Giustizia: l'Europa fa "ammuina" anziché sanzionare l'Italia per lentezza delle procedure di Maurizio Turco radicali.it, 5 luglio 2015 Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa da quindici anni chiede all'Italia di accelerare i tempi della giustizia penale, civile e amministrativa perché la lentezza delle procedure mette in pericolo lo Stato di diritto. In risposta l'Italia preannuncia riforme che non fa, prende impegni che non mantiene e giura che vi siano miglioramenti che il tempo smentisce. Da quindici anni è la legge borbonica del "facite ammuina" che regola i rapporti dell'Italia con il Consiglio d'Europa e non il suo Statuto. Il 26 giugno sulla prima pagina del sito internet dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Apce) è stata pubblicata una notizia dal titolo Un numero "allarmante" di sentenze della Corte di Strasburgo sono deliberatamente ignorate. Si tratta di una risoluzione della Commissione sugli affari giuridici, che sarà sottoposta la voto dell'Assemblea plenaria nel mese di settembre, nella quale si osserva che quasi l'80 per cento delle cause sono generate da solo nove paesi nei quali problemi strutturali persistenti spesso generano denunce simili su questioni quali le cattive condizioni di detenzione, l'eccessiva durata delle procedure giuridiche interne, o la cultura della sicurezza che consentono i maltrattamenti da parte della polizia. Tra i nove paesi non poteva mancare l'Italia, peraltro sul piedistallo del disonore con 2.622 casi, ma è interessante vedere chi sono i nostri competitor: Turchia (1.500 casi), Russia (1.474 casi), Ucraina (1.009 casi), Romania (639 casi), Grecia (558 casi), Polonia (503 casi), Ungheria (331) e (325 casi). Alla risoluzione è allegato un addendum nel quale si approfondisce la situazione di ciascun paese. Per quanto riguarda l'Italia i principali problemi sono: durata eccessiva delle procedure giudiziarie e, a tale riguardo, mancanza di un ricorso effettivo alle procedure giudiziarie, nonché espulsione di cittadini stranieri in violazione della Convenzione. Sulla durata eccessiva delle procedure giudiziarie si rileva, tra l'altro, che il sistema giudiziario italiano è afflitto da decenni da questo problema che ha aumentato ogni anno l'arretrato di casi da trattare. La maggior parte degli attuali 2000 casi in materia riguardano situazioni prima del 2001, anno in cui fu approvata la legge sull'equa riparazione (Legge Pinto), mentre i casi più recenti riguardano proprio il funzionamento di questa legge. Nella riunione del marzo 2012, il Comitato dei Ministri ha ancora una volta considerato che la situazione è "molto preoccupante" e "costituisce un grave pericolo per il rispetto dello Stato di diritto, portando ad una negazione dei diritti sanciti dalla Convenzione" e rappresenta una "grave minaccia per l'efficacia del sistema della Convenzione". Nella riunione del dicembre 2012, il Comitato dei ministri ha ribadito ancora una volta che i ritardi eccessivi nell'amministrazione della giustizia portano a "una negazione dei diritti sanciti dalla Convenzione" e sono "una grave minaccia per l'efficacia del sistema della Convenzione " e "(sottolinea) nuovamente l'urgenza di fermare il flusso di nuove denunce ripetitive alla Corte europea e l'urgenza di raggiungere un soluzione duratura al problema strutturale della durata eccessiva dei processi". Sulla mancanza di un ricorso effettivo alle procedure giudiziarie la Cedu ha constatato che l'esecuzione da parte dell'Italia delle decisioni prese in ragione della legge Pinto (risarcimento per la lentezza delle procedure giudiziarie) vanno da 9 a 49 mesi ciò ha comportato un tale numero di ulteriori ricorsi e pertanto la Cedu ha ritenuto che questo non solo aggrava la responsabilità d'Italia ai sensi della Convenzione, ma è anche una minaccia per il futuro del sistema europeo dei diritti dell'uomo. Il rapporto tra il Consiglio d'Europa e la Repubblica italiana è si è ormai uniformato al principio borbonico del "facite ammuina". Già nel 1997 il Comitato dei ministri teneva a far presente in un documento sulla situazione italiana, che "l'eccessiva lentezza della giustizia costituisce un pericolo importante, in particolare per il rispetto dello Stato di diritto". E nel 2000 nella risoluzione 135 inerente la "Durata eccessiva delle procedure giudiziarie in Italia" non mancava di sottolineare che "la questione dell'adozione da parte dell'Italia di misure di carattere generale per evitare nuove violazioni di questo tipo della Convenzione è all'ordine del giorno del Comitato dei Ministri dal momento che le sentenze della Corte, dagli anni ‘90, hanno evidenziato l'esistenza di gravi problemi strutturali nel funzionamento del sistema giudiziario italiano." In sintesi: è dagli anni 90 che senza soluzione di continuità il sistema giudiziario italiano ha problemi strutturali tali da mettere in pericolo lo Stato di diritto (pro memoria: i referendum Tortora per la giustizia giusta sono del 1986). In tutti questi anni lo Stato italiano nei confronti del Consiglio d'Europa ha preannunciato riforme, preso impegni, giurato che vi fossero miglioramenti. Alla luce di tutto questo, dopo 15 anni possiamo e dobbiamo trarne alcune conclusioni. In primis, in Italia lo Stato di diritto è stato massacrato. Successivamente, siamo di fronte a una classe dirigente che, se non si vuol parlare di deliberata presa in giro, non è capace di governare o, se lo fa, lo fa a spese dello Stato di diritto. Infine, siamo di fronte anche a un Consiglio d'Europa che non è stato capace di agire efficacemente e in tempo utile anche se c'è ancora qualcosa che può fare. L'Italia ha sottoscritto l'articolo 3 dello Statuto con il quale "Esso si obbliga a collaborare sinceramente e operosamente" e a norma dell'articolo 7 "ogni Membro del Consiglio d'Europa che contravvenga alle disposizioni dell'articolo 3, può essere sospeso dal diritto di rappresentanza". Che l'Italia non collabori sinceramente e operosamente è ben documentato da 15 anni di Risoluzioni del Comitato dei ministri. Giustizia: i magistrati sappiano valutare l'effetto delle loro decisioni sulle imprese di Giovanni Legnini (Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura) Corriere della Sera, 5 luglio 2015 I giudici non possono evitare di considerare le conseguenze delle decisioni. Il Csm vuole formare un nuovo profilo di magistrato, capace di porsi in sintonia con le aspettative dell'Italia. Il rapporto tra giurisdizione ed economia è tornato in forte evidenza dopo i casi Ilva e Fincantieri. Per la magistratura, cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie non può più essere un tabù: occorre che essa orienti sempre più le sue decisioni alla piena consapevolezza dell'incidenza sistemica della giurisprudenza. Il rapporto tra decisioni dei giudici e vita delle imprese nonché il conflitto tra la tutela della salute e dell'ambiente, da un lato, e l'iniziativa economica e i livelli di occupazione, dall'altro, sono tornati in forte evidenza negli ultimi giorni a seguito dei provvedimenti di sequestro preventivo presso l'Ilva e la Fincantieri. L'adozione di un decreto legge da parte del Governo per affrontare le emergenze produttive ed occupazionali ravviva ancor di più un dibattito, pregevolmente alimentato anche da Dario Di Vico con due interessanti articoli su questo quotidiano, che investe temi a lungo discussi, anche in occasione di precedenti interventi legislativi d'urgenza che hanno interessato la stessa Ilva. Il contenuto del decreto legge varato dal governo, che sembra orientato a porre rimedio ad un incompleto e difettoso quadro normativo, offre lo spunto per ritenere che non siamo di fronte all'ennesimo capitolo del conflitto tra giudici e imprese o tra politica e magistratura. Al contrario, proprio tali vicende suggeriscono di superare l'antica polemica sul presunto ruolo di supplenza della magistratura di cui, spesso, si è parlato alludendo all'invasione del campo riservato ad altri poteri dello Stato. Se è vero che in passato certe iniziative e decisioni della magistratura hanno dato l'impressione di un'indebita ingerenza, oggi l'esercizio quotidiano della giurisdizione merita di essere valutato al cospetto di uno scenario radicalmente nuovo. Non è il giudice che sceglie linee interpretative evolutive per dare sfogo a personali convincimenti o peggio alle sirene della visibilità mediatica; è, invece, il complessivo indebolimento dell'ordinamento statuale nell'offrire risposte normative adeguate, che si aggiunge alla velocità dei cambiamenti degli scenari economico-sociali ed al crescente peso della giurisprudenza europea, ad aprire nuovi spazi che spesso l'intervento giudiziale è chiamato a coprire. Ne discende il rischio che deflagrino equivoci e cortocircuiti e i casi Ilva e Fincantieri ne costituiscono una dimostrazione. Nella prospettiva del sistema, cosa è opportuno faccia il legislatore, a fronte di tale crescente mutamento del rapporto tra legislazione e giurisdizione, non spetta a me dirlo, tale è il rispetto che custodisco per la vita parlamentare alla quale mi sono dedicato con passione per un decennio. Ciò che è certo è che la qualità e la tempestività della legislazione sono andate declinando ed occorre porvi rimedio se si vuole assicurare certezza del diritto e tutelare i diritti costituzionali dei cittadini. Ma ad essere chiamati in causa sono l'evoluzione e l'ampliamento del ruolo della giurisdizione alla quale non può che corrispondere una crescente responsabilità nell'emanazione delle decisioni. Se sulla magistratura si riversano maggiori aspettative e domande, occorre che essa orienti sempre più le sue decisioni a ponderazione, specializzazione e piena consapevolezza della forte incidenza della giurisprudenza sul caso concreto e sul sistema in generale. Così, cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie, il loro impatto sull'economia e sulla società non può più essere considerato un tabù. È necessario prendere atto che al giudice - lo ha mirabilmente chiarito uno dei nostri massimi giuristi, Natalino Irti - non spetta più solo di "fare comunicare norma e fatto". Dunque, se le sue decisioni producono conseguenze sistemiche, egli non può mai prescindere dalla previsione degli effetti del proprio rendere giustizia. Occorre, pertanto, farsi carico, con l'istituto della motivazione, di dar conto delle ragioni che inducono a scegliere una soluzione concreta a discapito delle altre. Nella vicenda Fincantieri, ad esempio, è certo che il diritto alla salute e a vivere in un ambiente salubre fosse effettivamente a repentaglio e comunque risultasse prevalente sul diritto al lavoro e alla libertà di impresa? Era da escludere ogni altra misura diversa dal sequestro preventivo? Si è correttamente declinato quel principio che la Corte Costituzionale, pronunciandosi nel 2013 proprio sui vecchi decreti Ilva, affermò circa il rapporto di integrazione reciproca di tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione? Per far fronte a simili interrogativi e sviluppare una cultura della giurisdizione sempre più moderna occorre superare antiche e recenti polemiche, chiusure e una certa incomunicabilità, per far sì che ciascuno dei poteri, quindi anche quello giudiziario, possa concorrere, con il necessario rigore costituzionale, alla ripresa del Paese e al rafforzamento del nostro sistema democratico. Il Consiglio superiore della magistratura intende muoversi in tale direzione avviando un cammino riformatore sui percorsi di carriera, incarichi direttivi, valutazioni di professionalità, organizzazione e comunicazione dell'attività giudiziaria, formazione e specializzazione dei magistrati. Il fine ultimo consiste nel formare un nuovo profilo di giudice autonomo e indipendente, dotato di una sensibilità capace di porlo in sintonia con le aspettative del Paese e dei cittadini. Ne va della legittimazione dell'operato dei giudici, tra i beni più preziosi di cui disponga una Repubblica democratica. Giustizia: "rubati" 236 miliardi al Pil italiano, questo il costo di evasione e corruzione di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 5 luglio 2015 Il rapporto del centro studi Economia reale di Baldassarri rivela come la lotta agli sprechi in 13 anni avrebbe fatto salire il Pil da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi. Immaginate un Paese dove il debito pubblico sia al 58,3% di un Pil superiore di qualcosa come 236 miliardi al nostro di oggi. Roba da far schiattare d'invidia tutta la cancelleria tedesca, cominciando da Angela Merkel. Quel Paese sarebbe l'Italia, se solo si fosse fatta una lotta seria a sprechi, corruzione ed evasione fiscale. La stima è nell'ultimo rapporto sull'Italia del centro studi Economia reale dell'economista Mario Baldassarri. Neppure stavolta mancherà chi di fronte a calcoli del genere scrolla le spalle, riesumando il formidabile aforisma di quel Pier Peter impersonato dieci anni orsono dal comico Antonio Albanese: "L'economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti". Ma qui purtroppo c'è davvero poco da ridere. I numeri, innanzitutto. Baldassarri parte dal presupposto che sprechi e corruzione siano direttamente proporzionali all'andamento della spesa pubblica corrente. E per valutare che cosa sarebbe accaduto dal 2002 al 2014 se si fosse davvero dichiarata la guerra a questa piaga ha fatto due ipotesi, entrambe agganciate a drastici interventi sulla spesa pubblica corrente. La prima, il taglio secco di 45 miliardi, da destinare per 40 miliardi alla riduzione delle tasse (25 di Irap e 15 di Irpef) e per 5 miliardi agli investimenti. La seconda il congelamento della spesa corrente ai livelli del 2002 e l'eliminazione dei 25 miliardi di trasferimenti a fondo perduto. Le proiezioni sono impressionanti. In tredici anni il Pil sarebbe salito da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi. I posti di lavoro sarebbero cresciuti fino a un milione e 180 mila posti di lavoro, con un deficit pubblico ridotto fino a 105 miliardi e un debito pubblico ridimensionato di una somma enorme: compresa fra 530 e 840 miliardi. E la lotta all'evasione, continua la simulazione di Baldassarri, avrebbe fatto il resto. In questo caso l'ipotesi è una sola: controlli incrociati severissimi utilizzando tutte le banche dati disponibili e l'introduzione di meccanismi di deduzione per alimentare il conflitto d'interessi. Il concetto è semplice: se so che posso detrarre dalle tasse il conto dell'idraulico, gli chiederò la fattura e lui pagherà le tasse. Grazie a questo piano d'azione, stima l'economista, sarebbe stato possibile recuperare una decina di miliardi circa per dieci anni consecutivi. Con il risultato che il nostro Pil potrebbe essere ora più alto di 95 miliardi e il debito pubblico più basso di 266. Fosse andata davvero così, chiosa il documento che viene presentato domani a Roma, l'Italia avrebbe potuto rispettare senza alcuna difficoltà il "famigerato" Fiscal compact e la nostra economia, navigherebbe in acque ben più tranquille: con un Prodotto interno lordo superiore del 17 per cento circa a quello attuale. Se poi a tutto questo si fosse aggiunta una condizione astrale favorevole, ovvero un euro non così sopravvalutato rispetto al dollaro, ecco che si sarebbero schiuse le porte del paradiso. Secondo il rapporto del centro studi Economia reale il super-euro ci è costato dal 2002 al 2014 ben 168 miliardi di Pil e 403 miliardi di debito pubblico. Ma purtroppo non è andata così. E Baldassari, che per ben cinque di quegli anni ha avuto una responsabilità diretta, come viceministro dell'Economia del governo di Silvio Berlusconi, non esita a ricordare nel rapporto anche quella fase piena di scelte controverse e titubanze, e poi di contrasti nell'esecutivo, con minacce di dimissioni reciproche mai portate a compimento, sfociati in una pace che non ha portato a nessun cambiamento concreto. Tanto sul piano della lotta agli sprechi e alla corruzione quanto su quello del contrasto vero all'evasione. "Perché non si è mai fatto nei quindici anni passati e non si profila tuttora che qualcuno intenda farlo, almeno per i prossimi cinque anni?", si chiede Baldassarri. "Semplice: è un nodo squisitamente e profondamente politico, o meglio è un nodo di interessi contrapposti. Da un lato ci sono i circa 2 milioni di italiani che in tutti questi anni hanno continuato a prosperare ed accumulare patrimoni illeciti con gli sprechi e le ruberie di spesa pubblica e con l'evasione fiscale. Dall'altro lato ci sono gli altri milioni di italiani che hanno subito e subiscono la crisi e la disoccupazione con prospettive disarmanti per i giovani che scappano sempre più all'estero. Questi ultimi hanno perso tra il 2002 ed il 2014 circa 250 miliardi di Pil, hanno subito il raddoppio della disoccupazione e nonostante le sempre precarie condizioni della nostra finanza pubblica, hanno anche subito pesanti aumenti della tassazione". Una situazione, conclude il rapporto, destinata a non durare a lungo senza gravi conseguenze. "L'Italia potrà anche galleggiare, ma certamente il Paese continuerà a subire un processo di bradisismo economico e sociale" Giustizia: Massimo Brandimarte, magistrato galantuomo, dice basta di Valter Vecellio radicali.it, 5 luglio 2015 Massimo Brandimarte, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto se ne va in pensione. È una notizia? Sì, se questo andare in pensione è, in sostanza, un prender atto che per vent'anni si è cercato di fare il proprio dovere con scienza e coscienza; ma che alla fine aveva più possibilità il bimbetto armato di secchiello che voleva svuotare il mare; che si può anche fare per vent'anni il don Chisciotte, ma alla fine i mulini a vento sono giganti invincibili contro cui nulla si può. Così il presidente Brandimarte getta la spugna, abbandona; se ne va in pensione anticipata. Come l'avrà presa, la notizia, il ministro della Giustizia Andrea Orlando? Qualcuno glielo avrà riferito? Ma certo, come fa a non saperlo? E impossibile che non sappia che Brandimarte, 62 anni, per venti è stato uno di quei magistrati galantuomini come se ne leggono nei racconti di Leonardo Sciascia o di Mario Soldati; uno di quei magistrati rari, ma che da soli salvano la toga e quello che la toga rappresenta. Uno di quei magistrati che dà valore a parole come "diritto", "legge", "legalità"; e tanto più quando si tratta di garantire i diritti dei detenuti: uno che prende alla lettera il suo compito di sorvegliare che le condizioni in carcere non siano tali da costituire un pena nella pena, una mortificazione di quella dignità di cui ogni essere umano ha diritto, qualsiasi sia la cola commessa. Pensate: visitava le strutture carcerarie, raccoglieva testimonianze "scomode", verificava il livello del degrado e lo stato della salute dei cittadini all'interno delle patrie galere. Un "matto", un inguaribile idealista. Come "matti" e inguaribili idealisti sono tutti coloro che pensano sia un dovere fare il proprio dovere. Un ruolo delicatissimo, quello del dottor Brandimarte; da lui dipendeva, nel senso letterale, la vita, la salute, di migliaia di persone. Una fama che per presto supera il distretto di Taranto, la stessa regione Puglia; e una quantità di detenuti per questo cerca di farsi assegnare o trasferire al distretto di Taranto. Chi lo conosce racconta che pur di non lasciarsi pratiche inevase, si porta i fascicoli a casa, per poterli così "lavorare" anche nei giorni festivi; e invece di delegare la soluzione dei mille problemi del carcere al Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, preferisce trovare lui il modo di risolverli. Tipo davvero strano, il dottor Brandimarte. Tanto strano che rendendosi conto che il suo lavoro, i suoi sforzi sono di fatto cosa vana, che il contesto non viene intaccato, che tutt'intorno nulla muta, ecco che dice basta. Col 1 luglio lascia l'incarico. Per l'occasione lui stesso organizza un evento a cui invita rappresentanti delle istituzioni locali e colleghi della magistratura. Oltre loro due soli politici: Marco Pannella, e la segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini (l'ho detto che Brandimarte è un "matto", un inguaribile idealista). E coglie l'occasione per levarsi le tante pietre che tiene nelle scarpe. Traccia una diagnosi sullo stato di salute nelle carceri, snocciola una serie di dati inquietanti: trenta morti dietro le sbarre solo dall'inizio del 2015. L'ultimo si chiama Giacomo M. Storia da raccontare: detenuto nel carcere di Bergamo, Giacomo lamenta per settimane dolori lancinanti allo stomaco. Fino al giorno in cui non riesce a muoversi più. Immobilizzato nella branda. Finalmente lo portano in ospedale. Troppo tardi. Il referto parla di tumore al pancreas in stato avanzato, metastasi diffuse ovunque che divorano già la sua vita. "Spero che a nessun altro debba toccare la stessa fine. Qualsiasi cosa uno abbia fatto in vita, non è giusto che muoia per la pena". Questa le ultime parole di Giacomo. "Un caso esemplare", dice Brandimarte. Che sillaba: "Il diritto alla salute dei carcerati in Italia è negletto. Ad esempio è scandaloso che in Puglia i detenuti malati non godano di alcuna corsia preferenziale per ottenere i medicinali dalle Asl". Secondo i dati della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria su oltre 53mila detenuti, due terzi sono malati. Dati confermati da alcuni recenti studi della Regione Toscana che, esaminando la situazione della carceri in altre sei regioni, ha confermato come i malati nelle carceri rappresentino tra il 60 e il 78 per cento della popolazione totale. Mestiere davvero difficile, quello del Giudice del tribunale di Sorveglianza. Francesco Maisto, presidente di quello di Bologna avverte che nel suo distretto "la situazione è drammatica". Il problema principale è nei numeri ridotti, di magistrati e di personale di cancelleria. A Bologna i giudici sono quattro più il presidente, come da organico, ma uno è in malattia e per far fronte al lavoro "ne servirebbero il doppio", dice Maisto. Vacante è il posto previsto a Modena, cui fanno supplenza i giudici di Bologna. Ancora più seria è la questione a Reggio Emilia dove c'è un solo magistrato (sarebbero due, da organico), competente anche su Parma e Piacenza, con circa 1.200 detenuti da giudicare, più ovviamente i casi di persone in libertà. Non è molto più bassa la media di detenuti per ciascuno degli altri magistrati. A ciò si aggiunge che negli ultimi sei anni "è stata ridotto del 37 per cento il personale di cancelleria". A breve, inoltre, potrebbero non essere più a disposizione le sette unità di polizia penitenziaria che fanno lavoro di supporto negli uffici, perché dovranno riprendere servizio nelle carceri. Manca il direttore amministrativo, in "prestito" una volta ogni 15 giorni da Modena, con l'effetto di difficoltà a pagare periti ed esperti. Tutto questo determina "un rallentamento nella fissazione delle udienze e ritardi nella concessione dei benefici", spiega Maisto, anche se il tribunale "tiene botta perché le persone lavorano molto più del dovuto e del sufficiente. Governo e Parlamento aumentano le competenze dei tribunali di Sorveglianza, ma non si pongono il problema di come farli funzionare. Da parte del ministero della Giustizia c'è un problema di gestione del personale". A Bologna, grazie ad una convenzione con la Provincia, c'era un servizio prestato da volontari di alcune associazioni. Con il passaggio alla Città Metropolitana, queste convenzioni sono a rischio, con un ulteriore venir meno di risorse. Giustizia: prelievo e profilo genetico agli arrestati, ecco come funziona la banca del Dna di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 5 luglio 2015 Approvato il regolamento dal Consiglio dei Ministri. Il Guardasigilli Orlando: "Lotta al crimine più efficace". Le serie tv poliziesche dovranno aggiornarsi, e con esse gli italiani che tanto le amano: d'ora in poi al "colpevole" che finisce in manette non saranno prese solo le impronte digitali, ma anche due campioni di saliva. Dopo 10 anni di attesa, anche l'Italia entra nell'Europa del Dna, con una piccola rivoluzione che riguarderà molti dei 52.754 detenuti presenti nelle carceri, i quali man mano dovranno essere sottoposti ai prelievi. Sono gli effetti del regolamento varato dal Consiglio dei ministri in attuazione della legge 85 del 2009 di ratifica del trattato di Prüm che istituì la banca dati tra i 28 Paesi dell'Unione, alla quale l'Italia era tra i pochi non ancora connessi. "Bisognava dare alla magistratura e alle forze di polizia strumenti di indagine più efficaci per trovare i responsabili dei crimini, in particolare di quelli violenti contro le donne, ma anche per scagionare gli innocenti", spiega il ministro della Giustizia Andrea Orlando. E i ritardi? Il Guardasigilli non accusa, ma considera: "È abbastanza incredibile che, in un Paese in cui la domanda di sicurezza occupa spazi incredibili nelle campagne elettorali, una cosa come questa non sia stata mai fatta. Noi abbiamo dato una risposta senza evocare e cavalcare la paura". Non tutti coloro che entrano in contatto con la giustizia saranno sottoposti al prelievo dei campioni genetici, che riguarderà, per esempio, chi viene condannato in via definitiva e chi finisce in custodia cautelare o ai domiciliari, gli arrestati in flagranza o i fermati, se la misura è convalidata dal giudice. Tra gli esclusi, i condannati per reati fallimentari, tributari, relativi a intermediazione finanziaria, per bancarotta fraudolenta e delitti colposi. In caso di assoluzione definitiva perché il fatto non costituisce reato o perché non è previsto dalla legge come reato, il Dna viene cancellato definitivamente. Nelle carceri sarà allestita una "Stanza bianca" dove personale del ministero della Giustizia farà i prelievi (nel 2011 furono spesi più di un milione di euro per appositi kit che non si sa se sono ancora utilizzabili). I campioni saranno esaminati nel laboratorio centrale allestito a Roma nel carcere di Rebibbia. I profili genetici saranno inviati alla banca dati gestita dal ministero dell'Interno ma senza i nomi dei soggetti cui fanno riferimento, che saranno comunicati solo quando un Dna sospetto combacia con uno di quelli dell'archivio. "Una misura concordata con il garante della privacy, perché non siamo di fronte a un Grande fratello genetico", dice Orlando. Anche se saranno necessari almeno dieci anni prima di costituire un archivio sufficientemente ampio, l'obiettivo è la lotta al terrorismo, alla criminalità internazionale e all'immigrazione clandestina attraverso una rete che permetta a ciascun Paese di accedere agli archivi degli altri. C'è poi il capitolo dei cadaveri "senza nome", i resti di persone che possono essere identificate prelevando il Dna dai parenti, che poi viene distrutto a fine operazioni. In Italia ci sono 1.283 casi del genere a fronte di quasi 30 mila persone scomparse e non rintracciate. In Gran Bretagna, dove dal 1995 è stato registrato il Dna di 4,5 milioni di individui e quello di altri 450 mila non ancora identificati, è stato possibile dare un nome al 45% dei soggetti che hanno lasciato tracce biologiche sulla scena del delitto, secondo European Network Forensic Science International. Finora, la raccolta dei campioni è stata fatta con procedure diverse da carabinieri e polizia di Stato che conservano in archivi informali, sui quali qualcuno ha anche sollevato dubbi, circa 50 mila profili genetici che saranno riversati nella banca dati nazionale. Giustizia: ministro Orlando "con banca dati Dna a forze ordine tecnologie d'avanguardia" Dire, 5 luglio 2015 Il Consiglio dei Ministri di ieri ha approvato in via preliminare lo schema del Regolamento previsto dalla legge 30 giugno 2009, n. 85, di ratifica del Trattato di Prum. L'Italia ha provveduto in tal modo alla ratifica del Trattato di Prum, atto che rappresenta un completamento degli accordi di Schengen, che rafforza la cooperazione transfrontaliera nella lotta ai fenomeni del terrorismo, dell'immigrazione clandestina, della criminalità internazionale e transnazionale e formalizza l'impegno fra le Parti contraenti a creare schedari nazionali di analisi del Dna e a scambiare le relative informazioni sui dati l'accesso ai dati inseriti negli archivi informatizzati. Con il provvedimento è istituita una Banca dati presso il Ministero dell'Interno a cui si affianca il laboratorio centrale del Dna presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. "Con questi strumenti l'Italia sarà all'avanguardia nell'uso di tecnologie chiave, sempre più sicure ed affidabili, nella lotta delle forze dell'ordine contro i crimini violenti", dichiara il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha illustrato il provvedimento in Consiglio dei ministri. "In questo periodo - ha continuato - sono infatti aumentate le preoccupazioni e l'allarme sociale su numerosi aspetti: la minaccia terroristica, con le necessità di rendere la collaborazione transfrontaliera sempre più efficace e immediata, i problemi derivanti dalle ondate migratorie, la cresciuta mobilità internazionale, ma anche l'impatto della criminalità comune, ed in particolare dei crimini violenti contro le donne". "Offrire alla magistratura e alle forze dell'ordine strumenti avanzanti, funzionanti e rispettosi della tutela delle persone - ha concluso il Guardasigilli - consentirà non solo di assicurare alla giustizia chi si rende responsabile di reati, ma funzionerà anche da deterrente per i recidivi, che rappresentano larga parte degli autori di reati, determinando così un'opera fondamentale di prevenzione. Il tutto nel pieno rispetto delle norme della privacy". Gli obiettivi che l'adozione del regolamento consente sono molteplici: la garanzia delle necessarie tutele di privacy e anonimato, la maggiore certezza dei riscontri, la tempestività delle verifiche, il coordinamento di questi aspetti delle attività investigative. Per individuare i responsabili di azioni criminali e fermarli, ma anche per escludere chi non è coinvolto. Non sarà un Grande Fratello genetico, ma uno strumento fondamentale in tema di innovazione, sicurezza e anche risparmio: sul versante internazionale, rafforza la cooperazione tra Stati sul fronte delle prevenzione e repressione del terrorismo e dell'immigrazione clandestina; sul versante interno, per la soluzione di casi giudiziari complessi, per il ritrovamento di persone scomparse, per l'identificazione di persone decedute rimaste non identificate. Importanti indagini note alla cronaca non avrebbero avuto esito positivo senza il fondamentale strumento delle indagini sul Dna. Ovunque nel mondo l'adozione di nuove tecniche di indagine e di strumenti avanzati ha consentito di aumentare esponenzialmente il numero dei responsabili accertati di questi crimini. Ovunque i risultati sono clamorosi, anche nella soluzione dei cosiddetti cold case, i casi irrisolti da lungo tempo. In Germania, dove la Banca è operativa dal 1998 e sono custodite le tracce genetiche di oltre 500 mila autori di crimini, durante i primi sei anni sono stati risolti circa 18 mila casi. Molteplici utilizzi - Le prospettive di utilizzo sono molteplici: dalla riapertura di casi irrisolti alla migliore conduzione di indagini in corso, fino ad una più efficace investigazione dei reati a sfondo sessuale, dove le tracce biologiche sono ovviamente fondamentali. RISPARMIO - Inoltre, come svariati studi hanno già evidenziato, la semplificazione nelle indagini determinerà anche una rilevante la riduzione di sprechi e di costi grazie alla maggiore efficacia di attività finora disperse sul territorio. A chi si raccoglie il dna - Si potrà raccogliere il Dna di autori o presunti autori di reati non colposi, condannati in via definitiva, arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo, sottoposti a custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari. Ma sarà possibile anche catalogare materiale genetico di persone scomparse, decedute non identificate o non identificabili. Privacy e intervento garante - Lo schema di regolamento che presentiamo oggi ha dovuto affrontare delicate tematiche legate alla tutela della privacy e ai temi della bioetica, al rispetto delle migliori regole tecniche nel prelievo e nell'analisi dei campioni. A tal fine abbiamo acquisito i pareri del Garante per la protezione dei dati personali con il quale sono stati definiti i tempi di conservazione dei campioni biologici e dei profili inseriti nella banca dati nazionale del Dna, e del Comitato nazionale per la bio-sicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita (Cnbbsv). Perché due strutture - La stessa creazione di due strutture, Banca dati e Laboratorio centrale, presso amministrazioni diverse, è frutto di una scelta consapevole, che consente di mantenere elevato il livello delle garanzie, evitando promiscuità che si potrebbero rivelare pregiudizievoli per la genuinità dei dati raccolti e analizzati. Vengono in particolare tenuti distinti il luogo di raccolta e confronto dei profili (banca dati nazionale) dal luogo di estrazione degli stessi profili e di conservazione dei relativi campioni biologici (laboratorio centrale presso l'Amministrazione penitenziaria), nonché dal luogo di estrazione dei profili provenienti da reperti (laboratori delle forze di polizia o altrimenti specializzati, come i R.I.S. di Parma). A tutela della privacy, i profili ed i relativi campioni non contengono le informazioni che consentono la diretta identificazione del soggetto cui sono riferiti. Per accedere alla banca dati la polizia giudiziaria e la stessa autorità giudiziaria dovranno prima richiedere di effettuare il confronto e, solo se positivo, potranno essere autorizzate a conoscere il nominativo del soggetto cui appartiene il profilo. Sono, infine, specificamente disciplinati i casi di cancellazione del profilo del Dna e di distruzione del relativo campione biologico e posti limiti temporali massimi per la conservazione nella banca dati nazionale del profilo del dna (quarant'anni) e del campione biologico (venti anni). Personale - Sono stati previsti specifici ruoli tecnici all'interno dell'Amministrazione penitenziaria per la gestione del Laboratorio della banca dati Dna. Con il d.lgs. n. 162/2010 si è proceduto ad integrare l'ordinamento del personale del Corpo di polizia penitenziaria mediante l'istituzione di ruoli tecnici nei quali inquadrare il personale da impiegare nelle attività del laboratorio centrale. Si tratta ruoli tecnici (operatori, periti, biologi informatici) per i quali sono già stati espletati i concorsi, per un totale di 29 unità di personale. Giustizia: nasce la super-banca del Dna, gli schedati saranno milioni di Luca Fazzo Il Giornale, 5 luglio 2015 Un cervellone nazionale custodirà il profilo genetico di chiunque sia stato non solo condannato ma anche solo fermato. I dati archiviati per 30 o 40 anni. Nello stesso giorno in cui si apre il processo per il caso Yara, basato quasi esclusivamente sulla prova del Dna, il governo apre definitivamente la strada alla schedatura su base genetica di centinaia di migliaia - milioni, in prospettiva - di italiani: un passaggio cruciale, con buona pace della privacy, per dare la caccia agli assassini e agli autori di altri crimini violenti, ma non solo. Un cervellone nazionale, e un laboratorio centrale, custodiranno il profilo genetico di chiunque sia stato non solo condannato ma anche semplicemente arrestato, fermato, messo ai domiciliari, in comunità. Un archivio della popolazione deviante o presunta tale in cui andare a cercare in prima battuta le corrispondenze con qualunque campione biologico rilevato sulle scene del delitto. È una rivoluzione che non avrebbe accorciato le indagini su Yara: Giuseppe Bossetti ha un passato immacolato, e il suo Dna nella super-banca non si sarebbe comunque finito. Ma la platea di schedati potenziali è enorme. Il varo della super-banca, in teoria, doveva avvenire già sei anni fa, quando venne varata la legge che recepiva in Italia il trattato di Prum sulla cooperazione con alcuni paesi europei nella lotta al crimine internazionale e all'immigrazione clandestina: nella legge di conversione venne inserita la creazione della "banca dati nazionale del Dna". Per sette anni, la legge è rimasta carta inerte, in attesa del regolamento di attuazione. Adesso, sull'onda dell'allarme terrorismo e di drammatici casi di cronaca come quello di Erica Claps e Yara Gambirasio, i ministeri degli Interni e della Giustizia si sono mossi. E la schedatura in massa non servirà solo a dare la caccia agli assassini e ai maniaci, ma anche - stando al comunicato governativo - a contrastare l'immigrazione clandestina, che tecnicamente non è più un reato. Adesso si parte, anche se ci vorrà del tempo per riempire di contenuti la banca: soprattutto per schedare gli ospiti attuali delle carceri, che sono circa 53mila, e per i quali sono già pronte in tutte le prigioni le "stanze bianche", i laboratori di prelievo. Poi, giorno per giorno, l'archivio si arricchirà dei dati di chi quotidianamente incapperà nelle maglie della giustizia. Diventerà una prassi, oltre a scattare le foto segnaletiche e a rilevare le impronte digitali, anche farsi consegnare il Dna: materialmente, stabilisce il regolamento, avverrà con due prelievi di mucosa orale, ovvero due cotton fioc infilati in bocca. Da quel momento, i dati del potenziale killer resteranno in archivio per trent'anni, allungabili a quaranta per chi è sospettato di crimini particolarmente gravi. Sarà il laboratorio centrale della polizia penitenziaria a elaborare e codificare i risultati che poi confluiranno nel cervellone del Viminale É un passo a cui l'Italia arriva in ritardo, dopo anni in cui in buona parte dei paesi occidentali la schedature è prassi. Le preoccupazioni del Garante della privacy hanno rallentato a lungo il varo del decreto di attuazione, e se ne colgono le tracce nelle procedure assai rigide che il decreto stabilisce per l'accesso ai dati e per la loro conservazione. Ma sullo sfondo c'è anche il tema della piena attendibilità della prova biologica, del rischio dei "falsi positivi" su cui si gioca anche la sorte di Bossetti: e così anche il decreto di ieri si deve addentrare in questo terreno, e stabilire che esiste la "concordanza" ma anche la "quasi concordanza". Basterà, a incastrare un killer? Lettere: l'etica dell'ubuntu per il rispetto dell'altro di Agnese Moro La Stampa, 5 luglio 2015 "Ci piace dire che Essere Umani - a parlare è Juri Nervo che ne è tra i fondatori - per noi è un punto di arrivo e di svolta, perché nasce da un gruppo che da anni lavora insieme sul campo: in carcere, per strada e nelle scuole. È nato dalla nostra voglia di impegnarci concretamente per innescare un cambiamento, partendo dalla necessità di riscattare le ingiustizie con le quali per anni ci siamo confrontati quotidianamente". Che cosa vi proponete? "Essere Umani si propone, con le sue azioni, di diffondere l'etica sudafricana dell'ubuntu, riassumibile nell'espressione "io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo". È una regola di vita, basata sulla compassione, il rispetto dell'altro. L'ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l'umanità intera, un desiderio di pace. Attraverso questo vogliamo innestare con i nostri interventi una nuova visione delle cose; il carcere allora non ha più senso così com'è, la solitudine del disabile o dell'anziano non può non toccarmi e destarmi, il clochard per strada mi interroga". Siete nati quest'anno; cosa avete fatto fin qui? "Le nostre attività passano dal mondo del carcere, collaboriamo con l'Istituto Penale per Minorenni ed il Centro di Prima Accoglienza di Torino e di Pontremoli, vicino a Massa Carrara, abbiamo con l'Eremo del Silenzio un progetto di intervento in strada per i clochard ed infine tante attività nelle scuole sulle tematiche della mediazione, del carcere, del silenzio e del perdono, tema quest'ultimo sviluppato in collaborazione con l'Università del Perdono di Torino". E i vostri prossimi impegni? "Avviare campagne nelle scuole, in linea con la nostra filosofia, attraverso il portale dedicato esserescuola.org. Inoltre stiamo progettando in alcune città d'Italia micro eventi di formazione sul tema carcere, giustizia, bullismo e mediazione. Vorremmo incontrare persone che con il loro impegno hanno reso più umano questo mondo, come il premio Nobel Desmond Tutu che con Nelson Mandela ha trasformato in azione concreta l'etica dell'ubuntu per superare gli orrori dell'apartheid; durante questi incontri chiedere la firma del nostro manifesto, come stimolo e segno per noi che stiamo andando nella direzione giusta". Roma: Regina Coeli struttura con luci e ombre, oggi conta 850 detenuti e 450 agenti di Eva Bosco Ansa, 5 luglio 2015 Il modellino di un veliero, al muro una bacheca fatta coi pacchetti di sigarette in cui è sistemato qualche cd, scarpe da ginnastica appoggiante alle grate - quelle grate che quotidianamente vengono ispezionate dagli agenti con il rito della battitura eseguito con una barra di ferro. E poi un letto a castello tre posti contro la parete dietro la quale ci sono un cucinotto e il bagno con la porta a vetro coperta da fogli di giornale. È una delle celle della terza sezione di Regina Coeli ed è qui che visitando il carcere si prova l'impatto più forte. Insieme alla Uil-Pa Penitenziari, sindacato dei baschi azzurri, l'Ansa è entrata all'interno del carcere romano, per vedere come si vive e cosa sta cambiando. Un carcere nel cuore della Capitale, a pochi metri del centro storico: un controsenso, nel mondo d'oggi? "Si discute periodicamente dell'opportunità di mantenere strutture come questa o San Vittore a Milano - risponde la direttrice, Silvana Sergi - ed è una riflessione necessaria. Ma è anche vero che il carcere non deve essere qualcosa di staccato dalla società". E forse anche per questo Regina Coeli, per ora, non si sposta. Delle otto sezioni della casa circondariale, la terza è quella più "difficile": gli ambienti appaiono più vecchi anche perché altre aree sono state ristrutturate in modo più evidente, mentre qui l'intervento è stato meno radicale per mantenere l'assetto di una struttura storica visto che in questa sezione furono detenuti molti antifascisti e partigiani, tra cui Antonio Gramsci e Sandro Pertini. In alto, lungo il ballatoio decine di detenuti sono affacciati: qualcuno grida "braccialetti", riferendosi al bracciale elettronico per il controllo a distanza che eviterebbe la permanenza in carcere. Molti di loro, in tutto 180, sono stranieri. La tensione c'è, è reale, a volte scaturisce in risse che gli agenti devono sedare. Ma nel complesso, è meno alta di quanto si possa pensare. Tutti sono detenuti comuni, le porte delle celle durante il giorno non sono chiuse, ma vige un regime "aperto" che consente più movimento e più spazio. Quello spazio che dietro le sbarre è prezioso. Proprio la mancanza di spazio e quelle celle, nelle carceri italiane, in cui non c'erano neppure 3 metri quadri a detenuto hanno fatto sì che l'Italia fosse condannata nel 2013 dalla Corte di Strasburgo e dovesse poi correre ai ripari. Regina Coeli ha conosciuto fasi critiche: nel 2013 i detenuti erano 1.090, ora sono 850 e la tensione è scesa. La polizia penitenziaria conta 450 unità: statisticamente, circa un agente ogni due detenuti. "In realtà - spiega Eugenio Sarno, segretario di Uilpa Penitenziaria - numerosi agenti sono impegnati ogni giorno in servizi come le traduzioni. Il ruolo dei baschi azzurri nell'allentare le tensioni in carcere è centrale". La visita a Regina Coeli inizia dal cortile esterno dove si sta sperimentando un sistema di raccolta differenziata. Il primo passaggio interno è all'ufficio matricola, dove è custodita la storia giudiziaria di ciascun detenuto, e al casellario, dove vengono trattenuti i loro oggetti non ammessi in cella. Per chi è condotto in carcere, la prima, provvisoria collocazione è nell'ottava sezione, area di prima accoglienza dove vengono fatti anche i controlli sanitari, psicologici, si verificano tossicodipendenza e alcol-dipendenza - e se vengano riscontrati problemi di droga o alcol il detenuto è trasferito in una sezione apposita, che lavora a contatto con il Sert. Dopo i controlli e i colloqui, il detenuto viene assegnato a una sezione ordinaria. Ogni sezione ha una sua peculiarità. La più all'avanguardia è la quinta, insieme alla prima e alla sesta, tutte a vigilanza dinamica, cioè con minore presenza di agenti, controlli attenuati, possibilità per i detenuti di muoversi e svolgere attività per 9-10 ore al giorno. A Regina Coeli si fa teatro, c'è una biblioteca, i detenuti lavorano internamente nelle cucine e nella lavanderia, c'è una ludoteca per i bambini nella zona colloqui. C'è anche una tipografia storica presso la quale sono organizzati dei corsi. E c'è un centro clinico da poco ristrutturato con due sale operatorie dove affluiscono pazienti anche da altre carceri. "Regina Coeli ha luci e ombre. Il decongestionamento - sintetizza Sarno - ne ha migliorato la funzionalità punti di eccellenza: ha punti di eccellenza e problemi strutturali. Ma soffre anche di quelle carenze organiche tra agenti, educatori, psicologi, che qui come altrove rendono spesso complesso gestire la sorveglianza dinamica, un regime di detenzione meno restrittivo, volto al recupero del soggetto, la cui filosofia potrebbe rappresentare un punto di svolta per il carcere moderno ma che stenta ancora a decollare a pieno". Napoli: psichiatri precettati per il carcere di Poggioreale, pazienti allo sbando di Raffaele Nespoli Corriere del Mezzogiorno, 5 luglio 2015 Il dipartimento di Salute Mentale trasferisce tre professionisti per un mese a Poggioreale. "Tolti dall'assistenza ai cittadini per potenziare il servizio nel carcere di Poggioreale". Si può sintetizzare cosi "l'allarme" lanciato dal forum Sergio Piro su quanto sta accadendo in alcuni centri per la salute mentale dell'Asl Napoli 1. Ciò che è successo è che tre psichiatri sono stati precettati e sottratti al servizio dei rispettivi pazienti per un mese) così da "offrire - si legge nell'ordine di servizio - il massimo sostegno alle esigenze della struttura sanitaria presso la Casa Circondariale". Decisione encomiabile, ma non se a farne le spese devono poi essere i pazienti abituali di questi medici. "Opinabile anche il criterio adottato per decidere chi trasferire - spiega Antonio Mancini, portavoce del forum Sergio Piro -, si è proceduto secondo ordine alfabetico generando in forti di diseguaglianze. I cittadini in carcere - conclude Mancini - hanno diritto ad una assistenza completa e territoriale che leghi, quando possibile, l'assistenza in carcere al territorio di provenienza". Il problema, nonostante siano solo tre gli specialisti "precettati", riguarda un area molto vasta e centinaia di cittadini. I tre psichiatri, assieme agli altri colleghi, coprono infatti le zone di San Ferdinando, Chiaia, Posillipo, Arenella, Ponticelli e non ultima l'intera isola di Capri. Sulla questione sembra voler intervenire al più presto la Asl, il direttore generale Ernesto Esposito infatti ha chiarito che "è importante concordare con gli specialisti interessati una soluzione immediata". Chi respinge ogni accusa al mittente è il dottor Fedele Marnano, direttore del servizio di Salute Mentale e di fatto colui che ha suggerito i trasferimenti temporanei. "Non esiste - spiega Maurano - alcun problema peri pazienti dell'Asl Napoli 1, ai quali il servizio è sempre garantito. È compito del servizio nel suo complesso farsi carico di ogni singolo paziente, assicurando sempre programmi di cura e assistenza adeguati. Benché ci debba sempre essere uno psichiatra di riferimento, non si può instaurare un rapporto quasi "privatistico". Non è che se lo psichiatra in questione dovesse assentarsi, ad esempio per ferie, il servizio per il paziente viene a mancare". Secondo Maurano gli psichiatri temporaneamente trasferiti possono inoltre "continuare l'attività con i pazienti del territorio, se necessario, facendone richiesta anche nell'orario lavorativo. E questo avviene già". Non sembra esserci però alcun punto di intesa con i diretti interessati. Basta ascoltare uno degli psichiatri "precettati". "In questa situazione - spiega Francesco Blasi, anche lui del forum Sergio Piro - si crea un danno a tutti i pazienti. Agli utenti che di fatto, e a meno di gravi emergenze, non potranno essere curati; e ai pazienti psichiatrici detenuti che subiscono il trauma di perdere il loro psichiatra di riferimento e che dovranno adattarsi ad un nuovo medico ogni mese dato che la mobilità d'urgenza non può superare i 30 giorni. Questo significa che i pazienti detenuti sono allo sbando". Ostia (Rm): cura del verde urbano, se ne occuperanno 14 detenuti in misura alternativa ilfaroonline.it, 5 luglio 2015 Possanzini (Sel): "È sbagliato strumentalizzare questo tema riconducendolo all'ennesimo scontro fra gli ultimi contro i penultimi". "L'iniziativa è stata presentata nella sede del X Municipio dall'assessore capitolino alla Legalità e delegato del X Municipio, Alfonso Sabella. Un progetto importante che punta alla riabilitazione e al reinserimento sociale di chi ha sbagliato e sta pagando per le illegalità commesse. Non è semplice per un ex detenuto riabilitarsi e intraprendere una vita normale così come non è facile per chi è senza lavoro trovare un'occupazione" - lo dichiara Marco Possanzini, Coordinatore SEL Municipio X. "È sbagliato strumentalizzare questo tema riconducendolo all'ennesimo scontro fra gli ultimi contro i penultimi - prosegue Possanzini. La crisi economica ha svaligiato di felicità e di serenità la vita di tutti noi, non risolveremo nulla alimentando la guerra degli stracci. Inoltre la crisi occupazionale e il pregiudizio consegnano nelle mani della criminalità, troppo spesso, chi invece vorrebbe vivere onestamente. Uno strumento come le borse lavoro deve diventare strutturale, deve essere finanziato e irrobustito, deve essere utilizzato per aiutare attraverso l'inserimento nel mondo del lavoro chi oggi, per ragioni anagrafiche, penali, congiunturali, si ritrova ultimo fra gli ultimi". "Non dimentichiamo inoltre che la criminalità organizzata si nutre del disagio degli ultimi, lo sfrutta, lo utilizza per costruire lo stato parallelo. Per combattere le mafie dobbiamo capire, approfondire, il welfare parallelo delle mafie stesse - conclude il coordinatore. La malavita offre una lista di servizi infinita e si alimenta all'interno di un sistema economico in profonda crisi sfruttando il disagio sociale per ricavarne profitto. Sconfiggere la criminalità, combattere l'illegalità, significa anche spezzare questa catena utilizzando ad esempio le borse lavoro, costruendo delle politiche attive di reinserimento dei detenuti, introducendo nel nostro paese uno strumento come il reddito minimo garantito, per tutti". Rovigo: Pegoraro (Cgil); il personale scarseggia, urge l'operatività del nuovo carcere di Marta Bellini Rovigo Oggi, 5 luglio 2015 L'onorevole Diego Crivellari ha fatto vista alla Casa circondariale di via Verdi assieme a Giampietro Pegoraro della Cgil, e lancia l'allarme sulla carenza dei dipendenti e delle condizioni di vita dei detenuti. Il segretario Giampietro Pegoraro e l'onorevole polesano Diego Crivellari invitano ad accelerare i tempi per il trasferimento dei detenuti nel nuovo carcere che conterebbe 250 persone controllate da circa 160 poliziotti e personale amministrativo. È di qualche settimana fa la notizia dei due agenti della Penitenziaria che son dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso dopo esser stati malmenati da un detenuto tunisino e l'onorevole Diego Crivellari non ha perso un secondo per fare una visita nella mattinata di venerdì 3 luglio in casa circondariale. Oltre all'episodio la visita è avvenuta in virtù del fatto che c'è una emergenza all'interno della struttura, sia dal punto di vista del personale che delle condizioni di vita dei detenuti. A fornire i dettagli è Giampietro Pegoraro, rappresentante della funzione Pubblica Cgil di Rovigo: "Su un totale di 62 unità 35 svolgono il servizio - commenta - basta pensare che 17 poliziotti sono assenti per malattia a lunga degenza compreso il comandante del reparto, sette sono in congedo ordinario, un congedo straordinario, due sono i maternità, c'è una fiamma azzurra, tre distacchi di cui due al gruppo operativo mobile e uno per motivi famigliari e due poliziotti sono parzialmente inidonei al servizio". Con questa carenza di personale alcune attività, per i 60 dei 108 detenuti, sono costrette a chiudere, come la saletta, i corsi e le attività educative e ricreative e "si sta facendo persino fatica a garantire loro le otto ore fuori dalla cella". L'onorevole e il segretario non tralasciano però come il problema dell'attuale casa circondariale sia essenzialmente la struttura: "L'attesa del nuovo carcere, costruito con una idea progettuale diversa più matura e moderna rispetto a quella ereditata in via Verdi, diventa prioritaria ed urgente. Mi auguro che venga accelerato il più possibile il trasferimento dal centro storico al nuovo carcere che sarà aperto da dicembre e rivolgo quindi l'invito anche alla nuova amministrazione. Parliamo pur sempre di una nuova struttura da oltre duecento detenuti e circa 160 agenti di polizia penitenziaria". Napoli: quando Emanuele Sibilio a Nisida diceva "da grande farò il giornalista" di Giuliana Covella Il Mattino, 5 luglio 2015 Nel 2012, a 17 anni, in comunità. L'accusa di Ciambriello: "Fuori ha trovato il deserto". "La camorra è un sistema dove comanda esclusivamente la legge del più forte. I camorristi? Sono i m prenditori che riescono a "coltivare" molti minori, li crescono, li fanno diventare ras emergenti, si prendono cura di loro e li sostengono economicamente. Io tutto questo l'ho capito bene e sto pagando gli errori commessi". Sembra il tema di un ragazzo qualunque. Ma lui, Emanuele Sibilio, un ragazzo qualunque non lo era. Scriveva queste riflessioni sul numero di novembre-dicembre 2012 del giornalino della Comunità di Nisida. Aveva appena 17 anni quello che anche gli investigatori hanno definito un "boss emergente". Eppure Emanuele, che avrebbe compiuto vent'anni il prossimo ottobre, avrebbe potuto cambiare vita, se qualcuno poche sere fa non lo avesse colpito alla schiena con una pallottola in via Oronzio Costa. Il "baby boss", come lo hanno etichettato, fino a tre anni fa aveva un sogno: diventare giornalista. Ma dopo la fine del percorso rieducativo a Nisida, Emanuele è piombato di nuovo in quell'inferno dove oggi i ragazzini si atteggiano a capi clan. Così è stato per Sibilio, come raccontano gli operatori che lo hanno seguito nel periodo della detenzione e come si vede in un video mandato in onda ieri sera da Televomero nel corso della trasmissione condotta da Samuele Ciambriello. "Era entrato in comunità a 16 anni - ricorda Serena Capozzi, la sua educatrice della cooperativa II Quadrifoglio. Partecipava a molte attività, tra cui una nel settore biologico a Città della Scienza, dove stava preparando uno studio sulle formiche. Da noi fece anche la Prima Comunione, ma soprattutto diventò uno dei cronisti di punta del nostro web tg che, con la redazione, raccontava la città, andando in giro per le strade di Napoli, previa autorizzazione del magi-strato. Il suo sogno? Diventare un giornalista. In un suo scritto, in particolare, un mese prima che finisse il periodo di reclusione, raccontava di essere felice di essere maturato grazie a questa esperienza, ma di avere paura del male che c'era fuori". Il problema per Emanuele, come per tanti suoi coetanei, è stato proprio l'uscita da Nisida. Come denuncia Samuele Ciambriello, presidente dell'associazione La Mansarda ed ex educatore di Sibilio: "Ha trovato la morte perché una volta fuori non ci sono stati a salvarlo i servizi sociali e le istituzioni. A dicembre 2012 Emanuele mi ha fatto un'intervista sotto la Galleria Umberto a Napoli - racconta Ciambriello, fondatore della comunità Il Ponte nel 1989, che dal 2003 diventò Il Quadrifoglio, gestendo le attività coi minori di Nisida insieme al Dipartimento di giustizia minorile - ed era il risultato delle tante esperienze che i ragazzi fanno con noi. Ma una volta tornato a Forcella, cosa gli hanno offerto? È stato abbandonato, nessuno lo ha seguito e lo Stato, oggi, decide di chiudere le attività della comunità di una struttura come Nisida? Ecco perché Sibilio è morto, perché fuori questi ragazzi sono abbandonati a loro stessi". Trapani: Maria Concetta ha la fedina penale pulita, licenziata perché è nipote di Riina di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 5 luglio 2015 Maria Concetta ha 39 anni, di cui dieci trascorsi in una concessionaria di macchine a Marsala. Faceva la segretaria. "Fedina penale immacolata, mai sfiorata da ombre", dice il suo avvocato. Eppure il prefetto parla di "inquietante presenza". È scattata l'informativa interdittiva per il suo datore di lavoro, che l'ha licenziata "nonostante la sua correttezza professionale". Licenziata per il cognome che porta. Perché Maria Concetta è una Riina. È nipote di Totò e figlia di Gaetano, il fratello del capo dei capi, pure lui condannato per mafia. Essere una Riina rappresenta una "giusta causa" di licenziamento. Maria Concetta ha 39 anni di cui dieci trascorsi alle dipendenze del titolare di una concessionaria di macchine a Marsala. Fa, o meglio, faceva la segretaria. "Fedina penale immacolata, mai indagata, mai sfiorata da ombre", ricorda con amarezza il suo legale, l'avvocato Giuseppe La Barbera, seppure sia quantomeno ipotizzabile che ai Riina, e chissà fino a quale grado di parentela, gli investigatori abbiano fatto uno screening tanto necessario e doveroso quanto profondo. Ora accade che la prefettura di Trapani emetta un'interdittiva nei confronti del suo datore di lavoro che è anche legale rappresentante di una società immobiliare. "La inquietante presenza nell'azienda della citata signora Riina - si legge nel documento della Prefettura - fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell'organizzazione mafiosa ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un'oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare". Secondo l'interpretazione prefettizia, dunque, la presenza di Maria Concetta Riina in azienda rientra nei casi previsti dal codice antimafia che, a partire dal 2011, ha voluto con la "informazione antimafia interdittiva" creare un argine contro le infiltrazioni della criminalità organizzata. Il prefetto Leopoldo Falco ha fatto suo "il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale", secondo cui "la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione... tanto è vero che assumono rilievo per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali". Risultato: con la Riina in organico niente "liberatoria antimafia". E senza liberatoria si resta tagliati fuori dal mercato. A mali estremi rimedi estremi: il titolare ha dovuto mandare a casa Maria Concetta Riina. Nella lettera spedita alla sua ormai ex dipendente scrive che "si vede costretto a licenziarla, nonostante abbia apprezzato nel tempo le sue doti e correttezza professionale". Insomma, Maria Concetta Riina è stata una brava lavoratrice, ma bisogna allontanare ogni sospetto di mafiosità. Nel frattempo, però, il titolare ha impugnato l'interdittiva davanti al Tar. Senza esserci alcuna sudditanza psicologica verso un cognome pesante o chissà quale logica di connivenza, tagliano corto i legali. "Siamo di fronte ad un problema sociale - spiega l'avvocato Stefano Pellegrino che assiste la società assieme a Giuseppe Bilello e Daniela Ferrari - perché sociale è il rischio che deriva dall'esasperazione del concetto di antimafia. Nessuna voglia di aggirare le regole, nessuna giustificazione ai comportamenti illeciti che devono essere perseguiti. L'economia in Sicilia rischia, però, di essere messa in ginocchio da questo rigore eccessivo". Chi usa parole dure è l'avvocato La Barbera che si dice "sconvolto dalla violenza con cui si applicano le norme dello Stato. Le leggi, volute come scudo di difesa, diventano armi letali. La signora è stata licenziata e una famiglia privata dell'unica fonte di reddito per la sola colpa di chiamarsi Riina. Prendiamo atto che in Italia esiste, oltre all'aggravante mafiosa, anche quella per il cognome che si porta". Quindi l'affondo: "Se lo Stato toglie alla signora Riina la possibilità di lavorare allora le garantisca un sostentamento economico". Termoli: dal Rotary club gesto di solidarietà per aiutare il recupero dei detenuti termolionline.it, 5 luglio 2015 Il presidente del Rotary club di Termoli, l'avvocato Michele Di Tomasso, l'ha definita una goccia nel mare, ma ce ne fossero di simili gesti. A conclusione dell'agenda di impegni e service dell'anno sociale 2014-2015, il Rotary club di Termoli ha deciso di contribuire alla nobile causa dell'associazione Iktus Onlus, presieduta da don Benito Giorgetta, che sta realizzando il mirabile progetto della casa famiglia, valorizzando al massimo la donazione effettuata da Lucia e Bernardo Bertolino, in contrada Chiancate, località dell'agro di Guglionesi al confine con Termoli. Una destinazione benefica che evidenzia il valore solidale dell'attività rotariana, da sempre improntata al servizio al di sopra di ogni interesse personale. Alla cerimonia di consegna, avvenuta proprio nella proprietà in cui presto sorgerà e sarà consacrata una chiesa, c'erano il presidente Michele Di Tomasso, il presidente incoming Lino Bianconi, il prefetto Basilio Ciucci, il vicepresidente Emilio Travaglini e il futuro presidente del Rotaract Gerry Carotenuto. Un gesto non solo simbolico, compiuto davanti ai detenuti ospiti del regime di semi libertà. Il Rotary club ha chiuso così l'ultimo service di un anno importante, dove si è davvero agito al di sopra di ogni interesse personale. "Questo rappresenta l'ultimo service del mio anno di presidenza - ha rivelato Di Tomasso - passaggio ideale alla presidenza Bianconi e penso che chiudiamo in bellezza, nel pieno rispetto di quelli che sono i nostri ideali. Abbiamo selezionato la Onlus Iktus di don Benito per l'attività meritoria rivolta alla comunità termolese e pensiamo che questa donazione possa essere una goccia nel mare delle necessità di questa comunità ma che sicuramente darà agli ospiti un futuro migliore. Un'attenzione che il Rotary ha per il suo territorio di riferimento. Abbiamo voluto focalizzare la nostra opera su chi quotidianamente si adopera a Termoli e nell'immediato hinterland, perché molto spesso guardiamo lontano ma dimentichiamo chi ci sta vicino". Il presidente della Onlus Iktus, don Benito Giorgetta, ha accolto con estremo favore la donazione. "È ancora un gesto di sensibilità nei nostri confronti e ringraziamo per i benefici che porteranno per coloro che sono ospiti di questa nostra struttura al di là di quello che può essere l'importo di un assegno è il gesto della solidarietà umana che apprezziamo, valorizziamo e ringraziamo". In ogni caso il contributo servirà per l'acquisto di un frigorifero industriale. Nel sopralluogo alla struttura abbiamo notato come la casa famiglia già può contare su capi di allevamento, come capre, pollame etc. Taranto: che festa nel carcere per la visita di Marco Pannella! di Anna Briganti Il Garantista, 5 luglio 2015 Picchetto d'onore come accoglienza all'ingresso della Casa circondariale; file interminabili per poterlo salutare e per farsi riconoscere, anche a costo di scavare nella lontana memoria di entrambi aggrappandosi ai ricordi più lontani; detenuti letteralmente impazziti vedendolo passare; e lui paziente, disponibile, desideroso di ascoltarli tutti, uno ad uno, nonostante la stanchezza dei suoi 85 anni. Era il 30 giugno, era san Basilide, santo protettore della Polizia penitenziaria, era la festa del precoce addio alla magistratura del dott. Massimo Brandimarte, Magistrato di sorveglianza del carcere di Taranto: ma la vera festa, a mio avviso, era per Marco Pannella. Non è facile materializzare attraverso le parole le emozioni e le sensazioni percepite durante quella giornata, In un contesto politico come quello attuale, in cui i contenuti della politica passano attraverso slogan populisti, in cui i politici stessi non avendo contenuti di sostanza sono personaggi del momento, usa e getta, di cui si fa fatica a ricordare nomi e volti, fa strano vedere che il leader del partito più vecchio d'Italia, dell'unico partito politico che versa in gravi condizioni economiche tanto da costringere il tesoriere a licenziare gli ultimi 8 dipendenti, del partito politico che da decenni è letteralmente oscurato e ignorato da tutte le Tv nazionali, quel leader sia considerato un mito non solo dai detenuti ma anche dagli agenti della polizia penitenziaria e, perché no, anche da una parte della magistratura e dell'avvocatura italiana. Per me, che non posso vantare lunghi anni di militanza radicale, che purtroppo non ho vissuto gli anni dei 40.000 iscritti, gli anni di Enzo Tortora, non è facile comprendere la genialità dell'uomo politico Marco Pannella se non dopo aver goduto di quelle poche ore con lui. Comprendo adesso le parole del nostro compagno Sergio D'Elia quando ci dice che la nostra ricchezza è immateriale, è "altra" rispetto al denaro, che dobbiamo concentrare le nostre energie nel rinnovare e accrescere quel patrimonio storico, culturale e politico che ha fatto dei radicali il mito riconosciuto in Marco Pannella. Cremona: Sappe; numerose aggressioni nei confronti degli agenti di Polizia penitenziaria Adnkronos, 5 luglio 2015 Nel carcere di Cremona si registrano numerose aggressioni nei confronti degli agenti di Polizia Penitenziaria da parte dei detenuti. Lo sostiene il Sappe, sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria. Aggressioni che avverrebbero "sempre nell'indifferenza dell'amministrazione penitenziaria, che non adotta alcun provvedimento a fronte di queste continue violenze". "Ieri mattina - riferisce Alfonso Greco, segretario regionale della Lombardia del Sappe - un detenuto rumeno, ricorrente, voleva uscire dalla cella ad ogni costo, senza aspettare l'autorizzazione dell'agente. Quando è stata aperta la porta, fulmineamente ha aggredito il collega e due altri colleghi che sono intervenuti a soccorso. Risultato, tre agenti in ospedale. Dopo, in un'altra sezione del carcere, un detenuto marocchino, definitivo fino al 2016, aggrediva un altro ristretto per futili motivi, ma l'aggressione è stata così violenta da cagionare lesioni importanti". "Con difficoltà i colleghi hanno allontanato l'aggressore. Ora, al di là di tutto, siamo veramente sfiancati. Perché non interviene nessuno? Dove si deve arrivare? Le autorità, tutte le autorità, attendono forse il morto per prendere provvedimenti?", conclude Greco. Aggiunge da Roma il segretario generale del Sappe Donato Capece: "Le responsabilità di direttore e comandante per quel che da mesi avviene in carcere a Cremona sono talmente evidenti che mi sorprende come l'Amministrazione penitenziaria non adotti adeguati provvedimenti, come il trasferimento di entrambi". Capece evidenzia "la professionalità, la competenza e l'umanità che ogni giorno contraddistingue l'operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate". "Attenti e sensibili - conclude Capece - noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Ma che corrono rischi e pericoli ogni giorno, in carcere, a Cremona, per il solo fatto di essere rappresentanti dello Stato che garantiscono sicurezza e perciò pagano prezzi altissimi in termini di stress e disagi". Castrovillari (Cs): piano antincendio boschivo, volontari e detenuti a sorvegliare Gazzetta del Sud, 5 luglio 2015 Nel piano antincendio boschivo 2015 coinvolte le associazioni di volontariato e i detenuti del carcere di Castrovillari. Ecco la dotazione di mezzi e le postazioni. Fenomeno incendi estivi. Il parco del Pollino si attrezza. Presentato dal presidente Mimmo Pappaterra il piano AIB, Anti Incendio Boschivo 2015. Come accade da alcuni anni, il piano prevede il coinvolgimento delle associazioni di volontariato: quest'anno saranno 29, venti in Calabria e nove in Basilicata, per un totale di 1116 volontari operativi. Saranno utilizzati 10 mezzi pick-up del parco e 35 delle associazioni coinvolte, oltre a 23 mezzi fuoristrada. Stipulato anche quest'anno il protocollo d'intesa con l'istituto penitenziario di Castrovillari e con l'Associazione Anas per l'impiego di alcuni detenuti nella sorveglianza di particolari zone del territorio protetto. In totale i punti di avvistamento saranno 40 e sarà svolto ancora l'avvistamento di incendi con velivoli ultraleggeri. Si utilizzeranno anche degli impianti di telerilevamento, realizzati con Telecom, per inviare immagini in tempo reale al centro operativo del Parco, alla sede del Corpo Forestale e alle sedi delle Regioni Calabria e Basilicata. Avellino: i prodotti del carcere di Sant'Angelo protagonisti di Uno Mattina Estate irpinianews.it, 5 luglio 2015 Il carcere di Sant'Angelo dei Lombardi rappresenta nel panorama penitenziario italiano un'eccellenza anche dal punto di vista dell'offerta enogastronomica: dall'olio al vino, dal miele ai frutti di bosco, passando per il frutteto autoctono. Anche per questi motivi, il 16 giugno 2015 abbiamo partecipato ad un importante convegno dal titolo "Expo: amplificatore dell'inclusione socio-lavorativa, tra mercato e ambiente: il lavoro per una nuova utilità della pena" presso il Conference Centre di Expo-Milano, portando l'innovativa esperienza altirpina. Non solo: abbiamo aperto le porte del carcere alle telecamere di Rai Uno che i prossimi 6 e 10 luglio 2015 manderà in onda, nel corso di Uno Mattina Estate, un documentario che testimonia l'impegno dei detenuti e degli operatori nella difficile opera di recupero alla società civile di persone in esecuzione di pena. Un obiettivo assolutamente condiviso dalla struttura di Rai Expo che, con "Liberi dentro", miniserie di sei documentari patrocinata dal Ministero della Giustizia, intende accendere i riflettori sul mondo del lavoro agricolo e delle eccellenze enogastronomiche presenti nelle carceri italiane perché, per assecondare il tema portante dell'Esposizione Universale di Milano 2015, "cibo e vita si fondono in prodotti agricoli, attraverso percorsi di odori, tatto, colori, sapori che sono i sensi della memoria". Larino (Cb): presentato il libro "No prison" di Livio Ferrari primonumero.it, 5 luglio 2015 È stato presentato ieri a Larino il libro "No prison" di Livio Ferrari. Un libro provocatorio, che porta con sé, ancora nella realtà odierna, un'utopia: quella di una società senza carceri. Senza pene afflittive, senza rinunciare a tutelare il bene pubblico della sicurezza, puntando tutto sul rinnovato obiettivo di recuperare e rieducare chi ha commesso un reato, anche grave. Grande interesse ha suscitato la tavola rotonda "oltre il carcere" promossa venerdì pomeriggio 3 luglio dal Centro Sociale "il Melograno", alla quale hanno partecipato Livio Ferrari, fondatore della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Larino Ludovico Vaccaro ed il rappresentante molisano dell'Ordine Nazionale Forense, l'avvocato Antonio De Michele. Un tema scottate, trattato dall'ultima fatica letteraria di Livio Ferrari nel libro "No prison". "Il compito del magistrato è quello di applicare la legge, senza farsi condizionare dalle opinioni personali" ha esordito e puntualizzato il Procuratore Vaccaro nel suo intervento iniziale. Aggiungendo subito dopo: "Ma questo non significa condividere il sistema carcere, mirante solo a punire, oggi sganciato dal nucleo dell'interesse violato e del diritto tutelato". Perché, ha continuato il capo della Procura di Larino, "l'obiettivo rieducativo è fallito, così come l'idea di punizione per evitare che si commettano altri reati. Quello che serve è una rivoluzione copernicana, capace di invertire la rotta della coscienza culturale delle persone, ponendo al centro non il reato, ma le ragioni che portano a commetterlo" ha concluso il dottor Vaccaro. Concetto sposato e rilanciato dall'avvocato Antonio De Michele, rappresentante molisano in seno al Consiglio Nazionale Forense. "Le carceri italiane sono diventate uno strumento di tortura e chi ci è stato una volta, nella maggior parte dei casi ci torna. E questo è un fallimento, perché non si risolve il problema della sicurezza, anzi lo si aumenta". Per cui, secondo De Michele, il libro "No prison" rappresenta "un'utile provocazione, capace di rompere gli schemi della standardizzazione culturale, con l'obiettivo di superare il concetto culturale della pena intesa unicamente come afflizione, senza mettere al centro la rieducazione del condannato e, di conseguenza, gli interessi di sicurezza della società". "Continua ad esistere un atteggiamento di esecuzione della condanna vecchio di quattro secoli - ha affermato Livio Ferrari - vogliamo togliere dal consorzio sociale soggetti che hanno commesso reati, ma per loro non è previsto nulla sotto il profilo del reinserimento. Questo lo dicono i numeri: tre miliardi di euro all'anno per finanziare il sistema carcere, di cui l'85 per cento serve solo a mantenere il personale, con il 70 per cento dei reclusi che torna a delinquere". Ma è davvero immaginabile una società senza carceri? "Lo è nel momento in cui si realizzeranno luoghi di non carcere, che non significa luoghi di non sicurezza. Cioè strutture dove le persone davvero pericolose per la società vengano rieducate attraverso specifici programmi di recupero, lavoro e formazione". Spoleto (Pg): "Miracolo a Maiano", successo per i detenuti della compagnia teatrale di Michela Verdini spoletonline.com, 5 luglio 2015 Una standing ovation di 450 persone ha accompagnato ieri l'ultima messa in scena dello spettacolo teatrale "Miracolo a Maiano", realizzato dai detenuti della compagnia "Sine nomine" magistralmente diretti da Giorgio Flamini. L'opera, frutto della collaborazione tra la Casa di reclusione di Maiano, l'Istituto di istruzione superiore Sansi Leonardi Volta e la Fondazione Francesca, Valentina e Luigi Antonini, costituisce la conclusione del trittico aperto da Affettività patetiche Cattività affettiva e proseguito con Il migliore dei mondi possibili 1980-2025. Un lavoro fortemente e dolorosamente centrato sull'universo carcerario, che ripercorre le storie di tutti, come una via crucis che parte da una preghiera per arrivare alla realtà attraverso il sogno. E così è stato anche nello spettacolo, si è partiti dal video introduttivo di donne in preghiera proiettate su una delle torri del carcere, e poi ci si è incamminati tutti insieme verso il palco. Lungo il tragitto, frammenti di vita nel carcere si sono alternati al sogno, e grande è stato l'impatto visivo e musicale delle scene rappresentate. Importante anche il ruolo della Banda di Spoleto, che ha accompagnato la rappresentazione con eleganza e professionalità, della direttrice Diletta Masetti e dello staff delle ballerine e coreografe. Poi infine, la storia. Pasquale Marino è in cella con i suoi compagni quando vengono a prenderlo per comunicargli la notizia: è libero. Dopo anni di lotte, viene riconosciuto l'errore giudiziario che da vent'anni lo tiene prigioniero a Maiano, ed è arrivato il momento di tornare al mondo libero. La sua decisione però sorprende tutti, non vuole più uscire Marino, la sua famiglia ed i suoi figli non lo vogliono più, e nessuno lo aspetta fuori. Il suo mondo è dentro il carcere e così decide di rimanere, compiendo un vero e proprio miracolo. I carcerati ballano, cantano e recitano, ed il pubblico è estasiato, coinvolto ed attento. Una grande prova quindi, che conferma il rapporto che ormai lega la compagnia al suo pubblico e alla città intera. Presenti allo spettacolo il regista Gianni Quaranta, la consigliera comunale Laura Zampa, gli assessore Angelo Loretani e Antonio Cappelletti. Catanzaro: presentazione del Rapporto sullo "stato della salute" negli Istituti penitenziari lameziainforma.it, 5 luglio 2015 Conferenza stampa martedì 7 luglio, alle ore 11, nella sala convegni dell'unità operativa Formazione e Qualità nel centro direzionale dell'Asp in via Perugini. Martedì alle 11 nella sala convegni dell'unità operativa Formazione e Qualità nel centro direzionale dell'Asp in via Perugini si terrà la conferenza stampa per illustrare il Rapporto sullo stato della salute negli Istituti penitenziari ricadenti nell'ambito territoriale dell'Asp di Catanzaro per l'anno 2014. All'incontro saranno presenti il Commissario Straordinario ASP di Catanzaro, Giuseppe Perri e il Referente Salute negli Istituti Penitenziari, Antonio Montuoro. Sono stati, inoltre, invitati a partecipare i coordinatori sanitari della Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro: Vincenzo Sgromo, Luigi Cugnetto, Antonio Tavano; il responsabile sanitario dell'Istituto Penale per Minorenni "Silvio Paternostro" di Catanzaro, Marcello Laface; il direttore del Distretto Sanitario di Catanzaro, Euplio Roccia; il Direttore f.f. del Ser.D di Catanzaro, Giulia Audino; il Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, Salvatore Acerra; l'Ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro; il Direttore della casa circondariale di Catanzaro, Angela Paravati; il Direttore Istituto penale minorile di Catanzaro, Francesco Pellegrino. Bologna: tutte le voci di Papageno, alla Dozza il concerto del coro di detenuti e detenute di Helmut Failoni Corriere della Sera, 5 luglio 2015 Ci vogliono delle motivazioni. Sempre. Per cose futili, come smettere di fumare, di bere o di mangiare. Per cose importanti, come un cambiamento radicale di prospettiva nella propria vita. Le motivazioni servono anche per migliorarsi. Senza motivazioni non si va da nessuna parte e ci si ritrova a camminare come i gamberi. All'indietro. Guardando ieri alla Dozza il concerto del Coro Papageno - i volti, gli sguardi, le emozioni, gli occhi umidi, di questa formazione di una settantina di elementi, di cui due terzi detenuti e detenute - ho trovato l'ennesima conferma del fatto che la musica può essere, anzi è, e per di più a tutti gli effetti, una motivazione molto forte. Il lavoro che ha fatto con i detenuti e le detenute in questi anni Michele Napolitano, il giovane maestro del coro, con lo staff dell'Orchestra Mozart prima e con quello dell'Associazione Mozart14 guidata da Alessandra Abbado ora, è encomiabile sotto diversi aspetti. Vorrei citare quello più importante. Questo progetto (ma ce ne sono anche altri due: Leporello nel carcere minorile e Tamino negli ospedali per i bambini malati) voluto da Claudio Abbado, che della musica ha sempre avuto una visione piuttosto ampia, ha dato un'opportunità di migliorarsi, almeno un po', a chi ha sbagliato nella vita. Non voglio ora fare l'elenco di tutti i progetti anche extra-musicali voluti e realizzati dalla tenacia febbrile di Claudio Abbado, perché sono sotto gli occhi di tutti, ma vorrei soltanto ricordare il prezioso lavoro che ha fatto (gratuitamente) per diversi anni in Venezuela al fianco di José Antonio Abreu, all'interno di un progetto di educazione musicale senza precedenti, al quale possono accedere tutti, senza distinzione alcuna di ceto sociale. E se capitavi a casa sua, Abbado ti faceva vedere contento una nave fatta di fiammiferi realizzata dai detenuti per ringraziarlo di averli invitati al Manzoni. Il concerto di ieri è stato un concerto importante, perché aperto alla cittadinanza (biglietti esauriti), che è accorsa nonostante la data (4 luglio), il giorno della settimana (sabato), l'orario (le 15) e la temperatura (38 gradi circa). In mezzo ai detenuti, ci sono volontari che provengono dai cori cittadini Mikrokosmos, Ad Maiora e dal coro giovanile Bassi & Codai. Il repertorio che ha scelto Napolitano (con il coro anche un quartetto di archi) è per la maggior parte di provenienza etnica, e ogni canzone ha una sua storia, che il giovane direttore spiega brevemente prima di dare l'attacco alle voci. D'accordo, ogni tanto l'intonazione ondeggiava lievemente, ma in questo caso quello che contava di più era il coinvolgimento delle persone nella musica. Dovevate vederli con che foga cantavano il tradizionale arabo-andaluso Lamma bada yatathanna o il classico brasiliano Onissawuré. Cantavano a tutto volume come se metaforicamente il suono forte potesse portarli fuori. Lontano. A inseguire qualche sogno. La voce, in ultima analisi, ci ricorda infatti di essere vivi. Jung sosteneva che la voce fa vibrare in noi qualcosa che ci dice che non siamo più soli. La voce è produttore di desiderio e nello stesso tempo prodotto del desiderio. "Sento il suono che amo, il suono della voce umana". Questo è Walt Whitman nel suo Song Of My Self. E poi gli applausi. Tanti. Chissà come si saranno sentiti molti di loro, ai quali magari nessuno ha mai detto prima "bravo" nella vita. Ci auguriamo che quegli applausi possano risuonare ancora e ancora nei loro cuori quando poi tutto è finito e si sono ritrovati nuovamente nelle loro celle. Ma forse con una motivazione in più. Libri: "Abolire il carcere", le dieci proposte di Luigi Manconi recensione di Luigi Iorio avantionline.it, 5 luglio 2015 "Abolire il carcere". Questo è il titolo chiaramente provocatorio dell'ultimo libro di Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, scritto in collaborazione con Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia del diritto, Valentina Calderone, direttrice di buon Diritto e dall'avvocato Federica Resta. Postfazione di Gustavo Zagrebelsky, edito da Chiarelettere. La proposta editoriale in questione analizza e individua alcune idee per migliorare il sistema carcerario. Dieci per la precisione sono le proposte per innovare un sistema che, secondo le parole pronunciate nel 2013 dall'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, configura "una realtà non giustificabile in nome della sicurezza". Un sistema criminogeno così come definito dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Secondo Manconi infatti le carceri non sono la soluzione al problema della sicurezza perché a dispetto degli scopi in teoria raggiungibili, in pratica molto raramente assolve a quella funzione rieducativa e reintegrativa prescritta e assai più spesso riproduce all'infinito crimini e criminali, rovinando vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente. E ancora: "Il carcere va abolito pure perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che è quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali. Sono passati più di trent'anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per liberarsi dalla necessità del carcere". In sintesi - secondo Manconi e i co-autori - occorrerebbe depenalizzare molte fattispecie di reato, abolire l'ergastolo, ridurre le pene detentive. Rendere insomma il carcere soltanto un'extrema ratio. Come? Riducendo il numero di reati attualmente previsti dal nostro codice penale o attribuendo la capacità di estinguere il reato ad azioni (riparative, risarcitorie, ecc.) prestate dall'imputato in favore della vittima o della collettività o ancora ricorrendo alla custodia cautelare in caso di reale e concreta necessità. Gli ingredienti della soluzione sono tanti: dall'implementare le misure alternative al carcere, così da offrire a ogni detenuto una reale opportunità di reinserimento sociale a garantire i diritti fondamentali dei detenuti, a superare il "carcere duro" e i vari circuiti penitenziari differenziati fino a umanizzare il carcere. Seguendo una ricetta così completa si produrrebbe una concreta semplificazione dell'ordinamento penitenziario. È questo un libro da leggere perché delinea in ogni suo aspetto il carcere, una realtà complessa che nella più parte delle volte ha una funzione non riabilitativa bensì di morte sociale. Perché è chiaro che occorre una discontinuità culturale con il passato, discontinuità che libri come quelli di Manconi aiutano a marcare. Perché è ovvio che la pena detentiva non è soltanto il carcere e il carcere a sua volta non è una semplice struttura fatiscente dove poter espiare una pena. Stati Uniti: il perdono di Obama "droga, fuori dal carcere i detenuti non violenti" di Alberto Flores D'Arcais La Repubblica, 5 luglio 2015 Si chiama "clemency executive power" ed è il potere (garantito dalla Costituzione) che ha un presidente degli Stati Uniti di concedere la grazia, la commutazione o la sospensione di una pena per i reati federali commessi "contro gli Stati Uniti". Nei suoi primi sei anni alla Casa Bianca Barack Obama l'ha usato con una certa parsimonia (attirandosi le critiche della parte più liberal dell'elettorato democratico), ma all'inizio della primavera (era il 30 marzo) ha cambiato registro, annunciando - "a sorpresa solo per chi non lo conosce bene", fecero sapere allora dal suo staff-di aver ridotto le sentenze per ventidue carcerati (di cui otto condannati all'ergastolo) colpevoli di reati legati al traffico e alla detenzione di droga (saranno, eccetto uno, tutti in libertà per la fine di luglio). Da allora il presidente americano ha moltiplicato i "perdoni" e nelle prossime settimane si avvia a firmare (come ha anticipato Peter Baker sul New York Times) decine di nuove "clemenze", diventando il presidente Usa che nell'ultimo mezzo secolo ha fatto più ricorso al "potere esecutivo". In, termini assoluti sono numeri molto piccoli (negli Stati Uniti la popolazione delle carceri federali e statali supera il milione e mezzo su un totale di oltre due milioni di inmates e sei milioni di persone "sotto controllo correzionale") ma l'impatto politico - e con inevitabili conseguenze giudiziarie - è indubbiamente forte e per una volta ha messo d'accordo anche diversi esponenti repubblicani. La revisione del sistema penale è ormai un fatto bipartisan, come Obama (e Hillary Clinton) anche diversi candidati del Grand Old Party in corsa per la Casa Bianca 2016 si sono espressi a favore e al Congresso deputati e senatori dei due partiti stanno mettendo a punto nuove leggi. "Mi sto concentrando su persone in prigione per reati di droga non-violenti che spesso sono stati condannati a 20, 25 o 30 anni di carcere", aveva spiegato a marzo Obama parlando in South Carolina ad un pubblico prevalentemente afro-americano (negli Usa i carcerati neri sono quasi il 40 per cento del totale), portando ad esempio quello di una ragazza la cui unica colpa era di essere la girlfriend dell'amico di uno spacciatore. E con i condannati per reati correlati alla droga che oscillano tra il 35 e il 40 per cento (di cui una buona metà per marijuana - che in quattro Stati degli Usa è legale - e droghe leggere) e una spesa federale (e statale) da anni fuori controllo, il fatto che insieme alla Casa Bianca si siano schierati (lavorando assieme) il Center of American Progress (liberal) e Koch Industries (l'impero dei fratelli ultra-conservatori Charles e David Koch) non ha sorpreso più di tanto. Un lavoro che la United States Sentencing Commission (Ussc) ha già portato avanti, riducendo le sentenze di circa 9.500 carcerati per "fatti di droga non-violenti" di cui tre quarti sono afro-americani o ispanici. "È arrivato il momento in cui conservatori, liberal, libertari e altra gente dei più diversi segmenti politici lavorino insieme e focalizzino la pubblica attenzione su sentenze eccessive, sui loro costi e sulle loro conseguenze", ha spiegato Neil Eggleston il legale della Casa Bianca che sta consigliando Barack Obama su chi (tra le migliaia di petizioni che arrivano) può essere preso in considerazione per il "clemency executive power". Nelle prossime settimane dovrebbero essere circa un'ottantina i carcerati che verranno "perdonati", nei prossimi mesi e fino alla fine del 2016 (quando il primo presidente afro-americano lascerà la Casa Bianca) sicuramente molti di più. Bolivia: autogestione e violenza fra gang nel carcere di Palmasola che aspetta il Papa di Filippo Fiorini La Stampa, 5 luglio 2015 I racconti dei detenuti che controllano Palmasola dal 1989. Venerdì l'incontro con Francesco Quando uno dei detenuti di Palmasola ti descrive quello che vede attorno a sé, sembra che si trovi in una cittadina qualsiasi della Bolivia: una strada scassata, i vapori dei ristoranti, le donne che ritirano i vestiti in lavanderia e gli schiamazzi dei bambini sopra le liti delle sale biliardo. Poi, nessuna guardia in giro. La prigione però è grande, la più grande del Paese. Autogestione Ci sono sezioni violente e sezioni dove si ammassano i malati gravi. Davanti all'abbandono delle autorità, i reclusi ne hanno preso il controllo nel 1989, hanno fatto cose buone e altre deprecabili, ma da allora tirano avanti così. Venerdì Papa Francesco andrà a visitare quella che probabilmente è una delle peggiori carceri dell'America Latina e che sicuramente è un caso unico al mondo, per questa specie di autogestione che i delinquenti hanno messo in piedi. Libero Del Gesù è nella lista dei pochi che lo incontreranno, gli ha scritto una lettera che ha firmato col suo vero nome. È lo stesso che compare nella condanna a dieci anni per un sequestro di persona che ammette di aver commesso. Per parlare liberamente, però, si protegge con uno pseudonimo "Libero", e descrive il modo in cui è riuscito a sopravvivere finora: "Pregando". I secondini di Palmasola stanno all'ingresso e su tutto il perimetro. Chiedono una tangente a chi porta dentro prodotti e materiali, alle famiglie e le prostitute in visita, ma non mettono mai piede oltre il portone. Al di là di questa soglia, comanda Leonidas. Trentenne dal tono affabile, Leonidas è stato eletto "reggente" dagli altri detenuti. Ha fatto una campagna elettorale e per due anni risponderà ai reclami dei residenti, incasserà le tasse, manderà i suoi uomini a sedare le risse e, alla presenza di una sorta di notaio, timbrerà i contratti d'affitto e compravendita. Duecentocinquanta dollari per noleggiare una cella, tra i 3 e i 7 mila per comprarla. Un dollaro per passare da una sezione all'altra, 15 per un giretto nel settore femminile, 500 per evitare di essere assegnati alla sezione "Pc4", quella delle pugnalate in bagno e i grilletti facili. Libero è entrato nel 2006. Aveva 40 anni e ha passato i primi due in isolamento, senza chiedere un regime più blando. Da avvocato ed ex politico immischiatosi con la mala, è convinto che non ce l'avrebbe fatta se avesse esordito in mezzo alle gang. "Ho imparato a cucinare e ho aperto un take-away con roba tipica boliviana. Il piatto forte è il pollo in umido, costa solo un euro". Il 23 agosto del 2013 ha sentito una serie di esplosioni e, per la prima volta da quando era dentro, ha visto la polizia nei vicoli di Palmasola. La banda del "Pc3-A" aveva sfondato la rete che la divide da quella del "Pc3-B", decisa a prendere il controllo del carcere attraverso certi lanciafiamme artigianali, fatti con le bombole di propano e gli accendini. "La cosa più dura è stata vedere i cadaveri", ricorda Libero. Sono morte 31 persone, la maggior parte carbonizzate. Gli unici ammessi Dire che i detenuti di Palmasola stanno per conto loro, però, non è del tutto esatto. La Pastorale Penitenziaria e i missionari spagnoli di "Hombres Nuevos" hanno creato dei corsi di artigianato e curano i malati dell'infermeria, dove finiscono quelli con le patologie gravi. Richard Calvo, 74 anni spesi in giro per il mondo, spiega che i carcerati lo chiamano "Sezione Broncopolmonare, con la stessa ironia con cui all'entrata del penitenziario c'è scritto Centro di Riabilitazione". Tra le 3200 persone che vivono a Palmasola, mille e quattrocento sono state ufficialmente private della libertà, gli altri sono parenti incensurati. Nel gruppo dei primi, ci sono anche due italiani. Alessandro Cenise è entrato a fine maggio con l'accusa di aver chiuso un pranzo domenicale prendendo a colpi di machete i cognati boliviani. Enea Cardini, invece, è messo peggio. Dopo un primo periodo di reclusione, è uscito con l'indulto che il presidente Evo Morales ha firmato nel 2012. Nell'interrogatorio del 21 aprile, Cardini ha detto che quattro giorni prima aveva partecipato all'omicidio di un cinese in cambio di 10 mila dollari inviatigli da Palmasola. Adesso che ci è tornato, ha ritrattato, accusando la polizia di averlo obbligato a incolparsi. "Il Papa dovrebbe venire ogni anno perché cambi davvero qualcosa", ragiona Libero, "senza politiche di reinserimento, si moltiplicano i recidivi come Enea". Se tutto va bene, però, lui sarà fuori l'anno prossimo. Costi quel che costi, giura che non tradirà mai più il suo pseudonimo. Medio Oriente: stretta Anp su Hamas, 120 arresti in 2 giorni in Cisgiordania Aki, 5 luglio 2015 Continua la stretta dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) contro esponenti del movimento islamico di Hamas in Cisgiordania. Altri venti quelli arrestati oggi dopo i cento portati ieri in carcere con l'accusa di rappresentare una minaccia alla sicurezza. Secondo fonti di Hamas contattate da al-Jazeera, la campagna di arresti ha riguardato esponenti del movimento, ma anche accademici, studenti ed ex detenuti. Decine i manifestanti di Hamas che sono scesi questa mattina per le strada di Gaza per chiedere il rilascio delle persone detenute nelle carceri dell'Anp. Tra le persone arrestate ieri anche il giornalista Khaldoun Mazloum. Sua moglie, Ibtihal Mansour, ha detto ad al Jazeera che le forze di sicurezza sono venute a prenderlo a casa poco dopo la mezzanotte e che "non è la prima volta che lo arrestano. Lo accusano sempre per cose che ha scritto". Il portavoce del servizio di sicurezza dell'Anp, Adnan al-Damiri, ha precisato ad al-Jazeera che gli arresti non sono relativi alle attività politiche svolte. "Non permetteremo che l'Anp venga disintegrata in un massacro e ci sia una guerra solo perché Hamas vuole una escalation", ha detto. Hamas controlla la Striscia di Gaza dal 2007, mentre i rivali politici di al-Fatah governano in Cisgiordania. Lo scorso anno si è giunti a una riconciliazione formale dei due partiti con l'intento di formare un governo di unità nazionale, ma restano molti motivi di attrito. Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha condannato l'ondata di arresti come una "pericolosa escalation che blocca gli sforzi per la riconciliazione. Questi arresti fanno parte del coordinamento di sicurezza tra Israele e l'Autorità palestinese", ha detto Abu Zuhri. Arabia Saudita: mille frustate a pakistano che criticò campagna anti houthi Aki, 5 luglio 2015 Un opinionista politico pakistano, Zaid Hamid, è stato condannato al carcere e a mille frustate per aver criticato la campagna militare del governo di Riad contro i miliziani sciiti houthi in Yemen mentre si trovava in pellegrinaggio in Arabia Saudita. Hamid è stato arrestato il mese scorso nella città santa di Medina, dov'era in viaggio insieme alla moglie, e gli è stato negato di rivolgersi al proprio consolato. Un portavoce del ministero degli Esteri del Pakistan, Qazi Khalilullah, ha confermato l'arresto di Hamid e detto che la moglie gli ha fatto visita nel carcere di Medina. Si ritiene che Hamid sia vicino all'establishment militare del Pakistan e disprezzi la leadership civile di Islamabad. È stato anche apertamente critico rispetto alle politiche degli Stati Uniti nella regione, accusando la Cia di aver tentato di "demolire il Pakistan". In Arabia Saudita vivono oltre 1,5 milioni di cittadini pakistani.