraverso atti che presi uno per uno sono perfettamente legittimi e che, però, conducono a risultati crudeli. Come il dramma in corso del detenuto rimasto orfano che non sa se potrà prendere parte al funerale della madre. Nel suo ufficio il direttore è soddisfatto del lavoro svolto nell'ultimo anno, ma lo è come potrebbe esserlo il comandante di un fortino perennemente assediato. Il centro di osservazione dei reclusi con problemi psichiatrici, per esempio. Averlo realizzato è un successo. Ma, paradossalmente, rischia di trasformarsi in un problema. Mazzeo sottolinea, infatti, che sul carcere di Marassi si sta riversando un carico che dovrebbe essere distribuito tra altri luoghi di reclusione e le Asl. Lo prova tra l'altro il trasferimento di alcuni ex reclusi degli Ospedali psichiatrici giudiziari, dopo la chiusura della primavera scorsa. "Un fenomeno in atto", lo definisce. "L'unica soluzione vera - dice - sarebbe quella di ridurre la detenzione ai casi nei quali è davvero l'unica soluzione". A conferma del carattere pragmatico e non ideologico del rinnovato confronto sul superamento del carcere c'è proprio questo: l'attenzione di chi sta sul fronte. Secondo il direttore del carcere di Marassi, se la reclusione fosse riservata ai soli casi in cui è veramente necessaria la popolazione carceraria si ridurrebbe subito di un terzo. Ma la diminuzione sarebbe molto più consistente se si trovasse il modo di applicare le pene alternative ai reclusi stranieri. E se le carceri non dovessero farsi carico di una parte dei problemi non risolti dalle politiche sull'immigrazione, a conferma del ruolo di "supplenza" che le prigioni hanno assunto in Italia. Se infatti a Marassi i detenuti stranieri sono il 60 per cento (e mediamente sono il 50 per cento nelle carceri del Nord Italia) è perché si sono riversati sul sistema penitenziario gli effetti delle leggi sull'immigrazione che hanno determinato un aumento esponenziale delle situazioni irregolarità. Gli stranieri regolarizzati commettono mediamente meno reati degli italiani. Una dibattito complesso, difficile. Su cui pende costantemente il rischio della ideologizzazione. Ma l'ipotesi di arrivare a ridurre la pena detentiva non è un esercizio di "buonismo". Parte dalla constatazione dell'inefficacia del sistema attuale e dall'esistenza in altri Paesi di pene alternative al carcere che funzionano efficacemente, mentre da noi funzionano con difficoltà le istituzioni che dovrebbero favorire l'applicazione delle misure alternative già previste. Col risultato che da soli ospitiamo il 40 per cento della popolazione detenuta in Europa e siamo stati più volte richiamati e sanzionati per il sovraffollamento delle carceri. Come se la nostra antica cultura giuridica davanti a questo problema ammutolisse. È proprio contro questa rassegnazione che punta il dito Gustavo Zagrebelsky nella prefazione al saggio sull'abolizione del carcere: "Non ci appare stupefacente - domanda - che in tanti secoli l'umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?". Napoli: Rostan (Pd) visita il carcere di Pozzuoli "straordinaria umanità degli operatori" Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2015 "Ieri mattina sono stata in visita al carcere femminile di Pozzuoli ed anche in quest'occasione ho riscontrato la straordinaria umanità degli operatori che lavorano quotidianamente accanto alle circa 150 detenute attualmente ristrette nel penitenziario. Anche a Pozzuoli, però, al di là degli apprezzabili progetti in cui sono coinvolte le detenute, ho riscontrato gravi carenze logistico strutturali legate alla limitazione degli spazi all'aperto ed alla fatiscenza delle strutture di detenzione". Così la deputata Pd Michela Rostan a margine della visita effettuata presso la Casa circondariale femminile di Pozzuoli. "Desidero esprimere il mio sincero apprezzamento per l'impegno profuso dalla Direttrice, la dott.ssa Scialpi, e dalla dirigenza della Polizia Penitenziaria che svolgono il duplice e delicato ruolo di garanti della legalità ed al tempo stesso di educatrici delle tante giovani donne che stanno trovando opportunità di recupero e di riscatto. È questa, a mio avviso - ha osservato - la strada giusta per valorizzare il fine rieducativo e non solo afflittivo della pena". La parlamentare Pd ha tuttavia sottolineato che "le carenze logistico-strutturali, comuni anche alle carceri di Poggioreale ed in parte di Secondigliano, mi hanno ulteriormente persuasa della necessità di lavorare con sempre maggiore determinazione, proprio in questi mesi di revisione del sistema penitenziario, per garantire carceri più umane e funzionali". Bologna: la Garante regionale dei detenuti visita l'Istituto penale minorile del "Pratello" Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2015 All'Istituto penale minorile regionale di Bologna, "i numeri sono tornati ai tempi del sovraffollamento del 2012" ma sono "evidenti le migliorie alla qualità della vita dei ragazzi all'interno della struttura", perché "tutti sono occupati in attività". Lo segnala la Garante regionale delle persone private della libertà, Desi Bruno, che venerdì scorso si è recata in visita al Pratello accompagnata dal direttore dell'istituto, Alfonso Paggiarino, e dal comandante della Polizia penitenziaria. A fronte di una capienza di 22 persone, al momento della visita i ragazzi erano 25, di cui 5 in aggravamento di pena: solo 8 i minorenni e molti i giovani adulti, di cui 15 fino ai 21 anni e 3 tra i 24 e i 25 anni. "Si tratta di una fascia di età eccessivamente ampia, che presenta problemi disomogenei e per cui sarebbero necessari idonei percorsi differenziati e luoghi della reclusione appropriati", commenta la Garante. La popolazione è quasi esclusivamente di ragazzi stranieri, con due soli italiani presenti, e per questo "appare importante dare vita a interventi mirati per la peculiarità delle situazioni e delle necessità. Il mio Ufficio, dopo un anno di positiva sperimentazione ha recentemente rinnovato per un biennio il Protocollo d'intesa insieme al Centro di giustizia minorile per la prosecuzione delle attività di informazione giuridica e consulenza extra-giudiziale in favore dei minorenni stranieri dell'area penale interna ed esterna, nonché di consulenza e supporto alle direzioni e agli operatori delle strutture in materia di immigrazione - prosegue Bruno. Credo molto in questo progetto, che considero uno degli interventi necessari per dare effettiva risposta ai problemi indifferibili di questi ragazzi: il permesso di soggiorno è tipicamente fra questi". A preoccupare la Garante però c'è un recente intervento dei Vigili del fuoco di Bologna che hanno dichiarato inagibili, per oggettivi motivi di sicurezza, i locali adibiti alle rappresentazioni del Teatro del Pratello: il dirigente del Centro di giustizia minorile ha già inviato al comando dei Vigili del fuoco una nota di chiarimenti e richiesta di eventuali prescrizioni da adottare per poter proseguire le attività del laboratorio teatrale, e l'auspicio di Bruno è che "si possa arrivare ad una soluzione concordata, nel rispetto della normativa vigente, per non disperdere l'attività formativa pluriennale del maestro Paolo Billi. È un vero peccato per i ragazzi non poter proseguire l'attività laboratoriale apprezzata dalla comunità tutta, in un momento, tra l'altro, di grande impulso del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna". In ogni caso, assicura la Garante, "tutti i ragazzi sono occupati: da attività ludiche all'arte-terapia fino a un laboratorio musicale di rap, che inizia con la fine dell'anno scolastico fino a settembre in preparazione di un nuovo docu-clip, a metà tra videoclip musicale e documentario, accompagnato da parole e musica rap ideata dai ragazzi: è la loro sesta edizione e come le precedenti sarà presentata al Terra di Tutti Film Festival". Sono stati positivamente avviati i rapporti con l'associazione Mozart14, per la realizzazione del progetto Leporello, progetto fortemente voluto dal maestro Abbado, e con ‘Informatici senza frontierè per un progetto digitale costruito su misura per i giovani ristretti. Proseguono anche le attività trattamentali, con particolare riguardo alla frequenza scolastica dell'obbligo e della scuola alberghiera: 4 le licenze medie ottenute e 4 i crediti formativi rilasciati per la partecipazione a corsi per la ristorazione e al laboratorio di scenotecnica. Infine, conclude Bruno nel suo resoconto, la palestra è ben organizzata, ripulita e imbiancata, è stata inaugurata lo scorso aprile insieme ai locali cucina e mensa comune, al piano terra. "La convenzione con la ditta fornitrice che ha vinto l'appalto consente di avere pasti preparati due volte al giorno, con dieta variata nella settimana e diete speciali per motivi di salute o religiosi- spiega-. I ragazzi mangiano tutti insieme e, importante novità, è stata costituita la commissione vitto formata da 3 ragazzi - uno di fede musulmana, 2 di fede diverse dalla musulmana e un operatore dell'area pedagogica - a garanzia della qualità del cibo e rispondenza alle esigenze particolari". Brescia: ex detenuto mette una brandina sotto il Comune "se non mi aiutate mi do fuoco" di Laura Almici bresciatoday.it, 7 luglio 2015 Non ha una casa, ma è sottoposto alle misure di sorveglianza, così ha deciso di fare armi e bagagli e trasferissi sotto i portici di palazzo Loggia, sede dell'amministrazione comunale.. Una brandina pieghevole e ben tenuta è tutto ciò che gli è rimasto e che Mario Peretta, uscito dal carcere di Bergamo lo scorso 29 maggio, si è portato sotto Loggia, lunedì 6 luglio. Attirando l'attenzione dei passanti e degli assessori comunali. "Fino a stamattina - racconta l'uomo - sono stato a casa di mia mamma, dormivo su una sedia, ma poi abbiamo avuto un violento litigio e sono uscito di casa. Sono sottoposto alla misura di sorveglianza speciale, così ho chiamato la Questura e ho detto loro che mi avrebbero trovato sotto la Loggia. Ho saldato il mio conto con la giustizia, chiedo una casa e un lavoro". Mario attrae la stampa presente e lancia il suo disperato grido d'aiuto anche all'assessore Valter Muchetti che, telefono all'orecchio, dice che si sta occupando della faccenda. "Se non trovate una soluzione al più presto io mi do fuoco" minaccia mentre l'assessore entra nell'edifico climatizzato. Mario, invece, rimane fuori e si siede sul suo materasso a righe bianche e blu a "boccheggiare" e a protestare. "Io non potrei nemmeno stare qui" dice, indicando il regolamento comunale esposto in bella vista nella bacheca dietro le sue spalle. "Mi vogliono mandare in un dormitorio, ma non ci posso stare perché non possono avere contati con altri pregiudicati. Ho bisogno di una casa". Napoli: all'esame di Stato per 5.000 aspiranti avvocati è record di bocciati, il 65% di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 7 luglio 2015 In tanti non ce l'hanno fatta, in tanti si sentono attori di un poco invidiabile record nazionale: sono quelli delle prove scritte per diventare avvocati. Un esercito di esclusi, falcidiati, bocciati. Dati non ancora ufficiali, anche se in questo caso c'è poco da giocare con i numeri: su oltre cinquemila aspiranti avvocati che hanno sostenuto gli scritti lo scorso dicembre passa alle prove orali solo il 35 per cento. Resta al palo il 65 per cento di praticanti, quasi 3.250 aspiranti professionisti. Una selezione drastica, operata da commissari del distretto di Corte di appello di Roma, in questo caso sorteggiati per esprimersi sugli elaborati partenopei. Un dato che stride conia media nazionale, come appare evidente anche dal semplice confronto con le valutazioni espresse dai commissari napoletani rispetto agli aspiranti avvocati milanesi. Sempre per questioni di trasparenza, infatti, se Roma ha corretto Napoli, Napoli ha corretto Milano, sfornando oltre il 50 per cento di promossi alle prove orali. Napoli meno severa di Roma? Mancanza di uniformità di giudizio? O una preparazione più solida da parte degli studenti di altre regioni? Prova a fare chiarezza l'avvocato Mario Ruberto, presidente della commissione di esame di avvocato presso la Corte di Appello partenopea: "Sono stati diversi i criteri di giudizio, sono convinto che la nostra commissione si è fatta scrupolo di leggere attentamente le prove, di approfondire ogni elaborato e di dare un giudizio corrispondente nel merito al lavoro svolto dal singolo candidato. Va anche detto però che in ogni distretto ci sono tante sotto commissioni, che rende impossibile un'oggettiva uniformità di giudizio". È dello stesso parere anche l'avvocato Antonio Melillo, vicepresidente della commissione d'esami qui a Napoli, che - al di là dei criteri adottati - ricorda anche la particolare sensibilità mostrata dagli esaminatori del Centro direzionale: "È una questione di criteri, ma anche un fatto di coscienza e di umanità. Sono convinto che in questa tornata, noi a Napoli abbiamo mostrato scrupolo, senso di correttezza e obiettività". Ma il caso dei bocciati napoletani rischia di finire addirittura in Parlamento, a giudicare dal comunicato stampa diramato ieri dall'avvocato Gennaro Demetrio Paipais, presidente dell'unione giovani penalisti napoletani: "La percentuale degli ammessi agli orali non soddisfa in alcun modo le legittime aspettative dei candidati a che gli elaborati siano valutati dalle commissioni esaminatrici in maniera ponderata e con la dovuta attenzione. Permangono - aggiunge Paipais - le medesime doglianze e perplessità in ordine alle modalità degli ammessi ai colloqui orali dettate, forse, dal fine di contingentare l'accesso alla professione. Valuteremo - conclude - l'ipotesi di rivolgerci alla Camera dei Deputati per la formulazione di un'interrogazione parlamentare sul punto". Sulla stessa linea l'avvocato Giustino Ferone, presidente dell'Unione giovani civilisti di Napoli, che auspica "una modifica sulla modalità di svolgimento dell'esame tesa alla meritocrazia e alla tutela di tutti coloro che ogni anno sono costretti a vivere la tre giorni infernale alla Mostra d'Oltremare". Tre giorni intensi, per sostenere una prova di civile, penale e un elaborato giuridico, su cui in tanti ripongono aspirazioni di carriera, in un distretto come quello napoletano che conta oltre diecimila avvocati. Intanto, ieri mattina è iniziata la tre giorni di sciopero dalle udienze degli avvocati, che ha fatto registrare picchi di astensione altissimi. In campo anche la Camera penale del presidente Attilio Belloni, che in un recente documento ha puntato l'indice contro l'organizzazione di orari e accessi agli uffici nelle varie cancellerie del distretto. Ancona: il Garante regionale "studenti e detenuti dialogano attraverso l'arte e la poesia" concronachemaceratesi.it, 7 luglio 2015 Conoscere il mondo del carcere oltrepassando le sbarre e dialogando con i detenuti. È l'opportunità che dal 2011 il progetto "Carcere e scuola", promosso dall'Ombudsman e dall'Ufficio scolastico regionale, in collaborazione con il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria, offre agli istituti scolastici marchigiani, coinvolgendo studenti, insegnanti, artisti e scrittori. Ieri mattina a Palazzo delle Marche il presidente del Consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo e il Garante regionale Italo Tanoni hanno incontrato i protagonisti del percorso formativo e inaugurato i due pannelli espositivi che sintetizzano l'esperienza vissuta in tre istituti di pena: la casa circondariale di Ancona-Montacuto, l'istituto di pena Ancona-Barcaglione e il carcere di Marino del Tronto-Ascoli Piceno. "Mi fa molto piacere che sia questo il primo evento al quale partecipo nella sede dell'Assemblea legislativa - ha esordito il presidente Mastrovincenzo. Questo progetto è importante perché fa comunicare due mondi: il mondo carcerario e il mondo della scuola, attraverso l'arte e la scrittura. Si tratta di un'esperienza che aiuta ad abbattere tanti preconcetti e pregiudizi sia sui detenuti che sulle carceri, incide in modo forte sul percorso formativo dei giovani e aiuta anche i detenuti a riavvicinarsi alla società, in vista di un loro reinserimento futuro". Il tema per l'anno scolastico 2013-2014 è stato "Racconti autobiografici con uno strano filo conduttore: la scrittura e l'arte" e hanno aderito il Liceo classico "Perticari" di Senigallia, il liceo artistico "Mannucci" di Ancona e il liceo artistico "Licini" di Ascoli Piceno. Gli studenti delle ultime classi hanno svolto un percorso didattico fatto di lezioni, laboratori e soprattutto incontri con i detenuti. Il risultato si è tradotto in testi poetici e dipinti, realizzati sia dai ragazzi che dai reclusi, esposti da oggi in due pannelli nella sede dell'Autorità di garanzia a Palazzo delle Marche. "Il nostro impegno - sostiene Tanoni - si è orientato sempre verso iniziative sperimentali. Questa esperienza, complessa e difficile da realizzare, ha un duplice obiettivo, l'educazione alla legalità e al rispetto delle regole, e lo scambio di esperienze che arricchisce sia i detenuti che gli studenti". Oltre ai due curatori del progetto, il dirigente scolastico del liceo Perticari Alfio Albani e il docente del liceo Mannucci Bruno Mangiaterra, sono intervenuti Marco Mocchi, dirigente dei servizi sociali della Regione Marche, e Antonio Moscianese dell'Ufficio scolastico regionale. Piacenza: dall'Associazione "Vivere con lentezza" gruppi di lettura con detenuti "protetti" di Ambra Notari Redattore Sociale, 7 luglio 2015 Lettura ad alta voce con una decina di detenuti protetti: italiani, stranieri, giovani e anziani. Contigiani (Vivere con lentezza): "L'estate, come il periodo natalizio, è il periodo peggiore per chi sta in carcere: il malessere fisico e psichico aumenta notevolmente". "Ora lavoriamo con i detenuti protetti, non più con quelli comuni. È una bella sfida, dobbiamo tutti rimetterci in gioco". Bruno Contigiani, presidente dell'associazione "Vivere con Lentezza" e direttore del mensile Numero Zero della Casa circondariale di Torre del Gallo di Pavia, racconta così la nuova esperienza nel carcere di Piacenza. Gruppi di lettura ad alta voce con una decina di detenuti protetti, soprattutto sex offenders: "È molto diverso rapportarsi con loro: nella maggior parte dei casi sono persone di grande cultura, laureati, con un'attività professionale ben avviata. Persone che potrebbero essere tranquillamente nostri vicini di casa, che da un momento all'altro si sono trasformati in "lupi". Italiani, stranieri, giovani, anziani, in carcere per scontare pene lunghe o lunghissime. Ovviamente, all'inizio, non chiediamo mai che reato hanno commesso: sono loro ad aprirsi, se e quando vogliono". Contigiani racconta che, spesso, i detenuti comuni mostrano un grande desiderio di farsi accettare dalle persone che vengono dall'esterno, mentre i protetti si pongono in un'altra condizione, quasi di conquista: "Hanno grande fiducia in sé, sono forti della loro cultura: il rapporto che si instaura si sviluppa così in condizioni diverse". Presto i detenuti piacentini cominceranno anche a collaborare, scrivendo lettere, con Numero Zero: un'enorme conquista, spiega Vivere con lentezza, perché tendenzialmente i detenuti comuni non vogliono avere nulla a che fare con i protetti, soprattutto sex offender: "Proveremo una collaborazione, perché per noi è importante dare a tutti una possibilità. Queste persone per metabolizzare il dolore che hanno subito devono parlare, confrontarsi. Se non fanno questo passaggio, usciranno in condizioni molto peggiori rispetto a quando sono entrati". Così, l'associazione lavora su due binari: da un lato, cerca di spiegare all'esterno cosa succede all'interno; dall'altro, prova a far capire a chi sta dentro cosa significhi, oggi, vivere fuori: "Siamo in una condizione molto particolare, viviamo in società che faticano a riconoscere diritti a molte persone, non solo a chi sta in carcere". Per il momento, Vivere con lentezza entrerà in carcere una volta ogni 15 giorni, nella speranza che poi gli incontri si intensifichino. "L'estate, come il periodo natalizio, è il periodo peggiore per chi sta in carcere: il malessere fisico e psichico aumenta notevolmente, rendendosi talvolta insostenibile. Ovviamente, è anche il periodo in cui le attività nei penitenziari registrano una flessione: c'è grande turnover, il personale è poco e serve ottimizzare le forze. Detto ciò, servirebbe aprire un'enorme riflessione anche sul tema della giustizia in Italia: scuola e carceri sono due realtà molto carenti. Entrambe hanno a che fare con l'educazione, ed entrambe non stanno vivendo un buon momento: servirebbe ripartire da qui". Trieste: premio "Oltre il Muro" per la XVI edizione di Shorts International Film Festival Adnkronos, 7 luglio 2015 Entra nel vivo la XVI edizione di ShorTS International Film Festival a Trieste con grandi nomi del cinema italiano, cortometraggi internazionali in Piazza Verdi e lungometraggi al Cinema Ariston. La produttrice Francesca Cima della Fandango, il regista Francesco Patierno, l'attrice Barbora Bobulova - cui la rassegna dedica un omaggio - e ancora Chiara Caselli, Pippo Delbono, Carlo Brancaleoni, Claudio Bonivento, Jacopo Olmo Antinori, il vincitore del David di Donatello Giuseppe Marco Albano e molti altri. Per la sezione Oltre il Muro partono le proiezioni nella Casa Circondariale di Trieste dove anche quest'anno una giuria di 15 detenuti sceglierà il corto cui assegnare il premio "Oltre il Muro". La premiazione si terrà l'8 luglio. Nello stesso giorno alle 18,30 prende il via all'Auditorium del Museo Revoltella la sezione SweeTS4Kids con 27 cortometraggi selezionati tra un centinaio e pensati per i bambini. La giuria sarà composta da 101 bambini fra gli 8 e i 13 anni, la Giuria del 101, e assegnerà il premio al miglior corto tra mercoledì 8 e giovedì 9 luglio. Appuntamento il 9 le 10 luglio con le passeggiate Esterno/Giorno. Dalle 18 si ripercorreranno con passeggiate a tema le location e le storie delle tante opere per il grande schermo girate nella città giuliana. Le passeggiate sono gratuite e avranno come tema giovedì 9 "C'era una volta la città dei matti" e venerdì 10 Passeggiata nella Trieste del Cinema. Sono poi in arrivo i registi dei cortometraggi e delle opere prime, Jacopo Olmo Antinori protagonista della Prospettiva 2015, già attore teatrale a soli 9 anni che esordisce al cinema come protagonista nel film diretto da Bernando Bertolucci "Io e te", Antinori vince allo scorso Festival del Cinema di Venezia l'Akai International Film Fest Award come migliore attore nel film "I nostri ragazzi" (2014) di Ivano de Matteo, interpretato assieme a Alessandro Gassmann, Giovanna Mezzogiorno, Luigi Lo Cascio e Barbora Bobulová a Trieste invece come giurata e protagonista del festival. Il film sarà proiettato il 10 luglio alle 21.30 al cinema Ariston con la presenza in sala sia di Jacopo Olmi Antinori sia di Barbora Bobulova. I due attori inoltre incontreranno il pubblico giovedì 9 luglio alle 18.30 nello spazio del Teatro Verdi riservato al Festival. L'8 luglio alle 18 nello spazio del Teatro Verdi riservato al Festival si terrà l'incontro stampa aperto al pubblico con Marco Taralli compositore delle musiche che accompagneranno in prima esecuzione italiana il film "Femmine Folli" di Erich Von Stroheim (1922) in programma il 12 luglio alle 20.,30, proprio al Teatro Verdi di Trieste. Gran finale venerdì 10 luglio, alle 11,30 nello spazio del Teatro Verdi dedicato al festival l'incontro con registi e giurati, mentre alle 19 al Civico Museo Teatrale Carlo Schmidl nella Sala Bobi Bazlen, ci sarà la proclamazione dei film vincitori e la consegna dei premi della 16.ma edizione di ShorTS International Film Festival. Il festival è realizzato con il contributo del Ministero dei beni e della attività culturali e del turismo, della Regione Friuli Venezia Giulia, di Turismo Fvg, del Comune di Trieste, della Fondazione CRTrieste, della Camera di Commercio di Trieste e della Fondazione Casali. Anche Pantone, autorità in fatto di colori, dopo aver decretato il Marsala come re della palette per l'inverno scorso, ha messo sfumature di rosa nei colori moda del prossimo autunno inverno, annunciando come colori trend il Cashmere Rose e l'Amethyst Orchid, tinte luminose e di ispirazione seventies. Non solo nella moda donna, il rosa ha contagiato anche il menswear nelle collezioni presentate il mese scorso al Pitti e a Milano, dove il rosa si è stagliato su bluse, shorts e cappelli maschili. A mettere l'apostrofo rosa (cipria) nelle proprie collezioni hanno pensato anche Calvin Klein, Altuzarra e JW Anderson, con pellicce, pencil skirt e mini dress. Mentre Erdem e Gucci lo abbinano a stampe floreali e a giochi di trasparenze, Marni lo sceglie per il long dress di lana al polpaccio e tasche foderate di pelliccia. Il rosa si tinge di pesca, infine, da Narciso Rodriguez e Vionnet, che scelgono la tinta delicata per colorare gonne, pantaloni flare e accessori. Immigrazione: è nato il popolo degli apolidi, 10 milioni senza patria e senza diritti di Alice Gussoni La Repubblica, 7 luglio 2015 L'esodo biblico di 60 milioni di uomini, donne e bambini ha creato una nuova, immensa comunità nel consesso internazionale. Uno su sei non ha più identità, cittadinanza, sostegno dal welfare, diritto allo studio e alla salute. Una vera nazione che vive ammassata nei campi profughi, nei centri di identificazione, in quelli della Croce rossa e dalla Caritas. Sopportata ma esclusa dai paesi ospitanti, cerca scampo e un futuro lungo quelle che sono chiamate le 7 rotte della Speranza. Ve le raccontiamo. La nazione invisibile La nazione invisibile non esiste e non esistono i suoi cittadini. Ma esiste una marea umana che si muove alla ricerca di un posto che li accolga. Sono circa 60 milioni di persone, uomini, donne, minori, la maggior costretti a migrare per motivi economici. Di questi 11,7 milioni scappano dal proprio paese a causa di guerre e persecuzioni. Alcuni nella fuga perdono, oltre alla propria casa, anche il diritto di cittadinanza. Ci sono poi 10 milioni di persone nel mondo per cui l'apolidia resterà uno status insuperabile. Senza documenti la vita è difficile. Non si può lavorare, se non al nero. Non si può accedere alle cure, a parte i ricoveri urgenti. Non ci si può sposare né si possono seguire percorsi di formazione. Non si hanno diritti, almeno tutti quelli garantiti da una cittadinanza. Il grado zero. Tutti iniziano da un grado zero: la maggior parte di coloro che fugge da guerre e persecuzioni non ha documenti. Quando poi arrivano nel paese ospite, con mezzi di fortuna o per vie al 99% illegali, si trovano a dover affrontare il mostro della burocrazia. Si parte con una domanda di asilo in cui si dichiara, tramite autocertificazione, la propria provenienza, i dati anagrafici e il motivo della fuga. Poi la pratica deve seguire il suo iter e in Italia la disamina tocca alle Commissioni territoriali, che attraverso un'intervista approfondita dovranno riconoscere lo status di rifugiato. Ma l'attesa per un appuntamento può durare mesi, a volte addirittura anni, durante i quali la loro vita sarà a ricasco di organizzazioni umanitarie e sistemi assistenziali. In Europa e Nord America sono circa 900 mila le domande di asilo in attesa di una risposta ufficiale. Requisiti. Capita poi che il richiedente non sia in possesso dei requisiti giusti per ottenere lo status di rifugiato. Nel 2014, secondo i dati Cir, su 64.886 domande presentate solo il 50% è stato esaminato e di queste 36.330 solo 21.861 hanno avuto un responso positivo. Il restante 37% ha visto rifiutata la propria richiesta. Nel frattempo la vita continua. Per chi si ritrova in questa condizione di semi-legalità, in attesa di un responso o con il visto negato, non resta che arrangiarsi con permessi temporanei, in attesa dei ricorsi al Tribunale, che permettono di prendere tempo, aspettando che arrivi una sanatoria o il miracolo di un santo qualsiasi. Diverso iter. Ancora più marginale rimane la posizione degli apolidi, i quali senza volerlo hanno scarsissime possibilità di vedere riconosciuto ufficialmente il loro status. L'apolide infatti, nonostante abbia il diritto di veder riconosciuta la propria condizione e successivamente di acquisire la cittadinanza italiana, segue un iter diverso per l'istruttoria. Proprio loro, a cui per definizione manca un riconoscimento giuridico documentato, devono produrre prove documentali della loro residenza sul territorio. Questo paradosso crea ovviamente enormi difficoltà per la domanda. Dai dati del Ministero dell'Interno risulta, infatti, che negli ultimi 10 anni solo l'1% delle domande di certificazione presentate in via amministrativa è stata accolta. Il riconoscimento dell'apolidia ottenuto tramite questo percorso è infatti precluso a tutti coloro che non possiedono, cumulativamente, un titolo di soggiorno in Italia, un certificato di nascita e un certificato di residenza. Altra strada percorribile sarebbe quella giudiziale, ma ha un costo spesso troppo elevato per chi si trova a doverla affrontare. In entrambe i casi alla base c'è una grossa carenza di informazioni. Disinformazione. Helena Behr, dell'Unhcr, l'Agenzia Onu per i rifugiati, è chiara in proposito: "Uno dei problemi iniziali sembra essere proprio la disinformazione. Nonostante in Italia ci siano due procedure per il riconoscimento dello status di apolide di fatto, per molte persone continua ad essere difficile ottenerlo, vuoi per mancanza di informazioni o a causa di ostacoli normativi e burocratici. Le persone possono aspettare anche molti anni per avere una risposta e nel frattempo rimangono in una situazione di vulnerabilità e marginalità". Eppure l'apolidia si potrebbe facilmente eliminare: "Per questo - continua Behr - l'Unhcr insieme alla Commissione Diritti Umani del Senato e al Cir sta lavorando a un disegno di legge che preveda un intervento risolutivo, in grado di eliminare il problema dell'apolidia nell'arco di soli 10 anni". Un traguardo ambizioso ma non impossibile. L'Unhcr ha presentato nel novembre del 2014 la campagna informativa IBelong per focalizzare il paradosso dell'apolidia: "Senza una cittadinanza - spiega ancora Behr - non si hanno garantiti molti diritti, come quello allo studio, al lavoro, alle cure, alla libera circolazione. Ma sono solo questi diritti che ti rendono un cittadino a tutti gli effetti". Senza più patria e senza documenti, i racconti degli apolidi Ostacoli e pregiudizi. Esiste poi un altro motivo che rende così difficile il riconoscimento dell'apolidia e che si lega a un'innata disaffezione verso l'autorità e le sue leggi: chi esce finalmente dal cono dell'invisibilità deve affrontare nuovi ostacoli e vecchi pregiudizi. Il caso dei Rom e dei Sinti è in questo senso esemplare. Giunti sul nostro territorio durante i primi anni 90, in seguito alla guerra nella ex-Jugoslavia, sostenuta pienamente dall'ex-governo D'Alema, molti di loro hanno visto dissolversi la propria nazionalità insieme alla propria casa dall'oggi al domani. In Europa il numero di apolidi è di circa 600 mila, dato non facilmente riscontrabile per mancanza di statistiche ufficiali. In Italia le persone prive di cittadinanza sono circa 15.000, quasi tutti di etnia Rom, ma potrebbero essere molte di più. Di queste solo 813 hanno ottenuto il riconoscimento giuridico dello status di apolide fino ad oggi. Nonostante l'Italia sia uno dei 14 paesi nel mondo che abbia sottoscritto la Convenzione sullo status di apolide del 1954 - dove si indicano le procedure per tale riconoscimento - la mancata adesione della successiva Convenzione sulla riduzione dell'apolidia del 1961 ha resto finora zoppo il sistema. Questo comporta come primo problema l'ereditarietà della condizione di apolide da parte dei minori. In teoria esisterebbe una disposizione, contenuta nell'art.1 della lg n.91/92, che supererebbe de facto lo ius sanguinis. Tuttavia, molti degli apolidi nati nel nostro paese incontrano diversi ostacoli nel dimostrare che non hanno acquisito o che non possono acquisire nessuna nazionalità da parte dei due genitori. Se a loro volta questi non hanno ufficializzato il proprio status di apolidi i documenti necessari per certificare la non appartenenza a nessuno stato, l'iter si perde in una giungla di uffici consolari, ambasciate e registri anagrafici. Un inferno kafkiano insomma. Risultato: i minori privi di una cittadinanza in tutta Europa sono nell'ordine di migliaia, ma l'assenza di un censimento ufficiale li rende dei fantasmi. Cittadinanza. La lunga strada per l'acquisizione di una cittadinanza non finisce qui. La possibilità di richiederla infatti arriva dopo 5 anni nel caso di rifugiati e apolidi che abbiano superato il primo passaggio del riconoscimento ufficiale, 10 anni per i migranti che risiedono regolarmente sul territorio. Fino al 18 giugno di quest'anno però le richieste erano rallentate da un ulteriore imbuto. Salvatore Fachile, avvocato dell'Asgi, ha dovuto affrontare questo problema per diversi casi: "L'appuntamento telematico con la prefettura era infatti negato dal sito del Ministero degli Interni, e a causa di questo disservizio le domande si sono accumulate per mesi". Ora finalmente è possibile presentare la richiesta di cittadinanza direttamente on line. Ma questo è solo l'inizio. Si devono aspettare minimo dai 2 ai 6, a volte 8 anni, prima di una risposta: "Frequentemente si deve fare ricorso per sollecitare la propria pratica - continua Fachile - che altrimenti giacerebbe per chissà quanti anni ancora prima di essere vagliata". Verdetto finale. Infine il verdetto finale. Sempre secondo l'ASGI un numero crescente di domande subirebbe un diniego a causa di presunte vicinanze del richiedente con gruppi estremisti. "Frutto di indagini superficiali dei nostri servizi segreti" commenta Salvatore Fachile "Almeno secondo il verdetto espresso dal Consiglio di Stato che ha seguito fino in fondo alcune delle pratiche per cui è stato presentato ricorso". Chi riesce ad arrivare al traguardo è da ritenersi fortunato: oltre 100.000 nel 2013, 65.000 nel 2012. "Un trend comunque in crescita - conclude Fachile - ma che affonda le radici nei flussi migratori risalenti agli anni 90. Il futuro lo stiamo vivendo ora, e non sembra così roseo". Immigrazione: Catania, nella "città senza patria" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 luglio 2015 In mezzo alla piana di Catania, tra gli agrumeti, c'è' una città di "senza patria". Quattromila, in certi momenti, anche cinquemila, fuggiti dai loro paesi, scappati da guerre, persecuzioni e carestie, e approdati nel limbo dell'attesa. L'attesa che qualcuno dica loro se e dove potranno vivere in Italia, l'attesa che qualcuno venga a prenderli e li aiuti in un'altra fuga, l'ultima, quella verso il paese dove vorrebbero vivere. A dispetto delle belle e comode villette bifamiliari, della mensa che sforna tre pasti caldi al giorno, della scuola per imparare l'italiano, dell'ambulatorio dove curarsi e dei campi dove giocare a calcio, per gli abitanti di questa singolare città di apolidi nel cuore della Sicilia, il Cara di Mineo, è un purgatorio, un girone dantesco dal quale tutti sperano di poter uscire il più presto possibile. In teoria i profughi che vi sono ospitati, appartenenti a più di venti etnie diverse, sono tutti richiedenti asilo. Volenti, o molto più spesso nolenti, si sono lasciati prendere le impronte digitali e identificare al momento del loro sbarco in Sicilia e, secondo le regole ormai contestatissime del trattato di Dublino, hanno redatto la loro richiesta di asilo politico rivolta alle autorità italiane. E aspettano, un tempo per loro infinito, in media 18 mesi ma forse anche di più', in attesa che le apposite commissioni vaglino la loro posizione ed emettano il verdetto che deciderà il loro destino. Il loro unico documento è il badge del Cara, non hanno passaporto, carta sanitaria. Non possono partire né andare a cercarsi un lavoro, non hanno soldi se non il pocket money che passa la direzione del centro né possono averne. E allora, nella migliore delle ipotesi ciondolano tutto il giorno in uno stato d'animo che varia dalla depressione all'irascibilità, ma molto più spesso si danno ad attività delinquenziali all'interno del centro (dai giri di prostituzione allo spaccio di droga) o finiscono nella rete dei caporali che all'alba li vengono a prendere con i pulmini sulla strada statale che confina con il centro, li portano a lavorare nelle campagne e a sera li riportano con (se va bene) dieci euro in tasca. Non importa se in Siria Jamal era un funzionario di banca e sua moglie un'insegnante. "Quando una bomba ha distrutto la scuola dove insegnava mia moglie e il nostro quartiere è stato distrutto dalle granate - racconta - ho preso la mia famiglia, i miei due bambini, quel poco che avevo a casa, il computer, i documenti e siamo fuggiti. Ho pagato carissimo un passaggio in macchina fino in Egitto e poi l'imbarco su un grande peschereccio partito da Alessandria d'Egitto. Ci hanno salvato i marinai italiani, ci hanno portato qui è ormai sono 13 mesi che aspetto. Siamo profughi, scappati dalla guerra, abbiamo diritto all'asilo. Io vorrei andare in Svezia ma se non si può proverò ad andare a Milano, basta che ci facciano andare. Ho due bambini di quattro e sei anni e una vita da ricostruire, anzi da inventare". Jamal mostra i documenti suoi e della famiglia. "Sono riuscito a portare in salvo anche loro, li avevo in una fodera di plastica assicurata con lo scotch all'interno della camicia. Qui ci sono le prove della nostra identità', c'è' la nostra storia, c'è' il passato, ma questa non è vita. Se ci accolgono devono anche lasciarci costruire un futuro". Immigrazione: l'eldorado è il Nord Europa di Vladimiro Polchi La Repubblica, 7 luglio 2015 "In Europa non tutti i paesi sono uguali. In Scandinavia, chi arriva dalla Siria, ha facilmente un posto dove dormire, la possibilità di studiare e avere un lavoro". Tareq, 27 anni, ha lasciato Damasco subito dopo la laurea per evitare l'arruolamento obbligatorio. Oggi è rifugiato in Italia. A prendersi cura di lui è il Centro Astalli. Nelle sue parole la spiegazione della "fuga" di molti richiedenti asilo dall'Italia. Direzione? Nord Europa. La mappa dei flussi. Sì, perché la mappa dei flussi migratori è in continua evoluzione. Ci sono i "paesi fabbrica", i "paesi corridoio" e i "paesi meta". Vecchie e nuove rotte si avvicendano, con gli arrivi via terra a farla sempre più da padrone. È l'onda dei profughi: un flusso imponente di migranti in viaggio costante da sud a nord. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale le persone costrette alla fuga nel mondo hanno infatti superato quota 50 milioni (a metà del 2014 se ne registravano già 56,7). Gli overstayers. A tracciare le rotte dei migranti è l'ultimo rapporto Frontex (Agenzia europea per il controllo delle frontiere). Intanto, va detto che la maggioranza di chi arriva in Europa sceglie la via più sicura: "La principale porta d'ingresso - scrivono gli analisti di Frontex - sono gli aeroporti internazionali. Gran parte di chi risiede illegalmente in Europa, originariamente è entrato con un visto il cui periodo di validità ha poi superato i limiti". Li chiamano overstayers: sono tutti quegli stranieri che arrivano regolarmente nel paese con un visto turistico e ci restano illegalmente anche dopo la scadenza. Le sette rotte. Frontex indica sette rotte principali dirette verso l'Europa. La "Western African route" è il percorso via mare che va dai Paesi dell'Africa occidentale (Senegal e Mauritania) verso le isole Canarie: qui i numeri sono bassissimi. Crescono invece sulla "Western Mediterranean route", che indica sia il passaggio via mare dal Nord Africa alla penisola iberica, sia quello via terra attraverso Ceuta e Melilla. È utilizzata per lo più da algerini e marocchini. Ancor più trafficata è la "Central Mediterranean route", la rotta che muove dall'Africa del Nord per approdare in Italia e a Malta. A percorrerla da gennaio ad aprile 2015 sono stati 26.257 migranti. Stretta e molto meno battuta è la "Apulia and Calabria route", che da Turchia ed Egitto arriva in Puglia e Calabria. Ben 27.565 migranti hanno usato invece nel 2015 la "Eastern Mediterranean Route", attraversando Turchia, Grecia e Bulgaria. Solo poche centinaia usano la "Eastern borders route": i 6mila chilometri che separano Paesi come Ucraina, Russia, Moldavia da Estonia, Finlandia, Ungheria. La rotta balcanica. Infine c'è la rotta più imponente, di cui poco si parla perché, a differenza degli sbarchi, non fa notizia. È la "Western Balkan Route", il percorso che attraversa i Balcani occidentali: da gennaio ad aprile scorso ha visto passare ben 39.802 migranti, soprattutto kossovari e afghani. Molti di questi entrano nel nostro paese attraverso il Friuli Venezia Giulia: la nuova Lampedusa d'Italia. Ed è proprio la ripresa della rotta via terra la novità: "Ne è prova - conferma Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati - che degli oltre 600mila richiedenti asilo arrivati nel 2014 in Europa, solo 230mila sono giunti via mare. Pochissimi per via aerea". Rifugiati e irregolari. Per capire cosa accade sulle rotte per il Vecchio continente bisogna saper distinguere tra immigrati irregolari e rifugiati. Lo scorso anno, per esempio, il 44% di chi è arrivato in Italia via mare ha ottenuto una qualche forma di protezione. Insomma, uomini in fuga da guerre o persecuzioni, niente a che vedere con i cosiddetti "clandestini". Negli ultimi quattro anni infatti i principali paesi d'origine degli arrivi via mare sono sempre stati quelli colpiti da gravi crisi umanitarie: Siria, Somalia, Eritrea e Mali sono le prime provenienze (da sole coprono oltre il 50% degli arrivi). La "fabbrica" Siria. Le varie rotte partono dai "paesi fabbrica", passano per i "corridoi" e terminano nei "paesi meta". Basta leggere gli ultimi dati Eurostat, già anticipati da Repubblica. I richiedenti asilo in Europa erano 435mila nel 2013, 626.000 nel 2014: un record assoluto dopo il picco del 1992. Da dove arrivano? La guerra in Siria è la prima "fabbrica" di profughi. L'anno scorso più di 122mila siriani sono fuggiti dalle loro case e sono arrivati in Europa (72mila in più dell'anno precedente). Crescono anche i flussi in uscita da Afghanistan (41mila), Kosovo (37mila) ed Eritrea (36mila). Raddoppiano infine i rifugiati in fuga dall'Iraq e dalla Nigeria. La "meta" Germania. Sul fronte degli arrivi, nel Vecchio continente a ricevere l'onda più grossa di richieste d'asilo è la Germania: oltre 202mila nell'ultimo anno, ben 41mila da parte di siriani. Il secondo paese è la Svezia con 81mila domande. E l'Italia? Si piazza al terzo posto. Come emerge anche dal rapporto 2015 del Centro Astalli, lo scorso anno i richiedenti asilo da noi sono stati 64.886: un record, con un aumento del 143% rispetto al 2013. Ma per i profughi, l'Italia è spesso solo un corridoio da attraversare rapidamente per poi proseguire verso il Nord Europa. La conferma arriva dal fatto che la maggior parte di chi chiede asilo in Italia non proviene né dalla Siria, né dall'Eritrea, che sono invece le prime nazionalità tra i 170.757 migranti sbarcati nel nostro paese. Il caso Ungheria. Nella classifica delle destinazioni europee dei profughi, al quarto posto si piazza la Francia (62mila) e al quinto, a sorpresa, l'Ungheria (42mila). "Non tanto a sorpresa - ribadisce Hein del Consiglio italiano per i rifugiati - visto che la novità è la crescita della rotta via terra, che passa attraverso i Balcani e l'Europa orientale". Budapest ha già deciso di correre ai ripari. E lo fa con una proposta che ha già scatenato polemiche in tutta Europa: la possibilità di costruire un muro lungo tutti i suoi confini con la Serbia. Un passato che pensavamo ormai scomparso. Ma che ritorna denso di foschi presagi. Immigrazione: viaggio a Lesbo, la nuova Lampedusa greca di Costanza Spocci La Repubblica, 7 luglio 2015 "Siamo in Grecia?", si chiede M. con gli occhi spalancati mentre balza giù dal gommone. Sì, su un'isola della Grecia, Lesbo, gli confermiamo. M., giovane 25enne afgano di Ghazni, salta di gioia, doppiamente rincuorato di essere arrivato vivo e sulla spiaggia giusta. Dopo una traversata di 3 ore in mare aperto, lui e i suoi 44 compagni di viaggio ce l'hanno fatta, anche se a bordo di un gommone dalla capienza massima di 15 persone. "Siamo partiti ieri notte da una spiaggia nei dintorni di Izmir, in Turchia - racconta - i trafficanti ci hanno spillato circa 1000 dollari a testa e hanno affidato ad uno di noi la guida del gommone dicendo: vedete quel punto illuminato laggiù? È la Grecia, andate sempre dritto". Secondo l'ultimo rapporto dell'Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) ben 42.000 afgani, pakistani e siriani avrebbero varcato le porte dell'Europa attraverso la Grecia nei primi quattro mesi del 2015: un dato impressionante se si considera che nello stesso periodo del 2014 sono stati 6.500. Sette volte di meno. Lo scorso 27 maggio l'Ue ha approvato la riallocazione di 16.000 richiedenti asilo dalla Grecia in altri stati membri, ma le modalità e le tempistiche non sono ancora chiare. "Del resto", spiega Eleana Ioanidu, capo del Consiglio Migranti della municipalità di Salonicco, "quasi nessuno richiede asilo qui, dato che la Grecia approva solo l'1% delle richieste". La maggioranza punta al nord Europa. La Germania resta la principale destinazione finale di chi sbarca in Grecia, e la rotta cha passa per i Balcani Occidentali, nel percorso Grecia-Macedonia-Serbia e Ungheria, è sempre più battuta: dai 43.360 migranti del 2014 (dati Frontex), alla crescita esponenziale di 40.000 solo nei primi quattro mesi del 2015. Passaggio obbligato. Le isole dell'Egeo settentrionale sono le più colpite da questi nuovi flussi; sono diventate di fatto le nuove Lampedusa greche con una media di 600 arrivi al giorno secondo i dati Unhcr. Il mare, infatti, è un passaggio obbligato per chi viene dalla Turchia: la Bulgaria ha eretto la sua fortezza e il muro greco di Evros al confine turco è diventato sempre più impenetrabile. Sull'isola di Lesbo, nel solo mese di marzo, sono arrivate 3500 persone, ma con l'estate gli sbarchi si moltiplicano. Un'anticipazione del fenomeno si è vista a maggio, quando l'Hellenic Rescue Team che collabora con la guardia costiera dell'isola ha contato 5000 nuovi arrivi solo nell'ultima settimana. Cimitero di gommoni. Sulla spiaggia di Skala Sykaminias giacciono centinaia di giubbotti di salvataggio, scarpe e cappotti. L'intera costa a nord dell'isola è letteralmente un cimitero di gommoni. Ad ogni sbarco si ripete la stessa scena: i nuovi arrivati chiedono indicazioni per il posto di polizia più vicino a chiunque incontrino per strada. Lo scopo di trovare la polizia è di "farsi arrestare", compiendo il primo passo di una faticosa trafila burocratica che permetterebbe loro di raggiungere Atene legalmente con solo qualche giorno di detenzione. Non sanno però che dovranno camminare 70 km fino al capoluogo di Mitilene per trovare l'unico posto sull'isola predisposto alla registrazione dei migranti e gli isolani, salvo rare eccezioni, si rifiutano di dar loro passaggi di fortuna, perché secondo la legge rischiano fino a 10 anni di carcere per traffico di esseri umani. Urla e racconti. "Siamo partiti da Kabul un mese fa", dice F. indicando sua figlia di sette anni e suo marito. "Mio marito lavorava per un'ambasciata ed eravamo minacciati di morte". Davanti ai cancelli della guardia costiera del porto di Mitilene due poliziotti urlano contro le centinaia di persone ch si accalcano per entrare e procedere con la registrazione. F., accigliata, continua a raccontare di settimane intere passate a camminare tra Iran e Turchia, senza cibo né acqua, con i calzini zuppi di sangue. Mostra la sua caviglia rotta: "Anche qui ho dovuto camminare per due giorni prima di arrivare al porto e sono tre giorni che aspettiamo qui fuori, siamo stanchi morti". Il centro di detenzione di Moria è ancora più affollato: 1500 persone in tutto, tra dentro e fuori, in attesa di essere sistemati in tendoni. Chi è fuori ha il diritto ad un pasto al giorno e un tè, dopo ore di attesa in lunghissime file. "Non ci sono gabinetti, non abbiamo acqua, aspettiamo sotto il sole che batte e di notte congeliamo qui dentro", racconta in una tenda Y., curdo siriano di Aleppo, 35 anni, in viaggio da 24 mesi. "Non sono condizioni umane: in Siria sarei potuto morire una volta, ma da quando me ne sono andato è come se morissi ogni giorno". La deportazione. "Dopo una settimana le autorità rilasciano i documenti di deportazione ai detenuti, anche se tecnicamente essendo persone che scappano da conflitti non potrebbero essere deportati", spiega l'avvocato per i diritti dei rifugiati dell'isola, Heleni Velivaski. "Ma visto che non ci sono i mezzi - precisa - la deportazione vale come un foglio di via di 30 giorni per lasciare il paese, fatta eccezione per i siriani che hanno 6 mesi". Il documento vieta ai migranti di sostare nei principali punti di uscita dalla Grecia come i porti di Patrasso e Igoumenitsa, o la provincia di Killis, al confine con la Macedonia. Nessuno da Atene, però, prende un aereo e si auto-deporta. Verso la Macedonia. "Veniamo quasi tutti qui a Salonicco", racconta B. siriano di Homs, seduto nel parco Aristotelous in pieno centro città di Salonicco dove dorme da due giorni. Aspetta la chiamata di un trafficante per entrare in Macedonia attraverso la zona di Killis, a un'ora e mezza di macchina dalla città. Sa che il viaggio non è ancora finito. Lo aspettano notti insonni nascosto nella macchia e camminate lungo i binari del treno che collega l'ultimo villaggio greco di Policastro con la Macedonia, perché perdersi significa finire in uno "di quei villaggi macedoni" che depredano i migranti con la complicità della polizia, rischiando di non avere più soldi per continuare la rotta verso Nord. Immigrazione: Croazia, l'ultimo passaggio ancora libero di Raffaella Cosentino Tovarnik La Repubblica, 7 luglio 2015 Vista da qui, la rotta balcanica si perde tra le sterpaglie secche di una pianura semi disabitata, la regione della Slavonia. Una terra piatta a perdita d'occhio, in cui non sembra succedere mai niente. Poche case, strade larghe, qualche incrocio e un campanile. Il paese è così nuovo che sembra finto. Ogni tanto la monotonia del paesaggio è interrotta da vecchie abitazioni sventrate, senza i tetti, con le finestre rotte e i muri crivellati di colpi. Sono le tracce ancora visibili della guerra nella ex Jugoslavia che negli anni Novanta del secolo scorso, in questa zona al confine con la Serbia, a poca distanza da Vukovar, ha mietuto vittime e dispersi nei bombardamenti, nei massacri e nelle fosse comuni. La strada termina dentro la dogana di uno dei valichi di frontiera più recenti dell'Unione europea. Solo dal 2013 vi sventola la bandiera con le stelle dell'Ue, anno in cui la Croazia è diventata il ventottesimo Stato membro. Ennesima tappa. Nelle campagne intorno alla dogana, ma anche sui treni merci che arrivano da Belgrado e passano oltre, si nascondono i migranti che tentano di entrare in Europa. La Croazia non è la destinazione finale, ma solo l'ennesima tappa di un tragitto infinito, in cui i migranti sono costretti a vagare per mesi o per anni attorno al bacino del Mediterraneo, a restare bloccati a lungo, a inventare espedienti per sfuggire a pericoli attesi e trappole inaspettate. "Non sono criminali, fuggono dalla sofferenza e sono stati costretti a lasciare il loro paese perché sicuramente lì ci sono gravi rischi per la loro vita", dicono gli abitanti di Tovarnik, da poco cittadini europei, in passato rifugiati a loro volta. Dall'altro lato del confine c'è la Serbia, il punto di snodo della rotta balcanica. Da lì si passa in Ungheria e poi in Austria, oppure si va nell'altra direzione, cioè in Croazia e poi in Slovenia fino all'Italia. Se l'Ungheria, come minacciato, deciderà effettivamente di costruire un muro di 175 chilometri lungo tutto il confine con la Serbia, a quel punto il passaggio obbligato per chi fugge dalle guerre e non vuole affidarsi a un pericoloso viaggio nel Mediterraneo, sarà la Croazia. L'Unione europea si sta attrezzando per blindare il confine con un centro di transito dove trattenere e respingere chi arriva, oppure eventualmente esaminarne le richieste d'asilo politico. Rotta letale. Non si muore solo nel Canale di Sicilia. Anche chi prova a percorrere la "Balkan Route" affronta un tragitto che rischia di essere letale, in cui gli orrori del viaggio si sommano alle torture subite nei paesi d'origine. La mappa geografica non può raccontare i bimbi morti di freddo al confine turco-iraniano, le donne uccise dalla fame e dagli stenti, le persone investite dai treni mentre camminavano sui binari in Macedonia. Sono morti che nessuno vede e nessuno conta. Quella balcanica non è una via sola, è fatta di tanti percorsi che cambiano a seconda dei controlli della polizia e dei muri che si incontrano lungo il tragitto. A decidere da che strada si deve passare è il trafficante, moderno Caronte, che Imran chiama l'agente, quasi fosse un tour operator. A ventidue anni Imran l'afgano è partito da Jalalabad e ha attraversato l'Iran e la Turchia quasi interamente da oriente a occidente, passando per Teheran e Istanbul. "Ho lasciato il mio paese superando le montagne, con la polizia iraniana che ci sparava addosso - racconta- Le persone camminano per giorni, a volte mesi, per arrivare in Turchia. L'agente porta anche famiglie con bambini, camminano in gruppo con decine di persone per giorni nella jungle". Imran ha passato il confine con la Turchia nella zona di Salmas, in curdo Dilmaqan, "una montagna", dove ha camminato per 20 ore senza acqua, né cibo. "Le persone vengono arrestate - dice - e gli vengono sottratti i soldi e tutti gli averi". Lo scorso 13 maggio sei bambini e una donna, tutti afgani, sono morti per ipotermia nel tentativo di entrare in Turchia attraverso il confine iraniano, secondo quanto ha riportato l'agenzia turca Anadolu. Altri 13 migranti sono stati ricoverati, 5 di loro in gravi condizioni. Per chi sopravvive, ci sono diversi modi per raggiungere la Grecia. Ad esempio si può partire con un barcone dal confine turco di Izmir, Smirne. "Sono barche piccole su cui vengono fatte viaggiare troppe persone - continua il ragazzo afgano - in tanti muoiono in quel tratto". Lo scorso 20 aprile, in concomitanza con il naufragio con circa 900 morti nel Canale di Sicilia, tre migranti fra cui un bambino sono annegati davanti alle coste turche, 80 sono stati salvati ma si contano oltre 100 dispersi. Ci sono isole greche come Mytilene, nel nord-est del Mar Egeo su cui sono arrivate anche più di 700 persone in una settimana con imbarcazioni di fortuna. Palline da tennis. Come palline da tennis, i profughi rimbalzano all'indietro, nel campo dell'avversario. Imran però si è fermato molto prima, in Turchia per quattro mesi. In Grecia non è mai riuscito a entrare e allora ha provato l'altra strada, quella che passa per la Bulgaria. "La polizia bulgara ci ha attaccato con i cani, ci hanno messo in prigione per 2 giorni, mi hanno preso i soldi e rotto il telefono", ricorda il giovane afghano, che poi è andato in Macedonia, dove è rimasto per un mese nella jungle al confine con la Serbia, tra la neve, la pioggia e il freddo. Arresti. "Dopo che l'agente mi ha lasciato, mi ha preso la polizia serba rubandomi i soldi e il telefono - continua Imran - mi hanno respinto in Macedonia e sono entrato in Serbia di nuovo. Da lì ho raggiunto l'Ungheria, dove sono stato arrestato e rinchiuso in un centro di detenzione, senza cibo. Anche nella tappa seguente, in Austria, la polizia mi ha messo in prigione per un giorno e poi mi ha trasferito in un centro di accoglienza, che ho lasciato dopo due settimane, raggiungendo l'Italia in treno". Oggi Imran è un rifugiato accolto a Cosenza dall'associazione La Kasbah. La cosa più stupefacente del suo viaggio è che l'ha fatto per due volte. Nel 2009, a sedici anni, era arrivato in Gran Bretagna, dove le autorità per quattro anni gli hanno rifiutato l'asilo politico, l'hanno sbattuto in un centro di espulsione e deportato a Kabul. Da lì è ripartito, lasciandosi alle spalle il suo inferno. Immigrazione: pugno di ferro marocchino sulla rotta di Melilla di Tomaso Clavarino Melilla La Repubblica, 7 luglio 2015 Sul Monte Gurugu non c'è più traccia di persone. L'ultimo raid dell'esercito marocchino, un paio di mesi fa, ha colpito nel segno. Le pendici che guardano l'enclave spagnola di Melilla e l'Europa sono ora deserte, nessun migrante le abita, come era abitudine da diversi anni oramai. Migliaia di persone sono state prese, caricate su camionette militari e portate in diverse città del Marocco. Dove, e a fare cosa, non è dato saperlo. Qui dal Gurugu (come abbiamo raccontato in questo reportage del gennaio 2015) ogni settimana centinaia di migranti sub-sahariani, in fuga da guerre e povertà, partivano di corsa per provare a saltare i dodici chilometri di muro e filo spinato che dividono la piccola enclave spagnola di Melilla dal territorio marocchino. Pochi ce la facevano, la maggior parte veniva catturata dalla Guardia Civil e, in spregio a tutte le convenzioni internazionali, rimandata indietro e messa nelle mani delle forze dell'ordine marocchine, accusate da associazioni, ong e istituzioni di violenze inaudite nei confronti dei migranti. Nel 2014 circa 2.300 migranti sono riusciti a saltare il muro di Melilla, mentre più di 20.000 ci hanno provato. Numeri importanti che, sommati a quelli di Ceuta, altra enclave spagnola in territorio marocchino, fanno del regno di Mohammed VI la seconda porta d'accesso in Europa per i migranti in territorio africano, dopo ovviamente la Libia. Un paese, il Marocco, che sta cercando di fronteggiare il flusso di migranti sub-sahariani, non sempre con metodi ortodossi. Se i raid sul monte Gurugu hanno portato alla distruzione dell'accampamento, nelle altre città marocchine i raid della polizia di Rabat stanno continuando a spron battuto, alimentando numerose polemiche. È di pochi giorni fa, infatti, l'operazione di polizia messa in campo a Tangeri con l'obiettivo di sgomberare decine di edifici occupati da migranti in attesa di imbarcarsi per l'Europa. Secondo l'associazione marocchina per la difesa dei diritti umani (Gadem), le forze dell'ordine hanno usato una violenza sproporzionata, arrestando numerose persone e portandole con la forza in altre località del Marocco. Nel corso dell'operazione un migrante è morto cadendo dalla finestra di un edificio. Ufficialmente è la seconda vittima da settembre, quando un senegalese era stato ucciso nel corso di alcuni scontri tra migranti e residenti marocchini. Il clima di intolleranza nei confronti dei migranti in Marocco sta montando. Lo dicono le ong, gli attivisti, i pochi media indipendenti. I migranti sub-sahariani, cacciati dal Gurugu, si nascondono ora nelle foreste attorno a Nador, in attesa di un passaggio via mare o nel vano motore di una macchina per entrare a Melilla. Dall'inizio del 2015 sono infatti crollati i tentativi di salto del muro. L'intensificarsi delle azioni di polizia marocchine, con il tacito avallo da parte del governo spagnolo di Mariano Rajoy, ha spinto i migranti provenienti dai paesi a sud del Sahara a dirigersi verso la Libia. Negli ultimi mesi, spiega la Guardia Civil, sono invece aumentati in maniera esponenziale i migranti provenienti dalla Siria. Arrivano a piedi dall'Algeria. La maggior parte acquista documenti falsi in Marocco così da poter passare il confine e una volta arrivata in territorio spagnolo fa domanda per l'asilo. Cambiano i protagonisti, ma Ceuta e Melilla continuano a essere l'immagine della Fortezza Europea in territorio africano. Immigrazione: dal graphic novel un contributo per capire di Luca Valtorta La Repubblica, 7 luglio 2015 "Un giorno Cacciari mi ha chiesto com'è adesso la situazione in Afghanistan. Io così su due piedi non ho saputo cosa dire. Adesso gli direi Signor Sindaco, la situazione oggi in Afghanistan è un ragazzo di 13 anni morto sotto un camion a Venezia. Ecco cosa gli direi". (Hamed Mohamad Karim, Regista afghano. Rifugiato politico). Il graphic novel ha saputo trattare un tema complesso come quello della condizione di apolide con profondità e poesia. In Italia il primo autore che viene in mente è Gianluca Costantini, da sempre impegnato nella divulgazione di argomenti considerati difficili, a partire dalla trilogia politica "A cena con Gramsci", "Arrivederci Berlinguer" e il recente "Pertini tra le nuvole", tutti realizzati per Becco Giallo, editore specializzato in biografie e graphic novel legati alla politica e all'economia. Ma soprattutto Costantini, insieme ad Elettra Stambulis è tra gli organizzatori del "Festival del fumetto di realtà" Komikazen di Ravenna, un appuntamento fondamentale se non l'unico in Italia. Nell'ultima edizione sono stati ospiti Ugo Bertotti, autore del fumetto-reportage sulle donne yemenite, Il mondo di Aisha, e Hamid-Reza Vassaf, un disegnatore iraniano che è stato costretto ad abbandonare il suo paese e oggi rifugiato in Francia, dove ha realizzato "Nel Paese dei Mullah", una graphic novel sulla libertà di pensiero e sulla censura in Iran, pubblicata anche in Italia grazie a Eris edizioni. E in passato tra gli ospiti di Komikazen ci sono stati Joe Sacco, Marjane Satrapi, Aleksandar Zograf, Danijel Zezelj, e molti altri, tutti autori che hanno raccontato attraverso le tavole condizioni di vita nei rispettivi paesi tra guerra ed esilio. Joe Sacco invece è uno dei principali reporter a fumetti con volumi quali Palestina, Goražde. Area protetta, Neven. Una storia da Sarajevo, Gaza 1956 (tutti editi in Italia da Mondadori nella collana Strade Blu). Tornando in Italia e al lavoro di Costantini vale la pena di segnalare che potete trovare molte delle sue tavole sul suo bellissimo sito, "Politicalcomics. info" dove, cliccando sui vari paesi, potete vedere le storie pubblicate a riguardo. L'arco narrativo va dall'Africa al Medio Oriente fino, ovviamente all'Italia. Dove si raccontano storie come quella di Zaher Rezai, ragazzo afgano che cercava rifugio nel nostro paese e che ha perso la vita schiacciato sotto un Tir nel porto di Venezia a undici anni mentre cercava di eludere i controlli di frontiera (la potete leggere qui). Difficile trovare una storia che racconti meglio di questa il dramma dei migranti e dei minori clandestini in particolare. Se la demagogia dei Salvini fa di tutto per non permettere alla gente di cogliere la reale portate e le drammatiche sfumature dei migranti raffigurati nella retorica imperante come barbari invasori, questo impegno civile affrontato attraverso un media popolare come il fumetto può essere forse un interessante antidoto per il futuro. Droghe: il medico pro-cannabis Fabrizio Cinquini nuovamente arrestato Ansa, 7 luglio 2015 È stato di nuovo arrestato dai carabinieri di Forte dei Marmi, Fabrizio Cinquini, 52 anni, conosciuto come il medico pro-cannabis e già condannato per coltivazione di canapa. Da anni l'uomo si batte per l'uso terapeutico della cannabis. I carabinieri, secondo quanto riferito dagli stessi militari, sono intervenuti su segnalazione di alcuni cittadini ed hanno trovato una piantagione di marijuana in un campo incolto nella zona di Vittoria Apuana. Durante la notte hanno quindi fermato il medico mentre si stava recando, spiegano i carabinieri, ad annaffiare le piante. Sono state sequestrate 25 piante di marijuana, di cui 16 coltivate in vasi e le restanti nel terreno. Negli anni passati il medico di Pietrasanta è stato quasi cinque mesi in carcere, al San Giorgio di Lucca e poi all' ospedale psichiatrico di Montelupo fiorentino, dopo che i carabinieri avevano trovato nel giardino della sua abitazione 277 piante di canapa. Per la sua liberazione era stata fatto un appello anche da parte di due premiati del ‘satira Politicà al Forte. Grecia: vivere ad Atene senza denaro, così rinasce l'economia del baratto di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 7 luglio 2015 Vivere senza denaro. Ognuno prende quello che gli serve, e lascia quello che non gli serve più. Antonis Prapas, ex imprenditore, senzatetto, ieri ha fatto colazione, letto i giornali, è passato in farmacia, ha girato per Atene, fatto la spesa, pranzato, preso un libro per il nipote, bevuto il caffè, fatto un ecocardiogramma, visitato una mostra, cenato, e non ha speso un euro. Il signor Prapas non ha contribuito al Pil, che infatti è crollato; ma ha sfangato, come milioni di altri greci senza soldi, una giornata che poteva essere di panico ed è stata di orgoglio forse irresponsabile, ma di dignità certo ammirevole. Vivere senza denaro. Non in periferia o in un villaggio; in un quartiere borghese, a 3 euro di taxi da piazza Syntagma. Il quartiere si chiama Virona, che è poi la traslitterazione di Byron, un grande europeo che amava la Grecia. Il signor Prapas è tra i volontari del centro di scambio. Qui ognuno prende quello che gli serve, e lascia quello che non gli serve più. Un papà ha portato il seggiolino per auto del figlio, ormai cresciuto, e ha preso un puzzle. È possibile avere una maglietta in cambio di un cappotto, che ora non vuole nessuno ma tra sei mesi verrà utilissimo. Passano di mano ciabatte, giochi di società, bollitori, carta igienica, pelouches, scacchiere, quaderni, lenzuola e "Le avventure dei pirati della ciminiera" che Antonis regalerà al nipotino. Nella stanza accanto la signora Galia Karakatsani sta pesando polvere bianca su una bilancia. È farina, e ognuna delle 650 famiglie che si servono qui ne ha diritto a un chilo, oltre a un litro di latte, mezzo litro d'olio, cento grammi di zucchero, e inoltre patate, cipolle, cetrioli, pasta, sugo di pomodoro e un'anguria. Sono frutto della solidarietà del quartiere e doni di aziende europee. Galia ha sposato un greco ma è ucraina, e dice che la Merkel dopo aver fronteggiato Putin non può lasciar passare Atene dal campo europeo a quello russo. Il signor Prapas è l'addetto all'approvvigionamento: nella vita precedente aveva sette ristoranti, cinque nella capitale, gli altri a Samo e Zacinto. Per tenerli aperti ha ipotecato la casa, le banche gli hanno preso tutto, e ora vive nel centro per senzatetto di Karea, sulla montagna di fronte. I suoi vicini di stanza sono bengalesi. Il papà raccoglieva le fragole in Peloponneso, ma ora qui nessuno mangia più fragole, e lui ha perso il lavoro. La mamma è in ospedale per un'infezione post parto. La bambina, Nadia, è meravigliosamente bella, anche quando piange. Ha una sorella e un fratello, che stanno disegnando. I posti sono 80: quando qualcuno trova una casa da dividere con altri, entrano nuovi ospiti. Ci sono tre lavandini, tre docce, tre water, tre lavatrici e tre frigo: ognuno ha scritto il proprio nome sulla borsa di plastica, così può tenere frutta e verdura in fresco. La colazione è offerta: marmellata di fragole e biscotti. Lo Stato passa pure il pranzo, ma il signor Prapas dice che si mangia meglio alla mensa di via Sofocle. Tanto i bus e la metro sono gratis. Oggi fanno pollo con patate, e la coda è più lunga del solito: in giardino c'è posto per 600. Accanto hanno aperto il supermercato sociale, dove si fa la spesa a credito; talvolta a fine giornata passa una misteriosa signora vestita di nero e paga tutti i conti in sospeso; dicono sia la moglie di un miliardario. Il centro città mostra ancora le tracce della notte di festa. Ragazze fiere passano inalberando la bandiera greca. Passa un burlone innalzando un gigantesco cetriolo, il cui significato non sfugge. Molte caricature di Schäuble, odiatissimo. Un gruppo canta l'inno nazionale. Un altro ascolta la radio: Tspiras ha interrotto la riunione con i leader dei partiti per telefonare a Putin e alla Merkel; si vedrà chi è disposto ad aiutare la Grecia. La situazione è più grave di prima, ma l'umore va meglio; come se l'orgoglio avesse colmato il vuoto aperto dalla disperazione. Solite code ai bancomat, per chi ancora qualche soldo ce l'ha. Antonis si ferma a leggere i giornali appesi all'edicola, a un rispettoso passo di distanza. Non li compra perché non può, e perché quasi tutti si sono schierati per il Sì, tranne Avgi (Alba) e Efimerida ton Sintakton, Il giornale dei redattori, cooperativa risorta dalle ceneri di una testata chiusa. Le sigarette di contrabbando costano poco, ma Antonis non fuma. A Exarchia, il quartiere degli anarchici, stanno dipingendo nuovi murales. Alcuni sono segnati dall'ideologia, altri sono bellissimi, come i Bambini sognanti. È un'esposizione di arte contemporanea a cielo aperto. Il signor Prapas indica il volto di Alexis Grigoropoulos, un ragazzino di 15 anni ucciso qui dalla polizia, che da allora non si fa vedere. In venti hanno cacciato pure Varoufakis dal suo ristorante preferito, Yandes, accusandolo di essersi venduto al potere. Un altro murale commemora Lukakinos, Salciccia, il cane soffocato dai lacrimogeni. La sede nazionale del Pasok, il partito socialista passato dal 46 al 4,6%, ha le vetrate rotte. Spiega il portiere che hanno smesso di sostituirle perché tanto le rompevano di nuovo. Serrande tutte abbassate: nessuno spende, nessuno incassa. Nel pomeriggio Antonis ha una visita medica. L'ex base americana di Elliniko è diventata una clinica sociale, dove visitano gratis specialisti di neurologia, ortopedia, urologia, pneumologia, psichiatria. L'ha fondata Yorgos Vichas, primario di cardiologia all'ospedale San Demetrio, che con cento colleghi viene qui ogni giorno a fine turno. I tre ecografi sono dono dei tedeschi, il latte in polvere degli italiani: il dottor Vichas ha imparato la nostra lingua perché, spiega, ha mantenuto la musicalità del greco antico, che il greco moderno non ha più. Quando la visita rivela qualcosa di brutto, c'è da litigare per trovare un posto in sala operatoria: Yorgos ha cominciato a mettere on line il nome dei funzionari che rifiutano il ricovero. Tre milioni di greci sono senza copertura sanitaria, molti hanno debiti con gli ospedali e siccome se ne vergognano qualcuno si è lasciato morire. L'ecocardiogramma è andato bene, ma Antonis ha bisogno di una medicina per il cuore, il Ranexa. La può trovare nella farmacia sociale del suo quartiere, una delle 12 ad Atene che passano farmaci a disoccupati e pensionati. Alcune scatole sono già aperte, ma nessuna è scaduta. Il luogo non è triste, anche perché i pittori della zona hanno regalato i loro quadri. Il fondatore è un ex marinaio, Dimitris Souliotis, marconista che in gioventù navigò sino a Vladivostok, a Calcutta, a Seattle e pure a Piombino. Ora procura antibiotici e litiga pure lui con gli ospedali: l'altro giorno una donna albanese si è sentita chiedere 1.500 per partorire; a un'altra non volevano dare il neonato finché non pagava. Alla radio il segretario della Nato Rasmussen definisce la Grecia un anello fondamentale dell'Alleanza atlantica; l'interpretazione è che gli euro stanno per arrivare. Agli accorgimenti della società low cost, come i baratti via web, si aggiungono i comportamenti dettati dall'emergenza. Ristoranti che ieri accettavano la carta di credito oggi la rifiutano: sono soldi che finiscono in banca, e le banche restano chiuse; o contanti o niente. I quartieri più poveri verso il mare, come Perama, hanno rinunciato alla luce elettrica, e la notte diventano macchie buie tra le luci degli yacht e dei cargo cinesi. I tagli si sono rivelati, come e più che altrove, il moltiplicatore della crisi: ci si è illusi di salvare il bilancio familiare, aziendale, pubblico; invece si è ridotta la massa monetaria circolante sino a zero. Incassa solo chi lavora con gli stranieri, e subito porta tutto all'estero. La crisi condanna intere categorie alla povertà: nessuno si fa più fare un vestito o una libreria su misura, nessuno va al cinema o in vacanza, nessuno prende lezioni di inglese o di ballo; o magari fa tutto questo, ma non a pagamento. Nel giardino di Virona c'era un caffè di proprietà del Comune, che l'ha chiuso. L'hanno riaperto i ragazzi del quartiere. Acqua e caffè sono gratis. Ogni pomeriggio vengono professori universitari a tenere un corso: oggi si parla di astrofisica. Si organizzano concerti, corsi di tai-chi, spettacoli teatrali e cicli di cinema muto; ma presto anche qui ci sarà una rivolta, e si passerà a Giovannona coscialunga e all'Esorciccio. Due sere alla settimana si cena gratis. Il signor Prapas è soddisfatto perché è di turno il cuoco egiziano, il migliore. In cuore gli ateniesi portano una tristezza infinita, e anche risentimento; ma hanno sofferto troppo per dare agli stranieri la soddisfazione di farsi vedere in preda al panico. Svizzera: 20enne francese in detenzione provvisoria si è impiccato nel carcere di Losanna tio.ch, 7 luglio 2015 Il giovane francese si trovava in detenzione provvisoria per furto, ricettazione, violazione della legge sugli stupefacenti e minaccia contro le autorità. Un cittadino francese di 20 anni si è impiccato la notte scorsa nella cella che occupava nel carcere Bois-Mermet, a Losanna. Il giovane si trovava in detenzione provvisoria per furto, ricettazione, violazione della legge sugli stupefacenti e minaccia contro le autorità. Le guardie carcerarie hanno scoperto il corpo verso le 03:45 ed hanno tentato invano di rianimare il giovane, riferisce oggi la polizia cantonale. Il detenuto con il quale il ventenne divideva la cella non si è accorto di nulla. Egitto: Al Sisi avverte la stampa "vietato parlare di Stato Islamico, chiamateli terroristi" di Fabio Scuto La Repubblica, 7 luglio 2015 Di fronte a un'ondata di attacchi jihadisti senza precedenti il governo egiziano vuole adottare una nuova legge anti-terrorismo che concede l'impunità alla polizia, taglia un grado di giudizio, censura la stampa emina le libertà di espressione. Esperti e difensori dei diritti umani denunciano il testo repressivo che sta per essere promulgato questa settimana dal capo dello Stato Abdel Fattah Al Sisi. Ma ancora non basta. Il ministero degli Esteri ha fornito un decalogo ai media stranieri sui termini da usare nel descrivere i gruppi terroristi. Vietate le parole: islamisti, gruppi islamici, jihadisti, Isis, Stato islamico e fondamentalisti. Approvate invece le parole: terroristi, estremisti, criminali, selvaggi, assassini, radicali, fanatici. Nella nota il ministero deplora l'uso di termini che "offuscano l'immagine dell'Islam e attribuiscono falsamente alla fede islamica gli orrendi atti commessi dai gruppi estremisti". Dopo l'assassinio il 29giugnodel procuratore generale Hisham Barakat con un attentato spettacolare vicino al palazzo presidenziale di Heliopolis e l'attacco multiplo dei gruppi armati nel Sinai, Al Sisi aveva promesso una legislazione più severa contro il terrorismo". "Ma la stretta che impone la nuova legge", ha detto ieri un rappresentante di un'Ong, "ha il sapore della vendetta". La proposta di legge prevede una pena minima di due anni di carcere per la pubblicazione di "false informazioni sugli attacchi terroristici che contraddicono le dichiarazioni ufficiali". Il ministro della Giustizia Ahmed al-Zind ha spiegato che l'articolo è stato particolarmente motivato dalla copertura mediatica degli attacchi dei jihadisti del Sinai la scorsa settimana. Il portavoce ufficiale dell'esercito aveva riferito di 21 soldati uccisi e più di un centinaio di jihadisti uccisi nei combattimenti, ma i media egiziani e internazionali hanno pubblicato bilanci molto più pesanti, citando funzionari della sicurezza. "Il governo ha il dovere di proteggere i cittadini dalle false informazioni", ha detto alla tv egiziana il ministro Zind. La pensano diversamente i giornalisti egiziani. "In questo modo", dice Gamal Eid del sindacato, "si pubblicheranno dichiarazioni ufficiali, limitando il diritto ad acquisire informazioni da fonti diverse da quelle istituzionali". Il sito del quotidiano egiziano "M'Isbn" scrive che secondo alcuni analisti diversi articoli della legge sono "incostituzionali", violerebbero la Carta che tutela la libertà d'espressione e stabilisce che non si va in carcere per le opinioni espresse in forma orale o scritta, fatta eccezione per i "reati legati all'incitamento alla violenza o alla discriminazione tra i cittadini". La legge rimuove anche per i reati di "terrorismo" una delle due procedure di ricorso successive alla Corte di Cassazione previste dalla legge egiziana. Prevista la pena di morte per le persone colpevoli di aver creato, diretto o finanziato un'organizzazione "terroristica", e cinque anni di carcere per chi utilizza internet o social network per promuovere il "terrorismo". Iran: siglata intesa con Kurdistan iracheno per scambio detenuti Aki, 7 luglio 2015 Il governo regionale del Kurdistan iracheno ha siglato un memorandum d'intesa con le autorità iraniane per un futuro scambio di detenuti. Lo ha annunciato Ahmed Najmaddin, direttore del dipartimento Riforme del ministero Affari Sociali di Erbil, in un'intervista all'emittente curda Rudaw. "Lo scambio di prigionieri avverrà solo con il loro consenso e non sarà obbligatorio", ha affermato Najmaddin, spiegando che l'intesa sarà siglata oggi dal ministro degli Affari Sociali, Mohammad Qadir, e dal console iraniano. Najmaddin ha precisato che al momento sono rinchiusi nelle carceri del Kurdistan iracheno 159 detenuti iraniani, mentre "finora solo due famiglie curde sono venute da noi e ci hanno detto di avere parenti nelle prigioni iraniane".