Ai detenuti si chiede responsabilità, alle istituzioni si permette di non dare risposte di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 6 luglio 2015 Ancora a proposito di quello che sta succedendo nelle sezioni di Alta Sicurezza di Padova. Responsabilità: dal lat. responsus, part. pass. di respondere "rispondere". Che deve rispondere, rendere ragione o garantire delle proprie azioni o delle altrui. Che è consapevole delle conseguenze derivanti dalla propria condotta. Vivevo spesso in Russia alla fine degli anni ottanta quando Michail Gorbaciov, l'allora segretario del Partito Comunista Sovietico, introdusse nella vita pubblica la parola "GLASNOST", trasparenza, un concetto rivoluzionario per un regime che aveva sempre occultato, nascosto, oscurato la verità. Quella parola poi era diventata di moda anche nel nostro Paese, e mi è tornata in mente in questi giorni per una realtà, quella del regime del 41 bis, dei circuiti di Alta Sicurezza e delle declassificazioni, nella quale è in atto ancora un sistema di tipo sovietico, senza nessuna TRASPARENZA, e come nelle dittature dell'EST tutto è giustificato da una specie di ragion di stato, la guerra alla mafia. Se si è in guerra in molti ritengono che si possano sospendere le garanzie, si possano trattare gli uomini da nemici e magari torturare (nemmeno in guerra si può, però…), si possa mantenerli anni in regimi e circuiti poco umani, perché tanto non è necessario esibire nessuna prova della loro pericolosità. A Padova in questi mesi è stata scoperchiata la pentola dell'Alta Sicurezza, o meglio l'abbiamo scoperchiata, e forse per la prima volta in questi anni il meccanismo perfetto della deresponsabilizzazione delle istituzioni, che mantengono in vita questi circuiti sempre uguali a se stessi, si è inceppato. E ne è emersa una specie di pentola a pressione che sta rovesciando fuori una realtà ribollente di materia esplosiva: persone che stanno in questi circuiti da decenni; declassificazioni negate sulla base di motivazioni letteralmente fotocopiate di anno in anno, senza neanche lo sforzo di cambiare qualcosa; trasferimenti continui e continue chiusure e aperture di sezioni dove il sospetto è che si voglia alimentare un sistema inutile e costoso, invece di puntare a rapide e puntuali declassificazioni; sezioni dove quello che viene garantito è il nulla, la continuità del nulla. Ora a che punto siamo in questa battaglia per la trasparenza nella gestione dei circuiti di AS, ma anche per il riconoscimento della dignità delle persone rinchiuse lì dentro? A Padova la situazione è questa: trasferimenti bloccati da inizio aprile, alcune declassificazioni concesse, altre negate, prime partenze, ora una specie di stallo con ogni giorno voci diverse e ansie per i detenuti: "Domani partite, no ancora non partite, sì forse sì". In compenso, la trasparenza fa passi indietro significativi: al detenuto viene comunicato all'ultimo momento il trasferimento, non gli viene consegnato o comunicato il rigetto della declassificazione, quindi non è neppure in grado di fare da Padova, a una magistratura di Sorveglianza che conosce lui e il suo percorso, il ricorso contro il provvedimento. Nel frattempo mi arriva dalla Segreteria del Ministro Orlando l'invito a far parte del Tavolo numero 2 degli Stati Generali, "Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti e sicurezza", leggo la convocazione e faccio un salto per un piccolo aggettivo, il testo parla infatti di "fluida possibilità di declassificazione". Fluido, che in senso figurato significa, dice il vocabolario, "facile, naturale, sciolto, scorrevole". Speriamo, speriamo davvero che diventi "fluido" qualcosa che per ora è lento, anzi immobile, macchinoso, oscuro. Ma intanto, che ne sarà di Giovanni Donatiello, a cui è stata negata la declassificazione dopo 29 anni di galera? E di Giuseppe Zagari, anche lui trasferito nonostante avesse iniziato un serio percorso di responsabilizzazione rispetto al suo passato? E delle persone detenute che stanno aspettando a Padova una "fluida declassificazione" e nel frattempo temono di perdere tutto, dove TUTTO significa quel poco che sono riuscite finalmente a trovare, lo studio, la redazione di Ristretti Orizzonti, l'Università, per alcuni dell'AS3 il lavoro, un percorso che dovrebbe essere garantito a tutti, e invece lo è abbastanza a Padova, non lo è per niente, per esempio, a Parma, dove già alcuni sono stati trasferiti? Noi speriamo che avvenga finalmente un atto di Giustizia, e le persone detenute che sono impegnate in un percorso di reinserimento che non troverebbero in altre carceri, dove le sezioni AS1 sono spesso "desertificate", vengano declassificate e restino a Padova, e ci tornino quelle mandate via frettolosamente sulla base di relazioni "segrete" che hanno spesso l'unico scopo di restare appunto segrete ("non ostensibili", come i giudici chiamano questa segretezza in fondo così comoda) per non permettere ai "cattivi per sempre" di difendersene. La nostra proposta è allora di provare a dar vita a un Osservatorio, su modello di quello sui suicidi: per vigilare sulla permanenza nei circuiti di Alta Sicurezza; per monitorare la concessione delle declassificazioni, che dovrebbe essere, appunto, "fluida" e non vincolata a relazioni sulla pericolosità sociale, che risultano spesso stereotipate, con formule sempre uguali e nessuna possibilità, per la persona detenuta, di difendersi da accuse generiche e spesso prive di qualsiasi riscontro. Nessuno sottovaluta il problema della criminalità organizzata nel nostro Paese, e il ruolo delle Direzioni Antimafia, ma qui parliamo di persone in carcere da decenni, già declassificate dal 41 bis perché "non hanno più collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza", e parliamo di trasferirle da un circuito di Alta Sicurezza a uno di Media Sicurezza, non di rimetterle in libertà; per cominciare a mettere in discussione, finalmente, il regime del 41 bis con tutta la sua carica di disumanità; per rendere tutto il sistema dei circuiti di Alta Sicurezza e del regime del 41bis davvero TRASPARENTE. "Carcere, cittadinanza attiva e inclusione sociale": un progetto di confronto tra carcere e società Il Mattino di Padova, 6 luglio 2015 Il progetto "Carcere, cittadinanza attiva e inclusione sociale" realizzato con il contributo della Regione Veneto e promosso dall'Associazione Fratelli dell'Uomo Onlus in partenariato con Granello di Senape Padova Onlus, Ministero della Giustizia, Associazione Psicologo di strada, Camera di Commercio Padova, Confcooperative Veneto, Associazione NATs per…Onlus, è stato una scommessa perché si è dato l'ambizioso obiettivo di interloquire con il mondo del carcere, con le istituzioni e con le imprese per creare un ponte tra queste realtà mediante l'articolazione del tema della partecipazione costruttiva. Si sono realizzate molteplici iniziative: un corso di formazione presso la Casa di Reclusione di Padova per parlare di cittadinanza attiva, solidarietà, diritti, lavoro e cooperazione attraverso l'incontro con ospiti, l'esperienza concreta di cittadinanza attiva nella giornata del Social Day, la visita ad alcune cooperative; i Workshop "Usa le idee, valorizza le risorse e ottimizza il tuo denaro: modelli di responsabilità sociale d'impresa e inclusione sociale" presso la Camera di Commercio di Padova per affrontare, assieme alle aziende, i temi dell'inclusione lavorativa e sociale dei soggetti detenuti e della Responsabilità sociale di Impresa. Il 17 Giugno, si è realizzato un convegno dal titolo "Percorsi di responsabilità sociale tra il carcere e le imprese L'esempio del progetto Carcere, cittadinanza attiva e inclusione sociale" per rendere partecipe la cittadinanza di queste tematiche che molto spesso sono taciute. Per Fratelli dell'Uomo questo progetto ha significato mettere piede in carcere, entrare in contatto con le storie dei detenuti e misurarsi con l'impatto emotivo che queste suscitano comprendendo che parlare di cittadinanza e partecipazione e mostrare delle buone pratiche possibili è anche una necessità; ha permesso di rafforzare la relazione con le aziende e sensibilizzarle su come mettere in atto una buona economia solidale; è stato anche l'occasione per concretizzare una mission statutaria: confrontarsi con il fenomeno dell'esclusione sociale aiutando a far comprendere la complessità dei fenomeni politici, sociali e culturali che ruotano attorno alla tematica del reinserimento lavorativo e sociale di soggetti deboli quali i detenuti e di orientare i comportamenti personali, specificatamente delle imprese, verso scelte di vita e d'impresa consapevoli. Ass. Fratelli dell'Uomo Onlus Il contributo della Camera di Commercio al progetto L'attenzione della Camera di Commercio di Padova e del sistema camerale al mondo del carcere ha radici lontane. Già nel 2004 venne firmato un protocollo d'intesa tra Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e Unioncamere nazionale. La Camera di Padova è stata una delle più attive a livello nazionale nel realizzare progetti e iniziative perché quanto stabilito nel protocollo divenisse realtà: favorire la realizzazione di laboratori all'interno degli istituti di pena, come pure diffondere tra le imprese la conoscenza degli sgravi e delle opportunità nell'offrire un tirocinio o un lavoro ad un carcerato. Ricordiamo il sostegno finanziario al progetto di realizzare il laboratorio di pasticceria nel carcere "Due palazzi", riconosciuto un'eccellenza anche a livello internazionale. L'aspetto positivo di queste esperienze, come pure del progetto "Carcere cittadinanza attiva e inclusione sociale", è il considerare il lavoro come strumento educativo, e i carcerati come risorsa. Nell'ambito del progetto la Camera di Commercio ha collaborato all'organizzazione di una giornata di presentazione della Camera di Commercio, dei suoi servizi e dell'economia locale in carcere, riscuotendo molto interesse tra gli operatori e i detenuti, un "Job day", in cui alcuni carcerati hanno potuto vedere da vicino che cos'è e che cosa fa la Camera di Commercio e, soprattutto, ha ospitato gli incontri con le aziende. I risultati del progetto per noi sono molto positivi, e sono una base per costruire nuovi percorsi e relazioni perché l'economia sia inclusiva, offrendo opportunità di inserimento e crescita anche a chi esce dall'esperienza del carcere. Il ruolo dell'associazione Granello di Senape Padova Onlus nel progetto È sicuramente difficile parlare oggi di lavoro in carcere e di possibilità lavorative per le persone che hanno commesso reati. Oggi lavoro non ce n'è, o, perlomeno, le persone che un lavoro lo cercano in molti casi non riescono a trovarlo e non è raro, quando si parla di progetti specifici per i detenuti, sentir dire "Dopo che hanno spacciato, rapinato, fatto quello che hanno voluto, oggi dobbiamo trovargli pure un lavoro! Anche mio figlio è senza lavoro e ha sempre rispettato la legge, perché non lo trovate a lui un lavoro che ha anche una famiglia da mantenere?". L'ass. Granello di Senape Padova Onlus ha sempre ritenuto fondamentale creare dei ponti di comunicazione tra chi sta dentro in carcere e la società esterna, perché il confronto tra realtà apparentemente lontane è fondamentale per diminuire le distanze e abbattere le barriere. Lo fa attraverso la rivista Ristretti Orizzonti, o con il progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere" che ogni anno coinvolge migliaia di giovani studenti delle scuole di Padova, e moltissimo viene fatto anche attraverso i vari seminari e convegni organizzati all'interno della Casa di Reclusione di Padova, che coinvolgono centinaia di persone non detenute. Uno degli obiettivi del progetto "Carcere, Cittadinanza attiva e inclusione sociale" è proprio quello di creare un canale di comunicazione a flusso continuo tra il mondo del carcere e il mondo delle imprese, cercando di far vedere che dietro ai reati ci sono delle persone, individui che hanno sbagliato, che hanno prodotto danni e sofferenze, ma pur sempre persone, che probabilmente se vivessero in un contesto diverso da quello in cui erano, non tornerebbero più in carcere e, anzi, potrebbero risultare risorse importanti per la società. Ecco perché, oltre a informare le imprese sulla legislazione in vigore, sui vantaggi e sulla burocrazia da affrontare quando si sceglie di lavorare con il carcere, è molto importante far conoscere le persone che stanno dietro quelle sbarre, le storie che ora sono chiuse in quelle celle, cercando di scardinare pensieri legati spesso all'ignoranza e a stereotipi ormai vecchi. Com'è altrettanto importante stimolare nella persona detenuta un confronto basato sulla cultura della legalità, soffermandosi anche sulle difficoltà legate al lavoro e al mondo del lavoro. L'augurio è di riuscire a coinvolgere sempre di più la società in questo percorso, aumentando le opportunità di dialogo tra chi sta dentro e chi sta fuori. La testimonianza di Stefano, detenuto: "Dal lavoro dentro al vero lavoro fuori" La mia esperienza lavorativa all'interno del carcere nasce quasi per caso cinque anni fa, con un corso per bibliotecari organizzato dalla Cooperativa AltraCittà che gestisce le biblioteche degli istituti di pena di Padova, corso che alla fine mi ha portato a lavorare come bibliotecario nella Casa di Reclusione. Da quel giorno ho continuato ad acquisire competenze che mi hanno dato la possibilità di effettuare lavori di catalogazione per conto della Cooperativa e migliorare continuamente in quello che, nel frattempo, ho scoperto essere non solo un lavoro ma principalmente una passione che non sapevo di possedere. Tutto ciò, e con la giusta gradualità, mi ha offerto una reale possibilità di cambiamento e di reinserimento che solamente un vero lavoro può darti. Con il sostegno continuo della Cooperativa, oggi sono un socio lavoratore dipendente che esce quotidianamente dal carcere e che svolge il proprio lavoro presso l'Archivio Generale del Comune di Padova e presso alcune biblioteche scolastiche e non della città. Questa è la cronistoria, ma quello che in realtà voglio sottolineare è come i percorsi costruiti con il tempo e con una vera volontà di progettare un futuro dopo la pena detentiva si possono creare con la giusta sinergia di volontà, opportunità, competenze e supporto morale e materiale. Le competenze si possono acquisire e sviluppare all'interno del carcere, ma per trasformarle in vere opportunità di lavoro all'esterno ci sono ancora degli ostacoli difficili da superare se si è da soli. Sono consapevole di essere fortunato, ma se il mondo delle imprese locali, stimolato, come ha fatto il progetto "Carcere, cittadinanza attiva e inclusione sociale", può offrire possibilità di lavoro ai detenuti, allora la "fortuna" può essere di molti e non più di pochi privilegiati. Giustizia: l'Onu approva le nuove regole per il trattamento dei detenuti di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 6 luglio 2015 Tortura. Ferma al Senato la legge per introdurre il reato in Italia. Non si può definire entusiasmante il dibattito parlamentare sulla proposta di legge diretta a introdurre il crimine di tortura nel nostro codice penale. Un paio di metafore sportive aiutano a capire cosa sta succedendo. La discussione ricorda qualcosa che è a metà tra una gara di velocità nel ciclismo su pista quando entrambi gli atleti iniziano un noioso "surplace" fermandosi sul posto in attesa che l'altro faccia la prima mossa e la partita di calcio Svezia Portogallo under 21 di qualche giorno fa quando le due nazionali hanno messo in pratica il più classico dei biscotti facendo melina a centrocampo, accordandosi per un pareggio e così eliminando l'Italia. In Senato vi è la più classica fase di stallo. Una cosa emerge chiara dalla lettura degli atti parlamentari: a Palazzo Madama hanno deciso di modificare il testo approvato alla Camera lo scorso aprile ritenuto troppo "punitivo" nei confronti delle forze dell'ordine. Chi è intervenuto si è detto sensibile alle pressioni giunte dalle forze dell'ordine. Sono stati presentati emendamenti diretti a rendere il testo ancora più generico di quello che già era. Va detto che la commissione Giustizia del Senato ha sentito in audizione informale tutti i capi delle forze di polizia, compreso il capo dell'amministrazione penitenziaria, ma nessuno di quegli accademici o di quelle organizzazioni non governative che da trent'anni si occupano del tema. In Italia la tortura non può ancora essere chiamata per legge tortura. La parola tortura invece compare ben otto volte nelle Mandela Rules, senza che i redattori delle stesse temessero le reazioni delle forze di polizia in giro per il mondo, e ce ne sono di tremende. Lo scorso 21 maggio nel ricordo della prigionia di Nelson Mandela, la Commissione Onu sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale ha approvato le nuove regole per il trattamento dei detenuti su scala universale. Spetta ora all'Assemblea generale dell'Onu ratificarle, si spera entro la prossima sessione. Le Regole seppur non vincolanti per gli Stati costituiscono un punto di riferimento normativo per elevare gli standard di vita nelle carceri in giro per i continenti, pur sapendo che non è facile conciliare culture sociali, religiose e penali molto diverse tra loro. Come anticipato nel testo la parola "tortura" compare ben otto volte, nella consapevolezza che solo attraverso la prevenzione e la formazione, la qualificazione e la gratificazione dello staff penitenziario la tortura potrà essere del tutto debellata. Ovviamente l'approvazione delle Mandela Rules costituisce un passo in avanti importante anche per l'Italia che con gli Stati generali sulla pena promossi dal Ministero della Giustizia sta sperimentando modalità innovative a ampie di partecipazione ai processi di riforma. Nel commentare l'approvazione delle regole Onu, l'American Civil Liberties Union, ovvero la più importante organizzazione per i diritti umani negli Usa, ha usato la parola "vittoria". In particolare riferendosi alle disposizioni che limitano l'isolamento disciplinare. La pratica dell'isolamento, quando è prolungato nel tempo e privo di ogni forma di controllo medico o giurisdizionale, confina con la tortura. Sono previsti limiti temporali e di contenuto alla misura. L'isolamento provoca desocializzazione, instabilità emotiva, danni psichici. Il suggerimento è utile anche per il legislatore italiano visto che in questi giorni alla Camera è in discussione la legge delega per la riforma dell'ordinamento penitenziario. Tutte le misure disciplinari, isolamento compreso, devono essere supervisionate da un giudice, non devono interrompere i rapporti con l'esterno, devono essere extrema ratio. Prima di isolare una persona provocandogli un danno irreversibile va intrapresa ogni via alternativa per risolvere il conflitto insorto tra chi custodisce e chi è custodito. Vanno sperimentate anche in carcere pratiche di mediazione sociale. Si dà atto, nelle Mandela Rules, che il sistema disciplinare nelle prigioni spesso è fonte di ulteriori sofferenze arbitrariamente imposte. Dunque così come un Giano bifronte, l'Italia che ha avuto un ruolo importante nell'elaborazione delle nuove Regole penitenziarie Onu, non riesce a fare un passo in avanti nel definire "tortura" ciò che il diritto internazionale chiama senza patemi d'animo "torture". Speriamo che in Senato si superi il "surplace" ma che soprattutto non si prepari il biscotto. Giustizia: Violante (Pd); sull'antimafia tante speculazioni, anche i pentiti ne approfittano di Gigi Di Fiore Il Mattino, 6 luglio 2015 Da presidente della commissione parlamentare antimafia, Luciano Violante fu nel 1993 l'autore della prima relazione sulla camorra. Professore Violante, ha letto delle indagini sui Casalesi che coinvolgono anche Lorenzo Diana? "Solo quello che è stato pubblicato dai giornali. Mi stupisce molto, ma aspetto di capire meglio". Cosa pensa di Diana? "Per quello che ho conosciuto e so di lui, è una persona stimabile e impegnata". Ricorda perché, dopo tre legislature parlamentari, il Pd non volle ricandidarlo? "Non ne conosco i motivi. Non so davvero perché il Pd non volle ricandidarlo. Posso solo dire che, oggi, resto stupito delle notizie sull'inchiesta che lo riguardano". Sotto i riflettori, di nuovo un'ipotesi di accusa di concorso esterno in associazione camorristico-mafiosa. "Un'ipotesi ormai parte di tanti fascicoli giudiziari. Si applica ad un soggetto che, pur non appartenendo ad un'organizzazione mafiosa, ne favorisce gli interessi attraverso qualche suo comportamento". Pensa sia applicabile alle vicende contestate a Lorenzo Diana? "Davvero non ne ho idea, non conoscendo gli atti dell'inchiesta. Non so quale possa essere stato il contributo di Diana all'organizzazione dei Casalesi al centro delle contestazioni che lo riguardano. Né so se questo contributo c'è davvero stato". Ricorda la sua polemica nel 1995 con l'allora procuratore Agostino Cordova, sui ritardi nell'esecuzione delle ordinanze cautelari dell'inchiesta Spartacus? "Ricordo che ci fu una polemica abbastanza viva, che venne seguita da molti giornali. C'erano voci diffuse sulle richieste cautelari, ma le richieste non arrivavano e gli interessati fuggivano; segnalai l'anomalia provocando la reazione del procuratore Cordova". Secondo qualcuno, come il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, dopo il pentimento del boss Antonio Iovine quell'organizzazione dei Casalesi è smantellata. È d'accordo? "Stimo molto la competenza del procuratore Roberti. Le sue valutazioni meritano molto credito. Ma bisogna comunque stare in guardia". Si riferisce alla capacità di rigenerazione che mostrano di continuo le organizzazioni criminali? "Sì, anche nella mafia come nella ‘ndrangheta, si è registrata una capacità di ricostruzione di quadri dirigenti davvero straordinaria". Non basta smantellare i clan? "Non è azione sufficiente. Lo smantellamento è azione affidata alla polizia e alla magistratura, poi bisogna eliminare le strutture malate, che favoriscono la ricostruzione dei gruppi dirigenti criminali. Mi riferisco alle condizioni sociali, economiche, politiche che, se non vengono mutate, costituiranno sempre l'humus delle organizzazioni criminali seppure con volti e nomi nuovi". I collaboratori di giustizia restano sempre lo strumento investigativo principale nelle inchiesta di mafia e camorra? "Lo erano più nel passato. Ora esistono tecnologie avanzate, che consentono metodi sofisticati d'investigazione. Certo, però, le dichiarazioni dei collaboratori possono essere elementi d'avvio investigativo ancora determinanti. Naturalmente, lo dimostra anche l'attuale inchiesta della Dda di Napoli, vanno valutate con grande professionalità e consapevolezza dei rischi". La gestione dei pentiti ha bisogno di sempre maggiore professionalità dei magistrati? "Ormai si tratta di professionalità pienamente acquisite. Ma siamo di fronte ad una generazione di collaboratori particolarmente scaltra e quindi cosciente di ciò che interessa ai magistrati e ai mezzi di comunicazione. Si fanno pertanto selettivi nelle cose da dire. Sanno che, ad esempio, senza il nome di una personalità politica, l'inchiesta potrebbe avere minore attenzione dei mezzi d'informazione". Questo cosa significa? "Era un esempio, ma voglio dire che occorre sempre maggiore attenzione nelle verifiche delle dichiarazioni e negli approfondimenti". Con la vicenda Diana, come altre in passato, pensa che l'antimafia subisca gravi danni di credibilità? "No. Alcune forze politiche hanno sempre visto con fastidio l'impegno civile e politico contro la mafia e quindi speculano quando qualcuno che faceva parte di quel mondo viene colpito da sospetti di collusione. Ma la lotta contro la mafia deve costituire una priorità per tutti e non deve dividere le forze politiche. Lo dico anche per segnalare che l'antimafia deve essere condotta senza faziosità, per coinvolgere il più ampio schieramento di forze politiche e sociali". Spostiamoci su una diversa vicenda campana: cosa pensa degli sviluppi del caso De Luca? "Credo che, dall'esterno, la Campania rischia di apparire come un laboratorio di instabilità politica. Le vicende De Luca e De Magistris lo confermano. In Campania sono esplose in pieno le contraddizioni non della legge Severino, ma dei decreti attuativi". Sulla Severino, chi è venuto meno? "La magistratura ha cercato di colmare alcune gravi falle normative. Ora la politica deve intervenire senza attendere le sentenze. Ci vuole coraggio, andando oltre un certo populismo selvaggio". Coraggio a modificare la Severino? "Ad intervenire su conflitti normativi evidenti". È vero che De Luca le ha proposto un posto nella sua giunta? "No. E comunque chi amministra una regione così grande e complessa come la Campania deve conoscerne territorio, storie e problemi". Giustizia: magistrati e imprese, il vicepresidente del Csm Legnini apre una breccia di Dino Martirano Corriere della Sera, 6 luglio 2015 Casi Ilva e Fincantieri, le parole del vicepresidente Csm sulla necessità di tener conto degli effetti delle sentenze. Violante: giusto, riguarda anche la Consulta. Sabelli: ma non può esser l'economia a dettare regole alle toghe. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura ha aperto una breccia per tentare di consolidare quella leale collaborazione tra poteri che - anche nel campo del contemperamento tra diritto alla salute e diritto all'impresa - necessità di meccanismi meno sclerotizzati tra politica e magistratura. Giovanni Legnini, nel suo intervento sul Corriere della Sera di ieri, ha "rilanciato la palla" a proposito del rapporto tra decisioni dei giudici e vita delle imprese, partendo dai sequestri ordinati dai giudici a Taranto (Ilva) e a Monfalcone (Fincantieri) e dal successivo decreto del governo che ha sbloccato le aree industriali. Se l'esecutivo fa bene a "porre rimedio a un incompleto e difettoso quadro normativo", argomenta Legnini, il magistrato "deve saper cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie; il loro impatto sull'economia e sulla società non può più essere considerato un tabù". Nel solco di questa breccia aperta da Legnini ci si ritrova l'ex presidente della Camera Luciano Violante (che in passato ha indossato la toga da magistrato): "Legnini tocca in modo responsabile e competente il tema molto attuale delle conseguenze delle decisioni dei giudici" che non riguarda solo la magistratura ordinaria ma "anche, ad esempio, le sentenze della Corte costituzionale". E anche ragionando sull'intervento della Consulta sulle pensioni, Violante aggiunge: "Una volta che le magistrature hanno acquisito una funzione di intervento assai profondo nella vita economica e sociale è inevitabile interrogarsi anche sulla valutazione delle conseguenze delle decisioni dei giudici. Che naturalmente devono compiersi nell'esercizio dei poteri discrezionali riconosciuti dalla legge". Questa spalancata da Legnini è una porta già "forzata" in qualche modo dall'Associazione nazionale magistrati e dal suo presidente Rodolfo Sabelli che da tempo ha voluto dedicare il prossimo congresso di Bari dell'Anm a questo tema: "Sono d'accordo con il vice presidente Legnini quando mette in guardia dal creare un conflitto giudici- economia o quando parla di un declino della legislazione, a cui aggiungerei anche l'inadeguatezza della autorità amministrative". Tuttavia, aggiunge Sabelli, "quando si parla di "magistrati in sintonia con le aspettative dell'Italia" bisogna scongiurare gli equivoci: ovvero queste aspettative non possono che essere calate nella Costituzione e nella legge ordinaria", Insomma, conclude Sabelli, "non si può immaginare che sia l'economia a dettare le sue regole all'azione giudiziaria". Dal suo punto di vista, quello del legislatore ma anche del magistrato fuori ruolo, la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, osserva: "Il giudice applica al caso concreto la legge fatta dal Parlamento e non si può chiedergli di modulare una sentenza in considerazione dell'impatto economico. Semmai, la valutazione degli interessi in gioco spetta al legislatore che, a monte, deve fare scelte chiare e politicamente responsabili per fornire al giudice gli strumenti normativi più idonei per risolvere i conflitti". Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, pure lui magistrato fuori ruolo, concorda: "L'opera di bilanciamento tra valori primari spetta in primo luogo al legislatore. Ciò non toglie che il magistrato debba considerare gli effetti dei propri provvedimenti". Giustizia: imprese & legalità; aziende e toghe tra dissidi, alibi e buone ragioni di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2015 Con un decreto legge varato venerdì scorso e subito pubblicato in "Gazzetta Ufficiale" per l'immediata entrata in vigore (è il Dl 92 del 4 luglio), il governo ha cercato di mediare su diverse situazioni di contrasto tra magistratura e impresa, ovvero l'Ilva di Taranto e Fincantieri a Monfalcone. Intanto è stato appena riaperto al traffico il tratto della A3 Salerno-Reggio Calabria, chiuso il 2 marzo dalla Procura di Castrovillari, che indaga su un altro incidente costato la vita a un operaio rumeno di 25 anni, precipitato dal viadotto che stava demolendo. Ordinaria amministrazione, casi in cui l'azione della magistratura potrebbe al massimo essere criticata per tempistica e qualità, ma è obbligata da fatti di sicura gravità. L'episodio che ha però rilanciato più di ogni altro gli attriti tra imprese e giudici è quello scoppiato a Monfalcone, con il sequestro di alcune aree di stoccaggio di residui di lavorazione della Fincantieri. Un braccio di ferro di tipo burocratico, incentrato sulle norme sullo smaltimento di scarti non pericolosi. Nessun morto sul lavoro, niente spargimenti di amianto, niente diossina per aria né furtivi sversamenti notturni a devastare l'ambiente. Eppure la durezza del sequestro ottenuto dalla Procura ha spinto Fincantieri a lasciare a casa 4.500 addetti tra dipendenti e indotto. Il rapporto imprese-magistratura è strategico, delicato, da non dare in pasto alle tifoserie da talk show, tanto più ringhianti quanto meno informate. Né va ridotto agli esiti che le parti spuntano sul terreno processuale, perché se una Procura imposta male un processo e lo fa morire, ciò non resuscita chi ha respirato una vita fibre di Eternit; e non è che l'Iri o i Riva non abbiano fatto scempio per decenni dell'ambiente di lavoro e dell'aria circostante alla più importante acciaieria italiana. Bene che sia caduta l'ipotesi di corruzione per il commissario governativo che ha bonificato il sito dell'ex Sisal di Pioltello (Milano), ma resta che la fabbrica chimica ha lasciato in eredità ai cittadini ben tre discariche abusive di prodotti nocivi, tanto da procurare all'Italia una procedura d'infrazione Ue. Non c'è dubbio, insomma, che gli anni dei produttori "allegri" e irresponsabili ci siano stati e sono stati lunghi anni in cui colpe non ne aveva nessuno, in cui c'era chi ingrassava al contempo i paradisi fiscali e gli smaltitori della camorra. Gli anni in cui la ‘ndrangheta si metteva comoda in Lombardia. Le Procure hanno questo, negli occhi, perché questo affiora dalle loro carte. Ma, allo stesso modo, non c'è dubbio che tanti magistrati interpretino il loro ruolo irresponsabile per legge, aggiungendovi dosi di irresponsabilità da incompetenza, da superficialità e autoreferenzialità, ritenendo con grande superbia di non doversi curare degli esiti delle opzioni scelte tra quelle offerte dai codici e a loro volta applicabili con gradazioni differenti. Ed è comunque insensato sovraccaricare un'ipotesi di accusa per darsi più tempo e più penetranti strumenti di indagini, lo è quanto non archiviare un fascicolo per anni, massacrando reputazioni e mantenendo persone e aziende nel limbo dell'incertezza. Non è lecito - dati i bisturi affilati che si maneggiano negli uffici giudiziari - ignorare i concetti basilari di un'intrapresa, non per giustificare ogni nefandezza o errore, ma per essere in condizione di comprendere a fondo la materia che si maneggia. Studiare per capire la realtà in cui si interviene, seguirne l'evoluzione a volte fulminea dentro il mercato, interrogarsi sulla proporzione tra il sequestro di un'area di rottami dall'incerta destinazione e la consegna di una commessa da quasi due miliardi, senza ritardi: questo è lecito chiedere alle toghe ed è anzi necessario che le stesse toghe si interroghino al riparo del potente (e necessario) scudo della loro autodeterminazione. Anche disciplinare. Da entrambe le parti esistono ragioni fondate e alibi imbarazzanti. Serve un'approfondita e possibilmente condivisa revisione di compiti, responsabilità e prerogative da gestire - facendo impresa o amministrando la giustizia - con onestà e saggezza. Giustizia: la class action finora è un flop, ma le imprese sono preoccupate di Barbara Cataldi Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2015 La nuova norma potrebbe essere più efficace. Però al Senato le lobby cercheranno di fermarla. Se in tasca non avete almeno 250.000 euro, oggi la class action ve la dovete proprio scordare. Per la prima fase istruttoria di una causa civile di questa categoria ci vogliono almeno 25.000 euro; aggiungete una maggiorazione del 300 per cento prevista per le azioni di classe; sommate circa 15.000 euro di spese generali (da decreto ministeriale sono il 15 per cento del compenso totale) e arrivate a poco più di 116.000 euro. A questo punto raddoppiate, perché dovete ancora mettere in preventivo eventuali perizie, oltre alle spese che, in caso di dichiarazione di ammissibilità da parte del giudice, sarete chiamati a pagare per la pubblicazione della notizia su tv e giornali. Parliamo di cifre da anticipare nel corso del procedimento e che molto raramente tornano nelle mani di chi le ha investite, vista la bassissima percentuale di cause che ottengono sentenze favorevoli: a oggi appena 2 su 100. Dal momento che la legge in vigore ammette solo il risarcimento del danno subito dai consumatori per pratiche commerciali scorrette, prodotti difettosi o pericolosi e inadempimento contrattuale, gli importi che dovrebbero essere rimborsati dalle aziende in torto sono generalmente molto bassi. Troppo bassi per giustificare l'enorme spesa che serve per trascinarle in tribunale. Anche quando si è in tanti. Gli unici due casi in cui un giudice ha emesso una sentenza a favore del risarcimento: nel 2014 contro Intesa San Paolo è stato ordinato di liquidare dai 100 ai 200 euro a 6 correntisti; e nel 2013 contro l'agenzia di viaggio Wecantour di Castelnuovo Cilento è stato stabilità una liquidazione dei danni di 3.600 euro per 130 turisti, mai pagata perché l'azienda era già fallita. Non stupisce, allora, che l'unico modo per affrontare simili avventure giudiziarie sia quello di rivolgersi a un'associazione di consumatori, che si faccia carico delle spese legali e dei rischi economici. Ma anche questa scelta può non bastare: perché la disponibilità di 250.000 euro e la possibilità di affrontare un eventuale ricorso in appello sono un deterrente velenoso per tutti. Proprio per questo dal 1 gennaio 2010, giorno in cui è entrata in vigore l'attuale norma sulla class action, sono state annunciate tantissime azioni di classe, ma di fatto ne sono state presentate in tribunale solo 100. Almeno stando ai numeri dell'unica banca dati esistente, quella dell'Osservatorio Antitrust, creato presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Trento. "Per favorire l'adesione degli utenti", spiega Luigi Gabriele di Codici, "noi come le altre associazioni dei consumatori, forniamo assistenza legale alla cifra simbolica di un euro, o al massimo chiedendo 100 euro per l'iscrizione annuale. Quando, però, siamo di fronte ai principi del foro, assoldati dalle grandi aziende, non possiamo combattere ad armi pari. Anche perché nel caso dell'azione di classe la legge prevede che si applichino sempre i massimi tabellari". Se davvero sogniamo di far decollare la class action stile "Erin Brockowich" anche da noi, la strada da prendere è un'altra. Assomiglia più a quella che si intravede nel disegno di legge approvato ai primi di giugno, all'unanimità, alla Camera. Il testo, che ha come primo firmatario il deputato M5S Alfonso Bonafede, e contro cui si è già sollevata Confindustria, ha tre leve economiche fondamentali: introduce la possibilità di intraprendere un'azione contro imprese o "enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, per fatti cagionati durante la loro attività", aprendo di fatto alla possibilità del risarcimento milionario per danni provocati alla salute di intere comunità, come nel caso dell'Ilva di Taranto. Modifica il sistema di pagamento degli avvocati, inserendo un articolo che stabilisce la percentuale che la controparte deve ai legali, oltre al danno da risarcire; ed elimina la spesa per la pubblicazione sui media della notizia, prevedendo l'obbligo di pubblicarla sul sito del ministero della Giustizia, e istituendo un database ufficiale così come ha chiesto dalla Commissione europea. "Ci sono 3 elementi fondamentali in questa norma", rivendica Bonafede. "Aumenta la tutela dei cittadini, incentiva le imprese a lavorare bene e diminuisce il numero delle cause, dal momento che non si potranno più avviare azioni collettive uguali a quelle già incardinate, come accade ora", conclude. E soprattutto si avranno 6 mesi di tempo per aderire all'azione collettiva anche dopo la sentenza del giudice che ha stabilito la responsabilità dell'azienda. Un bel passo avanti rispetto alla norma attuale. Speriamo che il nuovo testo non si perda nel porto delle nebbie del Senato e approdi al voto, prima delle vacanze. Giustizia: politici sotto attacco, arriva reato di "attentato contro gli amministratori locali" di Diodato Pirone Il Messaggero, 6 luglio 2015 Amministratori locali sotto attacco, soprattutto nel Mezzogiorno. L'asticella si è andata via via alzando: violenze, intimidazioni, minacce, fino ad arrivare all'omicidio. Negli ultimi anni ci sono stati 130 assassinii politici, 70 casi di dimissioni, più di 80 decreti di scioglimento dei Consigli comunali. Per contrastare un fenomeno in crescita il Pd si è mosso in Parlamento con due proposte di legge che vedono come primi firmatari Romina Mura e Francesco Sanna. Le due iniziative legislative modificano il codice penale, il codice di rito ed il testo unico sulle elezioni locali, introducendo il reato di attentato contro gli amministratori locali, di violenza contro i candidati alle elezioni, un'aggravante specifica e l'arresto in flagranza. Un intervento legislativo che i due parlamentari dem considerano urgente "per garantire il libero dispiegarsi del gioco democratico nei comuni, ponendo un argine ad un fenomeno che colpisce soprattutto il Mezzogiorno". E non è un caso che i due deputati siano sardi: tra le Regioni maggiormente colpite infatti, come si ricava dal lavoro della commissione di indagine ad hoc del Senato, proprio la Sardegna con ben 136 atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali tra il 2013 e il 2014 e il 10,8 per cento del totale degli episodi registrati in Italia. L'isola è la quarta regione dopo Sicilia (211 pari al 16,7 per cento), Puglia (163 pari al 12,9 per cento) e Calabria (155 pari al 12,3 per cento) per incidenza del fenomeno che a livello nazionale ha toccato i 1.265 casi nei due anni di riferimento. Il dato numerico delle intimidazioni per centomila abitanti modifica però la classifica delle regioni e la Sardegna, con una popolazione di 1 milione 640mila 379 abitanti, risulta al primo posto con l'8,3 per cento sul totale, seguita da Calabria e Sicilia. Intanto, sul fronte delle imprese, ieri è intervenuto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, auspicando in un intervento sul Corriere della Sera, che i magistrati valutino gli impatti sull'attività economica delle loro sentenze. "Dal complessivo indebolimento dell'ordinamento statuale nell'offrire risposte normative adeguate", secondo Legnini, discende "il rischio che deflagrino equivoci e cortocircuiti e i casi Ilva e Fincantieri ne costituiscono una dimostrazione". Giustizia: crescono i reati via internet, ma ora i magistrati hanno le idee chiare di Marino Longoni Italia Oggi, 6 luglio 2015 Internet, i social network in particolare, sono vissuti dalla maggior parte delle persone come spazi di libertà, luoghi dove si può dire ed essere tutto ciò che si vuole. La rete, per sua natura, tende ad accogliere l'individuo in una sorta di realtà virtuale, lontana dai problemi, dai dolori e dalle responsabilità della vita reale. Una sorta di second life dove i sogni si affrancano dalla vita di tutti i giorni. Ma è una illusione. Pericolosa. Lo dimostra il fatto che il numero e la gravità dei reati commessi in rete, continuano ad aumentare, anche se due terzi delle persone che subiscono un attacco, almeno in un primo momento, nemmeno se ne accorgono. L'anonimato, la gratuità, il superamento delle barriere spaziali portano molti a pensare che "in internet faccio quello che voglio". Non è così: la giurisprudenza, che solo pochi anni fa vedeva la rete come un fenomeno difficile anche da capire, ha ormai elaborato, e sta cominciando a definire e ad applicare in modo sempre più convinto, una serie di reati legati proprio all'abuso degli strumenti informatici. Sono stati così identificati nei loro profili giuridici i reati di molestie via Facebook, di atti persecutori a mezzo social, di diffamazione sulla bacheca virtuale, di falso profilo, di pedopornografia, di cyber stalking, di gogna digitale e così via. E non si è mossa solo la giustizia penale, anche i giudici civili hanno ormai precisato percorsi tipici in grado di perseguire le condotte illecite attuate in rete. L'illusione che basti un nickname per garantire il proprio anonimato è dura a morire, ma non ha fondamento. Chi entra in rete è sempre rintracciabile. Il Far west è finito. Di fatto, chi ha la forza di rivolgersi alla giustizia riesce ormai a trovare qualche risposta concreta. Gli stupefacenti progressi delle tecnologie informatiche tendono ad abbagliare, invitano ad abbandonare il senso critico e i freni inibitori. Internet ha un'aureola da paese dei balocchi dove tutto è facile, il soddisfacimento immediato. Non tutti si rendono conto che spesso l'informazione gratuita spacciata in rete non è altro che pubblicità camuffata. Oppure che le interazioni tra gli utenti dei social network, apparentemente del tutto spontanee, possono essere manipolate dagli uffici stampa delle aziende che devono presentare nel miglior modo possibile i propri prodotti e nel peggior modo possibile quello dei loro concorrenti. Anche dietro il dibattito politico che si sviluppa sui siti o sui social si celano talvolta istituti specializzati nel pilotare le ondate emotive, con l'obiettivo di massimizzare il consenso per i propri committenti. Una delle attività più lucrative è raccogliere (o rubare) i dati personali per poi ordinarli e rivenderli a caro prezzo come liste di utenti profilati. La truffa, il raggiro, la menzogna, la falsificazione sono online 24 ore su 24. Lo schermo del computer o dello smartphone può creare dipendenza da una realtà consolatoria ma irreale, affievolire il senso critico, disabituare all'uso della memoria, perché tanto c'è la rete che ricorda tutto. Al di là dei reati che, magari in modo non del tutto consapevole, si possono commettere o subire, è proprio questo il punto più delicato. Lo sottolinea anche il Papa nella sua ultima enciclica, Laudato sì, laddove denuncia "la mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale". Che prima o poi presenterà il conto. Giustizia: i social media sono un terreno minato, viaggio fra i pericoli della rete di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 6 luglio 2015 Il fatturato del cybercrime in Italia raggiunge 9 miliardi di euro. E nonostante siano aumentati gli investimenti in sicurezza informatica (saliti dell'8% nel 2014 a livello globale, nonostante il perdurare della crisi economica), come evidenzia il rapporto Clusit (Associazione italiana per la sicurezza informatica), il numero e la gravità degli attacchi nel 2015 continuano ad aumentare. Inoltre secondo il Microsoft Security Intelligence Report nel 2014 si è registrato in Italia un tasso di esposizione a malware del 20%, contro una media mondiale del 19%, mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia il valore è compreso tra il 12 e il 13%. Tra i destinatari principali degli attacchi ci sono i social network, utilizzati come vettori di attacco per la diffusione di malware e per effettuare frodi basate su social engineering. Anche l'affermazione sul mercato di smartphone e tablet spiega l'aumento sostanziale di attacchi verso questo genere di strumenti: i produttori di device mobili, sviluppatori di applicazioni ed utenti (corporate e finali), spiega il rapporto Clusit saranno costretti a rivedere le proprie strategie e i propri investimenti in materia di mobile, ponendo l'accento sulla sicurezza e non più solo sugli aspetti marketing o di business. Il rapporto Clusit individua, poi, nei Pos un punto di debolezza, da cui passeranno gli attacchi e le frodi ai danni di piccoli esercizi commerciali. In questo quadro generale si collocano i tentativi di disciplinare l'uso della rete sia attraverso operazioni culturali e di promozione della conoscenza, sia attraverso l'applicazione delle disposizioni sanzionatorie penali e civile, che non sempre appare in grado di reggere il passo con i delitti della "rete". Se non altro per un dato allarmante. Si calcola che solo un terzo degli attacchi in rete siano percepiti dal soggetto danneggiato. Questo significa che in due casi su tre l'autore dell'illecito la fa tranquillamente franca e il suo reato rimane contabilizzato in una cifra oscura che misura l'impunità. Le indicazioni del Garante della privacy. L'Autorità garante per la protezione dei dati personali batte da tempo sulla necessità di prevenire i danni con un uso attento dei social network e della rete in generale. Non è facile scardinare alcuni pregiudizi, che spingono a condotte improprie. Un pregiudizio fortissimo è la convinzione che si può navigare senza lasciare traccia e senza essere mai beccati. La possibilità di mantenere l'anonimato, in vero, è una leggenda metropolitana. Eppure, spiega sempre il garante della privacy, i social network sono strumenti che danno l'impressione di uno spazio personale, o di piccola comunità. Si tratta però di un falso senso di intimità che può spingere gli utenti a esporre troppo la propria vita privata e professionale, a rivelare informazioni confidenziali, orientamenti politici, scelte sessuali, fede religiosa o condizioni di salute, provocando gravi "effetti collaterali", anche a distanza di anni, che non devono essere sottovalutati. Inoltre l'idea (falsa) di impunità trasmessa dalla possibilità di utilizzare ad esempio messaggi che si "autodistruggono" o di nascondersi dietro forme di anonimato può favorire in rete atteggiamenti aggressivi o violenti, in particolare verso le persone più giovani e indifese. Il Garante della privacy nel suo vademecum sui social network mette, invece, in evidenza che si può risalire all'identità di chi che pubblica testi, immagini, video su internet. Questo ovviamente vale anche per chi usa i social network per danneggiare l'immagine o la reputazione di un'altra persona. L'anonimato in rete, spiega il Garante della privacy, può essere usato per necessità, ma mai per commettere reati: in questo caso le autorità competenti hanno molti strumenti per intervenire e scoprire il "colpevole". Sul piano culturale bisogna rafforzare il senso della delicatezza e della pericolosità delle operazioni che si fanno in rete. Quando si carica un testo o un'immagine, le potenzialità di fruizione e manipolazione del testo e dell'immagine superano le capacità di controllo, che decrescono tanto repentinamente quanto maggiore è e la velocità della diffusione. Quando si inseriscono dati personali su un sito di social network, se ne perde il controllo. I dati possono essere registrati da tutti i contatti e dai componenti dei gruppi cui si è aderito, rielaborati, diffusi, anche a distanza di anni. A volte, accettando di entrare in un social network, si concede al fornitore del servizio la licenza di usare senza limiti di tempo il materiale che si inserisce on-line e, quindi, le foto, le chat, gli scritti, le opinioni. Questa la ragione, per cui, spiega il Garante, quando si carica on-line una foto che ritrae terze persone o quando si tagga un'immagine inserendo dati personali altrui, bisogna domandarsi se ci possono essere riflessi negativi sulla privacy e nel dubbio è meglio chiedere il consenso. Meglio lasciar perdere gli hater, e i troll, nel gioco perverso, stando lontano dalle aggressioni virtuali. Il web non è un luogo senza regole dove ogni utente può dire o fare quello che vuole. Valgono, invece, sia norme di civile convivenza, così come le norme che tutelano dalla diffamazione, dalla violazione della tua dignità: le esigenze di tutela sono identiche e valgono nella vita reale come sui social network, in chat o sui blog. Come sostiene il garante della privacy Non esistono zone franche dalle leggi e dal buon senso. Anche se la dimensione globale della rete non sempre garantisce l'applicabilità della legge italiana (sede estera dei social network e dei loro server). Mafia Capitale, associazione di stampo mafioso ad ampio raggio di Ernesto D'Andrea Italia Oggi, 6 luglio 2015 Il caso "Mafia Capitale" ha consentito alla Cassazione di porre attenzione sulla fattispecie delineata dall'art. 416-bis, c.p. Agli effetti della configurazione del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, "ciò che è determinante non è il luogo da cui origina il fenomeno criminale, ma sono le modalità con cui si esplica l'attività dell'organizzazione malavitosa. Il carattere tipico, e preminente, dell'associazione mafiosa, ex art. 416, bis, c.p., si concretizza nel metodo utilizzato - di tipo mafioso - che si estrinseca nell'intenzionalità di usare la forza intimidatrice e di beneficiare di tutte le conseguenze, dirette o indirette che siano. Tra gli effetti prevedibili della forza intimidatrice vi sono "l'assoggettamento e l'omertà", che identificano il fine che l'organizzazione mafiosa si pone. L'intimidazione, comunque, è un carattere strutturale dell'organizzazione mafiosa, a prescindere dal suo effettivo utilizzo; né deriva, quindi, che l'indice di "mafiosità" dell'organizzazione criminale è tanto più elevato, quanto più essa riesca a diffondere quel grado di "assoggettamento e di omertà" nel tessuto sociale, economico e istituzionale. Questo è uno dei principi espressi dalla VI sezione della Cassazione, con sentenza n. 24535-2015. Il caso nasce dall'impugnazione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, che trova fondamento in un quadro indiziario di particolare spessore criminale tale, da violare le regole di trasparenza, affidamento e correttezza della pubblica amministrazione mediante la perpetrazione di una serie di reati: tra questi ultimi la corruzione di pubblici ufficiali per la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici. Tra alcuni motivi a sostegno dell'impugnazione dell'ordinanza, dinanzi alla Corte di cassazione, vi era l'assenza di quei requisiti su cui si fonda l'art. 416-bis, c.p.; in particolare, alcuni indagati da un lato hanno sostenuto la carenza dell'elemento soggettivo in quanto, sarebbero stati "inconsapevoli di aderire al programma criminoso dell'organizzazione criminale"; dall'altro lato, si è asserito l'assenza della "forza intimidatoria" - dell'organizzazione verso soggetti esterni- che è l'elemento strutturale delle associazioni di stampo mafioso. Per dimostrare, che l'associazione criminale in esame non si possa fare rientrare nell'alveo di quelle "mafiose", si lamentava la mancanza di riscontri rispetto alla partecipazione, all'organizzazione stessa, di soggetti legati alla ‘ndrangheta. Un altro motivo a sostegno del ricorso in Cassazione da parte di alcuni indagati - tra cui Salvatore Buzzi - per confutare la tesi accusatoria dell'esistenza del delitto di cui all'art. 416-bis, cp, origina dal presupposto che il Buzzi e il Carminati non appartenessero a "un'unica organizzazione criminale", poiché i due interessati operavano in settori non aventi punti di contattato fra loro: si è affermato, che le cooperative del Buzzi esistevano già tempo prima che le attività investigative consentissero di accertare il primo contatto tra i due soggetti, avvenuto in concomitanza della realizzazione di un campo nomadi". Si osserva, inoltre, per contestare l'esistenza dell'art. 416-bis, c.p., che dalle delibere adottate dal Comune di Roma, che avrebbero indebitamente favorito nell'aggiudicazione degli appalti le cooperative di Buzzi, non emergerebbero né aspetti di natura "intimidatoria", né situazioni di "condizionamento e soggezione" degli organi amministrativi comunali. La Corte di cassazione, diversamente, con la sentenza in esame ha confermato la custodia cautelare in carcere per alcuni indagati, ritenendo esistente la gravità indiziaria. Alcuni elementi che la Corte ritiene accertati, sono: il contributo del Carminati, anche economico, alla gestione delle cooperative del Buzzi, l'utilizzo di strumenti elettronici, quali lo jammer (installati negli uffici per eludere le investigazioni giudiziarie), la divisione degli utili, tra il Buzzi e il Carminati, derivanti dall'attività illecita, le infiltrazioni dell'associazione criminale nel Comune di Roma, con la nomina, ad esempio, in posizioni apicali, di soggetti che garantissero l'aggiudicazione degli appalti alle cooperative del Buzzi. La Corte ha osservato, che la forza intimidatrice del vincolo associativo, presente nell'organizzazione criminale, non ha agito direttamente sui pubblici ufficiali per condizionarne la loro attività; ma è servita per aggregare questi ultimi alla stessa organizzazione criminale, al fine d'indurli a favorire il gruppo mediante accordi di tipo corruttivo - collusivo: ciò, di conseguenza, da un lato ha aumentato il "timore" in quei soggetti imprenditoriali, ritenuti "concorrenti", e dall'altro ha consolidato il "monopolio" dell'organizzazione in alcuni settori, soprattutto amministrativi ed economici. In questo modo, la capacità intimidatoria del sodalizio criminoso si è manifestata nella forma più elevata: sia scoraggiando la concorrenza degli imprenditori, onesti, che per timore non hanno partecipato alle gare di appalto, sia disincentivando eventuali denunce penali che avrebbero indebolito l'associazione. Di fronte a tali circostanze, i giudici di legittimità hanno ritenuto configurato l'art. 416-bis, c.p. in quanto, l'organizzazione ha agito mediante quella "la forza intimidatrice", che struttura questo delitto. Rispetto all'obiezione di alcuni indagati, secondo cui non si può parlare di associazione a delinquere di stampo mafioso, considerando che non è dimostrata la presenza, in alcuni affari, di soggetti legati alla ndrangheta, la decisione in esame evidenzia "che il reato previsto dall'art. 416-bis, c.p., possa essere commesso anche da associazioni criminali diverse da quelle sviluppatesi storicamente in altre regioni d'Italia (Sicilia, Calabria, Campania ecc.); sarebbe errato ritenere che la fattispecie in esame possa applicarsi solo a quelle associazioni mafiose conosciute in un determinato ambito storico e geografico. I giudici di legittimità chiariscono, nuovamente, che per la configurazione del delitto indicato dall'art. 416-bis c.p. si richiede il dolo specifico, "avente ad oggetto la prestazione di un contributo utile alla vita del sodalizio e alla realizzazione dei suoi scopi, sia nel caso di partecipazione all'ente associativo, che nel caso del cosiddetto concorso esterno: il dolo del partecipe si distingue da quello del concorrente sotto il profilo che il primo vuole fornire il descritto contributo "dall'interno" dell'associazione, mentre il secondo intende prestarlo dall'esterno (senza farne parte). Nel caso di specie, ergo, si ritiene concretizzato il dolo specifico anche dall'inserimento stabile all'interno dell'associazione mafiosa di alcuni ricorrenti, tra cui Buzzi e Carminati, finalizzato, anche, all'individuazione di modalità per influenzare le procedure amministrative, oppure alla scelta di uomini di fiducia da collocare al vertice delle istituzioni o di quali rapporti tessere con uomini politici. Atti stranieri sempre tradotti, il giudice non può considerarli come non acquisiti di Giovambattista Palumbo Italia Oggi, 6 luglio 2015 Il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall'art. 122 c.p.c., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti, sicché, quando tali documenti risultino redatti in lingua straniera, il giudice ha solo facoltà, e non obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, in particolare quando le parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto, ovvero quando tale documento sia accompagnato da una traduzione che, allegata dalla parte e ritenuta idonea dai giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa. Tuttavia, va ritenuto che, al di fuori di queste ipotesi, e in particolare quando il giudice reputa inidonea la traduzione giurata allegata da una parte, lo stesso non può decidere la causa ritenendo d'ufficio come non acquisiti agli atti i documenti redatti in lingua straniera, ma ha l'obbligo di procedere alla nomina di un traduttore. Così si è espressa la Corte di cassazione con la sentenza n. 12525 del 17 giugno 2015. Nello specifico, la certificazione di asseverazione della traduzione giurata era stata considerata inidonea in quanto non sottoscritta dal funzionario di cancelleria del Consolato d'Italia, ma tale circostanza, oltre a non essere imputabile al contribuente era anche irrilevante, considerato che le firme apposte dalle rappresentanze consolari italiane non sono soggette a legalizzazione e dunque la certificazione della traduzione giurata era da ritenersi valida anche se eseguita mediante apposizione del solo timbro del consolato. E del resto, nel caso di specie, mentre il contribuente si era attivato fornendo all'Amministrazione i documenti richiesti e la traduzione degli stessi (seppur formalmente incompleta), l'Amministrazione, nonostante la riscontrata mancata sottoscrizione del funzionario di cancelleria del Consolato d'Italia fosse circostanza riguardante l'operato di un funzionario pubblico, aveva impostato la sua difesa su tale rilievo formale, non rispettando in tal modo il principio della collaborazione e della buona fede tra contribuente e amministrazione di cui all'art. 10, legge 212/2000. Sotto la lente le differenze tra rapina ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - 3 giugno 2015 n. 23678. L'elemento distintivo del delitto di rapina rispetto a quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone risiede nell'elemento soggettivo, perché nell'un caso l'autore agisce al fine di procurare a sé o ad altri un profitto ingiusto, ben sapendo che quanto pretende non gli spetta e non è giuridicamente azionabile, nell'altro agisce nella ragionevole opinione di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli spetti. Peraltro, nello schema tipico del meno grave reato di esercizio arbitrario non rientra certamente una condotta che si sostanzi nella violenta esecuzione presso terzi delle proprie ragioni creditorie. Ciò perché, anche in presenza di una ragionevole opinione di esercitare un proprio diritto, allorché la violenza o la minaccia si estrinsecano in forme di tale forza intimidatoria che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la condotta risulta finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell'ingiustizia, integrandosi quindi gli estremi del reato di rapina. Un ragionamento di diritto complesso espresso dalla sezione VI penale della Cassazione con la sentenza n. 23678 del 2015. Gli orientamenti della giurisprudenza - In tema, peraltro, si veda sezione II, 29 maggio 2014, La Puma, pur relativa ai rapporti tra l'esercizio arbitrario e l'estorsione, secondo cui qualora il soggetto abbia agito con l'intento di esercitare un preteso diritto, tutelabile davanti all'autorità giudiziaria, è ravvisabile il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (articolo 393 del Cp ), senza che l'intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia utilizzata possano indurre a qualificare il fatto a titolo di estorsione (articolo 629 del Cp). In tale occasione, la Corte ha sviluppato il proprio ragionamento ribadendo il principio, pacifico, secondo cui il reato di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona non tanto per la materialità del fatto che può essere identica, quanto per l'elemento intenzionale, atteso che nell'estorsione l'agente mira a conseguire un ingiusto profitto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto, mentre nell'esercizio arbitrario egli agisce al fine di esercitare un suo preteso diritto con la convinzione che quanto vuole gli compete. L'elemento psicologico - Il distinguo è cioè basato sull'elemento psicologico, laddove nell'estorsione l'agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto, mentre nell'esercizio arbitrario l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria (di recente, tra le tante, sezione II, 29 maggio 2012, Di Vuono e altro). L'indirizzo della decisione - Peraltro, per quanto qui interessa, nella sentenza La Puma, la Cassazione, recependo altre recenti innovative prese di posizione (sezione II, 4 dicembre 2013, Fusco e altro; nonché, sezione II, 1° ottobre 2013, Traettino), ha anche preso consapevolmente le distanze da quell'altro orientamento, finora pacifico (e qui seguito dalla sentenza in rassegna), secondo cui, a prescindere dalla finalità perseguita, quando la minaccia o la violenza utilizzata si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto, allora la coartazione dell'altrui volontà assume ex se i caratteri dell'ingiustizia, con la conseguenza che, in situazioni del genere, anche la minaccia dell'esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una volontà ricattatoria, che fanno sfociare l'azione in mera condotta estorsiva. Non si sequestrano i dati del giornalista per trovare le fonti di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2015 Con una lucida ed esauriente motivazione, la sesta Sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 24617/2015 depositata il 10 giugno 2015, ha stabilito che l'acquisizione della copia di dati informatici, duplicati su supporto, è un vero e proprio sequestro che dà conseguente diritto al riesame, nel contempo ribadendo la intangibilità delle fonti del giornalista, anche ove il Pm intenda scoprirle con la perquisizione del pc personale e la stampa di dati in esso contenuti. Pur confermando il provvedimento del Tribunale del riesame, i giudici hanno ritenuto, diversamente da quanto in esso sostenuto, che l'estrazione a stampa della copia di un documento informatico, anche se rimane nella disponibilità del perquisito, costituisca un sequestro vero e proprio, assoggettabile al riesame. La motivazione - La Corte ha confermato che l'indiscriminato sequestro del computer o anche solo di copia del suo intero contenuto, salvo casi eccezionali viola il principio di proporzionalità, al pari del sequestro di un intero archivio cartaceo, ciò specie ove lo strumento appartenga a un giornalista e il sequestro sia il mezzo per effettuare un'indebita attività esplorativa sui suoi segreti. Il Codice di procedura penale, dopo la riforma della legge 48/2008, infatti, è esplicito nell'escludere il sequestro di interi sistemi informatici, a meno che ciò non avvenga in presenza di determinate e giustificate condizioni, escluse le quali l'acquisizione integrale di un intero archivio elettronico, perché di facile accessibilità con la duplicazione, non è consentita. L'estrazione di copia di dati informatici, dunque, equivale al mantenimento del sequestro sul bene, poiché la stessa circolazione dell'informazione, fuori dell'archivio informatico di provenienza, costituisce una perdurante perdita del diritto di disporne liberamente e in via esclusiva. Poiché quei dati non possono che essere allocati su supporto fisico, costituisce sequestro del dato anche il semplice trattenimento di tale supporto, sebbene il dato sia rimasto nella disponibilità del titolare. Ciò accade quando il documento non ha valore in sé, racchiuso nel suo originale - come accade per banconote o assegni - ma è esso stesso il bene originale, ad esempio, un progetto o un dato segreto quale è, per il giornalista, il nome di una fonte, il cui valore sta nella riservatezza delle sue generalità, sicché la sua circolazione in più copie può costituire una privazione del bene, rispetto al quale sussiste il diritto al riesame. L'inviolabilità del segreto -Il diritto-dovere al segreto del giornalista e il limitato ambito in cui può essere escluso, per concludere, costituiscono un limite alla ricerca dei dati identificativi della fonte della notizia attraverso il sequestro, come la giurisprudenza della Cassazione e della Cedu, in particolare con la sentenza del 14 settembre 2010, Sanoma Uitgevers B.V. contro l'Olanda, da tempo hanno stabilito. La Corte ritiene, perciò, illegittimo il provvedimento che dispone la ricerca e l'eventuale sequestro di documenti per individuare la fonte del giornalista, senza che sia contestualmente esplicitata la situazione particolare che - a determinate condizioni - consente di superare il diritto del giornalista alla segretezza della fonte. Facebook è luogo aperto al pubblico Italia Oggi, 6 luglio 2015 La mappa della responsabilità penale per fatti commessi in rete e tramite la rete è molto ampia. Si va dalle molestie alla diffamazione, dalla falsità personale agli atti persecutori. Vediamo la casistica che si è sviluppata nelle aule di giustizia. Molestie con i "post". Risponde del reato di molestie chi invia messaggi molesti, "postati" sulla pagina pubblica di Facebook: è un luogo virtuale, ma è aperto all'accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi è un "luogo aperto al pubblico" (Cassazione penale Sezione I, 11.7.2014, n. 37596). È conforme l'orientamento del Garante della privacy, il quale sostiene che i social network (definiti anche social media per enfatizzare il loro impatto non solo come reti sociali ma come veri e propri media auto-organizzati) sono "piazze virtuali", cioè dei luoghi in cui via internet ci si ritrova condividendo con altri fotografie, filmati, pensieri, indirizzi, amici e tanto altro. I social network sono lo strumento di condivisione per eccellenza e rappresentano straordinarie forme di comunicazione, anche se comportano dei rischi per la sfera personale degli individui coinvolti. Atti persecutori a mezzo social. Si commette il reato di atti persecutori con il ripetuto invio alla persona offesa di telefonate, sms e messaggi di posta elettronica, anche tramite i social network e la divulgazione, attraverso questi ultimi, di filmati che ritraggono rapporti sessuali intrattenuti con la vittima, procurandole così uno stato d'animo di profondo disagio e paura in conseguenza delle vessazioni patite (Cassazione penale, Sezione VI, 16.7.2010, n. 32404). Falso profilo. Chi crea un falso profilo associato all'altrui immagine associata ad un "nickname" di fantasia e a caratteristiche personali negative commette il reato di sostituzione di persona. (Cassazione penale, Sezione V, 23.4.2014, n. 25774) Attenzione, dunque, ai falsi profili. Spiega il Garante della privacy che basta la foto, il nome e qualche informazione sulla vita di qualcuno per impadronirsi online della tua identità. Pedopornografia. Commette il reato di pornografia minorile chi contatta minorenni, rivolgendo sotto falso nome una richiesta di amicizia su un social network, prospettando l'ingresso nel mondo dell'alta moda e offrendole denaro e capi di abbigliamento se avesse accettato di fare la modella, e chiedendo tramite webcam di spogliarsi e toccarsi le parti intime. (Cassazione penale, Sezione III, 5.3.2014, n. 21759). Vittime sessuali e gogna digitale. Il reato di divulgazione delle generalità o dell'immagine di una persona offesa da atti di violenza sessuale (articolo 734-bis codice penale) consiste nel portare a conoscenza di un numero indeterminato di persone notizie riservate, con ogni modalità, anche mediante le nuove tecnologie (sit web, blog, social network, mailing list). La tutela copre tutti i casi in cui, non solo attraverso il volto, ma in qualunque altro modo (da un profilo, da un'immagine dal di dietro, da un vestito indossato) si possa risalire alla persona offesa (Cassazione penale, Sezione III, 12.12.2013, n. 2887) Cyber stalking. Costituiscono atti persecutori le condotte di stalking vigilante (controllo sulla vita quotidiana della vittima), di stalking comunicativo (consistente in contatti per via epistolare o telefonica, sms, scritte su muri ed altri messaggi in luoghi frequentati dalla persona offesa) e di cyber stalking, costituito dall'uso di tutte quelle tecniche di intrusione molesta nella vita della vittima rese possibili dalle moderne tecnologie informatiche e, segnatamente, dai social network. Al di là dello stalking, se si notano comportamenti anomali e fastidiosi su un social network, come un amico insultato e messo sotto pressione da individui o gruppi, il Garante della privacy consiglia di non aspettare e segnalare subito la situazione critica al gestore del servizio affinché possa intervenire immediatamente. A tale scopo, alcuni social network rendono accessibile agli utenti, sulle pagine del proprio sito, un'apposita funzione (una sorta di pulsante "panic button") per chiedere l'intervento del gestore contro eventuali abusi o per chiedere la cancellazione di testi e immagini inappropriate. In caso di violazioni, il problema va segnalato subito al Garante e alle altre autorità competenti. Se si è la vittima di commenti odiosi a sfondo sessuale, di cyber bullismo o di sexting, o se si subisce una violazione della privacy, non bisogna aspettare che la situazione degeneri ulteriormente. Non è possibile fondare la colpa del medico su mancanza consenso da parte del paziente di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 22 maggio 2015 n. 21537. Ai fini dell'apprezzamento della condotta del sanitario, non è di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza del consenso del paziente, giacché la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta (vuoi omissiva, vuoi commissiva) dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata con o in assenza di consenso informato da parte del paziente. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 21537 del 2015. L'obbligo di acquisire il consenso - Secondo i giudici della quarta sezione penale l'obbligo di acquisire il consenso informato non integra, infatti, una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza, giacché l'acquisizione del consenso non è preordinata (in linea generale) a evitare fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), ma a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione di una norma costituzionale (articolo 32, comma 2 ). In questa prospettiva, in un unico caso la mancata acquisizione del consenso potrebbe avere rilevanza come elemento della colpa: allorquando, la mancata sollecitazione di un consenso informato abbia finito con il determinare, mediatamente, l'impossibilità per il medico di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un'anamnesi completa (ciò che potrebbe verificarsi, esemplificando, in caso di mancata conoscenza di un'allergia a un determinato trattamento farmacologico o in quello di mancata conoscenza di altre specifiche situazioni del paziente che la sollecitazione al consenso avrebbe portato alla attenzione del medico). In questa evenienza, il mancato consenso rileverebbe non direttamente, ma come riflesso del superficiale approccio del medico all'acquisizione delle informazioni necessarie per il corretto approccio terapeutico (ciò che, secondo la Corte, si era verificato nel caso di specie, relativo a un intervento dentistico, in cui la mancanza del consenso della paziente al diverso intervento eseguito dal sanitario, aveva impedito non solo e non tanto alla paziente di accedere consapevolmente a tale intervento, ma soprattutto aveva fatto sì che il medico si sentisse legittimato a prescegliere autonomamente una metodica alternativa di intervento, diversa da quella programmata, che gli aveva però impedito di apprezzare le problematiche ossee della paziente, con effetti di rilievo decisivo ai fini dell'occorso). Gli indirizzi della giurisprudenza - In termini, si veda sezione IV, 24 giugno 2008 parte civile Ruocco e altro in proc. Marazziti, secondo cui la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata con o in assenza di consenso: nel senso cioè che il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente, con l'unica eccezione rappresentata dal caso in cui la mancata sollecitazione di un consenso informato abbia finito con il determinare, mediatamente, l'impossibilità per il medico di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un'anamnesi completa (per utili riferimenti, Sezione IV, 14 novembre 2007, Pozzi, dove si afferma che il medico ha l'obbligo di assumere - dal paziente o, se ciò non è possibile, da altre fonti informative affidabili - tutte le informazioni necessarie al fine di garantire la correttezza del trattamento medico chirurgico praticato al paziente). Reati gravi e cambi di sesso fanno "saltare" la separazione di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2015 Breve, ma non immediato. Questo, il divorzio sprint che le coppie potranno ottenere. La riforma, infatti, pur riducendo nettamente le attese per presentarne la domanda, ha stralciato la proposta del divorzio lampo, mantenendo ferma la necessità che i coniugi "riflettano" per almeno sei o 12 mesi. Ciò, anche nel caso in cui siano concordi su ogni aspetto. Diversa, invece, è la situazione di altri Paesi europei, in cui la fase della separazione non esiste o è solo facoltativa. Del resto, è inferiore al 3% la percentuale delle coppie che, separatesi, decidano di riconciliarsi. In alcuni casi, però, il divorzio immediato è già possibile. A prevederlo, è la stessa legge divorzile (articolo 3 della legge 898/1970). Secondo la norma, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere subito chiesto da uno dei coniugi, quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l'altro sia stato condannato in via definitiva, anche per fatti commessi in precedenza: • all'ergastolo o a pena superiore ai 15 anni, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale; • a qualsiasi pena, se i reati commessi sono incesto, delitti sessuali o per induzione, costrizione, sfruttamento, favoreggiamento della prostituzione; • a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio a danno di coniuge o figli; • a qualsiasi pena, in caso di lesione personale aggravata, violazione degli obblighi di assistenza familiare, maltrattamenti in famiglia, circonvenzione di incapaci, attuati contro coniuge o prole. Ma il divorzio immediato è consentito - nel secondo e nel terzo caso - anche se l'altro coniuge sia stato assolto per vizio totale di mente (e il giudice del divorzio ne accerti l'inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare); il processo si sia concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato (che il giudice ritenga sussistere) o la causa d'incesto si sia conclusa con proscioglimento/assoluzione per mancanza di pubblico scandalo. Il divorzio lampo scatta inoltre se l'altro coniuge, straniero, abbia ottenuto divorzio all'estero o all'estero abbia contratto nuovo matrimonio; se il matrimonio non sia stato consumato o sia passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso. L'iter per l'immediato è molto simile a quello della separazione. Due i casi. Ad attivarsi, potranno essere sia entrambe le parti che un solo coniuge. Nella prima ipotesi, la coppia - concorde sulle condizioni che regoleranno i rapporti tra i consorti e quelli con i figli minori o maggiorenni non autonomi economicamente - presenterà domanda congiunta. All'udienza (unica) fissata per l'eventuale conciliazione, seguirà sentenza di divorzio. Se, invece, ad attivarsi è soltanto uno dei due, questi dovrà indicare sia le condizioni da sottoporre al vaglio del giudice, che i fatti posti a base della richiesta. Si aprirà, così, una vera e propria causa, nel corso della quale - emessi i provvedimenti temporanei ed urgenti - si indagherà, con istruttoria, sulle circostanze addotte dal ricorrente. Procedimento che, inevitabilmente, comporterà un sensibile aggravio di tempi e di spese. Bologna: Rita Bernardini denuncia drammatica situazione del Tribunale di Sorveglianza radicali.it, 6 luglio 2015 La Segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini lancia l'allarme per la drammatica situazione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, causata da una spaventosa carenza di personale, sia riguardo ai magistrati, sia al personale di cancelleria e di altri profili lavorativi. Lo stato del Tribunale di Sorveglianza di Bologna è stato descritto puntigliosamente e senza mezzi termini dal presidente Francesco Maisto in una conferenza stampa del 23 giugno puntualmente riscontrata dalle agenzie di stampa e dai quotidiani locali: negli ultimi 6 anni, pur essendo aumentate le competenze, il personale ha registrato una riduzione del 37 per cento. A Bologna i giudici sono quattro più il presidente, come da organico, ma uno è in malattia e per far fronte al lavoro "ne servirebbero il doppio". Vacante è il posto previsto a Modena, cui fanno supplenza i giudici di Bologna. Ancora più seria è la questione dell'Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia dove c'è un solo magistrato (sarebbero due, da organico). Per far comprendere il "disastro", basti sapere che un unico magistrato di Sorveglianza, la dott.ssa Maria Giovanna Salsi, ha sotto la sua responsabilità i territori di Reggio, Parma e Piacenza, con due carceri (che ospitano anche i detenuti in regime di 41 bis e i "sex offenders"), l'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio che è ancora aperto, le nuove Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) e il Centro diagnostico terapeutico di Parma, che smista i detenuti pericolosi. A Reggio Emilia anche la situazione del personale è drammatica: a pieno organico dovrebbero essere nove persone, invece sono cinque di cui uno part time. In questa situazione che diverrà esplosiva con la concessione dei permessi estivi ai detenuti - ha dichiarato Rita Bernardini - sono pregiudicati i diritti umani fondamentali dei reclusi che non riescono e non riusciranno ad ottenere risposte alle istanze che per legge devono rivolgere ai magistrati di sorveglianza. Si prefigura, soprattutto per quel che riguarda l'Ufficio di Reggio Emilia, una vera e propria "interruzione di pubblico servizio" con tutto ciò che consegue in termini di violazioni del diritto vigente. Mi appello - ha concluso Bernardini - al Ministro della Giustizia Andrea Orlando affinché intervenga urgentissimamente, pronta ad intraprendere in caso di mancata necessaria risposta, con i miei compagni radicali, forme di lotta nonviolenta affinché siano salvaguardati i diritti non solo dei detenuti ma anche dei magistrati, i quali, non per loro responsabilità, si troverebbero nell'impossibilità di corrispondere alla loro funzione di servitori dello Stato. Milano: un'Expo per i detenuti; in cento hanno trovato impiego, stand anche nelle carceri di Marzia Paolucci Italia Oggi, 6 luglio 2015 Il carcere va in mostra a Expo 2015 e di rimando la fiera internazionale di Milano entra nelle carceri d'Italia. Per cento detenuti italiani l'appuntamento in corso nel segno del cibo e della biodiversità del nostro pianeta rappresenta il sogno e segno della loro inclusione sociale. Il Progetto ha come enti proponenti il Provveditorato generale dell'amministrazione penitenziaria della Lombardia e la Regione Lombardia - Società Expo 2015. Nove mesi di durata e un importo finanziato per 24 mila euro da parte di Cassa delle ammende e 600 mila euro dalla Regione Lombardia, contraddistinguono il progetto approvato a dicembre scorso con l'obiettivo prioritario della professionalizzazione e impiego di circa cento persone beneficiarie di pene alternative alla detenzione del circuito penitenziario lombardo nell'ambito delle attività di Expo 2015. Sul totale dei detenuti, 35 provengono dalla Casa di reclusione di Opera, altre 35 dalla Casa di reclusione di Milano Bollate, 10 persone dalla Casa circondariale di Monza e 20 persone dagli Uffici di Esecuzione penale esterna di Milano tra persone sottoposte all'affidamento in prova ai servizi sociali. A loro è demandata l'attività di informazione e accompagnamento dei visitatori agli ingressi, alle biglietterie e agli snodi di controllo, tra i loro compiti anche l'allestimento e la presenza costante allo stand dell'Amministrazione penitenziaria sulle produzioni eco-sostenibili e ad elevata qualità all'interno del padiglione Italia. Come sancito dal protocollo, il loro lavoro prevede un pagamento a mercede, con uno stipendio inferiore di un terzo rispetto ai contratti collettivi nazionali, come previsto dalla legge 354 del 1975. E sempre a tema, tra i paesi partecipanti a Expo, sono previsti tre workshop finalizzati al benchmarking per lo scambio di tecniche di lavoro penitenziario utili ad ampliare e facilitare l'inclusione sociale. Un'occasione di confronto sul tema dell'alimentazione in ambito penitenziario regolamentata nel nostro paese da specifiche tabelle predisposte e approvate dal ministero della salute, sulle abitudini alimentari dei detenuti e sulla cultura alimentare in un contesto etnico composito quale quello carcerario. Pochi sanno infatti che da almeno una decina d'anni a oggi, molte carceri italiane sono diventate laboratori formativi in grado di autosostenersi e perché no, fare profitto, nei settori più disparati: ristorazione, produzione agricola, vinicola, pasticceria, torrefazione, panificazione, sartoria e produzione musicale. In molti casi, giocando con la nomenclatura, dalle cene galeotte organizzate nella suggestiva fortezza medicea che oggi ospita il carcere di Volterra agli aperitivi galeotti del carcere toscano di Sollicciano ai Presi per caso della banda Rock di Rebibbia e alla varietà di prodotti dolciari e non come la Banda Biscotti di Verbania il miele di Galeghiotto di Isili e Mamone in Sardegna e il caffè Lazzarelle di Napoli, sono nati veri e propri brand messi in commercio direttamente dalle strutture quando non addirittura inseriti nel circuito della grande distribuzione dei supermercati. Expo in carcere Gli istituti milanesi di San Vittore, Bollate e Opera ospitano una serie di iniziative a tema. A San Vittore, nel primo raggio, per l'iniziativa "Pensando Expositivo", 25 istituti penitenziari propongono realtà made in jail: una vetrina dell'economia penitenziaria che genera posti di lavoro e concretizza lavoro. Secondo i dati ufficiali, infatti, chi è impegnato in un'attività lavorativa durante la detenzione ha, una volta fuori dal carcere, una recidiva del solo 2%, a fronte del 70%. I visitatori possono partecipare anche ai SanviTour, una serie di incontri con aperitivo che permetteranno loro di visitare, accompagnati e guidati dagli stessi detenuti, il cuore dell'Istituto - La Rotonda - e i suoi sei raggi: 70 persone ogni volta per molti appuntamenti che iniziano il 14 maggio e vanno avanti fi no all'ultimo che sarà l'8 ottobre. Bollate propone invece Jail Expo: dall'8 maggio al 31 ottobre, una mostra di artisti provenienti per lo più dall'Accademia di Brera, insieme ai detenuti, coloreranno il carcere. E poi ancora mostre ogni venerdì con bancarelle e cibo preparato dai detenuti, concerti, sfilate e visite guidate tradotte in inglese, francese, spagnolo, cinese e arabo. Padova: "gang" in divisa al carcere Due Palazzi, 13 condanne di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 6 luglio 2015 La casa di reclusione Due Palazzi versione casbah: spaccio di droga, mercato nero di schede telefoniche, perfino un "giro" porno. Tutto grazie alla "collaborazione" di alcuni agenti di polizia penitenziaria, al servizio di boss mafiosi e criminali di guerra in un carcere fuori controllo. Tutto documentato fin nel dettaglio dall'inchiesta condotta dalla Procura della Repubblica. E si è già approdati, davanti al gup Domenica Gambardella, alla sentenza esemplare di primo grado per 13 imputati, compresa l'avvocata Michela Marangon di Porto Viro (Rovigo) che con rito abbreviato è stata condannata a due anni per concorso in corruzione con la condizionale. Alla fine, 51 anni 3 mesi e 10 giorni è la pena complessiva calcolata fra patteggiamenti e riti abbreviati. Condanna esemplare (10 anni e 10 mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici) nei confronti dell'agente responsabile del quinto piano Pietro Rega, 48 anni di Mariglianella (Napoli), individuato come il "capo" della banda di uomini in divisa. Poi 5 anni e 10 mesi con interdizione a Roberto Di Profio, 46 anni di Chieti e a Giandonato Laterza, 32 anni di Matera. Ha patteggiato 4 anni e 6 mesi, sempre con l'interdizione, Angelo Telesca, 36 anni, originario della provincia di Potenza. Rinviati a giudizio gli agenti Francesco Corso, 39 anni palermitano, e Giuseppe Crispino, insieme al criminale di guerra Goran Jesilic (trasferito nel carcere di Vigevano, con 30 anni emessi dal tribunale internazionale dell'Aja). Con un'altra ventina di detenuti (fra cui il boss della Nuova camorra Domenico Morelli e quello della Sacra corona unita Sigismondo Strisciuglio) saranno alla sbarra nel processo fissato a partire dal 6 ottobre: corruzione e spaccio di sostanze stupefacenti, i reati contestati. È così che si è squadernato il lato oscuro del Due Palazzi, altrimenti monopolizzato dalle iniziative sussidiarie di stampo ciellino, "benedette" dalle istituzioni locali e non. Certo, il carcere di Padova è anche sinonimo di Ristretti Orizzonti: una vera e propria redazione giornalistica di detenuti. Come pure spiccano iniziative (spettacoli teatrali, un coro, la biblioteca) frutto del volontariato che non si lascia etichettare come i panettoni. Ma il governo quotidiano di celle e uomini resta un'altra storia, troppo spesso lontana dai riflettori. Si traduce in suicidi, risse, episodi border line e altre forme di malessere. Medici, psicologi e operatori sono davvero "in trincea" con… armi sempre più spuntate dai tagli draconiani del ministero e degli enti locali. Inchiesta e processo di primo grado hanno restituito l'anima nera del Due Palazzi. Una casa di reclusione votata a traffici illegali, con la complicità di una vera e propria "squadra speciale". Nei faldoni della Procura, spunta addirittura il caso di un detenuto che ottiene un centinaio di euro dal suo avvocato. Servono a pagare al "mercato nero" le pastiglie in grado di gonfiare i testicoli. È il trucco con cui ottenere il certificato medico, che a sua volta apre le porte del carcere grazie al permesso di curarsi. Il pubblico ministero Sergio Dini ha accertato l'episodio: il 1 ottobre l'avvocato Michela Marangon ritornerà a vestire i panni dell'imputata per frode processuale. Novara: detenuto al 41bis "mi impediscono di ricevere assistenza religiosa in carcere" agrigentoweb.it, 6 luglio 2015 Un passato da feroce killer in cui bastava un sospetto, "un'infamata", per uccidere un rivale o semplicemente un amico e alleato di cui si diceva in giro che potesse tradirlo o diventare pericoloso. Una vita trascorsa a ordinare omicidi e gestire traffici mafiosi, Giuseppe Falsone, 45 anni da compiere il 28 agosto, adesso racconta di essere convertito. Il regime del 41 bis, a cui è sottoposto da cinque anni, quando è scattata la cattura a Marsiglia che ha posto fine alla sua decennale latitanza, non gli consente però di incontrare il suo padre spirituale della Chiesa valdese. L'ex numero due di Cosa Nostra siciliana, che in carcere ci resterà tutta la vita per scontare ergastolo e varie condanne, non l'ha presa bene e ha inoltrato una formale protesta all'amministrazione penitenziaria con cui lamenta "una vergognosa violazione del diritto all'assistenza religiosa". Il boss, detenuto nel carcere di massima sicurezza di Novara, ha preso carta e penna e ha scritto di suo pugno una lettera di tre pagine indirizzandola al provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria del Piemonte. Tutto nasce dalla presunta mancata autorizzazione della direzione del carcere piemontese a incontrare il ministro di culto della Chiesa valdese che lo avrebbe dovuto assistere spiritualmente. "Il 27 novembre scorso - scrive il boss Falsone nel suo reclamo - vengo a conoscenza tramite una lettera speditami dal mio ministro di culto che non gli è stato consentito l'accesso nell'istituto penitenziario". Falsone attacca: "Ritengo sia palese la violazione del mio diritto all'assistenza spirituale". Da organizzatore di estorsioni e omicidi a paladino dei diritti dei religiosi: il passo è stato breve. Il boss di Campobello di Licata, con qualche strafalcione grammaticale e ortografico, chiede formalmente "di intervenire affinché sia rispettato il diritto del detenuto a professare il proprio credo religioso e ad avere l'assistenza religiosa e spirituale garantita per legge". Roma: 20enne morto nell'inseguimento la notte di Natale, due agenti sotto accusa di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 6 luglio 2015 La notte in cui morì d'incidente Luca Rosati, vent'anni, uno studente di Appio Latino figlio di un funzionario della Regione Lazio e di una commerciante, a una operatrice del 118 scappò una battuta: "Abbiamo un altro caso Cucchi". Era la notte di Natale del 2011 a Garbatella. Il ragazzo al rientro da una festa col cugino tornava a casa e all'improvviso, per motivi mai scoperti, venne inseguito da una volante della polizia schiantandosi contro diciassette auto parcheggiate. Sul caso ora il gip Ezio Damizia ha chiesto la riapertura delle indagini per i due agenti al volante della "Colombo 1" e ha suggerito l'apertura di un fascicolo per i soccorritori del 118. Per i due poliziotti, già indagati per falso, il giudice ha disposto la restituzione degli atti al pm affinché continui a indagarli pure per omicidio colposo. "Bisogna accertare le ragioni, le modalità e la durata dell'inseguimento", ha scritto il magistrato, spiegando che gli accertamenti dovranno toccare anche gli operatori sanitari: "Vi sono aspetti (vedi l'incongruenza degli orari di intervento, la mancanza di un medico a bordo dell'ambulanza, la classificazione dell'intervento da rosso a giallo e la constatazione del decesso da parte di una infermiera) da cui potrebbero prospettarsi ulteriori notizie di reato, come l'omissione di atti d'ufficio". L'accusa di falso per i due agenti procederà parallelamente, col rischio di un rapido rinvio a giudizio. Secondo il capo di imputazione riferivano "contrariamente al vero" di aver notato la vettura di Rosati quando l'incidente era già avvenuto. La madre di Luca solo dopo i funerali seppe del pedinamento a folle velocità. Allora presentò denuncia, ma ora due testimoni confermano mentre a mettere nei guai gli agenti c'è anche la loro comunicazione radio recuperata durante le indagini: "C'è stato uno qua ha fatto er botto... stava a scappà s'ncollato tutte le macchine qua n'piazza". E il gip ora - proprio come aveva chiesto il legale della famiglia, l'avvocato Giuseppe Iannotta - vuole sapere anche perché i vigili del fuoco chiamati per liberare il ragazzo dalle lamiere furono fatti rientrare. Verona: saggio conclusivo laboratorio di teatro-carcere conquista pubblico e protagonisti di Vittorio Zambaldo L'Arena di Verona, 6 luglio 2015 Nel caldo soffocante della cappella del carcere di Molitorio, non poteva esserci ambientazione migliore per rappresentare in maniera così veristica "Senza il vento", saggio conclusivo dei partecipanti al laboratorio di teatro condotto da Alessandro Anderloni e Isabella Dilavello. Sul testo elaborato dallo stesso Anderloni, 14 detenuti, uomini e donne, con la partecipazione di Michele Maggio e Giacomo Trespidi, studenti del progetto teatro del liceo Messedaglia, coinvolti dallo stesso regista, hanno dato vita a un racconto intenso e forte che ha strappato molti applausi a scena aperta. Tutto è giocato sul mito del ritorno: a casa, agli affetti, alle relazioni perché l'assenza di vento su una metaforica nave della vita, aveva congelato ogni possibilità di proseguire. Tutto è immobile su uno scenario nero, con corde di vele flaccide ed equipaggio esangue. Da mesi o forse da anni non si alza una bava di vento e tutto sembra rinviare a mai la possibilità di toccare terra. Sulla nave convivono due equipaggi che non si conoscono e non si incontrano salvo un'eccezione: il capitano e la signora delle sirene. L'uno schiavo dell'altra e l'altra legata al mito della trattenere per sé un affetto impossibile, tengono all'oscuro sia i marinai sia le altre sirene. Sul ponte della nave salgono a turno i due gruppi, l'uno quando non ci sono le altre perché un incantesimo li tiene separati anche se sarà proprio dall'accettare gli uni la presenza delle altre che verrà finalmente la soluzione, il ritorno in mare per le sirene, la terra sognata per i marinai. La chiave risolutiva è nelle mani di un clandestino, il rifiutato da tutti, in pericolo di morte per il suo gesto di imbarcarsi di nascosto, graziato dalla fallita congiura di uccidere il capitano. Il vento tornerà quando tornerà la compassione e si apriranno le catene per chi sogna la terra e per chi chiede di tornare dentro il mare. L'ultimo ballo sul ponte sancisce la liberazione dalle diverse schiavitù. "La nave sembrava ferma, ma qui dentro c'era un vento impetuoso a spingerci a realizzare questo progetto che è stato reso possibile grazie alla direzione del carcere, al personale di sorveglianza e al sostegno prezioso della Fondazione San Zeno", ha precisato Anderloni, confermando che "lavorare qui dentro è difficile ma importantissimo. È stata un'esperienza intensa e faticosa, che mi ha messo alla prova professionalmente e umanamente. Indimenticabili i miei compagni di viaggio. Qui sento che fare teatro acquista un significato speciale. Speriamo di aver contribuito ad aprire gli orizzonti e aiutato la città a guardare con meno indifferenza oltre quelle mura", ha concluso il regista di Velo. A fine spettacolo gli attori erano commossi e raggianti. "È stata una cosa bellissima", ha commentato Carlo, che sulla nave aveva il ruolo di timoniere, "ci ha fatto tirar fuori l'anima". "Sono orgoglioso del ruolo che ho avuto", ha aggiunto Dan, "perché ho dato vento alle vele ma adesso chiedo aiuto a tutti voi che siete venuti da fuori a vederci: aiutateci ad arrivare a terra". "Bello e meraviglioso", ha detto di Sandra: "Ho recitato con l'anima e mi è uscita fuori tutta", come infatti si era visto dall'investimento di voce e corpo che metteva nelle battute. Victor: "È stato faticoso imparare la parte, ma ce l'ho fatta ed è andata benissimo" è stato il suo giudizio, condiviso da Gabriel, il cambusiere che disobbedendo agli ordini ha salvato la ciurma: "Un ruolo importante, faticoso ma bello. Mi è piaciuto". I costumi sono stati realizzati in carcere dal laboratorio di sartoria diretto da suor Stella e le scenografie nel laboratorio di falegnameria della casa di reclusione con il contributo dello scultore Gianluca Periato. Gli ospiti Cie di Ponte Galeria incendiano i materassi, tunisino in fin di vita di Giulio Mancini e Mirko Polisano Il Messaggero, 6 luglio 2015 Sommossa al Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria, tra la città e l'aeroporto: la struttura, che accoglie clandestini in attesa di rimpatrio, l'altra notte è stata messa a ferro e fuoco dagli ospiti stessi. Il pesante bilancio è di diversi danneggiamenti e di un ferito grave. Si tratta di un tunisino di 26 anni che sta lottando tra la vita e la morte in un letto del reparto Grandi Ustioni dell'ospedale Sant'Eugenio. La rivolta è divampata tra le due e le quattro di domenica quando nella sezione maschile gli ospiti, un centinaio circa, hanno lanciato i materassi nel cortile e li hanno incendiati. È in quella fase della protesta che il nordafricano è stato avvolto dalle fiamme. Restano da chiarire le precise circostanze dell'incidente, come è ancora da accertare se si tratta di un gesto dimostrativo di protesta finito nel peggiore dei modi, o se invece il ventiseienne possa essere rimato vittima di un tentativo di omicidio. Lo straniero, trasportato in ambulanza dal 118 al pronto soccorso dell'Eur, ha riportato ustioni di terzo grado sul 40% del corpo ed è in gravissime condizioni. La polizia e i carabinieri stanno cercando di ricomporre il quadro dei fatti per capire cosa sia successo all'interno del centro. L'attenzione degli inquirenti si sta concentrando sui movimenti dell'uomo e sui suoi compagni di cella. Proprio loro saranno ascoltati nelle prossime ore per tentare di ricostruire una prima dinamica. Ci sarà anche da stabilire che tipi di rapporti aveva il tunisino con gli altri ospiti del centro e se poteva aver riscosso l'antipatia di qualcuno che possa avergliela fatta pagare. D'altronde, in un ambiente restrittivo come quello di Ponte Galeria, uno "sgarro" lo paghi come in carcere. Non è escluso però che sia stato proprio lo straniero a darsi alle fiamme, minacciando di darsi fuoco nel tentativo di un gesto estremo per le condizioni in cui viveva al Cie. Quello che appare chiaro ed è già al vaglio degli inquirenti è che nella notte tra sabato e domenica a Ponte Galeria è scoppiata una nuova rivolta degli immigrati. Sarebbero una trentina le persone che hanno dato vita a scontri e tafferugli. Gli agenti in tenuta anti-sommossa hanno cercato di sedare gli animi ma la situazione è poi degenerata. La ribellione è scattata nel cortile. Come già accaduto un anno fa, alcuni dei migranti hanno spaccato i vetri, divelto oggetti contundenti e dato fuoco ai materassi. Si è sprigionato del fumo e si sono aperte le celle. Una situazione che avrebbe consentito così ad alcuni della sezione maschile di poter uscire nel piazzale, dove ha avuto luogo la protesta. A scatenarla, una serie di fattori: dai lunghi periodi di permanenza a cui sarebbero costretti i migranti, ai numerosi disagi del centro. Le stesse condizioni che hanno spinto più volte gli immigrati a protestare, come quando arrivarono a cucirsi le labbra per giorni. Le prossime ore saranno decisive sia per la salute del 26enne tunisino che per il momento resta sotto osservazione medica h24 sia per gli inquirenti che potranno fare chiarezza su questo inquietante episodio. "Razzismo". La sentenza che imbarazza la banca dei migranti di Diego Longhin La Repubblica, 6 luglio 2015 Clienti italiani favoriti e dipendenti discriminati L'ex vicepresidente fa condannare Extrabanca. La prima banca italiana nata nel 2010 con l'obiettivo di dare credito ai cittadini stranieri, Extrabanca, dovrà risarcire il suo ex vicepresidente. Otto Bitjoka, per averlo defenestrato nel 2011 dal suo ruolo nel consiglio di amministrazione dell'istituto. Una decisione dettata da motivi razziali per la seconda sezione civile della Corte di Appello del tribunale di Milano. La sentenza è del 23 giugno e condanna Extrabanca a risarcire Bitjoka con un indennizzo di 80mila euro, tutto compreso, per il danno subito, non solo a livello professionale. Bitjoka, imprenditore italiano di origine camerunense, attivo sul fronte sociale e promotore della nascita di Extrabanca, di cui era vicepresidente, nel 2011 era stato l'unico nel consiglio di amministrazione a denunciare il comportamento discriminatorio nei confronti di un dipendente di origine senegalese, Cheik Tidiane Gaye. Il lavoratore denunciò il fatto che i dirigenti dell'istituto lo volevano dissuadere dal candidarsi alle elezioni comunali del 2011 con Pisapia a causa del suo colore della pelle edella sua razza, accomunandolo agli zingari, E poi l'invito a non pretendere di fare carriera, di diventare dirigente perché immigrato. Tutti fatti accertati da una sentenza del marzo del 2012 del tribunale del Lavoro di Milano che ha riconosciuto a Gaye di aver subito "molestie razziali". Bitjoka era stato l'unico tra il management a denunciare la cosa e a puntare il dito anche sui differenti tassi di credito tra i clienti stranieri e quelli italiani, più favorevoli agli ultimi. Un atteggiamento paradossale in una banca, fondata e presieduta da Andrea Orlandino nata con lo scopo di favorire mutui e prestiti ai cittadini di origine straniera. Quando Bitjoka, anche lui di colore, pone la questione, inviando pure un'informativa ai soci, si ritrova contro tutto il consiglio di amministrazione che nel giro di poche sedute vota una risoluzione per esautorarlo dal ruolo di vicepresidente. Il giudice Angelo Sbordone della Corte d'appello del Tribunale civile di Milano ha ribaltato la sentenza di primo grado e riconosciuto le ragioni di Bitjoka disponendo "un risarcimento del danno non patrimoniale connesso alla lesione dell'interesse a non subire discriminazioni per ragioni di razza o di origine etnica che affonda le radici morali e culturali, prima ancora che giuridiche, nelle norme fondamentali, articolo 2 e 3 della nostra Costituzione", Il giudice ravvede nella scelta di revocare l'incarico una discriminazione per motivi razziali. Oltre al risarcimento, Extrabanca, che ha filiali a Milano, Roma, Brescia e Prato, dovrà pubblicare in sintesi la sentenza sui maggiori quotidiani nazionali e integralmente sul suo sito internet per un anno. Per lo stesso giudice la pubblicità di questa sentenza "deve costituire un'efficace remora contro future discriminazioni". Soddisfatto Bitjoka, assistito dall'avvocato Fabrio Strazzeri: "Con questa sentenza si fa giustizia. Dopo la revoca dell'incarico mi sono dimesso dal cda perché ritenevo che l'istituto tradisse i principi sui quali era stata fondata". E aggiunge: "Nonostante le carte etiche e i valori che venivano propinati, il sostegno ai clienti stranieri era solo una copertura per prendere una fetta di mercato". Nel processo di appello si è accertato "che il credito concesso agli italiani era mediamente il doppio di quello dato agli stranieri". Il tasso sui mutui per gli immigrati era vantaggioso, sui prestiti personali era superiore del 2,8 per cento a quello praticato agli italiani. Grecia: tortura, la Corte europea dei diritti umani sanziona il governo Papandreou di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 6 luglio 2015 Abusi sui migranti, la Corte europea dei diritti umani sanziona il governo Papandreou. La sentenza costringe Tsipras a riforme strutturali del sistema. Questa volta Alexis Tsipras non c'entra nulla, l'Europa non se la può prendere con lui per la condanna ricevuta a Strasburgo il 25 giugno scorso. Quando sono successi i fatti che hanno portato alla sentenza della Corte Europea dei diritti umani eravamo in un'altra era politica, il premier greco di allora era infatti George A. Papandreou. La Grecia è stata condannata per avere violato l'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani che proibisce la tortura e ogni altra forma di trattamento inumano o degradante. I fatti risalgono al maggio del 2011 e nella loro crudezza costituiscono un manifesto di quanto gli Stati siano diventati crudeli nel trattare le persone che affrontano un percorso di migrazione. In questo caso si trattava di un signore che proveniva dall'Ucraina. Era un autista che lavorava per conto di un'azienda di trasporti polacca. Viene arrestato il 10 maggio del 2011 dalla polizia di frontiera a Igoumenitsa; è accusato di avere aiutato ben 46 immigrati afghani, pachistani e iracheni a superare il confine greco. Inizia così la sua odissea. Purtroppo il suo non è un caso isolato; è un caso paradigmatico di come le autorità greche hanno funzionato da sentinelle truci dell'Europa occidentale. Viene condotto in una camera di sicurezza della caserma di Igoumenitsa e ristretto in una cella di nove metri quadri con altre sette uomini, tutti fumatori, nonostante lui avesse segnalato di avere seri problemi ai bronchi. Vi trascorre poco più di due settimane. Il 26 maggio del 2011 viene trasferito nella prigione di Ioannina. Questa volta la cella è più grande, ben 35 metri quadri, ma la condivide con ben 34 persone. Per poco meno di quattro mesi vive dunque in un metro quadro. Siamo in Grecia dove il caldo si fa sentire. Ci si può immaginare come vivessero quelle persone stipate senza avere possibilità mai di stare in piedi contemporaneamente. A settembre viene trasferito nel carcere di Korydallos. Qui le condizioni migliorano ma di molto molto poco. La cella è di otto metri quadri e i detenuti in tutto sono quattro. Ognuno di loro ha due metri a testa. Le sue condizioni di salute peggiorano ma non gli è consentito di essere mai visitato da un medico in questo periodo. Nel frattempo arriva la condanna per trasporto illegale di immigrati e per avere violato la legge sull'immigrazione. Nella primavera del 2012 viene trasferito nella prigione di Corfù. Viene messo in una cella di poco più di sei metri quadri da dividersi in quattro detenuti. I letti sono solo due. L'acqua potabile è a pagamento così come la carta igienica. Per avere una medicina da lui ritenuta urgente ha dovuto aspettare ben quattro mesi. La sua storia finisce con la liberazione nel settembre del 2014. Trova la forza e un avvocato per scrivere alla Corte dei diritti umani. Il sistema carcerario greco dunque finisce sotto inchiesta europea, non solo per il sovraffollamento ma più in generale per l'assenza di condizioni dignitose di vita. Ad esempio nella prigione di Korydallos oltre all'affollamento insostenibile vi era una situazione igienico-sanitaria durissima da sopportare: le celle non disponevano di acqua calda e un intero reparto era senza docce. Durante i suoi tre anni di galera il signore ucraino ha sostanzialmente oziato. Mai traccia di un progetto lavorativo o educativo in cui è stato coinvolto. In Grecia oltre il 60% dei circa 12 mila detenuti è di nazionalità straniera. La sentenza del 25 giugno non è una sentenza pilota, come quelle subite invece negli ultimi mesi da Bulgaria e Ungheria, entrambe condannate per gli effetti devastanti prodotti dal sovraffollamento carcerario, sull'onda di quanto era avvenuto un anno e mezzo prima in Italia nel caso Torreggiani. La sentenza che riguarda la Grecia dunque non costringe il governo ellenico a mettere mano in modo sistemico a riforme che durino nel tempo così come è avvenuto da noi o come dovrà avvenire in Bulgaria e Ungheria. In ogni caso la decisione di Strasburgo racconta una storia esemplare del trattamento disumano riservato a chi aveva la sventura di finire nelle maglie della giustizia greca. Un trattamento che diventava ancora più duro nei centri per immigrati. Lo scorso febbraio 2015, all'indomani della sua elezione, Alexis Tsipras ha annunciato di chiudere il centro di identificazione per immigrati di Amygdaleza, alle porte di Atene, tristemente noto per le violenze che vi avvenivano e per il degrado in cui versavano le migliaia di persone che vi facevano ingresso durante l'anno. Lo scorso aprile il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha visitato caserme, centri per migranti e prigioni greche, comprese alcune carceri dove era stato recluso il signore ucraino che ha vinto la causa a Strasburgo. Nei prossimi mesi vedremo quali saranno le osservazioni degli ispettori europei e se le condizioni di vita nelle carceri e in quel che resta dei centri per migranti saranno complessivamente cambiate oppure no. Bangladesh: lettere da un campo profughi di Stefano Montesi Il Manifesto, 6 luglio 2015 Migranti. Nel 1993 un fotografo entra in uno dei campi in cui si trovano i primi profughi Rohingya. Che a rischio di essere scoperti gli affidano una disperata richiesta di aiuto. I bigliettini me li ritrovai in tasca senza neanche accorgermene. Era il 1993 e stavo prendendo un taxi per allontanarmi in fretta dal campo profughi di Shalimar Dhaba, in Bangladesh, quando improvvisamente venni circondato da un nugolo di ragazzini. Nelle orecchie avevo ancora la minaccia che i soldati di guardia al campo mi avevano rivolto poco prima, quando si erano accorti che stavo fotografando in giro senza avere nessun permesso da parte del governo. "Vattene subito altrimenti ti arrestiamo", avevano ordinato. Non me l'ero fatto ripetere. Prima di arrivare alla macchina che mi avrebbe riportato a Cox's Bazar, però, i bambini si fecero avanti assediandomi. Erano piccoli Rohingya, la minoranza in fuga dalla Birmania che popolava il campo profughi. Ridevano, sembrava stessero giocando, ma allo stesso tempo si facevano sempre più vicini spingendomi e mettendomi le mani addosso. Piccoli gesti rapidi che lì per lì mi lasciarono perplesso. Non riuscivo a comprendere cosa volevano da me. Lo avrei capito poco dopo, una volta in macchina quando, mettendomi le mani in tasca, scoprii una decina di foglietti accartocciati. Erano richieste disperate di aiuto affidate a un fotografo straniero trasformato per l'occasione nella classica bottiglia a cui un naufrago affida le sue speranze. Biglietti scritti a penna in inglese in cui si chiedeva di far conoscere al mondo, e in particolare alle Nazioni unite, le condizioni in cui erano costretti a vivere, le minacce quotidiane del governo del Bangladesh. "Ci espellono in maniera forzata verso la Birmania, e se non obbediamo ai loro ordini ci uccidono sparandoci. Molti di noi sono già morti, e altri sono stati arrestati e spediti in prigione", scrivevano i Rohingya di Shalimar Dhaba. In Bangladesh ero arrivato ai primi di gennaio del 1993. L'occasione per il viaggio era stato il matrimonio di un amico bengalese conosciuto alla Pantanella, l'ex caseificio romano occupato nell'89 dagli immigrati. Ma questo era solo un pretesto, perché in realtà volevo capire chi fossero i Rohingya. La curiosità verso questo popolo allora pressoché sconosciuto mi era venuta grazie a Tiziano Terzani. Il 23 aprile dell'anno prima aveva pubblicato sul Corriere della Sera un lungo e bellissimo articolo intitolato "Quando il paradiso è il Bangladesh" in cui raccontava la fuga dai villaggi della Birmania buddista della minoranza musulmana. "Donne e uomini allampanati, bambini silenziosi, fagotti di vecchi cenci, pentole affumicate. Sono i Rohingya, i musulmani della Birmania, che scappano in Bangladesh in cerca di rifugio", scriveva il grande giornalista. Ancora oggi i Rohingya sono una minoranza musulmana in un Paese, la Birmania, in cui la maggioranza della popolazione è di fede buddista. Vivono nella regione di Rakhine, nella parte occidentale del paese, e da sempre sono perseguitati dal regime di Rangoon che non li riconosce neanche come propri cittadini attuando verso di loro ogni forma di discriminazione, sia etnica che religiosa. Stupri e uccisioni sono all'ordine del giorno nella vita di quello che l'Onu ha definito un popolo "senza amici e senza terra". Attualmente vivono in Birmania un milione di Rohingya, ma si calcola che almeno altrettanti siano fuggiti nei paesi confinanti. Nei mesi scorsi hanno fatto il giro del mondo le immagini dei barconi colmi di Rohingya abbandonati in mezzo al mare e respinti dai governi di Thailandia, Malesia e Indonesia. Nel 1993 l'esodo era cominciato da un paio di anni e aveva già portato in Bangladesh più di 230 mila Rohingya. Il 27 gennaio arrivai a Cox's Bazar, a poco più di 400 chilometri dalla frontiera con la Birmania. Già allora la città era famosa tra i turisti per le sue spiagge naturali di sabbia, considerate tra le più lunghe al mondo. Il campo di Shalima, meta del viaggio, si trovava in una località chiamata Ukhiya, a 28 chilometri da Cox's Bazar. La strada per arrivarci passava attraverso boschi fittissimi e costeggiava baracche e mercatini tra i quali le vacche gironzolavano libere mischiandosi a bambini nudi e a vecchi che chiedevano l'elemosina. Man mano che con l'autista ci avvicinavamo a Shalimar cominciarono a spuntare barriere di filo spinato dietro le quali, in lontananza, si vedevano i campi profughi. Ne contai 14, affollati da una "marea" di esseri umani, come la definiva Terzani: "230 mila Rohingya si accalcano in una serie di campi costruiti lungo la strada che da Cox's Bazar conduce alla cittadina di Taknaaf". Uno di quei campi era Shalimar Dhaba. "È il più grande e anche il migliore della zona", mi disse l'autista. La cosa che più mi colpì una volta entrati nel campo fu il silenzio. Inaugurato il 13 settembre del 1992, il 18 gennaio 1993, giorno del nostro arrivo, ospitava 8.753 persone, tra le quali si contavano 1.743 famiglie. In quattro mesi - era scritto su una lavagna - si erano registrate 211 nascite e 13 decessi. 1.070 erano invece i profughi rimpatriati in Birmania (242 famiglie). Tutta quella moltitudine sembrava però non avere nessuna voce, visto il silenzio che regnava ovunque. E questo la diceva lunga sulla libertà di cui poteva godere chi era costretto a vivere a Shalimar. L'unico rumore era rappresentato dai passi dei soldati sul brecciolino che ricopriva le strade del campo. Due file di baracche di legno si inseguivano lungo quella principale e sembravano perdersi all'infinito. Va detto che il campo appariva estremamente pulito, il che aumentava ulteriormente il contrasto con tutto ciò che si trovava all'esterno. "Posso scattare delle fotografie?" chiesi a tre uomini, tre Rohingya che ci vennero incontro. "Non ci sono problemi, puoi fare quello che vuoi", fu la risposta. Chiaramente non erano loro a decidere cosa si potesse o non si potesse fare nel campo. Infatti non feci in tempo a prendere la macchina fotografica che subito venni fermato da un soldato e condotto in una baracca di legno, l'ufficio del comandante del campo. Per un pò restai lì seduto su una sedia in attesa. L'interno era buio. L'unica finestra della baracca era chiusa ma dagli spazi vuoti che separavano tra loro le travi filtrava la luce esterna. Anche quella, però, dopo un po' prima si affievolì e alla fine sparì quasi del tutto. Mi accorsi allora che negli spazi tra le tavole erano spuntati tanti occhi che mi guardavano, uno dopo l'altro tutto intorno alla baracca. Erano i Rohingya che, incuriositi, erano venuti a vedere lo straniero arrivato nel campo. Dopo un pò che ero seduto, il soldato che mi sorvegliava si decise ad aprire la finestra e allora quegli occhi diventarono volti di persone, bambini e uomini che si affacciarono per guardarmi. L'effetto fu strano: era come guardare un quadro la cui cornice era quell'unica finestra. Non resistetti, presi la macchina fotografica e cominciai a scattare. Una delle fotografie che feci è quella che illustra questo racconto. Quanto accadde dopo è una via di mezzo tra dramma e comicità. Il comandante del campo pretese che gli consegnassi le fotografie scattate. Gli misi in mano un rullino vergine preso dalla scorta che tenevo nello zaino, lui lo aprì e guardandolo controluce disse contrariato: "Ma qui non vedo nessuna fotografia, dove sono?". "Guardi che deve farlo sviluppare" risposi. Mi interrogarono per tre ore prima di convincersi a lasciarmi andare. Tre ore durante le quali, capii più tardi, i Rohingya si organizzarono per far arrivare all'esterno del campo la loro richiesta di aiuto. Quando finalmente uscii dalla baracca del comandante, le lettere erano pronte e i bambini istruiti su cosa fare. Oggi so che rischiarono parecchio per farmi avere quei messaggi, e posso solo immaginare cosa sarebbe accaduto loro se li avessero scoperti. "Noi non vogliamo tornare in Birmania", era scritto su quei biglietti. E ancora: "Il potere del governo di Myanmar deve essere trasferito ai membri eletti della N.L.D. (la National League for Democracy, il partito guidato dalla premio Nobel Aung San Suu Kyi. La stessa Lady è stata criticata a maggio dal Dalai Lama per il suo silenzio sulla tragedia Rohingya, ndr). Ma soprattutto: "Vogliamo personale delle nazioni unite nei nostri campi". Tornato in Italia portai questi biglietti alle redazioni di alcuni giornali, senza però ottenere grande attenzione. Nel suo reportage Terzani invitava la comunità internazionale a farsi carico di questo popolo abbandonato a se stesso, pur capendo che questa non sarebbe stata in grado di imporre niente al governo di Rangoon. Ventidue anni dopo la situazione non è cambiata e oggi i Rohingya continuano a essere perseguitati e a fuggire. Egitto: carcere per giornalisti che diffondono bilancio sbagliato vittime attacchi a esercito Nova, 6 luglio 2015 Le autorità egiziane intendono mandare in carcere quei giornalisti che diffondono notizie errate con dei bilanci sbagliati sul numero delle vittime dell'esercito a seguito di attentati terroristici. Il governo sta elaborando un disegno di legge che prevede il carcere per i giornalisti che diffondono notizie con numeri sbagliati su quanti soldati vengono uccisi in eventuali attacchi armati, in modo da evitare il ripetersi di quanto avvenuto per gli attentati della scorsa settimana nel nord del Sinai. Il disegno di legge prevede oltre che due anni di carcere anche la possibilità degli arresti domiciliari e delle espulsioni per i giornalisti stranieri. Il provvedimento dovrà essere sottoposto nei prossimi giorni al presidente, Abdel Fattah al Sisi.