Giustizia: caro Orlando, sulle carceri è ora di fare la rivoluzione di Rita Bernardini Il Garantista, 4 luglio 2015 Gli Stati generali dell'esecuzione penale siano davvero l'architrave della riforma penitenziaria: la Camera si fermi. E il ministro sciolga tre dubbi. Il ministro Andrea Orlando è intervenuto il 1° luglio alla prima riunione dei coordinatori degli Stati generali dell'esecuzione penale. Si è trattato di un incontro tra i responsabili che coordineranno i 18 tavoli in cui sono articolati i lavori. Come correttamente riportava Eleonora Martini ieri sul Manifesto, Orlando, rivolgendosi in particolare a me ha affermato che "la scelta di un percorso aperto è oggi possibile perché la situazione delle carceri non è più esplosiva dal punto di vista del sovraffollamento. Allora una discussione sulla finalità e sul senso della pena sarebbe stata surreale". Ciò che mi divide dall'impostazione del ministro è che lui ritenga superata, con la riduzione del sovraffollamento, l'emergenza della pena "illegale" che si sconta ancora oggi nelle carceri italiane, per non parlare della non corrispondenza al diritto vigente del modo in cui viene amministrata la giustizia nel nostro Paese. Do atto ad Orlando di aver esternato riflessioni "pesanti" che devono necessariamente comportare cambiamenti radicali, come quando ha affermato che il nostro sistema penitenziario oltre essere carissimo (3 miliardi di euro all'anno) è "criminogeno". Il che vuol dire però che noi mandiamo persone in carcere spendendo cifre astronomiche per farle poi uscire, a distanza di anni, peggiori di come sono entrate. Spesso ci mandiamo persone - quelle in attesa di giudizio - che all'esito del processo saranno riconosciute innocenti e ciò avviene almeno nel 50% dei casi. Le tematiche dei 18 tavoli che siamo chiamati a coordinare rappresentano, nella maggior parte dei casi, non semplici "criticità" del sistema, ma vere e proprie illegalità strutturali che dovrebbero essere immediatamente rimosse. Il ministro Orlando risponde alla proposta radicale di un provvedimento di amnistia e di indulto (contenuta anche nel messaggio del presidente Napolitano alle Camere), contrapponendo la strategia del suo ministero che riesce a superare quanto evidenziato nella sentenza di condanna della Corte Edu detta "Torreggiani" e nelle trentennali sanzioni del Consiglio d'Europa sull'irragionevole durata dei processi, procedendo con altri "strumenti" rispetto a quelli previsti dall'articolo 79 della Costituzione. Ora, a parte il provvidenziale intervento della Consulta che ha dichiarato l'incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi consentendo al sistema di ridurre in un solo anno, il 2014, di ben 8.913 unità la popolazione detenuta, tutte le misure varate e da varare si scontrano con il fattore tempo. Quanto ci vorrà per approvare le riforme e per far sì che quelle già approvate entrino a regime? Può uno Stato che si definisca democratico accettare le condizioni di illegalità sopra ricordate? Quanto agli Stati generali sull'esecuzione penale, voglio ancora una volta ringraziare pubblicamente il ministro Orlando per avermi chiesto di coordinare il tavolo sulla Affettività in carcere e sulla territorializzazione della pena. Do atto che il lavoro sia stato bene organizzato anche con la dotazione di materiale di documentazione e di studio e che ieri mi sia stato assicurato che il personale del ministero sarà a disposizione per fornire dati statistici riguardanti i vari settori. Detto questo, mi permetto però di evidenziare alcune cose che mi sembrano a dir poco incoerenti. La prima: come si concilia il lavoro avviato in queste ore con quello già in corso alla Camera in commissione Giustizia riguardante la riforma dell'Ordinamento penitenziario? La seconda: la riorganizzazione del ministero della Giustizia che prevede la sacrosanta riduzione degli uffici dirigenziali e degli organici (Dpcm numero 84 del 15 giugno 2015) non sarebbe stato meglio farla a seguito dell'approvazione delle riforme? La terza riguarda le spese sostenute da coloro che fanno parte dei "tavoli". Nel corso della prima riunione ci è stato detto che saranno rimborsate solo a chi fa parte del ministero. Trovo positivo il fatto che sia stata accettata la mia proposta di ascoltare la voce dei detenuti e di chi in carcere ci lavora, ma quale è la logica secondo la quale se io o altri ci spostiamo per andare in un carcere dobbiamo pagarci il viaggio mentre i funzionari del Dap e i magistrati saranno invece rimborsati? Giustizia: un detenuto, poi un agente, due suicidi in poche ore a Reggio C. e Fossombrone di Errico Novi Il Garantista, 4 luglio 2015 Due suicidi in carcere. Due storie diverse eppure umanamente vicinissime: un ergastolano, reo confesso di una strage in famiglia a Reggio Calabria nel 2008, e una guardia penitenziaria appena trasferita a Fossombrone. La prima vittima si chiama Giuseppe Panuccio: cinque anni fa uccise il fratello, la moglie e la figlioletta di quest'ultimo in seguito a una lite scoppiata nel parcheggio di un supermercato. Del secondo si è avuta notizia ieri attraverso Aldo Di Giacomo, del Sindacato di Polizia penitenziaria (Spp). Due tragedie, due macabri promemoria anche per i relatori che sono al lavoro per gli Stati generali dell'esecuzione penale. Il fatto che a distanza di pochissime ore si tolgano la vita un detenuto e un poliziotto è purtroppo un modo terribile di ricordare come il disagio dietro le sbarre abbia ben poco a che vedere con la condizione detentiva in senso astratto e molto con la situazione materiale dei nostri istituti penitenziari. Ai sindacati degli agenti va riconosciuto di essere ormai da anni i primi, i più solerti, e disperati nel tono dei loro appelli, a sollevare l'allarme sulle condizioni di vita all'interno delle carceri. Sia di chi vi è ristretto sia di chi è chiamato a prestare servizio in quei contesti così frequentemente segnati dalla sofferenza. Proprio il rappresentante del Spp, Di Giacomo, riferisce dunque quanto è avvenuto nel penitenziario marchigiano di Fossombrone giovedì sera: "L'agente, di cui non è ancora stato reso noto il nome, si è tolto la vita con la pistola d'ordinanza. Era sposato ed era da poco stato trasferito qui a Pesaro". Il poliziotto non avrebbe lasciato alcun messaggio. "Nell'ultimo anno e mezzo", dice ancora Di Giacomo, "sono aumentati gli eventi critici, e le istituzioni sono assenti. Oltre a fare le condoglianze, non c'è nessuno che agisca concretamente. È il dodicesimo collega, se non ricordo male, che si suicida nel giro di cinque anni". Giuseppe Panuccio è invece l'autore reo confesso della cosiddetta strage del Quiper, la lite familiare culminata nell'omicidio di tre persone avvenuta nel parcheggio di uno dei più noti e frequentati supermercati di Reggio Calabria. Nel primo pomeriggio di domenica 30 maggio del 2008 l'uomo aveva incrociato il fratello, con cui da tempo era in pessimi rapporti, insieme alla cognata e alla nipotina di quattro anni appena. Come aveva ammesso agli inquirenti, l'uomo dopo aver preso dal cofano della macchina il fucile da caccia, aveva iniziato a sparare contro i parenti, per poi allontanarsi rapidamente. Qualche ora dopo si sarebbe spontaneamente costituito, presentandosi in Questura accompagnato dal suo avvocato. Panuccio stava scontando l'ergastolo per quella strage. Giustizia: il diritto incerto che genera sfiducia di Giuseppe Galasso Corriere della Sera, 4 luglio 2015 La giustizia e il buon senso tradito. Le sentenze contraddittorie emesse dalla Consulta e l'applicazione delle leggi non uguali per tutti disorientano i cittadini e danneggiano la credibilità delle istituzioni. La Corte costituzionale, disapprovando la legge che tagliava le pensioni, ha pure stabilito che il ripristino del diritto violato dalla legge dati soltanto dalla data della sentenza che lo ristabilisce. Domanda dell'uomo della strada, ignorante di diritto, ma affezionato al buon senso: si può riconoscere un diritto come costituzionale e negarlo per un certo numero di anni, ossia per il tempo corso fra la data della legge bocciata e quella della sentenza della Corte? Può valere, in punto di diritto, che è l'unico punto sul quale la Corte ha giurisdizione, l'argomento per cui si sarebbe creato nei conti dello Stato, decidendo altrimenti, come l'Avvocatura dello Stato ha fatto presente alla Corte, un enorme buco da ben 35 miliardi di euro per i rimborsi dovuti per il periodo per il quale il diritto riconosciuto dalla Corte rimane, in base alla sua sentenza, un po' misteriosamente soppresso? Una risposta certamente ci sarà. Ancora, però, quell'uomo della strada (the man on the street, come si dice in America, o uno degli street corner men, come nel titolo di una famosa ricerca sociologica di Elijah Anderson) ha letto anche di una relazione della Corte dei Conti, nella quale si afferma che il livello della pressione fiscale è in Italia così alto da pregiudicare la stessa possibilità di un positivo riavvio dell'economia nazionale. Parole sacrosante. Ma lo stesso cittadino, ignorante di diritto di cui sopra, non può fare a meno di chiedersi se queste parole sacrosante toccasse a questa Corte di dirle. Non ha questa Corte il solo compito di istituto di attestare o contestare la correttezza contabile e giuridica dei conti che dagli organi centrali dello Stato fino a quelli di tutte le altre sedi di spesa di fondi pubblici sono soggetti al sindacato della Corte? Il giudizio sulla opportunità di tassare di più o di meno i cittadini non appartiene esclusivamente agli organi rappresentativi ed esecutivi stabiliti come competenti in materia dalla Costituzione? Sicuramente, anzi ancor più sicuramente che nel caso precedente, una ragione ci sarà anche qui, che l'uomo della strada non sa vedere. E, per giunta, quest'uomo ha pure letto di una presa di posizione della Suprema Corte di Cassazione, che lamenta l'enormità non sostenibile del lavoro che deve svolgere per la quantità dei ricorsi che ad essa vengono sottoposti e che riguardano in altissima percentuale liti giudiziarie per valori inferiori a 5.200 euro. Presa di posizione che si presenta come più che comprensibile e degna di condivisione. Ma che cosa essa può significare? Il malcapitato ignorante di diritto pensa che vi sia la sola risposta di un congruo aumento del numero dei giudici di Cassazione, con una grave alterazione dell'organico della magistratura, o l'affidamento del terzo grado di giudizio ad altri livelli o a livelli di nuova istituzione del vigente ordinamento italiano, o la soppressione del terzo grado di giudizio per i valori inferiori a una certa soglia o qualche altra diavoleria giuridica che the man on the street mai potrebbe riuscire neppure a ipotizzare. Se poi lo stesso malcapitato ignorante legge che la legge Severino fu subito applicata a Berlusconi, ma non è applicata a de Magistris ed è molto dubbio che possa essere applicata a De Luca, le idee gli si confonderanno definitivamente. Giungerà, così, ai vertici la sua sfiducia in se stesso per non riuscire a capire da sé le cose che ogni cittadino avrebbe il diritto di comprendere subito e facilmente. E a nulla varrà che i giusperiti gli spieghino poi che tutto si spiega e sta bene come sta e come va, anche, poi, perché le opinioni dei giusperiti divergono e si contraddicono fra loro in modo impressionante. Sarà piuttosto ascoltato chi denuncia giustamente il malvezzo del costume di una legislazione pletorica, spesso frettolosa e ancor più spesso male scritta; di un ordinamento giudiziario che non riesce a procurarsi tutti i mezzi e servizi di cui necessita; e la sovrapposizione frequente quanto discutibile di organi e di funzioni pubbliche. Con il risultato complessivo che la sfiducia da personale dell'uomo della strada si trasformi in sfiducia generale verso istituzioni e ordinamenti, aggravando quella crisi della politica di cui da tempo lamentiamo il progressivo avvicinamento a un possibile punto di rottura. Giustizia: legge Severino… ma quanto sono scemi i nostri parlamentari di Vincenzo Vitale Il Garantista, 4 luglio 2015 E così, com'era prevedibile, anche Vincenzo De Luca è stato reintegrato dai giudici quale Presidente della Campania, dopo che la solita legge Severino ne aveva causato lo spodestamento dalla carica. Il Tribunale, investito dal ricorso di De Luca, non solo ha sospeso il provvedimento con cui il politico del Pd era stato estromesso, ma ha pure inviato gli atti alla Corte Costituzionale, ritenendo che le norme della Severino siano contrarie alla Costituzione, cosa già fatta allorché si trattò della posizione di De Magistris, revocato e poi reintegrato nella carica di Sindaco. Insomma, al di là del merito della questione, se cioè quelle norme possano essere applicate nei casi specifici, i giudici italiani sono propensi a credere che esse siano incostituzionali. Cosa, questa, non da poco e che chiama in causa direttamente l'operato dei parlamentari che pochi anni or sono approvarono la legge Severino in modo trasversale fra tutti i partiti; nonché della stessa Severino in prima persona che all'epoca era ministro della giustizia oltre che avvocato e perciò perfettamente in grado di poter nutrire simili dubbi. Eppure, tutti, nessuno escluso, votarono a favore della legge che oggi i giudici, in tempi e luoghi diversi, ritengono incostituzionale. Sicché, c'è da ritenere che i parlamentari di tutti i partiti e i ministri, pur se avvocati e perciò giuristi, siano portati ad approvare le leggi senza un previo esame sulla loro rilevanza costituzionale - a dispetto della Commissione a ciò deputata presso la Camera e il Senato - ma lo facciano per seguire il flusso dell'opinione pubblica che li conduce perciò ove piaccia alla stessa. Massimamente ciò vale per Forza Italia che approvò una legge la cui prima vittima sarebbe stata proprio Berlusconi, cacciato in malo modo dal seggio senatoriale. Eppure, non ci voleva molto a capirlo che quella legge sarebbe stata sospettata di vizi costituzionali, anche per il portato illiberale che trae seco: ma i nostri parlamentari nisba, orecchie da mercante, probabilmente perché " in tutt'altre faccende affaccendati". Ma non si tratta solo di questo. Si tratta prima di tutto del rispetto per i detentori della sovranità che sono i cittadini, anche se troppo spesso lo si dimentica; si tratta di non ingolfare i Tribunali con questioni del tutto insulse; si tratta di evitare ciò che ora probabilmente accadrà, cioè i necessari contorsionismi istituzionali, tanto improbi, quanto irrazionali e dannosi. E infatti, poniamo il caso, come è probabile, che la Consulta fra qualche mese dichiari le norme della Severino incostituzionali. Che fare ? Le sospensioni della decadenza disposte per De Magistris e De Luca diverrebbero definitive, mentre per Berlusconi si aprirebbe uno scenario inedito nella storia della nostra Repubblica. Infatti, non potendosi altro fare se non caducare le norme che lo fecero decadere dal seggio senatoriale, bisognerebbe reinsediarlo in tale seggio, attraverso un provvedimento apposito che mai in Italia è stato assunto: far diventare di nuovo Senatore chi, dopo essere stato eletto dai cittadini, era stato estromesso in forza di una legge contraria alla Costituzione. Roba da poco… capace di sollevare mille dubbi e mille interrogativi. Ecco la situazione in cui purtroppo ci troviamo, nostro malgrado, costretti ad assistere a politici che invece di contribuire al governo della cosa pubblica ciascuno nel proprio ruolo, passano il tempo ad occuparsi di sciocchezze di tal genere e che per di più creano problemi di ogni tipo. La legge Severino non andava neppure pensata: oggi se ne vedono i guasti. Giustizia: prove a favore dell'imputato dimenticate nei faldoni, 4 mesi di carcere ingiusto di Silvia Barocci Il Messaggero, 4 luglio 2015 Quei quattro mesi di carcere, dal 24 gennaio al 27 maggio del 2014, più altri quindici giorni di arresti ai domiciliari, Luigi Pelaggi li ricorderà con dolore ma anche con la rabbia di chi, dopo 12 ricorsi e istanze, viene a scoprire che le prove della sua innocenza erano già tutte in alcuni accertamenti svolti dal Nucleo di Polizia Tribunale di Milano sin dal lontano 2011. Eppure quelle verifiche, contenute in un faldone da 825 pagine su un totale di 32mila depositate agli atti dell'inchiesta sulla bonifica dell'area dello stabilimento ex Sisas di Pioltello-Rodano, sono probabilmente sfuggite al gip di Milano Paolo Varanelli che lo scorso anno firmò l'ordinanza di arresto per l'ex commissario di governo incaricato della bonifica dell'area nonché capo della segreteria tecnica dell'allora ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Ad archiviare l'accusa di corruzione mossa nei confronti di Pelaggi, per una presunta mazzetta da 700mila euro, ci hanno pensato gli inquirenti romani. Nel frattempo, infatti, l'inchiesta era stata trasferita dalla Cassazione nella Capitale. L'altro giorno il gip Ezia Damizia ha accolto la richiesta del pm Paolo Ielo di archiviare la contestazione della corruzione. L'intero impianto accusatorio degli inquirenti di Milano riguardo alla tangente da 700mila euro ruotava attorno a un intercettazione tra due coimputati che definivano Pelaggi "fantastico come commissario" e, subito dopo, facevano riferimento ai soldi. Gli avvocati Valerio Spigarelli e Antonio Bana, legali dell'ex commissario, hanno rintracciato in uno dei faldoni depositati agli atti dell'inchiesta gli accertamenti patrimoniali che sin dal 2011 avrebbero escluso qualsiasi collegamento tra Pelaggi e quei soldi. I 700mila euro sarebbero stati oggetto di manovre di finanza all'interno dei veicoli societari riconducibili alla Deneco e/o Unendo (assegnataria della gara pubblica, al massimo ribasso, per la rimozione e il trasferimento dei rifiuti). Sempre da quel faldone da 825 pagine è emerso che anche due testimoni, ascoltati dalla Gdf nel dicembre del 2011 quali persone informate sui fatti, avevano dichiarato l'estraneità dell'ex commissario rispetto ai passaggi di denaro. Da qui la richiesta di archiviazione del pm Ielo, perché le indagini milanesi, "compendiate nelle note Gdf dell'8 novembre 2011 e 10 ottobre 2011, hanno tracciato il flusso finanziario di 700mila euro generato dal Sal", ed "evidenziato come non sia finito nella disponibilità di Pelaggi". L'ex capo della segreteria dell'allora ministro Prestigiacomo ha visto riconosciuta la prima, e forse la più importante, ragione. L'inchiesta era stata avviata nel febbraio del 2011 dall'allora procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo e dai pm Piero Basilone, Paola Pirotta e Paolo Filippini ed aveva portato agli arresti, nel gennaio del 2014, di Pelaggi e di altre quattro indagati. Sette mesi dopo, a seguito della pronuncia della Cassazione, la trasmissione degli atti a Roma. "Per quanto riguarda la contestazioni di reati ambientali e di abuso d'ufficio - fa sapere l'avvocato Spigarelli - siamo certi che neanche queste saranno sussistano. In realtà, quello che ha fatto Pelaggi è stato lavorare per la rimozione di circa 300mila tonnellate di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, nello stabilimento Sisas, evitando in questo modo all'Italia una condanna da 670 milioni di euro da parte della Commissione europea". Libertà di stampa. I limiti al pm, non si sequestrano i dati del giornalista per trovare le fonti di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2015 Con una lucida ed esauriente motivazione, la sesta Sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 24617/2015 depositata il 10 giugno 2015, ha stabilito che l'acquisizione della copia di dati informatici, duplicati su supporto, è un vero e proprio sequestro che dà conseguente diritto al riesame, nel contempo ribadendo la intangibilità delle fonti del giornalista, anche ove il Pm intenda scoprirle con la perquisizione del pc personale e la stampa di dati in esso contenuti. Pur confermando il provvedimento del Tribunale del riesame, i giudici hanno ritenuto, diversamente da quanto in esso sostenuto, che l'estrazione a stampa della copia di un documento informatico, anche se rimane nella disponibilità del perquisito, costituisca un sequestro vero e proprio, assoggettabile al riesame. La Corte ha confermato che l'indiscriminato sequestro del computer o anche solo di copia del suo intero contenuto, salvo casi eccezionali viola il principio di proporzionalità, al pari del sequestro di un intero archivio cartaceo, ciò specie ove lo strumento appartenga a un giornalista e il sequestro sia il mezzo per effettuare un'indebita attività esplorativa sui suoi segreti. Il Codice di procedura penale, dopo la riforma della legge 48/2008, infatti, è esplicito nell'escludere il sequestro di interi sistemi informatici, a meno che ciò non avvenga in presenza di determinate e giustificate condizioni, escluse le quali l'acquisizione integrale di un intero archivio elettronico, perché di facile accessibilità con la duplicazione, non è consentita. L'estrazione di copia di dati informatici, dunque, equivale al mantenimento del sequestro sul bene, poiché la stessa circolazione dell'informazione, fuori dell'archivio informatico di provenienza, costituisce una perdurante perdita del diritto di disporne liberamente e in via esclusiva. Poiché quei dati non possono che essere allocati su supporto fisico, costituisce sequestro del dato anche il semplice trattenimento di tale supporto, sebbene il dato sia rimasto nella disponibilità del titolare. Ciò accade quando il documento non ha valore in sé, racchiuso nel suo originale - come accade per banconote o assegni - ma è esso stesso il bene originale, ad esempio, un progetto o un dato segreto quale è, per il giornalista, il nome di una fonte, il cui valore sta nella riservatezza delle sue generalità, sicché la sua circolazione in più copie può costituire una privazione del bene, rispetto al quale sussiste il diritto al riesame. Il diritto-dovere al segreto del giornalista e il limitato ambito in cui può essere escluso, per concludere, costituiscono un limite alla ricerca dei dati identificativi della fonte della notizia attraverso il sequestro, come la giurisprudenza della Cassazione e della Cedu, in particolare con la sentenza del 14 settembre 2010, Sanoma Uitgevers B.V. contro l'Olanda, da tempo hanno stabilito. La Corte ritiene, perciò, illegittimo il provvedimento che dispone la ricerca e l'eventuale sequestro di documenti per individuare la fonte del giornalista, senza che sia contestualmente esplicitata la situazione particolare che - a determinate condizioni - consente di superare il diritto del giornalista alla segretezza della fonte. Lettere: antimafia addio di Salvo Toscano Il Foglio, 4 luglio 2015 Anche Lucia Borsellino abbandona Crocetta e i suoi pennacchi moralisti a carrieristi ipocriti e pataccari. L'ultimo velo di ipocrisia lo ha scostato Lucia Borsellino. Che con le sue dimissioni dalla giunta "della rivoluzione" di Rosario Crocetta ha cantato il più autorevole e definitivo de profundis per l'antimafia delle carriere. "Oggi torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di Via D'Amelio. Non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere". Parole che suonano come un requiem, quelle consegnate dalla figlia di Paolo Borsellino a Repubblica nel giorno del suo addio all'assessorato alla Sanità. Un'uscita di scena motivata, in una lettera sobria e affilata, da ragioni di carattere "etico". Proprio lei che sin dalla campagna elettorale aveva svolto l'ideale ruolo di garante etico dell'avventura di governo del funambolico governatore gelese. La retorica dell'antimafia e della legalità non attacca più da un pezzo in Sicilia. È caduta sotto i colpi degli scandali, sgretolata da due anni e mezzo di malgoverno e disastri firmati dai paladini di quel grande inganno che ha edificato un sistema di potere saldamente in mano a una conventicola di amici. Amici troppo esuberanti, a volte. Come il chirurgo e medico personale di Crocetta, Matteo Tutino, la cui ascesa nella Sanità siciliana ha impressionato per rapidità, fino all'arresto disposto lunedì dalla procura di Palermo. Una vicenda, quella del medico che a ogni piè sospinto rivendicava il suo specialissimo rapporto col presidente, che ha rappresentato l'ultima goccia per Lucia la mite. "Oggi mi chiedo: sotto cosa ho messo la faccia?", confida la Borsellino parlando di un governo "che ha ormai scarsa credibilità". Così come il gran coté dell'antimafia e della legalità a tanto al chilo. Incommentabile, di fronte ai giudizi tranchant della figlia del magistrato ucciso in Via D'Amelio, l'omertoso silenzio del partito dei moralisti in servizio permanente effettivo. Tace il potente senatore Beppe Lumia, governatore ombra e regista dei patti di Palazzo nonché principe dell'antimafia politicizzata. Non si sente la voce di Antonio Ingroia, accasato nel sottogoverno crocettiano, lontani i fasti guatemaltechi e le ambizioni di premierato. Lucia chi?, sembrano dire quei silenzi imbarazzati, mentre Crocetta lesto, con una mano saluta balbettante e contrito il suo ex assessore-vessillo e con l'altra più rapida mette le mani direttamente sulle potenti stanze dell'assessorato che gestisce i milioni della Sanità isolana, della quale s'è subito intestato l'interim. Tramonta così il grande inganno dell'antimafia dei pennacchi, che continua a perdere pezzi e bandiere sotto i colpi delle procure, fino a ieri meta prediletta delle sue passerelle per questa o quella denuncia. Del grande circo legalitario resta poco o nulla. Toccherà consolarsi, magari, con qualche patacca di Massimo Ciancimino, ricordando i bei tempi che furono. Lettere: Bossetti è già colpevole, purtroppo di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 luglio 2015 Il caso Yara specchio perfetto del cortocircuito mediatico-giudiziario. L'assassinio di Yara Gambirasio ha suscitato emozione comprensibile nell'opinione pubblica, con conseguente concentrazione straordinaria di interventi sui mezzi di informazione. L'ansia di assicurare alla giustizia il responsabile di questo crimine odioso si è trasformata in una sorta di linciaggio del muratore che è oggi imputato nel processo che si è appena aperto a Bergamo. Per Massimo Bossetti non esiste presunzione di innocenza, la sua condanna è già stata emessa da decine e decine di talk-show. Dovrebbe essere il dibattimento a stabilire se la concordanza degli indizi è tale da convincere la giuria che il reato è provato al di là di ogni ragionevole dubbio. Nessuno mette in dubbio il diritto di cronaca ma in questo caso si è creato un clima che ha l'effetto di rendere impopolare e inaccettabile una eventuale sentenza di assoluzione. Il meccanismo mediatico-giudiziario sembra estendersi senza freni anche alle vicende e alle tragedie della cronaca criminale. Sbattere il mostro in prima serata è un metodo che fu censurato a suo tempo dall'opinione democratica, quando era ancora intrisa di garantismo. Ora quei freni inibitori sono scomparsi e l'unanimismo della condanna mediatica ricorda le immagini stereotipate delle tricoteuses che assistevano con passione alle prodezze della ghigliottina durante il Terrore giacobino. Riuscirà la Corte di Bergamo a giudicare con equilibrio e razionalità esaminando solo gli indizi? C'è da sperarlo ma senza troppa convinzione. Lettere: non chiamiamole "baby gang" di Silvia Ricciardi, Vincenzo Morgera, Giovanni Salomone (Associazione Jonathan) La Repubblica, 4 luglio 2015 Sono trascorsi quasi 30 anni dall'entrata in vigore del Dpr 448/88. Con questa legge, il nostro paese si è dotato di un diritto minorile profondamente ispirato alla tutela del minore dell'area penale. Una strategia legislativa ispirata a due principi generali, sui quali nel tempo si è formato poi un consenso molto vasto: il criterio della de-istituzionalizzazione e il principio dell'inclusione. Ma in questi anni molte cose sono cambiate: basti pensare che a quell'epoca non c'era il mercato globale, non esistevano internet, Facebook e i telefonini. Il mondo dei minori non è rimasto immune. L'identikit del minore deviante di oggi, di quello riportato dalle cronache è assolutamente altro rispetto alla figura dello scugnizzo o del muschillo, figure che oggi comunque non esistono più. Si tratta di un cambiamento epocale con conseguenze non sempre positive. Quello che i referenti istituzionali - dipartimento Giustizia minorile e Regione Campania (assolutamente impreparata alla lettura, all'approccio e alla gestione dei minori dell'area penale) - devono capire che continuare a contrastare il fenomeno della nuova devianza minorile con vecchi schemi e modelli fermi a teorie del disagio e della disuguaglianza del secolo scorso non solo è perdente, ma paradossalmente alimenta nei minori il senso di impunità. Bisogna prendere atto che ci troviamo di fronte a minori e giovani adulti che non hanno nessuna intenzione di rinunciare agli agi del comando, dell'avere e del consumare e per questo danno spazio ai lori istinti più violenti. Ci troviamo di fronte a minori rappresentanti di una nuova antropologia; quella che Isaia Sales ha definito nel suo articolo apparso su "Il Mattino" del 22 giugno scorso, "camorra-massa". La precedente faida di Scampia dove i protagonisti erano dei ragazzi appena maggiorenni e la nuova faida che sta insanguinando il centro storico di Napoli non consente più a nessuno di stare alla finestra e aspettare che esca il sole. Una prima parziale testimonianza di questa drammatica difficoltà non può che venire da chi in questi anni è stato fortemente impegnato ad essere motore di un cambiamento, continuando a denunciare ai referenti istituzionali che è arrivato il momento di demitizzare ed abbattere i tabù ideologici che impediscono di affrontare i mutamenti, primo fra tutti il superamento del modello che prevede la compresenza in comunità di minori con diversi provvedimenti penali e amministrativi, consentendo la convivenza di bambini deprivati con giovani adulti responsabili di reati anche gravissimi come quelli che la cronaca riporta con ampi spazi su tutti i media. Ragazzi che, sia detto per inciso nel caso degli ultimi accadimenti relativi al centro storico, conosciamo benissimo perché collocati negli anni scorsi nelle nostre comunità in misura cautelare. È il fallimento di questo atteggiamento ideologico, infarcito di buonismo, che dequalifica la figura dell'adulto e che, di fatto, ha contribuito a generare una nuova antropologia rispetto alla quale non è più possibile girare io sguardo e far finta di niente. Facciamo in modo che quello che sta accadendo sia una grande occasione di riflessione e che tutti insieme si riesca a promuovere quei modelli e quell'innovazione in grado di contrastare questa ondata di violenza in "stile camorra" che vede ergersi a protagonisti i "clan di minori" (e non "baby-gang"), che hanno come riferimenti stabili e sicuri i modelli della camorra e come obiettivo il soddisfacimento delle loro esigenze di consumo (possesso di oggetti griffati come simboli di forza e di potere) e psicologiche (identità, ruolo, appartenenza). Entrambi i fenomeni hanno un comune denominatore: la violenza e la sopraffazione. Occorre innovarsi/adeguarsi ai cambiamenti e fronteggiare questa nuova antropologia con norme, regole chiare e coerenti; sostituire gli attuali servizi scadenti, con servizi efficaci ed efficienti in grado di promuovere percorsi di inclusione reale e modelli culturali alternativi a quelli della criminalità organizzata. In altre parole riconoscere anche alle comunità del privato sociale come già avviene per le comunità pubbliche la specializzazione dell'intervento. Per fare questo ci vogliono intelligenza, volontà e risorse, una classe dirigente, e pensiamo alla nuova giunta regionale, che abbia quel coraggio che è mancato a chi l'ha preceduta. Piemonte: insediato il gruppo tecnico per la sanità penitenziaria La Presse, 4 luglio 2015 "Intendiamo porre grande attenzione ai temi della sanità penitenziaria che, nel passato, sono stati trascurati da parte dell'amministrazione regionale. Abbiamo inserito anche questa materia, assai delicata per molti risvolti, nella delibera sull'assistenza territoriale che abbiamo approvato lunedì in Giunta e chiediamo ai Direttori generali delle Aziende sanitarie di attuare gli obiettivi loro indicati". Lo ha dichiarato l'assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta, intervenuto oggi all'insediamento del gruppo tecnico inter-istituzionale della sanità penitenziaria, istituito con delibera della Giunta regionale del 27 aprile scorso. Del gruppo tecnico inter-istituzionale fanno parte: Fulvio Moirano, direttore regionale Sanità; Antonella Caprioglio, della direzione regionale Coesione sociale; Marco Bonfiglioli, provveditorato regionale amministrazione penitenziaria; Domenico Minervini, direttore della casa circondariale Lorusso Cotugno di Torino; Tullia Ardito, direttore casa circondariale di Vercelli; Antonio Pappalardo, centro Giustizia minorile; Enrico Teta, dipartimento Salute mentale, Asl TO2, servizio tossicodipendenze, casa circondariale Lorusso Cotugno; Antonio Pellegrino, sezione di osservazione psichiatrica Sestante presso la Casa circondariale Lorusso Cotugno; Orazio Pirro, servizio di neuropsichiatria infantile, Asl To1; Giuseppe Bafumo, Tavolo dei referenti dei servizi aziendali per la tutela della salute in ambito penitenziario; Paola Velludo, magistratura di sorveglianza; Francesco Gianfrotta, magistratura di sorveglianza; Bruno Mellano, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Emilia Romagna: la Garante Desi Bruno "ripensare le Case lavoro come Castelfranco" Ansa, 4 luglio 2015 "Occorre ripensare le case lavoro come Castelfranco Emilia. Abrogarle o superarle attraverso la territorializzazione". Lo scrive in una nota la Garante regionale delle persone private della libertà personale dell'Emilia-Romagna, Desi Bruno, che parteciperà al tavolo di lavoro sulle misure di sicurezza promosso dal ministero della Giustizia all'interno degli "Stati generali sull'esecuzione penale". "In una sede tecnica come quella - si legge nella nota - potrò tornare a far rilevare la necessità di arrivare a un ripensamento delle misure di sicurezza detentive, con particolare riguardo all'internamento della casa di lavoro nell'ottica dell'abrogazione o di un superamento che possa passare attraverso la territorializzazione delle stesse, avvicinando per quanto possibile l'internato al territorio di riferimento". Anche perché, prosegue riferendosi alla realtà del Modenese, "è auspicabile che il rilancio della struttura di Castelfranco Emilia possa davvero passare attraverso un intervento costruttivo attuato in sinergia con la comunità locale, così come recentemente i vertici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia mi hanno annunciato". Proprio nei giorni scorsi l'ufficio della Garante ha visitato la casa lavoro di Castelfranco Emilia rilevando una "situazione, anche in relazione alle precedenti visite, cristallizzata: l'internato è per lo più una persona che presenta caratteristiche di forte disagio sociale come tossicodipendenza, problemi psichiatrici, mancanza di riferimenti familiari, sociali, abitativi, di lavoro, irregolarità sul territorio, o povertà, e a queste persone la casa di lavoro non offre, nei fatti, alcun tipo di strumento di reinserimento sociale idoneo a far cessare il giudizio di pericolosità a fondamento dell'applicazione della misura, tanto più che risultano grandemente sottoutilizzate le potenzialità della struttura". L'istituto di garanzia dell'Assemblea legislativa regionale segnala infine un caso di "particolare delicatezza", tra i 100 internati e gli otto detenuti presenti nella struttura: "Uno di loro sta assumendo terapia ormonale per diventare transessuale, e ha già più che evidenti mutamenti del corpo, ma continua a vivere in ambienti promiscui, condividendo gli ambienti detentivi con gli altri internati". Reggio Calabria: suicida l'autore della strage del Quiiper, aperto fascicolo d'inchiesta Gazzetta Del Sud, 4 luglio 2015 Giuseppe Panuccio era detenuto al carcere di Arghillà e scontava la condanna all'ergastolo. Gli agenti penitenziari hanno trovato in cella alcuni suoi manoscritti. Si è tolto la vita in carcere Giuseppe Panuccio, tristemente conosciuto a Reggio come l'autore della "Strage del Quiiper". Fu lui, quella maledetta domenica 28 maggio 2008, ad imbracciare un fucile da caccia e uccidere il fratello, la cognata e la nipotina di appena quattro anni. In prede a un raptus di follia, scatenato da un dissidio per la gestione di una significativa eredità familiare, sparò all'impazzata contro i congiunti non lasciandogli scampo proprio nel parcheggio del noto supermercato alimentare (al piazzale della Libertà) da cui la vicenda di cronaca prese il nome. Una tragedia sconfinata. Condannato all'ergastolo, in via definitiva, era detenuto al carcere reggino di "Arghillà" in isolamento. Nell'ultimo periodo non aveva manifestato segni di squilibrio o follia, né problematiche tali da indurlo a un gesto così drastico ed eclatante. Anzi appena lo scorso sabato aveva incontrato familiari e legali di fiducia nel tradizionale colloquio in carcere. Anzi proprio negli ultimi anni (circa tre anni fa aveva tentato di suicidarsi) stava cercando parziale conforto negli studi essendosi iscritto a un corso di laurea in Giurisprudenza. Gli agenti della polizia penitenziaria l'hanno trovato giovedì sera - intorno alle 22 e 30 - senza vita. Ha scelto di impiccarsi nella cella. Ha lasciato con sé alcuni scritti, di cui non si conoscono i contenuti. Sull'episodio la Procura ha aperto un fascicolo d'indagine e il pm Giovanni Gullo ha disposto l'esame autoptico. Più di un lato oscuro emergerebbe dalle dinamiche del suicidio. Toccherà agli inquirenti fare luce e chiarezza. Intanto emerge ancora una volta una situazione di complicata gestione della casa circondariale di Reggio "Arghillà" (media sicurezza). Una situazione esplosiva che non nasconde Bruno Fortugno, segretario provinciale Uil-Pa Penitenziari di Reggio: "Il miracolo questa volta non si è ripetuto. La morte di un detenuto in un penitenziario è senza ombra di dubbio una sconfitta: lo è per tutte quelle figure istituzionali che vi operano all'interno e fuori della struttura penitenziaria. È una sconfitta per lo Stato". E ricorda le numerose denunce "di carenza di personale in divisa sia la mancata assegnazione di un direttore in pianta stabile". Fossombrone (Pu): agente Polizia penitenziaria suicida, forse depressione all'origine gesto Ansa, 4 luglio 2015 Un colpo di pistola alla tempia, forse per depressione. Si è ucciso così l'agente di polizia penitenziaria di 40 anni, residente a Tavernelle di Serrungarina (Pesaro), rinvenuto senza vita ieri sera alle 23 all'esterno della sua casa a Fossombrone e non, come si era appreso in un primo momento, nel carcere dove prestava servizio. L'uomo si è ucciso senza motivo apparente sparandosi alla testa con la sua Beretta calibro 9. Sposato, due figli ancora piccoli, sembra che il 40enne, pochi attimi prima, abbia inviato un sms di addio alla moglie, che si trovava con i figli in compagnia di amici. L'uomo era stato con loro fino a mezz'ora prima, per poi allontanarsi con una scusa dicendo che sarebbe andato a casa per sbrigare cose urgenti. Il corpo è stato trovato dalla moglie, che si era precipitata a casa dopo aver letto il messaggio sul telefonino. Sul posto, i carabinieri. Il cordoglio di Ricciatti (Sel) "Esprimo il mio più sincero cordoglio alla famiglia e ai colleghi dell'assistente capo della Polizia penitenziaria di Fossombrone". Lo afferma l'on. Lara Ricciatti di Sel, appresa la notizia del suicidio dell'uomo, avvenuto ieri sera nei pressi della sua abitazione. "Non so quanto il delicato lavoro svolto nella Casa di reclusione possa aver inciso nella decisione di compiere quel gesto estremo - continua Ricciatti, che appena un mese fa era stata in visita proprio al carcere di Fossombrone - ma sono a conoscenza delle grandi difficoltà che gli agenti vivono quotidianamente nell'esercizio della loro funzione. Per questo rinnovo la mia vicinanza a tutto il Corpo, insieme all'impegno di continuare a farmi portavoce, per quanto nelle mie possibilità, della situazione di disagio nelle carceri del nostro territorio". Comunicato del Sappe Ha molto colpito la Comunità penitenziaria delle Marche la notizia che un poliziotto penitenziario di 41 anni in servizio alla Casa di Reclusione di Fossombrone si è tolto la vita, ieri sera, nei pressi di casa. Lo comunica un affranto Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano", aggiunge il leader del Sappe, che ricorda come "nel 2014 furono 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria mentre, fino ad oggi, si era contato un solo suicidio di un collega, a Caltagirone". Ancora oscure le cause che hanno portato l'uomo, sposato e padre di due figlie, trasferito da poco a Fossombrone da Pesaro, al tragico gesto, ma Capece sottolinea come sia importante "evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l'attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto. Non può essere sottaciuto ma deve anzi seriamente riflettere la constatazione che negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 35 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 100, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Non sappiamo se era percepibile o meno il disagio che viveva il collega che si è ucciso. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l'Amministrazione Penitenziaria è in grosso affanno e in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta". Il pensiero del Sappe va "alla moglie, alle figlie, ai familiari, agli amici e ai colleghi dell'uomo suicida. A loro va il nostro pensiero e la nostra vicinanza", conclude commosso e affranto Capece. Brescia: Cgil; rissa a Canton Mombello, un carcere da chiudere il prima possibile quibrescia.it, 4 luglio 2015 Nei giorni dopo la maxi rissa scoppiata tra trenta detenuti maghrebini e albanesi mercoledì sera 1 luglio nel carcere di Canton Mombello a Brescia per l'apertura della sezioni, continuano le polemiche. Stavolta a parlare è la Cgil che dice come "i poliziotti hanno rischiato tantissimo, un recluso magrebino ha incendiato una bomboletta di gas e l'ha scagliata contro gli agenti". Il sindacato parla di uno scontro che avrebbe messo a rischio l'intera struttura e gli agenti intervenuti nonostante siano ridotti. "Dopo la maxi rissa del 31 marzo - si legge in una nota - anche questa volta è stata messa a dura prova la professionalità dei poliziotti che ogni giorno rischiano la vita per far rispettare le leggi dello stato in un ambiente dove la convivenza è forzata e contrapposta tra diverse culture, religioni e nazionalità, specie in sezioni detentive con un regime penitenziario aperto con detenuti liberi di circolare all'interno della sezione detentiva, quindi, acuendo i rischi di risse tra soggetti". La Cgil chiede degli interventi contro chi è stato coinvolto nella rissa. E poi lancia un messaggio ai politici bresciani: "Chiudete Canton Mombello e costruite un nuovo carcere". E a proposito di una possibile nuova struttura, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, ci sarebbe un progetto da 70 milioni di euro per 40 mila metri quadrati e 200 posti previsto a nord di Verziano. Della causa si sarebbe fatto portavoce il deputato bresciano Alfredo Bazoli (Pd) sentendo il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il guardasigilli sarebbe disposto a valutare la proposta, anche se mancano risorse. Del caso si sta occupando anche Palazzo Loggia tramite l'assessore alla Sicurezza Valter Muchetti. Secondo le previsioni, il nuovo carcere dovrebbe essere costruito in project financing. Cioè dei privati che comprerebbero l'area per poi realizzare l'edificio. Quindi avrebbero dei vantaggi dalla gestione dei servizi di mensa, lavanderia e pulizie che saranno pagati dallo Stato centrale dai 40 agli 80 euro per ogni detenuto. Passati due decenni, la struttura diventerebbe proprietà del ministero della Giustizia. Nel caso dovesse passare, sarebbe il primo progetto del genere in Italia con queste modalità per un istituto di detenzione. Padova: arrestato in Spagna detenuto evaso dal carcere Due Palazzi dopo un permesso corriere del veneto, 4 luglio 2015 Walter Sponga, 53 anni, condannato per un omicidio su commissione perpetrato a Marsiglia. Era fuggito lo scorso 22 marzo dopo un permesso premio La Polizia di Stato di Padova, con il Servizio per la cooperazione internazionale di polizia della Direzione centrale della Polizia criminale, ha arrestato in Spagna un latitante evaso lo scorso marzo dal carcere euganeo dove scontava l'ergastolo per un omicidio commesso in Francia. L'uomo, Walter Sponga, 53 anni, era stato condannato in via definitiva per un omicidio su commissione perpetrato a Marsiglia a metà degli anni Novanta. Alla cattura si è arrivati dopo complesse indagini della Squadra mobile di Padova, coordinate dal Servizio centrale operativo, focalizzando l'attenzione sulla vita privata del ricercato e sulla sua compagna. L'evaso, fuggito lo scorso 22 marzo dal penitenziario di Padova mentre stava usufruendo di un permesso premio, è stato rintracciato a Ponte do Porto (Galizia, Spagna), dove faceva l'artista di strada. Le indagini si erano intensificate in questi ultimi giorni, in base alle informazioni sugli spostamenti del latitante, trasmesse subito dal Servizio di cooperazione internazionale agli uffici di polizia spagnoli dell'Udyco Central di Madrid e successivamente all'Udev di Santiago di Compostela, che ha circoscritto una zona dedita a feste di piazza della regione galiziana ed ha bloccati l'evaso mentre era intento alla pulizia di una pista di macchine d'autoscontro. Sono già state avviate, di concerto con le autorità spagnole, le pratiche di estradizione di Sponga sollecitate dal pm Roberto Piccione ed emesso dalla Procura generale presso la Corte d'appello di Venezia. Napoli: giuramento del 169esimo Corso allievi, la città saluta agenti penitenziari e detenuti di Maurizio Capozzo Il Mattino, 4 luglio 2015 Giurano i novantatré agenti della Polizia penitenziaria alla fine del 169esimo corso allievi. La città ha vissuto una serata di festa in occasione del tradizionale appuntamento annuale nella piazza d'armi di Palazzo Valle, a via Università. Ma quest'anno la cerimonia si è arricchita di nuovi particolari inediti che hanno dato un sapore diverso, è proprio il caso di dirlo, al solenne giuramento. A tenere banco, accanto ai nuovi agenti, sono stati le detenute ed i detenuti di alcune case di reclusione della Campania che, fuori dalle mura carcerarie, hanno dato prova di come si possano trovare sbocchi e coltivare passioni lontano dagli ambienti che li hanno portati a commettere reati. Tre cooperative di detenuti, tre iniziative messe in campo dalle direzioni penitenziarie di Pozzuoli, Sant'Angelo dei Lombardi e Secondigliano che hanno coinvolto i reclusi in progetti destinati a varcare le pareti degli istituti. Da Pozzuoli sono arrivate le detenute della Casa circondariale che producono il caffè "Lazzarelle", ormai un marchio in espansione frutto del lavoro della cooperativa che promuove la creazione di nuova imprenditorialità e lavoro autonomo femminile, per dare risposta a due differenti tipologie di problemi: la disoccupazione femminile e l'incentivo alla nascita di nuove imprese sociali in grado di offrire prodotti innovativi. Alla serata hanno partecipato anche le detenute che hanno completato il corso per pizzaioli esibendosi nella realizzazione di una vasta gamma di pizze napoletane. Dopo il caffè e la pizza, altro protagonista della serata è stato lo "Spirito di Galera", il vino prodotto dai detenuti delia cooperativa "Al fresco di Cantina", nata anni fa nella casa circondariale di Sant'Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, dove viene prodotto anche un eccellente miele, nell'ambito dei progetti di reinserimento messi in campo per i reclusi. Spazio anche ai prodotti della terra, frutto degli orti allestiti nel carcere di Secondigliano, dove i detenuti della cooperativa "Na-bott" producono ortaggi che quotidianamente finiscono sui nostri mercati. "Con questa compartecipazione dei detenuti alla cerimonia del giuramento - spiega la direttrice della Scuola Allievi Agenti di Polizia Penitenziaria, Donatella Rotundo - abbiamo voluto dare un significato diverso a questa giornata nella quale, accanto alla festa per i nuovi agenti che si apprestano ad entrare in servizio attivo, abbiamo inteso sottolineare il grande lavoro che viene effettuato all'interno delle strutture penitenziarie per garantire quelle finalità rieducative che la Costituzione impone". Alla cerimonia di ieri hanno preso parte anche la banda musicale della Polizia Penitenziaria, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Carmine Antonio Esposito, Adriana Tocco, Garante dei Detenuti per la Regione Campania, il senatore Vincenzo Cuomo ed i vertici locali di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Al termine del solenne giuramento, salutato con i tradizionali colpi di cannone ed i fuochi d'artificio, Palazzo Valle ha ospitato Le famiglie degli allievi e le autorità nella degustazione dei prodotti che Le cooperative dei detenuti avevano preparato per l'occasione. Napoli: l'On Michela Rostan (Pd) in visita alle carceri di Poggioreale e Secondigliano Dire, 4 luglio 2015 "Nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano ho incrociato la sofferenza ed il disagio materiale e morale dei detenuti, ma anche tanta speranza e solidarietà. Desidero esprimere il mio personale apprezzamento per le Direzioni ed il personale delle due case circondariali più importanti del territorio, che mi hanno accompagnata in queste visite, per me molto significative". Lo ha detto la parlamentare Pd, Michela Rostan, a margine di una visita effettuata oggi presso le due strutture carcerarie napoletane. "Ho avuto modo di constatare lo straordinario impegno della Polizia Penitenziaria e del Dap - ha detto la parlamentare - nel quotidiano tentativo di umanizzare e rendere più sopportabile la reclusione. Su questo fronte tanta strada è stata fatta, ma occorre in ogni caso fare di più, in special modo attraverso un significativo miglioramento, ammodernamento ed ampliamento delle strutture. Lavorerò affinché il Governo acceleri e definisca in tempi brevi il piano carceri, da troppi anni al palo". Imperia: detenuto tenta due volte il suicidio in carcere, salvato dalla Polizia penitenziaria sanremonews.it, 4 luglio 2015 Il Segretario Regionale della Uil Penitenziari Fabio Pagani sottolinea che "la tempestività e la grande capacità operativa degli Agenti in servizio, hanno scongiurato un epilogo tragico per il detenuto che risulta essere ricoverato presso reparto psichiatrico nosocomio cittadino". È successo intorno alle 15.30 di ieri, un detenuto italiano, D.V. di circa quarant'anni ha tentato per ben due volte il suicidio tramite impiccagione. A darne notizia è Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil Penitenziari, che continua "la tempestività e la grande capacità operativa degli Agenti in servizio, hanno scongiurato un epilogo tragico per il detenuto che risulta essere ricoverato presso reparto psichiatrico nosocomio cittadino". "Da tempo - aggiunge il sindacalista della UIL - segnaliamo la grave situazione all'interno dell'Istituto ovviamente non più sostenibile. Stanno continuando ad arrivare detenuti e di fatti la conta oggi segnala 91 presenze. Un carcere super sovraffollato, di contro la carenza organica di Polizia Penitenziaria ormai ordinariamente in condizioni estreme, 61 unità previste invece 42 quelle presenti e inoltre il Direttore, come riconoscimento al personale di Polizia Penitenziaria anche ad Imperia, ha chiesto il pagamento delle stanze della caserma". "Non credo - chiosa Pagani - occorra aggiungere altro. Si abbia consapevolezza della frustrazione, della stanchezza, della demotivazione, della rabbia dei poliziotti penitenziari, e solo grazie alla grande professionalità del personale si portano a termine gesti eroici che ormai sono diventati ordinari, al personale intervenuto va il plauso di tutta la Uil Penitenziari". Firenze: arrestato assistente Polizia penitenziaria, trovati telefoni cellulari non consentiti Ansa, 4 luglio 2015 Un assistente capo di Polizia penitenziaria del carcere fiorentino di Sollicciano è stato arrestato dopo il ritrovamento di due telefoni cellulari nella sezione penale. A riferirlo Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp, l'Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. "Quest'oggi - afferma Beneduci in una nota - nel corso di una operazione condotta dalla polizia penitenziaria nella sezione penale del carcere di Firenze Sollicciano e rivolta all'individuazione di sostanze e oggetti non consentiti, oltre al rinvenimento di due telefoni cellulari perfettamente funzionanti, si è provveduto all'arresto di un assistente capo di polizia penitenziaria di 50 anni probabile responsabile dell' introduzione all'interno del carcere dei due apparecchi telefonici". "Anche quest'ultimo episodio di grave infedeltà da parte di un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria, unitamente alle frequentissime aggressioni, agli incendi nelle celle e ai suicidi è frutto - scrive il sindacato in una nota - del clima di pesante abbandono istituzionale e di pessima organizzazione che contraddistingue la gestione del carcere fiorentino e che individua la principale responsabilità nel direttore del carcere, anche oggi assente unitamente al comandante e nel provveditore regionale". Verona: il forno del carcere preparerà il pane per tutte le scuole di Elisa Innocenti L'Arena di Verona, 4 luglio 2015 Motta, dg dell'azienda: "Una scelta che punta su qualità ed economicità". L'Ulss 20: "In più si aiuta il reinserimento dei detenuti nella società". Se oltre il 60% degli ex detenuti torna a delinquere, la percentuale di rischio recidiva crolla al 2% quando in carcere si offre la possibilità di un lavoro vero. E il reinserimento nella società dei detenuti non è soltanto qualcosa di auspicabile, ma un dovere per il sistema carcerario. Verona da anni si impegna in questo senso, cercando di offrire ai detenuti della casa circondariale di Montorio diverse opportunità. Ora è stato firmato un accordo tra Agec e carcere per la fornitura di pane, prodotto nel forno attivo all'interno dell'istituto di detenzione, a tutte le scuole gestite dall'Ente con cucina interna, circa 70, e si tratta del primo accordo di questo tipo in Italia. "I criteri che ci guidano sono due: qualità e economicità", spiega Maria Cristina Motta, direttrice generale dell'Agec, nel corso della presentazione dell'accordo, insieme alla direttrice del carcere, Maria Grazia Bregoli, alla Garante per i diritti dei detenuti, Margherita Forestan, alla presidente della rete di cooperative sociali Fede e solidarietà Verona, Erica Dal Degan, e a Massimo Valsecchi, direttore del dipartimento di Prevenzione dell'Ulss 20, "e in questo caso sono entrambi rispettati, perché il pane prodotto dai detenuti è ottimo e consente un risparmio di circa 30mila euro l'anno di soldi pubblici. In più si aiuta il reinserimento nella società di persone che hanno commesso uno sbaglio". L'accordo appena siglato avrà durata annuale e potrà essere rinnovato in caso di rating positivo; si inizierà già da questo mese a rifornire gli asili nido, mentre da settembre il pane prodotto a Montorio sarà anche sulle tavole di materne e elementari. "Il carcere di Verona ha una direzione illuminata e un territorio sensibile", sottolinea Angela Venezia, direttrice ufficio Detenuti e Trattamento del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, "per questo non stupisce che sia nata qui la prima vera collaborazione tra carcere e amministrazione. Speriamo che sia un modello anche per altre realtà". "Nel forno lavorano quattro detenuti", spiega Giorgio Roveggia, presidente di Vita, "che hanno effettuato anche un percorso di formazione e sono molto entusiasti del progetto. Speriamo di aumentarne il numero in futuro. Per loro poter lavorare e guadagnare è anche un modo per sentirsi utili e tornare alla normalità". Ferrara: il sabato i papà detenuti giocano con i figli, spazio arredato con donazione Ikea di Elisabetta Gualmini Corriere della Sera, 4 luglio 2015 Anche i detenuti sono dei papà. E così nel carcere di Ferrara, uno dei pochi in Italia, sono stati buttati giù muri e vetrate nelle stanze dei colloqui e sono stati istallati tavolini, seggioline, lavagne, pennelli e giocattoli di ogni tipo come in una bella e colorata ludoteca. Me lo avevano raccontato e ho voluto vedere con i miei occhi. E così mi sono piantata all'ingresso dell'enorme struttura carceraria in un pomeriggio di sole e afa, come solo nella Bassa possono esserlo già a giugno. Certo, il carcere è il carcere, con tutto quello che ne consegue. Già l'ingresso - documenti, controlli, cancelli, telecamere - mette l'ansia. Mi accolgono tutti, il direttore, il comandante della Polizia carceraria, le guardie, le educatrici e i volontari del Comune. Sono felici della mia visita e orgogliosi di mostrare quello che per loro è "il luogo di lavoro" dove cercano di fare al meglio, per me, penso sinistramente, un luogo di pena. Nel carcere di Ferrara ci sono 314 detenuti, divisi nelle diverse sezioni a seconda della gravità del reato commesso (i definitivi, i protetti, i collaboratori di giustizia, i semi-liberi, etc.), di cui 129 stranieri. È un carcere, anzi una "Casa circondariale", tutta maschile e molti di questi uomini sono dei papà. In tanti avranno figli grandi con una loro vita ormai lontana da questi padri detenuti ma, altri hanno figli piccoli, alcuni anche piccolissimi che ancora non camminano. Bambini che spesso vivono a chilometri di distanza, che non vedono e, in alcuni casi, non vedranno crescere per molto tempo. E così il direttore del carcere, insieme alle autorità del comune, ha pensato di lanciare "I sabati delle famiglie". Una multinazionale come l'Ikea ha donato gratuitamente tutto quello che occorreva, due stanze e un'area all'aperto sono diventate degli spazi-gioco dove i papà incontrano i loro bimbi e giocano con loro. Con la speranza di creare una parvenza di normalità. Ci sono anche un gazebo e un prato finto per la bella stagione! Insomma una piccola oasi di colori, di luci e di movimento in un enorme edificio grigio, che sembra immobile, sempre uguale a se stesso. Certo è una buona soluzione non costringere dei bambini a stare nel classico stanzone con le vetrate che vediamo nei film, dove persino gli avvocati più scafati credo si sentano a disagio. Ma il tema è doloroso e le soluzioni ancora lontane. Penso a questi bambini e mi chiedo: capiranno? Capiranno perché il loro padre sta lì in quella casona con tutti quei cancelli e non torna a casa la sera? Capiranno perché abita con tutta quella gente e non gioca e non si siede a tavola con loro? Perché non li accompagna a scuola come fa il papà di Antonio o quello di Jamal. Penso a questi uomini la cui vita è andata così. Penso alle loro giornate tutte uguali, a tutto quel tempo per pensare. Anche ai loro figli, a quei bambini che non vedono crescere, cambiare, dei quali non hanno mai visto una pagella, un dente che cade, un ginocchio sbucciato. A volte questi figli si fanno adulti e con loro i detenuti-papà hanno condiviso solo scampoli di vita. A Ferrara li incontreranno sotto il gazebo, sull'erba finta che è sempre verde, giocheranno con loro, ne cercheranno una risata, una parola di affetto. Saranno, per un sabato al mese, come il padre di Antonio, come quello di Jamal. Un po'. Eritrea: l'Ue finanzia il regime…. è questa la via del "aiutarli a casa loro"? Vita, 4 luglio 2015 Una petizione online di don Mussie Zerai e Vittorio Longo chiede lo stop agli aiuti europei al regime più repressivo d'Africa: nessun aiuto senza garanzie democratiche. La strada intrapresa da Italia ed Unione Europea per porre freno all'esodo di massa di persone che dall'Africa premono alle porte d'Europa per salvarsi dalla fame e dalla disperazione, dalla povertà, dalla repressione, dall'infinito viaggio attraverso deserti, montagne, carceri, campi profughi, spiagge, mari e centri di detenzione temporanea, da una vita senza speranza è quella del "aiuto a casa loro". Nel novembre scorso, a Roma, ha preso il via la Conferenza ministeriale per il lancio del Processo di Khartoum alla presenza del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ed all'Alto commissario Ue Federica Mogherini, oltre che del Ministro dell'Interno Angelino Alfano, cui spetta la responsabilità dei migranti una volta giunti su suolo italiano: ?L'iniziativa si concentra inizialmente sulla lotta al traffico di esseri umani e successivamente si propone di affrontare le cause strutturali alla base del fenomeno, anche attraverso progetti di cooperazione da finanziare con fondi Ue e con la collaborazione dell'Organizzazione internazionale per la Migrazione (Oim) e dell'Unhcr?, spiegava all'epoca la Farnesina in una nota stampa. Proprio durante quella prima fase di trattativa, durante la quale vennero siglati i protocolli d'intesa tra il Governo italiano, l'Alto commissario Ue agli Esteri ed i rappresentanti di molti paesi africani, tra cui gli eritrei (che si siedono al tavolo dei negoziati con le mani che grondano sangue), il regime di Asmara faceva fucilare 16 ragazzi che cercavano di passare il confine tra Eritrea e Sudan per mettersi in salvo dalla "prigione a cielo aperto" che è il paese governato dal regime di Isaias Afewerki. Ai lavori in Farnesina si aggiungono anche quelli in campo europeo: la Commissione Europea sta negoziando proprio in questi giorni con il governo dell'Eritrea un nuovo pacchetto di aiuti allo sviluppo, del valore di circa 312 milioni di euro e del quale Blogo scriveva già nell'aprile scorso. È tuttavia una politica discutibile, secondo molti, anche e soprattutto perché non è chiaro come queste risorse verranno impiegate e, al momento, non risultano accordi con il governo eritreo sul rispetto dei diritti umani. Di fronte ai primi passi della diplomazia italiana ed europea e di fronte ai silenzi assordanti dei governi africani sulle morti in mare e sulla tragedia umanitaria dei flussi migratori sembra evidente come il capitolo "aiuti" vada rivisto nella sostanza: già in passato il regime eritreo ha incassato la benevolenza di Bruxelles, salvo poi utilizzare quei fondi per acquistare ulteriore piombo e per innalzare il livello di repressione in quel lager a cielo aperto che è l'Eritrea. Per questo motivo don Mussie Zerai, sacerdote eritreo candidato al Premio Nobel per la Pace e presidente dell'Agenzia Habeshia, impegnato nell'assistenza dei rifugiati e migranti in Italia, e in Europa, e il giornalista Vittorio Longhi promuovono una petizione online per raccogliere firme e chiedere lo stop agli aiuti al governo di Asmara fino a quanto questi non si impegnerà seriamente a rispettare i diritti umani e ad avviare un percorso di democrazia e di libertà. In particolare, chiedono: Libertà per tutti quelli che sono detenuti in modo arbitrario, tra cui dissidenti e giornalisti; Libertà di espressione e di associazione; Elezioni libere e democratiche con un sistema multipartitico; Fine del servizio militare obbligatorio e a tempo indeterminato; Fine di ogni forma di lavoro forzato e di trattamenti abusivi, innanzitutto la tortura. Fino a che lo stato di diritto non sarà ripristinato, rinnoviamo le raccomandazioni della Commissione di inchiesta Onu, affinché chi scappa dall'Eritrea abbia il diritto all'asilo o ad altre forme di protezione internazionale. Si legge nella petizione: ?La miopia italiana ed europea e le soluzioni sin qui escogitate per fronteggiare quella che è definita "emergenza migranti" ma che in realtà è un "esodo di massa" (e la questione lessicale non è certamente secondaria, nel trovare poi una soluzione al problema) si chiude tutta in un popolare e quanto mai inesistente principio: "aiutarli a casa loro"? Australia: operatori centri di detenzione non potranno più rivelare condizioni dei migranti Ansa, 4 luglio 2015 La World Medical Association si è affiancata a un gruppo di medici e infermieri australiani nel condannare le nuove norme di segretezza imposte a chi lavora nei centri di detenzione per richiedenti asilo, stabiliti dall'Australia in due remote isole del Pacifico, oltre che nel proprio territorio. Le nuove norme istituiscono un reato che proibisce al personale medico, educativo e umanitario operante nei centri di divulgare informazioni sulle condizioni dei richiedenti asilo e sulle cure prestate. Secondo le norme, lo staff che rivela condizioni dei detenuti o episodi di abusi rischia fino a due anni di carcere, con esenzioni limitate per informazioni fornite a enti di supervisione o autorità di protezione dei minori. Il presidente della World Medical Association, Xavier Deau, ha scritto al primo ministro conservatore Tony Abbott chiedendo di emendare la nuova legge per permettere al personale medico di parlare apertamente sulle cure prestate ai richiedenti asilo. Le norme sono "in chiaro conflitto con i principi fondamentali dell'etica medica. I medici devono alzare la voce, pubblicamente se necessario, quando le condizioni di salute dei loro pazienti, che siano in libertà o in detenzione, sono inaccettabili". Intanto oltre 40 medici, infermieri, insegnanti e operatori umanitari, che hanno lavorato in centri di detenzione di richiedenti asilo, hanno scritto una lettera aperta al governo federale contro il nuovo reato. E hanno sfidato il primo ministro Abbott e il ministro dell'Immigrazione Peter Dutton a incriminarli, affermando che non resteranno in silenzio davanti agli abusi dei diritti umani che continuano a essere commessi nei centri di detenzione. Medio Oriente: ucciso 17enne palestinese che lanciava pietre, "legittima difesa" per Israele di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 luglio 2015 Mohammed Qusba aveva lanciato pietre contro la jeep di un colonnello israeliano che ha risposto sparando. Approvazione da parte di diversi ministri del governo Netanyahu. Per i palestinesi è stato un omicidio a sangue freddo. L'Anp di Abu Mazen arresta oltre 100 presunti militanti di Hamas in Cisgiordania. Erano piuttosto grandi le pietre lanciate ieri, sulla strada tra Ram e Qalandiya, da Mohammed Qusba, 17 anni, contro la jeep del comandante della brigata Benyamin, il colonnello Israel Shomer. Per questo motivo l'adolescente palestinese meritava di essere ucciso? Le foto diffuse dai comandi israeliani dopo la sua uccisione mostrano il parabrezza della jeep per metà in frantumi. Nessun soldato però è rimasto ferito, a cominciare da Shomer. Il portavoce militare ha spiegato che a Qusba è stato intimato di fermarsi ma il 17enne palestinese si sarebbe allontanato continuando a lanciare sassi e, "solo al quel punto", sono stati esplosi i colpi che lo hanno ucciso. A sparare sarebbe stato proprio il colonnello Shomer. In Israele si parla di "legittima difesa", Qusba però non aveva in mano armi da fuoco o coltelli, solo pietre. Meritava la morte, di essere punito ben oltre gli anni di carcere che la ministra della giustizia Ayelet Shaked propone per coloro, cioè i palestinesi, che lanciano pietre? Non avevano dubbi ieri ministri ed esponenti della destra, pronti a cavalcare l'onda della rabbia di buona parte dell'opinione pubblica per l'uccisione nelle ultime settimane di due israeliani nella Cisgiordania occupata. Mercoledì a centinaia si sono radunati davanti alla residenza del premier Netanyahu per chiedere di bloccare con ogni mezzo i "lupi solitari" responsabili di questi attacchi. "Io dico uccidi per primo chi vuole ucciderti. Al comandante della brigata Benyamin va il mio pieno sostegno", ha commentato sulla sua pagina Facebook il ministro dell'istruzione e leader del partito ultranazionalista Casa Ebraica Naftali Bennett. Ma Mohammed Qusba, armato di pietre, davvero intendeva uccidere? Nessuna esitazione anche per il ministro delle scienze Danny Danon: "Il colonnello Shomer ha agito per difendersi da un terrorista che lo aveva affrontato con la volontà di ucciderlo. Contro il terrore e la violenza dobbiamo rispondere con la fermezza". In quelle stesse ore reparti speciali dell'Autorità nazionale palestinese eseguivano in Cisgiordania gli arresti di oltre 100 attivisti veri o presunti di Hamas, confermando la ripresa a pieno ritmo della cooperazione di sicurezza con Israele - di cui qualche mese fa il Comitato Centrale dell'Olp aveva chiesto la cessazione - e il fallimento della riconciliazione interna palestinese. L'uccisione del 17 enne Qusba in casa palestinese è vista come un assassinio a sangue freddo. Durante i funerali nel campo profughi di Qalandiya dove l'adolescente viveva, seguiti da almeno 2 mila persone, tanti hanno chiesto vendetta. La morte di Mohammed Qusba è andata ad appesantire il clima di lutto in cui vivono tanti palestinesi in questi giorni in cui si ricorda l'omicidio, un anno fa, di un altro adolescente, Mohammed Abu Khdeir, rapito e bruciato vivo da tre israeliani (sotto processo) per vendetta dopo il ritrovamento dei corpi di tre ragazzi ebrei sequestrati e assassinati in Cisgiordania, pare da una cellula di Hamas. Omicidi che furono il preludio dell'operazione israeliana "Margine protettivo", scattata tra il 7 e 8 luglio, ufficialmente contro il movimento islamico Hamas. In realtà fu un attacco contro l'intera Striscia di Gaza, costato la vita a oltre 2.200 palestinesi (in gran parte civili), il ferimento di altri 11mila e la distruzione di decine di migliaia di abitazioni ed edifici. I morti israeliani furono 72, dei quali però 66 soldati caduti in combattimento. Anche in quel caso Israele parlò di legittima difesa e a metà giugno il governo Netanyahu ha diffuso un suo rapporto nel quale esclude di aver avuto alcuna responsabilità nella morte di tanti civili palestinesi e scarica la colpa tutta su Hamas. Non è questo però il giudizio del Consiglio Onu per i Diritti Umani che ieri ha approvato una risoluzione che chiede a Israele e ai palestinesi di portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra e di violazioni del diritto umanitario commessi a Gaza durante "Margine Protettivo" e, quindi, a cooperare con la Corte penale internazionale. La risoluzione è stata approvata con 41 voti a favore, uno contrario (Stati Uniti) e cinque astensioni. Gli Stati dell'Unione europea hanno votato a favore. Ieri pomeriggio, ad aggravare ulteriormente la tensione, sono stati lanciati tre razzi verso il territorio israeliano, dove sono caduti senza fare danni. L'attacco è stato rivendicato da un gruppo salafita che si proclama affiliato all'Isis e che opera a Gaza, ma l'esercito israeliano è certo che i razzi siano stati sparati dal Sinai egiziano. Tel Aviv sostiene che elementi di Hamas avrebbero aiutato attivamente i miliziani dell'Isis, protagonisti a inizio settimana di un attacco in massa contro l'esercito egiziano nel Sinai. Accusa bollata ieri come "propaganda" dal movimento islamico.