Giustizia: aprite le porte delle carceri alle visite di sindaci e assessori di Emilio Quintieri (Radicali Italiani) Il Garantista, 3 luglio 2015 Il regime delle visite ispettive e dei colloqui con i detenuti, attualmente, è disciplinato dall'articolo 67 dell'ordinamento penitenziario. Tale articolo, com'è noto, riconosce a determinate persone o categorie di persone, che esplicano funzioni o ricoprono cariche pubbliche di particolare rilievo, il diritto di visitare gli stabilimenti carcerari ed avere colloqui con i detenuti quando lo si desidera e senza dare alcun preavviso. Per altri, invece, occorre una specifica autorizzazione da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ovviamente, in tale ultima circostanza, non si tratta di una "visita ispettiva" poiché è il Dap che fissa le modalità della stessa. Tra le "autorità" non legittimate all'accesso, senza autorizzazione, non sono ricompresi i sindaci e i presidenti delle Province o gli assessori da questi delegati nell'ambito del territorio di loro competenza. Eppure, riconoscere tale diritto a questi soggetti, è necessario in considerazione del fatto dei loro compiti e funzioni in materia sanitaria, urbanistica ed edilizia nonché delle iniziative degli enti locali per la formazione e l'inserimento lavorativo dei detenuti. Per tali motivi, negli anni scorsi, in Parlamento, ci hanno provato in tanti, a far modificare l'articolo 67. Si può dire che è una "battaglia storica" della sinistra parlamentare. Nella XIV Legislatura, il 30/11/2005, l'Aula di Montecitorio, con 281 voti favorevoli, 107 contrari, 9 astenuti (presenti 397, maggioranza 195, votanti 388) approvò la proposta di legge n. 3532 presentata il 13/01/2003 da Ermete Realacci (Margherita) ed altri deputati (Verdi, Ds, Pdci Sdi, Udeur, Prc, An, Udc, Fi, etc.). Venne subito trasmessa all'altro ramo del Parlamento ma, a causa dello scioglimento anticipato, non riuscì ad essere approvata anche dal Senato. Venne riproposta ancora dalla Sinistra nella XV Legislatura sia alla Camera da Realacci (Ulivo) che al Senato dai Senatori Cesare Salvi (Ulivo) e Natale Ripamonti (Verdi) ma non se ne fece nulla. Poi nella XVI tentarono nell'ardua impresa i Radicali eletti nelle liste del Pd. La proposta di legge (n. 3722 del 21/09/2010) venne presentata alla Camera da Rita Bernardini ed altri e pur essendo stato terminato, favorevolmente, il suo esame in commissione Giustizia il 28/03/2012, non riuscì ad esser calendarizzata ed approvata. Anche nell'attuale legislatura ci sono state diverse proposte in entrambi i rami del Parlamento, riproponenti la proposta del segretario nazionale dei Radicali. A Montecitorio sono due i progetti di legge, uno presentato da Sandro Gozi e Roberto Giachetti (Pd) e l'altro da Walter Verini, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia ed altri democrat. A Palazzo Madama, invece, vi è una sola proposta da parte del Senatore socialista Lucio Barani, appartenente al Gruppo di Grandi Autonomie e Libertà, rimaste tutte senza alcun esito. Nei giorni scorsi, in Commissione Giustizia, alla Camera, la questione è stata nuovamente riproposta da Enza Bruno Bossio, deputato del Partito Democratico, notoriamente vicina al Partito Radicale e molto attiva nell'attività di sindacato ispettivo nei penitenziari. Tra le proposte emendative presentate si chiede di consentire ai "sindaci, ai presidenti delle province e agli assessori delegati dei predetti enti nel cui territorio siano situati gli Istituti Penitenziari, di farvi ingresso senza necessità di autorizzazione al fine di verificare le condizioni di vita dei detenuti, compresi quelli in isolamento giudiziario". Tale emendamento porta anche la firma dei deputati Danilo Leva, Bruno Censore, Luigi Lacquaniti ed Ernesto Preziosi del Pd, Daniele Farina, Celeste Costantino e Gianni Melilla di Sel ed Elda Pia Locatelli del Psi. Nel frattempo, la Commissione Giustizia di Montecitorio, continua l'esame in sede referente del progetto di legge del Governo e delle circa 350 proposte emendative presentate dai deputati appartenenti ai vari gruppi parlamentari. Tali proposte, attualmente, sono al vaglio della presidente e relatrice Donatella Ferranti (Pd) e del Governo che dovrà deliberare sulla loro ammissibilità. Ci auguriamo che, almeno questa volta, grazie all'emendamento di Enza Bruno Bossio, dopo oltre 10 anni di "battaglie" nei due rami del Parlamento, tra le figure istituzionali, religiose ed ispettive che potranno visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione ed intrattenere colloqui con i detenuti, vi siano ricompresi anche i sindaci, i presidenti di provincia e gli assessori comunali e provinciali specificatamente delegati, ponendo fine a questa gravissima lacuna normativa. Attualmente, infatti, la "trasparenza" all'interno delle carceri e la verifica delle condizioni di vita dei detenuti viene assicurata sul territorio nazionale da pochissimi membri del Parlamento e, nell'ambito delle loro circoscrizioni, dai consiglieri regionali che si avvalgono di questa importante prerogativa che è diretta a verificare proprio l'attuazione di quel precetto costituzionale, sancito dall'articolo 27 comma 3 della Costituzione, che prevede che l'esecuzione della pena (e della custodia per gli imputati) avvenga in condizioni che siano rispettose della dignità umana e, che tendano, al recupero ed al reinserimento sociale dei detenuti. Giustizia: detenuti di pubblica utilità, fino a otto ore giornaliere di lavoro anche nei musei di Marzia Paolucci Italia Oggi, 3 luglio 2015 In Gazzetta Ufficiale il regolamento della Giustizia attuativo della messa alla prova. D'ora in avanti sarà più facile per un detenuto fare ricorso ai lavori di pubblica utilità. Il regolamento firmato dal ministro della giustizia Andrea Orlando in attuazione della legge 67/2014 (Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale n. 151 (decreto 8 giugno 2015, n. 88). Esso amplia per il detenuto la possibilità di far ricorso al lavoro di pubblica utilità. Già oggi gli imputati di reati puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena detentiva non superiore a 4 anni possono chiedere la sospensione del processo con messa alla prova e conseguente avviamento a lavori di pubblica utilità ma con questo regolamento si rafforza questa possibilità offrendo agli uffici giudiziari la possibilità di sfruttare al meglio le finalità deflative dell'istituto. Il come sarà illustrato via via sul sito giustizia.it con una descrizione dettagliata punto per punto delle diverse convenzioni in materia di lavori di pubblica utilità che il ministero o i presidenti dei tribunali competenti andranno a stipulare con stato, enti locali e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Il regolamento prevede che la prestazione lavorativa non sarà retribuita, verrà svolta in favore della collettività, non sarà inferiore ai dieci giorni né superiore alle otto ore giornaliere e dovrà tener conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell'imputato. Il decreto ministeriale elenca inoltre le mansioni a cui i richiedenti potranno essere adibiti: prestazioni sociali e socio-sanitarie a favore di tossicodipendenti, alcolisti, disabili, minori, anziani e stranieri, in materia di protezione civile, previsto anche il soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali. Per la tutela del patrimonio ambientale e culturale, i detenuti potranno occuparsi della custodia di musei, biblioteche e pinacoteche e per la manutenzione di immobili, servizi pubblici e beni demaniali, l'attività prevista è quella della pulizia e cura di ospedali, case di cura, giardini, ville e parchi. Nessun onere è previsto a carico del ministero della giustizia perché saranno sostenuti dalle amministrazioni, dagli enti locali e dalle organizzazioni presso i quali viene svolta l'attività gratuita in favore della collettività. Le amministrazioni, gli enti e le organizzazioni che prendono in carico il soggetto, devono garantirgli lo svolgimento del lavoro programmato mettendo a sua disposizione le strutture necessarie al lavoro, indicando un referente che coordini la prestazione e dia istruzioni in merito. A controllare che tutto proceda secondo i piani, c'è sempre l'Uepe - Ufficio di esecuzione penale esterna che fa da cerniera tra il giudice che ha emesso il provvedimento e l'ente ospitante a cominciare dalla facilitazione dei contatti tra enti e organizzazioni in convenzione e uffici giudiziari. Le convenzioni, raggruppate per distretto di Corte d'appello, saranno di volta in volta rese pubbliche attraverso l'inserimento in un'apposita sezione del sito, raggruppate per distretto di Corte d'appello. Giustizia: i vecchi Manicomi Giudiziari hanno nuovi nomi, dopo gli Opg ci sono le Rems di Dario Stefano Dell'Aquila e Antonio Esposito La Repubblica, 3 luglio 2015 Giuseppe ha 36 anni, dieci trascorsi nelle celle dell'Opg, internato dal 29 luglio del 2005, Se fosse stato in carcere condannato al massimo della pena, senza benefìci, sarebbe uscito nel luglio scorso. Invece, quando fu giudicato, il suo processo venne sospeso e fu prosciolto per vizio di mente. Assolto, ma condannato, per la sua pericolosità sociale, ad una misura di sicurezza che può essere prorogata, non per ciò che ha commesso, ma per quello che in futuro potrebbe commettere. Una reclusione, quindi, determinata non dal reato ma dallo status con cui viene identificato il reo. La legge 81/2014, nel sancire il superamento degli Opg al 31 marzo 2015, pur senza scalfire il dispositivo delle misure di sicurezza, è intervenuta anche su questo specifico punto, decretando che un internamento non può superare il massimo edittale della pena. Per Giuseppe si tradisce due volte la legge, si trova nel meccanismo degli "ergastoli bianchi", cui i "folli rei" erano esposti sulla base del codice Rocco, varato durante il fascismo. Ancora nell'Opg di Napoli. Uno di quei 55 internati che, (insieme ai 70 internati di Aversa) attendono ancora, come vite di scarto, che il diritto non sia reso carta straccia. Come ha raccontato Stella Cervasio sul sito di questo giornale, durante l'ultima visita realizzata dal consigliere regionale Amato, Giuseppe ha incontrato la delegazione ispettiva disteso nella sua cella, completamente nudo, mostrando, con i suoi 200 kg senza vestiti, la mortificazione della dignità che questi luoghi, inevitabilmente, determinano. Ancora si evidenzia l'orrore di luoghi incapaci alla cura. Né le nuove strutture che dovrebbero, un giorno, sostituire del tutto questi residui manicomiali sembrano garantirne un effettivo superamento. Le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) sono null'altro che piccoli Opg, tanto che a Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, le hanno realizzate direttamente all'interno della vecchia struttura manicomiale: un semplice cambio di nome a riprodurre le stesse identiche prassi, compresi i nuovi letti di contenzione. In Campania si attende ancora che siano aperte le due previste a San Nicola Baronia e Calvi Risorta. Nel frattempo, si sono annunciate 3 Rems provvisorie (al momento è aperta solo quella di Mondragone, già piena), destinate ai nuovi internamenti, che rischiano, conti alla mano, di diventare definitive. Infine, per i detenuti cui sopraggiunga in carcere una sofferenza psichica, si spalancano le celle delle nuove articolazioni psichiatriche penitenziarie. L'ultima visita nel carcere di Secondigliano, nella nuova articolazione, racconta di episodi critici (una cella incendiata, atti di autolesionismo, prolungata permanenza) e preoccupanti (è stato negato alla delegazione la possibilità divedere i registri di reparto). L'esperienza e i rapporti degli organismi a tutela dei diritti, ci rammentano il forte rischio che questi spazi diventino luoghi opachi, contenitivi, se non punitivi, di casi "problematici". La fotografia del presente ci restituisce un moltiplicarsi di "scatole" e prassi speciali che nulla hanno a che fare con la presa in carico della sofferenza che pure avrebbe dovuto ispirare questa storica riforma. Progetti terapeutici individualizzati, coinvolgimento dei servizi sociali, alternative all'istituzionalizzazione, lasciano il passo al fascino discreto del manicomio. Giustizia: assistenza psichiatrica, una fabbrica di orrori di Enrico De Notaris La Repubblica, 3 luglio 2015 La recente morte di un giovane di 38 anni nel reparto di diagnosi e cura di Polla (Sa) è il tragico ennesimo epilogo di una catena di eventi e decisioni politiche che hanno reso l'assistenza psichiatrica in Campania una fabbrica di orrori. Le pratiche di contenzione, tuttora usate ed abusate all'interno dei reparti, insieme alla gestione unicamente farmacologica del disagio psichico, allo stato di abbandono in cui versano ormai da anni strutture ed operatori, al sostanziale disinteresse delle forze politiche, al progressivo smantellamento di ogni parvenza di accoglienza, alla chiusura di servizi e presìdi, sono il corollario di una condizione di più estesa aggressività nei confronti dei deboli, dei diseredati, dei sofferenti. In questo la psichiatria è saldamente sintonizzata con il potere politico, come da tradizione. Colpisce infatti l'indifferenza di amministratori e dirigenti che non considerano una questione elementare: le scelte provocano sempre conseguenze e le scelte sbagliate comportano spesso conseguenze tragiche. In ciò questi gestori della salute mostrano, ed è un istruttivo paradosso, la medesima deficienza che riscontrano in chi "perde il senno": la psichiatria infatti sottolinea come alcune forme di alienazione, usiamo questo termine in senso storico, siano caratterizzate da una sorta di dissociazione tra le proprie azioni e la comprensione delle conseguenze. Un amministratore o un dirigente che non avverta le connessioni possibili tra le proprie scelte e le relative conseguenze potrebbe quindi, in un certo senso, essere considerato un alienato o un dissociato. Purtroppo questo paradosso produce danni irreparabili: negli ultimi tempi si sono susseguiti vari casi di morte in reparti psichiatrici, dilaga un atteggiamento punitivo e violento nei confronti dei sofferenti, cresce l'abbandono e la rescissione di ogni pur esile tentativo di costruire con loro relazioni quanto meno di continuità terapeutica. Ultimissimo esempio di questa scellerata impostazione è la recente decisione del direttore della Asl Napoli 1 centro di spostare d'urgenza tre psichiatri dai servizi di salute mentale, servizi già traballanti, per coprire le carenze assistenziali nel carcere di Poggioreale e nel reparto diagnosi e cura del San Giovanni Bosco. Due di questi sanitari sono stati prelevati dalla Unità Operativa 27, al momento presidiata solo da quattro medici per le attività ambulatoriali ed uno per le emergenze, lasciando così in pratica sguarnito l'intero servizio. Il metodo usato per la scelta dei sanitari da dirottare non è stato certo basato su criteri di opportunità e di ricerca di un certo equilibrio: si stenta a credere, ed ha realmente dell'incredibile, ma la scelta è stata fatta seguendo l'ordine alfabetico. Forse le prossime decisioni saranno prese con l'aiuto dell'oroscopo. Cosa importa se un servizio di fatto interrompe ogni tentativo di continuità terapeutica, tanto, per i signori dirigenti, non deriverà alcuna conseguenza: non aumenteranno i Tso né le morti ed i suicidi, non si acuirà il clima di violenza ed intimidazione nei confronti dei sofferenti, non si calpesteranno i loro diritti, non aumenteranno le difficoltà per i loro familiari, non si inasprirà la contenzione e la sommersione psicofarmacologica come strumento di controllo sociale e di annullamento della persona. Questo tragico esempio di scollamento dissociativo tra le responsabilità, proprie di chi decide, e la valutazione degli effetti di queste decisioni esprime non solo una tragicomica forma di alienazione personale; ma purtroppo, ed ancor più drammaticamente, un orientamento distruttivo culturalmente dominante. In un recente convegno al Consiglio nazionale delle ricerche si è parlato dell'uso della contenzione in gravidanza, ma anche nel documento d'intesa tra l'Asl di Caserta e la prefettura competente si prevede la contenzione nel corso del processo di dismissione dell'Opg e nei nuovi piccoli Opg (le cosiddette Rems). Non si prevede mai la possibilità di altri approcci, mai viene sottolineatala necessità di cambiare radicalmente le prassi psichiatriche, mai si considera che il sofferente psichico è una persona che ha bisogno di presenza umana e di processi di trasformazione. Si preferisce piuttosto privarli dei loro diritti, rescindere ogni possibile relazione terapeutica, fino a configurare veri e propri reati penali contravvenendo alle leggi vigenti (legge regionale 1/83 ad esempio) e, di fatto, causare la sostanziale interruzione dei pubblici servizi. Ma tant'è, i sofferenti, i deboli, i senza casa non hanno voce, non sono terreno di conquista e di consenso elettorale e costituiscono più che altro fonte di guadagno per Big Pharma ed amministratori corrotti. Nulla è cambiato nella sostanza, i manicomi esistono ancora e, se possibile, risultano ancora più mortificanti ( fattori di morte ) subdoli e punitivi del passato. Giustizia: Massimo Bossetti? lo hanno già condannato, ma per la Costituzione è innocente di Angela Azzaro Il Garantista, 3 luglio 2015 L'Italia il 17 giugno di un anno fa si è divisa in due: da una parte chi ha goduto nel vedere le manette ai polsi di Massimo Bossetti, un'altra - piccola, minuscola - che ha lanciato un urlo di orrore: un presunto assassino dato in pasto alla pubblica gogna con l'avvallo del ministro dell'Interno. Angelino Alfano, infatti, forse forzando anche il volere della procura di Bergamo, disse con gioia: "Abbiamo preso l'assassino di Yara". È per questa ragione che il processo, che prende il via oggi contro Bossetti, nasce sotto una cattiva stella. La cattiva stella di chi, fin dal primo momento, ha deciso che lui fosse l'assassino, senza presunzione di innocenza, senza nessun rispetto per lo Stato di diritto. Da quel momento in poi, niente è più stato come doveva essere. La vita di Bossetti è stata racchiusa in quelle manette: manette di condanna, manette che hanno esposto la sua vita nella pubblica piazza. I media, in questi dodici mesi, non hanno risparmiato quasi nessuno o quasi nulla della sua sfera privata, travolgendo la moglie, i figli, la madre, la sorella, la quale - non dimentichiamolo - è finita diverse volte in ospedale perché presa di mira da orde giustizialiste. Sarà difficile corregge il tiro, trovare quella serenità e obiettività che il giudice deve avere per affrontare un caso così complesso. Gli occhi dell'Italia che esultano per le manette sono lì che aspettano di vedere Bossetti crollare, di vedere la sua esistenza fatta a pezzettini. Ma c'è anche quell'altra Italia, quella che ha lanciato un urlo di orrore. E una parte piccola, minoritaria, che però esiste e che deve vigilare perché il processo si svolga nel migliore dei modi. È l'Italia che non si vuole sostituirsi ai giudici, ma che pretende che tutto venga fatto secondo giustizia. Oggi, la sfida, che si combatte è anche questa. Quella per un giusto processo nei confronti di Bossetti e in generale per una giustizia che non rinneghi i suoi principi fondamentali. Si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Non se ne dimentichi la pubblica accusa, non lo dimentichi l'opinione pubblica, non lo dimentichino i giornalisti. Ps. Ci piacerebbe che almeno questa volta l'Ordine dei giornalisti vigilasse sul rispetto del codice deontologico da parte dei suoi iscritti. Giustizia: ferie dei magistrati; toghe contro Renzi, si è tenuta ieri la prima udienza al Tar di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 3 luglio 2015 Si è tenuta ieri presso il Tar del Lazio la discussione del ricorso, presentato da Autonomia & Indipendenza, nei confronti del decreto del ministro della Giustizia relativo alla disciplina delle ferie dei magistrati. Il nodo del contendere è il riconoscimento a mantenere il diritto ad usufruire di 45 giorni di ferie annuali, ridotti a 30 da Matteo Renzi giusto un anno fa. Le ferie delle toghe, oltre ad essere troppe, per il Premier erano la causa principale dei ritardi e delle inefficienze dell'italica giustizia. Ma il tema è stato particolarmente sentito fra i magistrati. L'argomento ha infatti scatenato in questi mesi accese discussioni all'interno del Csm e dell'Anni. Tant'è che una circolare del Csm ad aprile pareva suggerire che il sabato non andasse conteggiato tra i giorni in cui chiedere ferie. Ma la spaccatura fra i consiglieri laici e i togati ha impedito di mettere nero su bianco questo passaggio. Ed è qui che si è creato il caos, con diseguaglianze all'interno di ciascuna Corte d'Appello. Magistrati di uguale livello finiscono con avere più o meno giorni di ferie a seconda che il rispettivo presidente decida che vada conteggiata la settimana di 5 o di 6 giorni. Ma addirittura succede che ci siano magistrati a cui vengono conteggiati 30 giorni annui e altri 45: sempre a seconda di quello che ha deciso il loro capo. Questo perché la norma sul taglio delle ferie sembra, come è stato spesso detto, riferirsi solo a quelli fuori ruolo e non a quelli in servizio. Sull'età in cui i magistrati dovevano andare in pensione, sappiamo come è andata a finire: venerdì scorso, con un decreto il Governo è tornato sui suoi passi, concedendo per il momento una proroga di un anno. Vediamo quale sarà il destino del taglio delle ferie. Certo, se il Tar dovesse dare ragione alle toghe sarebbe un smacco non da poco per Matteo Renzi. Proprio lui che i Tar voleva abolirli. Giustizia: caso De Luca, il Tribunale civile "sospende la sospensiva" della legge Severino di Nino Femiani Corriere del Mezzogiorno, 3 luglio 2015 Il giudice civile accoglie il ricorso d'urgenza presentato dagli avvocati del presidente della Regione. Che ora può dare il via alla legislatura. Accolto il ricorso di urgenza presentato da Vincenzo De Luca. Il tribunale civile di Napoli, presidente Gabriele Cioffi, ha "sospeso la sospensiva" della legge Severino scattata dopo il decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Ora il nuovo governatore può insediarsi, partecipare alle sedute del Consiglio regionale e, soprattutto, nominare la giunta campana. Al giudice Gabriele Cioffi della prima sezione civile, la stessa che si è occupata del "caso de Magistris", sono bastate 48 ore di lavoro per esaminare il "ricorso d'urgenza" presentato dai legali del presidente eletto che chiedevano la sospensione degli effetti della Severino. La decisione non ha quindi tardato e ora la legislatura regionale può iniziare. La decisione da parte di Cioffi ha accolto il provvedimento d'urgenza ex art. 700. Il Tribunale partenopeo ha anche fissato per il 17 luglio l'udienza collegiale per la conferma, la modifica o la revoca del provvedimento di sospensione. Per quanto riguarda il "merito", dunque il ricorso avverso e per l'annullamento del Decreto del Presidente del Consiglio che i legali hanno presentato lunedì mattina, la data è stata fissata per il 20 novembre. Ecco la nota scritta dal presidente del tribunale Ettore Ferrara: "Con riferimento al ricorso ex articolo 700 del Codice di procedura civile promosso in via d'urgenza dal neo eletto governatore della Campania, Vincenzo De Luca, per la sospensiva del Decreto del presidente del consiglio dei ministri che ha disposto la sospensione del medesimo dalla indicata carica, come già avvenuto in precedente analoga circostanza (relativa al caso de Magistris, ndr) atteso l'evidente rilievo mediatico assunto in questi giorni dalla questione e l'interesse pubblico sotteso comunico che con decreto "inaudita altera parte" depositato oggi dal presidente della sezione competente a provvedere, il Tribunale ha sospeso provvisoriamente l'efficacia del provvedimento fissando per il giorno 17 luglio l'udienza dinanzi al Collegio per la comparizione delle parti e per la conferma, la modifica o la revoca del decreto stesso". "Siamo estremamente soddisfatti sia per il risultato favorevole che premia il successo democratico di Vincenzo De Luca, sia per i tempi celeri della giustizia ordinaria a fronte del riconoscimento della illegittimità della legge Severino". A dirlo è l'avvocato Lorenzo Lentini, legale del governatore. "È stata dimostrata - insiste - la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale della legge Severino. De Luca adesso può insediarsi, nominare la giunta e proseguire l'attività amministrativa". Proprio ieri De Luca aveva segnato un punto a suo favore. Infatti il Tribunale amministrativo regionale della Campania aveva rigettato la richiesta dei consiglieri regionali del M5s di accertare d'urgenza "il mancato funzionamento dell'organo regionale della Campania in conseguenza dell'impedimento di De Luca". La vicenda, denunciata dai pentastelati, verrà analizzata nel "merito" nel corso di una udienza fissata, dinanzi alla prima sezione dello stesso tribunale amministrativo, per il prossimo 29 luglio. "La decisione della prima sezione civile di congelare la sospensione disposta in base alla legge Severino, consente finalmente all'eletto governatore De Luca di partecipare al primo consiglio e nominare la sua giunta". Così in una nota la segreteria del Partito democratico metropolitano di Napoli. "Buon lavoro al Presidente De Luca - si legge nel testo dei democrat partenopei - con il quale da quest'oggi sarà di scena un nuovo inizio per la nostra Regione che si lascerà definitivamente alle spalle i disastri del quinquennio caldoriano. A partire da questo momento il Pd sarà impegnato con ancora maggiore determinazione al fianco del Presidente per dare ai campani le risposte di buon governo che attendono e meritano". "Le legge è uguale per tutti. O almeno dovrebbe esserlo in teoria. La vicenda di De Luca lascia l'amaro in bocca, perché fa nascere un interrogativo inquietante". Così Mara Carfagna, portavoce di Forza Italia alla Camera dei Deputati. Il deputato salernitano si interroga poi su quale sarebbe stata la pronuncia delle toghe se il soggetto del ricorso non fosse stato De Luca. "Se al posto dell'ex sindaco di Salerno ci fosse stato un esponente del centrodestra la decisione sarebbe stata la stessa e sarebbe arrivata con la medesima velocità. In un Paese che vuole essere considerato civile, in uno Stato di diritto, tali domande non dovremmo neanche porcele, ma purtroppo siamo abituati a vedere trattamenti diversi a secondo delle appartenenze politiche". Unica consolazione per la Carfagna è "sapere che almeno i campani non vivranno più nell'incertezza riguardo al loro futuro". E il senatore Maurizio Gasparri aggiunge in un tweet: "Per Berlusconi processi assurdi, per il pessimo De Luca tribunale fast food. E la chiamano giustizia". La riforma della custodia cautelare non si applica ai giudizi in corso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 La riforma della custodia cautelare non è retroattiva e non si applica quindi nei giudizi in corso. Non lo è almeno quella parte, cruciale, che considera necessaria l'attualità del pericolo della commissione di nuovi gravi reati, da parte dell'indagato, per autorizzare la detenzione preventiva. Di questo parere è stata la Corte di cassazione, nella prima sentenza che prende in considerazione la legge entrata in vigore l'8 maggio scorso, che ha pertanto respinto il ricorso presentato da un indagato per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti contro il provvedimento del tribunale di Lecce che aveva confermato la detenzione preventiva. Il Procuratore generale della Cassazione era intervenuto nella vicenda sotto un duplice profilo. Uno formale, sollecitando la Corte a prendere in considerazione il nodo dell'applicabilità della legge n. 47 del 2015, che ha rivisto i presupposti della custodia cautelare, sulle vicende in corso di esecuzione, ritenendo che questo fosse dovuto tutte le volte che, come nel caso esaminato, il ricorso chiede l'annullamento della misura, investendo il giudice dell'impugnazione a pronunciarsi sulla legittimità della custodia in corso di attuazione. Nel merito, poi, il Procuratore riteneva che il provvedimento del giudice pugliese fosse inattaccabile anche dalla riforma la quale ora richiede l'attuale pericolo che l'indagato commetta gravi delitti, tra gli altri, della stessa specie di quello per cui si procede. La legge aggiunge poi che attualità e concretezza del pericolo "non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede". La Corte, dopo avere ripercorso le conclusioni della giurisprudenza (della Cassazione stessa e della Corte costituzionale) in materia di natura della custodia cautelare e delle norme che la disciplinano, sottolinea che, secondo l'indirizzo interpretativo fatto proprio dalle Sezioni unite, il principio tempus regit actum, che regola il diritto processuale e il principio di inviolabilità della libertà personale, impongono al giudice un duplice compiuto: definire di volta in volta se le norme in discussione, sia pure formalmente processuali, appartengono o meno alla sfera del diritto penale materiale, o comunque subiscono un'attrazione nella sfera sostanziale. In questo caso a prevalere è il principio della irretroattività della legge meno favorevole e l'obbligo collegato di applicazione della legge più vantaggiosa; verificare se sia di fronte "a una situazione cautelare "patologica", per un vizio assoluto, al di là del dato formale, di natura sostanziale, prodottosi come tale sin dall'origine, o riconosciuto durante la fase interessata dalla impugnazione, riconducibile ad un atto che non ha esaurito i suoi effetti". Per quanto riguarda l'applicazione al caso approdato in Cassazione di queste conclusioni, la sentenza osserva che l'articolo 274 del Codice di procedura penale, la norma che definisce l'ambito della motivazione sul punto delle esigenze cautelari, appartiene alla sfera del diritto processuale e dunque è soggetta alla regola del tempus regit actum, "non potendosi dunque ritenere carente di motivazione, il provvedimento che abbia trascurato di esaminare profili delle esigenze cautelari non contemplati dalla norma vigente nel momento in cui è stato pronunciato". La delega sui reati ambientali è ammessa anche nelle piccole imprese di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 2 luglio 2015 n. 27862. La delega in materia ambientale è legittima. Anche in società di piccole dimensioni. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 27862 della Terza sezione penale depositata ieri. È stato così respinto il ricorso presentato dal pubblico ministero contro l'assoluzione pronunciata dal tribunale di Cuneo nei confronti di 3 manager accusati del reato di inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale. Nel giudizio di merito era stata valorizzata la definizione del processo da parte di un altro amministratore che era risultato assegnatario di deleghe specifiche sulla materia. Nei motivi di impugnazione del Pm veniva sottolineato come la delega in materia ambientale sarebbe giustificata solo nell'ambito di strutture produttive complesse, mentre nel caso in questione si trattava invece di un'impresa dalla struttura assai semplice, visto che unico era lo stabilimento e unica la sede aziendale. Se poi, metteva in evidenza, il Pm, la gestione dei rifiuti era l'oggetto dell'attività aziendale, allora non poteva che essere messa in evidenza la confusione amministrativa che regnava nell'impresa. Dare valore a all'intesa sulla delega, come fatto dal tribunale, significherebbe riconoscere efficacia a un accordo privatistico sull'attribuzione di responsabilità penale. La Cassazione, nel bocciare le tesi della pubblica accusa, mette invece in evidenza l'asimmetria attuale con l'istituto della delega di funzioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Il Testo unico della sicurezza (articolo 16) non prevede più, tra i requisiti richiesti per attribuire efficacia all'atto di delega, le dimensioni dell'azienda. Oggi, invece, è tranquillamente ammessa l'attribuzione di funzioni delegata nella sicurezza del lavoro anche in realtà di modesta rilevanza organizzativa. Ora, vanno ricordati gli "inevitabili e naturali punti di contatto tra l'esercizio delle funzioni e e gli adempimenti delegati nei due settori". Volere conservare, nella materia ambientale, la necessità di un paletto dimensionale per l'applicazione della delega, verrebbe a costituire un illogica e ingiustificabile disparità di trattamento tra delegati. Con l'effetto paradossale, nel caso di deleghe attribuite alla medesima persona, di considerare in un caso efficace l'atto e nell'altro no. Quanto poi all'effetto di esenzione penale di una accordo tra privati, la posizione della Cassazione è che questo può essere la logica conseguenza delle necessità di un'impresa organizzata di "una ripartizione dei compiti e delle relative responsabilità tra coloro che collaborano con l'imprenditore, in virtù di attribuzioni preventivamente conferite nelle organizzazioni tecniche d'impresa". Allora nelle società di capitali la responsabilità penale per la violazione delle norme ambientali non può essere fatta risalire ai vertici dell'impresa, ma deve essere individuata con riferimento ai compiti e alle mansioni effettivamente svolte nei settori di competenza. Solo se questa ripartizione è assente gli amministratori di una società non possono esonerarsi da responsabilità penale sostenendo di svolgere mansioni tecniche. Ansia da "lavavetri", il Tar deciderà sul diritto al risarcimento dell'automobilista di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezioni Unite civili - Sentenza 2 luglio 2015 n. 13568. Sarà il giudice amministrativo a dover decidere se il comune di Udine dovrà risarcire un puntiglioso automobilista per il "danno esistenziale" derivante dal "disagio" e dall'"ansia" provocati dalla continua presenza dei "lavavetri" ai semafori. Lo hanno deciso le Sezioni unite della Corte di cassazione, sentenza 13568/2015, chiarendo che in questi casi non è configurabile un "diritto soggettivo" ma semmai un "interesse legittimo" del cittadino all'adozione da parte dell'ente di provvedimenti "contingibili ed urgenti" per tutelare la "sicurezza urbana". La vicenda - Per il ricorrente, al contrario, la presenza di pedoni "ben vestiti e ben pasciuti" che "domandano (con insistenza) soldi sulla strada comunale" è equiparabile "al tronco caduto sull'asfalto e perciò... fuori posto rispetto al diritto di circolare dell'automobilista ricorrente". Per cui, allo stesso modo, il comune sarebbe "tenuto alla materiale attività di sgombero della carreggiata da tali pericoli/insidie per garantire la sicurezza e la fluidità del traffico". Il tribunale di Udine invece nello stabilire la giurisdizione amministrativa ha sostenuto che il danno lamentato non derivava direttamente dalla strada ("la cosa in custodia"), per effetto di un'omessa attività materiale del comune, ma dalla mancata adozione di misure volte a fermare l'accattonaggio, e cioè dal mancato esercizio di poteri autoritativi. La motivazione - Una posizione confermata dalla Suprema corte secondo cui la richiesta di "aiuto" o il "mendacio", caratterizzandosi come "attività umane", non possono essere poste sullo stesso piano dell'obbligo di "pulizia delle strade", "mera attività materiale", gravante sull'ente proprietario ai sensi dell'articolo 14 del Cds. Nella prima ipotesi, infatti, l'azione amministrativa deve sempre muoversi nel rispetto della "dignità umana" e, come chiarito dalla Consulta (115/2011), deve sempre incontrare una "delimitazione della discrezionalità amministrativa" a tutela della libertà dei consociati i quali devono sottostare unicamente agli obblighi di fare, non fare o dare, previsti in generale dalla legge. In definitiva, nel caso concreto, quello che viene in rilievo è il mancato esercizio da parte del sindaco del potere di emanare provvedimenti "contingibili ed urgenti" per fronteggiare "gravi pericoli" che minacciano l'incolumità pubblica. Rispetto a questo potere però, vista anche la discrezionalità dell'amministrazione, non è configurabile una posizione di "diritto soggettivo" dell'automobilista che percorre la strada. Semmai, conclude la Cassazione, si è di fronte ad un "interesse legittimo" che dunque rientra nella competenza del giudice amministrativo (anche in materia risarcitoria). Sarà dunque il Tar a valutare se nell'ordinamento vi sia o meno una norma che accordi tutela alla posizione giuridica del "cittadino automobilista fruitore di strade pubbliche". Scatta anche il danno non patrimoniale per la lesione del diritto al lavoro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 Tribunale di L'Aquila, sentenza 10 febbraio 2015 n. 142. La perdita del posto di lavoro per alcuni mesi, ed il successivo reimpiego a condizioni peggiori, vulnerando un diritto costituzionalmente garantito, aprono al risarcimento del danno non patrimoniale oltre quello patrimoniale. Lo ha stabilito il Tribunale di L'Aquila, sentenza 10 febbraio 2015 n. 142, accogliendo la domanda di un'infermiera impegnatasi in un percorso di mobilità non andato a buon fine. Il caso - La donna di origine abruzzese ma impiegata a Milano aveva fatto domanda di trasferimento presso la Ausl 4 di L'Aquila. Ottenuto il via libera da parte del direttore generale dell'azienda sanitaria (deliberazione 88/2008), aveva rassegnato le dimissioni dal precedente impiego. Successivamente però l'Ausl aveva fatto marcia indietro sostenendo che l'ospedale di provenienza non aveva "adeguato i propri ordinamenti del personale alle disposizioni del Dlgs 502/1992", deliberando la sospensione del trasferimento. A questo punto, revocate invano le proprie dimissioni, si era trovata senza lavoro e solo dopo alcuni mesi, a seguito di concorso pubblico, era stata assunta presso un altro ospedale lombardo "come infermiera semplice perdendo tutta la professionalità acquisita". La motivazione - Così ricostruita la vicenda, il tribunale ha ritenuto provati tutti gli elementi strutturali dell'illecito aquiliano (ex articolo 2043 del codice civile ), e cioè: "la condotta antigiuridica concretatasi nelle deliberazioni dell'ASL 4, contraria al principio della correttezza e al parametro della diligenza di buona fede, il danno ingiusto nella lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti e dunque meritevoli di tutela, il nesso causale tra la condotta dell'azienda sanitaria e l'evento dei danni patrimoniali e non patrimoniali giuridicamente rilevanti". E rifacendosi alla giurisprudenza di legittimità (S.U. n. 26972/2008) ha stabilito che va riconosciuta "la risarcibilità del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 cod. civ. in tutte le ipotesi in cui l'illecito leda diritti alla persona costituzionalmente garantiti e tra questi rientrano il diritto al lavoro vulnerato dalle deliberazioni della ASL 4". Infatti, conclude il tribunale, "è da ritenersi comprovata la correlazione tra le deliberazione della azienda sanitaria ed il verificarsi del danno esistenziale consistente nella perdita del posto di lavoro, per un certo periodo di tempo, e poi nell'effettivo peggioramento delle condizioni di vita quotidiane per aver comunque perso la professionalità acquisita in anni si studio e di lavoro". Da qui la condanna a risarcire 100mila euro per danni patrimoniali e 10mila "per il peggioramento delle condizioni di vita quotidiane e per le sofferenze patite a causa della perdita, seppur temporanea, del posto di lavoro e per la perdita della professionalità lavorativa acquisita in anni di studio e di lavoro". Persone minorate: difesa pubblica o privata Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 Reato - Circostanze aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata -Condizioni oggettive e soggettive - Individuazione. Le circostanze di persona che, ai sensi dell'articolo 61 n. 5 cod. pen. aggravano il reato quando l'agente ne approfitti possono consistere in uno stato di debolezza fisica o psichica in cui la vittima del reato si trovi per qualsiasi motivo; ne consegue che esse devono essere conosciute dall'agente e tali da ostacolare la reazione dell'Autorità pubblica o delle persone offese, agevolando la commissione del reato. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 2 aprile 2015 n. 13933. Reato - Circostanze aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Rilevanza dell'età avanzata della vittima. In tema di minorata difesa, la circostanza aggravante di aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa deve essere specificamente valutata anche in riferimento all'età senile e alla debolezza fisica della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel soggetto passivo una particolare vulnerabilità della quale l'agente trae consapevolmente vantaggio. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 2 marzo 2015 n. 8998. Reato - Circostanze aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Necessaria valutazione in concreto dei presupposti. La valutazione della sussistenza dell'aggravante della minorata difesa va operata dal giudice, caso per caso, valorizzando situazioni che abbiano ridotto o comunque ostacolato, cioè reso più difficile, la difesa del soggetto passivo, pur senza renderla del tutto o quasi impossibile, agevolando in concreto la commissione del reato. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 15 ottobre 2014 n. 43128. Reato - Circostanze aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Condizioni oggettive e soggettive. In tema di circostanza aggravante prevista dall'articolo 61 n. 5, non è configurabile la minorata difesa per approfittamento delle condizioni personali ove, sotto il profilo oggettivo, la condotta dell'autore del reato, sebbene repentina, sia percepibile da terzi e, sotto quello soggettivo, la condizione personale di minorazione della vittima inerisca ad una situazione momentanea ed occasionale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 27 settembre 2013 n. 40289. Reato - Circostanze aggravanti comuni - Minorate difesa pubblica o privata - Debolezza fisica o psichica della vittima. La circostanza aggravante della minorata difesa per approfittamento delle condizioni personali ha riferimento alla debolezza fisica o psichica del soggetto passivo e non alla maggiore prestanza fisica dell'agente, salvo che si tratti di una particolare ed eccezionale sua condizione. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 16 luglio 2009 n. 29499. Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Procedimento - Fasi distinte: rescissoria e rescindente - Esclusione - Ragioni. In tema di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, l'esito del procedimento camerale conseguente alla proposizione di tale mezzo straordinario di impugnazione deve essere individuato di volta in volta in relazione alle specifiche connotazioni delle singole situazioni processuali. Ne deriva che, pur restando il momento rescindente e quello rescissorio sempre distinguibili concettualmente, la definizione della procedura non deve necessariamente articolarsi nelle due distinte fasi della immediata caducazione del provvedimento viziato e della successiva udienza per la celebrazione del rinnovato giudizio sul precedente ricorso per cassazione e può ben avvenire con l'immediata pronuncia della decisione che, se è di accoglimento del ricorso, non costituisce una semplice correzione di quella precedente, ma la sostituisce in toto. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 24 aprile 2015 n. 17178. Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Accoglimento - Pronuncia immediata sul merito del ricorso - Legittimità. Qualora accolga un ricorso straordinario per errore di fatto, ai sensi dell'articolo 625-bis, comma IV, cod. proc. pen., adottati i provvedimenti necessari per correggere l'errore, la Corte può immediatamente pronunciarsi sul merito del ricorso originario. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 27 agosto 2014 n. 36192. Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Omesso esame di un motivo di ricorso - Errore di fatto - Esclusione - Fondamento. L'omesso esame di un motivo di ricorso per cassazione non dà luogo ad errore di fatto rilevante a norma dell'articolo 625-bis cod. proc. pen., né determina incompletezza della motivazione della sentenza allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l'impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima, ovvero quando l'omissione sia soltanto apparente; mentre costituisce errore di fatto quando sia dipeso da una vera e propria svista materiale la cui presenza sia immediatamente e oggettivamente rilevabile in base al semplice controllo del contenuto del ricorso. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 30 aprile 2002 n. 16103. Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Procedimento - Udienza pubblica o camerale - Forma della pronuncia - Sentenza - Inammissibilità dichiarata "de plano" - Forma della pronuncia - Ordinanza - Fondamento. In tema di procedimento per la correzione dell'errore di fatto nei provvedimenti della Corte di cassazione, nell'ipotesi in cui il ricorso straordinario sia dichiarato inammissibile, all'esito di udienza, la relativa pronuncia deve assumere la forma della sentenza, atteso che il comma 4 dell'articolo 625-bis cod. proc. pen. impone l'adozione dell'ordinanza nei soli casi in cui l'inammissibilità sia dichiarata "de plano" senza l'instaurazione del contraddittorio e che - al di fuori dei casi previsti da specifiche disposizioni di legge - la sentenza corrisponde all'ordinaria forma delle decisioni della Corte di cassazione, anche se dichiarative dell'inammissibilità del ricorso, siano esse adottate nell'udienza pubblica o in quella camerale, partecipata o non. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 30 aprile 2002 n. 16103. Lettere: se difendersi sul web diventa atto politico di Roberto Saviano L'Espresso, 3 luglio 2015 Adriano Sofri ha replicato alle polemiche con un post. Così sulla questione hanno potuto esprimersi tutti, e non solo chi gode di visibilità mediatica Non sono un nostalgico e credo che la nostra società, che questo "qui e ora" spesso tanto vituperato, sia il momento più democratico di sempre. Credo che andando avanti ci sarà sempre maggiore spazio per nuovi diritti e che sia un percorso inevitabile. Procrastinabile secondo alcuni, ma inevitabile. Negli Stati Uniti, la decisione della Corte Suprema di rendere incostituzionali le leggi statali che vietano il matrimonio gay è un esempio di come, all'improvviso, tutto possa cambiare e anni di attivismo e di sofferenze vengano riconosciuti. Di come si riesca alla fine a porre rimedio a ingiustizie perpetrate per troppo tempo. E il ministro della Giustizia texano potrà anche offrire ai funzionari che si rifiuteranno di celebrare nozze gay tutto il supporto legale che vorrà, ma non riuscirà a bloccare un diritto che si è realizzato. Forse potrà ostacolarne il compimento per un breve periodo e in un perimetro limitato, ma poi dovranno, lui e i suoi funzionari, capitolare alla cosa più naturale che ci sia: il progresso. Se tutto questo è possibile, e soprattutto se è possibile in tempi relativamente più brevi rispetto a qualche decennio fa, lo si deve essenzialmente alla morte del pensiero unico che solo era in grado di creare dibattito e alimentarlo. Ciò che è accaduto ad Adriano Sofri nelle scorse settimane, ha reso palese come il dibattito non si sia esaurito agli editoriali in edicola, ma sia continuato e sia stato alimentato da voci più o meno note, intervenute in rete. Il ministro della giustizia Andrea Orlando aveva invitato Adriano Sofri a partecipare agli Stati Generali sull'Esecuzione della Pena, in qualità di esperto di "Cultura, istruzione e sport nel carcere". Ma in seguito a polemiche con le quali non concordo, Sofri ha deciso di rinunciare all'incarico spiegandone il motivo non solo sulla carta stampata, ma scrivendo un lungo post. Sofri ha compreso che quello era il mezzo più adatto per rendere virali delle parole che andavano lette e secondo me condivise. E io le condivido, non solo come si dice in gergo social, diffondendole ovunque sia possibile, le condivido anche nel loro contenuto, per molte ragioni che provo a elencare. Le condivido perché qualunque apporto al miglioramento della situazione in cui si trovano le carceri italiane lo trovo doveroso. Le condivido perché le carceri (contrariamente a ciò che qualcuno pensa) non sono hotel a 5 stelle. Le condivido perché il punto di vista di chi ha vissuto diverse realtà carcerarie può essere, anzi è, fondamentale. Le condivido perché, così come sono, le carceri si dimostrano palestre di criminalità e raramente luoghi di recupero e rieducazione. Le condivido perché le carceri sono la cartina al tornasole dello stato di salute della democrazia in un paese. Le condivido perché non dobbiamo vivere il carcere in prima persona per capire che ci riguarda e che il nostro dovere non è solo preoccuparci di pagare affitto, mutuo, acqua, gas e spazzatura, ma anche rendere migliore la vita di chi ha sbagliato e che mai smette di essere parte della società. Le condivido perché la vita è più complessa di una condanna e di una detenzione: dobbiamo sempre sforzarci di andare oltre. Dobbiamo sforzarci di avere un'opinione nostra e smettere di accettare quella più semplice che spesso è anche la più sbagliata. ed è sempre l'Italia manettara, rappresentata dal segretario del Sappe (sindacato di polizia) che non perde occasione per difendere, come è accaduto per la morte di Federico Aldrovandi, agenti che hanno commesso crimini in divisa, a urlare più forte. Eppure la rinuncia di Sofri, che potrebbe sembrare una sconfitta e una resa all'Italia peggiore, è un atto politico sul quale tutti siamo chiamati a riflettere e che tutti, grazie al web, possiamo commentare. Non solo chi gode di spazi e di attenzione. Lettere: tutti i pericoli di una Corte costituzionale interventista di Alessandro De Nicola L'Espresso, 3 luglio 2015 I giudici costituzionali hanno un ruolo sempre più rilevante. E questo rende quasi impossibile per i governi attuare politiche di bilancio. La Corte costituzionale italiana, al pari delle consorelle tedesca e americana (basti pensare alle recenti sentenze su legittimità del Quantitative easing, Obamacare e matrimonio gay), sta assumendo un ruolo sempre più rilevante nei pubblici affari. I nostri giudici supremi, infatti, stanno continuando a influenzare profondamente la politica economica del paese. Dopo aver determinato l'incostituzionalità del blocco delle pensioni più alte e della Robin Tax, questa volta i togati del Palazzo della Consulta si sono esercitati su un tema che a chi non appartiene al sacerdozio dei giureconsulti apparirebbe fuori dalla loro portata: gli stipendi pubblici. La questione è nota: dal 2010 i salari dei dipendenti pubblici sono bloccati per legge salvo che per progressioni di carriera. Tale provvedimento è stato reiterato fino a tutto il 2015 e contro di esso sono insorti i sindacati sostenendone l'illegittimità costituzionale. Se la Corte avesse dato loro ragione con effetti retroattivi, le casse dello Stato rischiavano, secondo l'Avvocatura Generale, un buco di ben 35 miliardi di euro, una catastrofe. Cosa ha deciso allora il nostro Giudice delle leggi? Con uno scarno comunicato datato 24 giugno, ci ha informato che, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza, è stata dichiarata "l'illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico". In altre parole, bisogna rinegoziare i contratti collettivi con le maestranze ma l'assenza di effetti retroattivi evita il pagamento degli arretrati. Pare che la Corte (la sentenza non è stata ancora pubblicata) abbia tenuto in conto l'argomento avanzato dall'Avvocatura dello Stato secondo cui l'articolo 81 della Costituzione, imponendo il pareggio di bilancio, impedisse il pagamento dei 35 miliardi. Meno male, ma i dubbi non mancano. Primo: da quando la contrattazione collettiva è materia costituzionale? La contrattazione e ancor di più il suo esito è affare delle parti coinvolte, non un obbligo sancito dalla suprema legge della Nazione. E non si dica che mentre i privati possono rimanere a becco asciutto, invece i dipendenti pubblici sono protetti dalla Costituzione: questa sì sarebbe una violazione del principio di uguaglianza, anche a voler dimenticare che tutt'oggi la media degli stipendi dei dipendenti pubblici è più alta di quella dei privati e dal 1995 al 2010 il tasso di aumento dei primi ha di gran lunga sopravanzato i secondi. Secondo: nel passato il blocco fu ritenuto legittimo dalla Consulta. Leggendo il rinvio de! giudice di Roma che solleva la questione di costituzionalità, si capisce però che in precedenza era per periodi più brevi. Ah sì? Quindi la Corte si arroga di decidere per quanti anni le esigenze di contenimento della spesa pubblica giustificano un provvedimento del governo? Questo è un potere da legislatore, non da giudice. Terzo, la retroattività. Ormai la Corte fa un uso sempre più frequente del concetto di incostituzionalità sopravvenuta (utilizzato anche quando è stata dichiarata illegittima la Robin Tax) che invece dovrebbe essere impiegato molto raramente ed in casi eccezionalissimi. Ciò che è nullo nullum producit effectum, dicevano i giureconsulti romani. Inoltre, l'incostituzionalità "sopravvenuta" è utilizzata a singhiozzo: non per la pronuncia sulle pensioni, ad esempio. E anche se l'ex presidente della Consulta, Mi-rabelli, ha cercato di distinguere i tre casi, non c'è dubbio che dal punto di vista del legislatore l'incertezza continua su cosa è legittimo e cosa no e quali effetti la illegittimità possa avere sulle casse dello Stato, alla lunga rende difficilissima qualsiasi politica di bilancio. Il legislatore ha ovviamente le sue colpe: le norme sono scritte in modo disdicevole, a volte sono retroattive, altre non coordinate con le quelle in vigore. Tuttavia è necessario pensare a un meccanismo di tecnica legislativa che restituisca certezza del diritto (a esempio, potrebbe servire un parere preventivo sulle leggi come quello che emana il Conseil Constitutonnel francese). Già gli investitori si lamentano per la lunghezza e l'incertezza dei procedimenti ordinari, figuriamoci cosa accadrebbe se nessuno potesse essere certo della sopravvivenza stessa delle leggi emanate dal nostro Parlamento. Lombardia: oggi giornata di mobilitazione dei lavoratori dell'Esecuzione Penale Esterna rassegna.it, 3 luglio 2015 In seguito allo stato di agitazione regionale dei lavoratori e delle lavoratrici che lavorano presso gli Uepe (Uffici Esecuzione Penale Esterna) della Lombardia, è stata indetta una giornata di mobilitazione in tutte le province della regione il giorno 3 luglio 2015, con diverse le iniziative sui territori. "Le ragioni di questa mobilitazioni sono molte - si legge in un comunicato Fp Cgil Fp Cisl, Cgil Brescia e Cisl Brescia. Prima fra tutte l'incremento impressionante delle misure alternative (messa alla prova) che gravano su questi uffici senza che un giusto adeguamento dell'organico". Prevista una conferenza stampa per venerdì 3 luglio 2015 ore 10,30 presso l'Uepe di Brescia e Bergamo, in via san Francesco d'Assisi n. 11, Brescia. I sindacati fanno alcuni esempi: "Gli assistenti sociali che svolgono questo delicato lavoro sono del tutto insufficienti. In tutta Italia sono circa 900 (dovrebbero essere circa 1600), hanno in carico circa 33.000 misure e sanzioni non detentive (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, messa alla prova, ecc.), 29.000 richieste per l'attività di indagine e consulenza svolta per il carcere e la magistratura, 6.000 casi per i lavori di pubblica utilità per violazione del codice della strada, 3.000 persone che svolgono la messa alla prova e 9.000 richieste di indagine per ottenere la messa alla prova. L'investimento su tali uffici rappresenta solo circa il 2,5% dell'intero costo del sistema penitenziario e in 20 anni le misure alternative e le sanzioni non detentive seguite dagli Uepe sono aumentate del 700%". "Noi crediamo - aggiungono Cgil e Cisl - nel lavoro che questi lavoratori e lavoratrici hanno fino ad ora svolto con grande professionalità per offrire misure alternative efficaci, ma questa situazione non garantisce più che venga erogato lo stesso servizio. Le condizioni sono degenerate e gli uffici sono al collasso. In queste condizioni c'è il rischio che questi interventi siano inefficace e che non garantiscano al meglio il reinserimento degli affidati e la sicurezza sociale". "Non pensiamo - conclude il sindacato - sia possibile investire sulle misure alternative a costo zero. Alla conferenza stampa sono stati invitati i parlamentari bresciani, l'Ordine degli avvocati, la magistratura di sorveglianza, le associazioni che lavorano con i detenuti, il garante dei detenuti". Sardegna: per "gravi ragioni di sicurezza" negato il trasferimento dopo 35 anni di carcere Ristretti Orizzonti, 3 luglio 2015 Mario Trudu non può essere trasferito in un Istituto Penitenziario della Sardegna "per gravi ragioni di sicurezza". Lo afferma il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto nel rigettare il reclamo che il detenuto di Arzana, attualmente ristretto a San Gimignano, aveva proposto contro il silenzio-rigetto del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria all'istanza del trasferimento vicino ai familiari per poter effettuare regolari colloqui. Una valutazione che lascia perplessi in considerazione dei 35 anni di detenzione scontati dall'uomo, peraltro condannato all'ergastolo, nelle strutture penitenziarie della Penisola". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alle "gravi ragioni di sicurezza collegate - si legge nel rigetto - alle informazioni trasmesse dalla autorità di PS e dalla Dda competente in ordine alla sussistenza di collegamenti del soggetto con la criminalità organizzata". "Appare quanto meno singolare - osserva Caligaris - che una persona dopo tanti anni trascorsi nella Penisola dietro le sbarre possa avere coltivato legami con individui appartenenti alla criminalità organizzata. Anche perché, come aveva evidenziato il suo legale Pierandrea Setzu nell'ennesima istanza di trasferimento, l'ultimo delitto per il quale Trudu è recluso non è stato commesso in Sardegna ma nell'appennino e i coimputati non erano sardi". "Perfino l'annotazione del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto relativamente al fatto che periodicamente al detenuto sono stati concessi trasferimenti temporanei presso la Casa Circondariale di Nuoro per effettuare colloqui appare - rileva ancora la presidente di Sdr -imprecisa. Trudu a partire dal 2000, come lui stesso precisa in una lettera, ha usufruito di un avvicinamento temporaneo per colloqui con i familiari nel 2004, nel 2012 e nel 2014. Complessivamente quindi tre mesi in 15 anni". "Insomma ancora una volta - conclude Caligaris - viene negata la possibilità a un detenuto di poter continuare a scontare la pena in un Istituto prossimo alla residenza della famiglia contraddicendo alle finalità stesse della perdita della libertà e non rispettando il principio della territorialità della pena costantemente richiamato dal Dap nelle circolari sul trattamento dei ristretti. Brescia: arriva il carcere in project financing, pool di aziende pronto a realizzarlo di Pietro Gorlani e Alessandra Troncarla Corriere della Sera, 3 luglio 2015 Il modello è l'iter seguito da Bolzano. Bazoli: “Dal ministero c'è già un primo sì”. Brescia potrebbe avere presto un nuovo carcere, realizzato a nord di Verziano da imprese bresciane, con il sistema del project financing. Il pool di professionisti è disposto ad acquistare l'area e a realizzare l'edificio, “guadagnando” poi dalla gestione ventennale dei principali servizi. Brescia potrebbe avere presto un nuovo carcere. Un'opera attesa da anni, che permetterebbe di chiudere definitivamente la secolare struttura di Canton Mombello, nota alle cronache per il suo endemico sovraffollamento. Verrebbe realizzato a nord dell'attuale carcere di Verziano da imprese bresciane, con il sistema del project financing.mIl pool di professionisti è disposto ad acquistare l'area agricola e a realizzare l'edificio, “guadagnando” poi dalla gestione ventennale dei principali servizi (mensa, lavanderia, pulizie) che verrebbero pagati dallo Stato, il quale poi entrerà in possesso della struttura. A fare pressing sul ministero della Giustizia per concretizzare in tempi brevi il progetto è il deputato bresciano del Pd Alfredo Bazoli: “Ho già avuto un primo contatto con il ministro Orlando e si è detto interessato e disponibile ad approfondire la proposta”. Il governo - che ha congelato il piano carceri per mancanza di fondi - non dovrebbe impegnare alcuna cifra iniziale. “La struttura verrebbe realizzata in project financing - spiega Bazoli: secondo la legge sugli appalti è applicabile anche ad un carcere. Sarebbe un progetto pilota, il primo in Italia, visto che c'è qualcosa di simile a Bolzano ma lì ha contribuito finanziariamente la Provincia”. Il deputato, che sta lavorando in sinergia con la loggia, conferma che “ci sono dei professionisti bresciani interessati all'operazione”. E ci sono due ipotesi sul tavolo, a seconda dei servizi che verranno gestiti dalle imprese: lo Stato riconoscerà loro da 40 ad 80 euro per detenuto al giorno a seconda della manutenzione che faranno. “Certo si tratta di un grande risparmio per Io Stato - chiude Bazoli. E il progetto è davvero innovativo, visto che mira a coinvolgere diverse realtà del terzo settore”. I tempi? “La svolta potrebbe già arrivare nel 2016” chiude Bazoli. Conti e progetti sono già sulla scrivania di Valter Muchetti, assessore alla Sicurezza: un malloppo da migliaia di pagine, con in cima il disegno del nuovo carcere di Bolzano: “una struttura che costerà 70 milioni, avrà 200 posti e occuperà 4omila metri quadri, duemila in più rispetto al progetto previsto per la Caserma Papa, bocciato dalla Cancellieri”. Tre anni per il bando e il progetto esecutivo: la prima pietra ad ottobre, entro giugno 2016 la fine dei lavori. “Per noi è un punto di partenza - aggiunge Muchetti - l'intenzione della Loggia è di farsi promotore con il Ministero per sbloccare una situazione drammatica. Non possiamo accettare di andare oltre: il Comune non si sottrarrà al suo ruolo di guida”. Gli investitori potranno guadagnare dalla gestione dei servizi, “ma lo Stato riconoscerà loro anche la diminuzione del personale. Le nuove tecnologie, telecamere e chiusure centralizzate, ridurranno i dipendenti pubblici: un risparmio che sarà riconosciuto all'operatore”. A Canton Mombello svuoteranno le celle: “il Ministero potrebbe darlo in concessione al vincitore del bando, o alienarlo. È un immobile tra le mura venete, ha il suo interesse”. Centrodestra all'attacco: progetto al capolinea Se da Roma e dalla Loggia arrivano importanti novità sul carcere, ieri in commissione urbanistica sono volati gli stracci tra maggioranza e opposizione. Oggetto del contendere: l'aver gettato nel cestino - da parte dell'attuale amministrazione - il progetto Paroli-Vilardi: avevano ottenuto da un privato l'area dove realizzare la nuova struttura in cambio di 28 mila metri quadri (al Villaggio Sereno) che da agricoli sarebbero diventati residenziali. “Il Comune sarebbe entrato in possesso dell'area e questo avrebbe certamente agevolato la realizzazione del nuovo carcere - ha attaccato la Vilardi. Avevamo già avuto importanti contatti con il ministero. Con questa scelta il carcere non si farà più”. Lo stesso ragionamento aveva fatto l'ex sindaco Paroli nell'ultimo consiglio comunale. Secca la replica di Aldo Boifava e Alberto Martinuz, del Pd: “La vera novità di questa variante è che si tutelano 28mila metri quadrati di campi agricoli che sarebbero stati cementificati da un privato. Il Comune potrà comunque entrare in possesso dell'area destinata al nuovo carcere pensando ad una permuta con altre aree edificabili”. Per Massimo Tacconi (Lega Nord), su un progetto così delicato “dovrebbe esserci condivisione tra tutte le forze politiche, così come su altri temi di vitale importanza per la città, come la Fiera o l'aeroporto”. Ora bisognerà capire se maggioranza e opposizione sono d'accordo sull'idea del project financing, L'area oggi agricola dovrà comunque essere espropriata per ragioni di pubblica utilità, ha precisato il dirigente del settore urbanistica Giampiero Ribolla, affiancato dall'architetto del comune, Laura Treccani: “La competenza è del ministero”. Avellino: nelle carceri irpine sovraffollamento e criticità in sanità e in percorsi riabilitativi irpiniafocus.it, 3 luglio 2015 Illustrati al Carcere Borbonico i risultati dell'indagine conoscitiva nei nostri penitenziari promossa dalla Provincia di Avellino su sollecitazione del Garante provinciale dei diritti dei detenuti, in collaborazione con la Fondazione Giacomo Brodolini. Palma: "Anche in Irpinia c'è bisogno che sia messo in atto il discorso delle buone pratiche da diffondere". Pricoco: "Sant'Angelo un carcere all'avanguardia e non ce lo aspettavamo". Nel quadro a poche luci e molte ombre emerso dall'indagine conoscitiva nelle carceri irpine promossa dalla Provincia di Avellino su sollecitazione del Garante provinciale dei diritti dei detenuti Carlo Mele a spiccare è l'allarme lanciato proprio da Mele in merito al diritto alla salute, non sempre tutelato appieno. Naturalmente senza fornire dettagli, Mele cita un caso in particolare, relativo a un detenuto uscito cieco dal carcere e denuncia un trattamento sanitario evidentemente non adeguato. Mauro Palma, Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione panale e Consigliere del Ministro della Giustizia Andrea Orlando in materia penitenziaria, ricorda che "sull'assistenza sanitaria, c'è una responsabilità duplice. Mentre è compito della giustizia garantire la tutela della salute, perché resta il principio che chi priva una persona della libertà è responsabile del suo diritto alla salute, rimane anche il fatto che chi eroga i servizi alla salute sono le Asl, che devono pensare che i cittadini in carcere sono parte della loro competenza parimenti agli altri". Da parte sua il manager dell'Asl Avellino Mario Ferrante assicura che "l'assistenza sanitaria è garantita nelle carceri irpine 24 ore al giorno, in presidi dotati di posti letto, di cui gli ultimi 15 attivati di recente a Sant'Angelo dei Lombardi, e in cui ci sono sia medici sia infermieri, che lo scorso anno hanno monitorato in totale circa 1.100 detenuti. Stiamo facendo molto e stiamo anche investendo per aumentare il numero degli specialisti nelle carceri, ma naturalmente per arrivare a pieno regime e garantire una completa efficacia dobbiamo fare ancora qualche passo, come l'informatizzazione delle cartelle cliniche, utile anche per l'esterno, o l'avvio di procedure per dare risposte dal punto di vista della radiologia". Ferrante precisa che si punta alla qualità, anche sul fronte dell'assistenza psichiatrica, particolarmente importante "perché il detenuto a prescindere da eventuali patologie vive comunque un disagio e ha necessità di avere consulenze periodiche, per cui ce n'è necessità. Ma il problema delle carceri è di natura multifattoriale - insiste - e noi possiamo risolverne solo una parte". Che ci siano anche in Irpinia carenze, in un sistema globalmente carente in Italia, è innegabile ed è rispetto a questo che la ricerca, realizzata in collaborazione con la Fondazione Giacomo Brodolini, ha inteso individuare criticità ma anche eventuali punti di forza. "Le macro aree prese in considerazione sono quelle normativo-giuridica, quella sanitaria e quella del trattamento dei detenuti - spiega Rosa Pricoco illustrando lo studio condotto, indagate sia dal punto di vista quantitativo, attraverso la distribuzione di schede, sia effettuando interviste all'interno delle carceri e realizzando focus group con i detenuti, anche per capire cosa pensassero rispetto al loro percorso riabilitativo. Ne emergono non solo ombre, ma anche delle buone prassi - ammette. Ci sono le problematiche del sovraffollamento e di percorsi riabilitativi non ottimali, condizioni per cui la salute a volte non viene tenuta in debito conto. Ma un caso di buone pratiche è ad esempio la possibilità per i detenuti, riscontrata in particolare a Sant'Angelo dei Lombardi, di stare fuori per 8 ore al giorno ed essere impegnati in attività legate all'agricoltura o al restauro degli ambienti. Da questo punto di vista potremmo definirlo un carcere all'avanguardia e non ce lo aspettavamo". Le situazioni critiche, invece, si ritrovano un po' dovunque, dice, sia per quanto riguarda la sorveglianza sia gli aspetti sanitari e nel complesso il voto assegnato dalla dottoressa Pricoco alle realtà carcerarie irpine si attesta a un 6. "I quattro istituti della provincia di Avellino, ma quello di Lauro ha una condizione un po' a sé stante (la casa di reclusione è in via di trasformazione da istituto di custodia attenuata per tossicodipendenti ad istituto di custodia attenuata per detenute madri, ndr), hanno come in tutta Italia sezioni che funzionano bene e altre che funzionano male - rileva anche Palma, per cui forse anche in questa provincia c'è bisogno che sia messo in atto il discorso delle buone pratiche da diffondere". Essenziale per Palma anche colmare quello che per certi versi è un vuoto di percezione da parte della comunità rispetto al mondo penitenziario. Suggestionato dal luogo che ospita dalla presentazione dello studio, il Carcere Borbonico di Avellino che è un perfetto esempio di panopticon, sottolinea che "presentare una ricerca è una forma di apertura all'esterno che deve essere aiutato a considerare l'interno, in questo caso delle carceri, come parte di se stesso". "Mi sento di ringraziare le autorità europee per le condanne emesse in merito al sistema carcerario del nostro Paese con la sanzione del 2013, con la quale la Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia per violazione dell'articolo 3 della Convenzione che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani e degradanti - afferma il Presidente Palma, perché hanno messo in moto un meccanismo di ripensamento del sistema detentivo e di approvazione di una serie di provvedimenti che forse non sarebbero stati presi con la stessa tempestività se non ci fosse stato questo monito sovranazionale. In termini quantitativi possiamo dire che i risultati fin qui raggiunti sono soddisfacenti, diverso è il discorso sulla qualità della vita all'interno del carcere, perché siamo ancora a un modello piuttosto antiquato e poco responsabilizzante in cui si tende a "infantilizzare" il detenuto, a considerarlo come un tardo adolescente a cui diamo regole senza sfidarlo nell'assumersi la responsabilità. Questa è invece la linea di tendenza dei modelli detentivi europei più avanzati ed è la direzione verso cui ci dobbiamo muovere". "Rispetto al sovraffollamento, invece, parlano i numeri: al momento della sentenza della Corte Europea avevamo 66mila detenuti contro 47mila posti - aggiunge -, adesso siamo a 52.700 detenuti e più di 49mila posti. Il problema esiste ancora, ma la distanza tra numero dei detenuti e dei posti si è sensibilmente ridotta, perciò è una delle cifre a cui guardo con positività". Le cifre rilevate nel corso dell'indagine conoscitiva, tuttavia, evidenziano uno scarto considerevole fra i 1.052 detenuti presenti complessivamente nelle case circondariali della provincia a fronte di una capienza effettiva totale di 944 posti: a Bellizzi Irpino 594 i detenuti presenti al 31 dicembre 2014, fra cui 4 madri con figli, contro 504 posti; a Sant'Angelo di Lombardi 183 contro 126; ad Ariano Irpino 261 contro 259 e a Lauro 14 su 55 posti. Solo 121 su tutti i detenuti avevano usufruito nel 2014 di misure alternative alla reclusione e Mario Iannaccone, che ha relazionato sull'area giuridico-normativa dello studio, conclude che se i dati raccolti pongono la situazione irpina generalmente in linea con il panorama italiano, quest'ultima cifra è però inferiore di oltre il 10% rispetto a quella riscontrata a livello nazionale, "dati lontanissimi entrambi dal dato europeo - evidenzia -, dove il 75% delle pene sono scontate in regime extra moenia". La ricetta per portare il sistema carcerario italiano a livelli più europei dettata dal presidente del Tribunale di Sorveglianza Speciale della Campania Carmine Antonio Esposito è una sola: investimenti, nelle strutture come nel personale. "Sono stati fatti passi avanti anche notevoli - dice, ma il cammino non è ancora terminato ed è ancora lungo. Spesso nella mia attività quotidiana vengo preso da un senso di malinconia, perché dal 1 gennaio 1948 sono passati 67 anni e la Costituzione non è stata ancora attuata completamente nei suoi contenuti essenziali e specificamente, stando agli articoli 2, 3 e 27, devo dire che la legge penitenziaria è stata varata solo nel 1975. Bisogna investire molto e quando si dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato si vogliono dire tante cose e innanzitutto che la detenzione non deve essere vissuta in modo passivo, come è stato nel passato e come in parte è anche oggi, ma deve essere un'occasione. Non un momento di sofferenza, ma un momento in cui il detenuto possa mettere nella sua mente un nuovo progetto di vita e per fare questo è necessario offrirgli delle alternative in campo culturale, di aggiornamento professionale e di attività lavorative, insegnando un mestiere e dando occasioni". "Nella provincia di Avellino devo dire che tutto sommato la situazione non è cattiva. Non è ottimale - dice -, ma l'ottimo non esiste nella realtà, è la meta alla quale dobbiamo tendere senza mai adagiarci sui risultati conseguiti. C'è bisogno di investire molto - rimarca -se l'Italia vuole un sistema carcerario moderno e conforme alla Costituzione, investimenti per cui non sempre abbiamo l'adesione dell'opinione pubblica, che pensa per lo più che gli investimenti nel sistema penitenziario siano improduttivi. Invece, producono un bene fondamentale per ogni società civile e democratica, vale a dire la sicurezza sociale". Gli investimenti devono inoltre riguardare anche il personale: "Bisogna assumere nuovi dipendenti - afferma - non solo negli istituti penitenziari, ma anche negli uffici del Tribunale di Sorveglianza, dove dal 2010 abbiamo una riduzione di personale superiore 30% rispetto a una pianta organica già insufficiente, mentre il numero dei procedimenti ad oggi è aumentato". Esposito tocca anche la vicenda dell'Ufficio di Sorveglianza di Avellino e delle proteste dei penalisti che addebitano proprio alla carenza di personale un funzionamento ridotto dell'Ufficio: "Ho incontrato gli avvocati avellinesi, come quelli di Napoli che hanno proclamato un'astensione delle udienze per tre giorni nel mese di luglio, e abbiamo avuto uno scambio di idee. Ho comunicato la situazione al Ministero della Giustizia, dove sono stato anche di persona, e mi è stato detto che allo stato non c'è nulla da fare se non aspettare il trasferimento del personale dalle Province, perché ci sono i limiti di bilancio per cui non si fanno nuove assunzioni e chi va in pensione non viene sostituito". "Le carceri anche difficoltà architettoniche e strutturali - sottolinea Monsignor Sergio Melillo, nuovo Vescovo di Ariano, ma come luoghi della vita dovrebbero essere attrezzate per chi ci vive nell'ottica di una liberazione dalla pena e anche per il personale. Il desiderio di non vedersi ristretti in uno spazio marginale è uguale, sia da parte del personale sia dei detenuti, e in questo senso si dovrebbe realizzare un rapporto non solo informativo ma di comunione, in senso lato e non religioso". Brescia: megarissa tra detenuti albanesi e tunisini. L'Assessore Bordonali "rimpatriamoli" quibrescia.it, 3 luglio 2015 Rissa violenta all'interno del carcere Canton Mombello di Brescia. Nella serata di mercoledì primo luglio, una trentina di persone, albanesi e tunisini, hanno iniziato a litigare violentemente al terzo piano della struttura, e solo l'intervento della polizia carceraria in tenuta anti-sommossa ha evitato il peggio. Gli agenti hanno comunque dovuto faticare non poco per dividere i contendenti. Un detenuto di 32 anni è stato ricoverato in ospedale a causa delle botte ricevute. Ora si stanno cercando di individuare le cause della scintilla, anche se la casa circondariale di Brescia è considerata da molti una polveriera, a causa del sovraffollamento, reso ancora più difficile dal caldo di questi giorni. Bordonali: i detenuti stranieri scontino la pena nei paesi di origine Dopo una maxi-rissa nel carcere di Brescia che ha coinvolto trenta detenuti albanesi e magrebini, l'assessore lombardo alla sicurezza attacca: "Sono il 50% dei detenuti". "Ormai la questione del sovraffollamento carcerario non è più rimandabile, è necessario far scontare la pena ai detenuti stranieri nel proprio Paese d'origine. Questo intervento consentirebbe di risparmiare ingenti risorse economiche e permetterebbe di avere spazio per far rispettare le sentenze, visto che in Lombardia la popolazione carceraria di origine straniera è circa il 50% di quella totale". Lo ha detto l'assessore regionale alla Sicurezza, Protezione civile e Immigrazione, Simona Bordonali, commentando la rissa avvenuta, ieri sera, nel carcere Canton Mombello di Brescia che ha coinvolto una trentina di detenuti. Da una parte un gruppo di magrebini, dall'altra gli avversari di origine albanese, e un carcerato è finito pure in Ospedale. "Si è trattato di un vero e proprio scontro tra bande, con nordafricani da una parte e stranieri dell'est dall'altra. Episodi simili si sono verificati nelle scorse settimane anche a Bergamo e Cremona, oltre che a marzo nello stesso carcere di Brescia. Esprimo solidarietà agli agenti e alla direttrice della casa circondariale, che stanno lavorando sotto organico e con un numero di detenuti superiore al massimo consentito. Invito il Governo a risolvere presto la questione". Roma: Fns-Cisl; anche nel carcere di Velletri istituita una sezione per la salute mentale di Concetta Maria Suriana lanotiziaoggi.it, 3 luglio 2015 Massimo Costantino, Segretario Generale Aggiunto della Federazione Nazionale Sicurezza della Cisl Lazio ha reso noto che tramite Decreto del Ministero della Giustizia, sono state istituite le sezioni di "Articolazione per la tutela della salute mentale in carcere" nelle sedi degli Istituti Penitenziari di Roma-Regina Coeli, Velletri, Civitavecchia e Viterbo. Queste sezioni andranno a sostituire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), prossimi alla chiusura, in modo tale da garantire ai detenuti affetti da infermità mentale assistenza e cure adeguate. Scopo delle sezioni sarà quello di accertamento ed accoglienza dei detenuti con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione e dei detenuti condannati a pena diminutiva per vizio parziale di mente. La Fns Cisl Lazio si auspica che le Asl competenti predispongano i necessari presidi psichiatrici dove sia garantito un numero adeguato di operatori sanitari per i detenuti sottoposti ad osservazione psichiatrica. Milano: "Le ali della Libertà", all'Expo il primo aereo al mondo costruito in carcere La Repubblica, 3 luglio 2015 Non per volare via, ma per riabilitare. Lo si potrà vedere al Padiglione Kip International School domenica 12 Luglio dalle 17 alle 19. È stato appena costruito il primo aereo (un biposto) realizzato interamente da detenuti del carcere a custodia attenuata del comune di Lauro, in provincia di Avellino. A promuovere questa iniziativa è la Rete per l'economia sociale internazionale, nell'ambito del progetto "Le ali della Libertà", finanziato dalla Regione Campania. Si tratta di un biposto a doppi comandi, chiamato Social Flight One, costruito grazie all'ingegno di artigiani, tecnici, e con la collaborazione dei detenuti titolari di regolari borse lavoro. Alta qualità e costi accessibili. È stato progettato in modo da assicurare alte prestazioni, ottime qualità di volo e buona visibilità, facilità di costruzione ad un costo accessibile. La struttura principale utilizza il legno, materiale facilmente lavorabile ed economico, oltre a elementi in acciaio per il collegamento delle strutture e i carrelli. Ora l'aeroplano, abitualmente ospitato nell'aeroporto di Benevento, è pronto a fare vigilanza sui territori contro gli incendi e contro lo sversamento illegale dei rifiuti. Ma può portare anche un disabile a guardare dall'alto Pompei o Capri. Nuovi scenari sul lavoro in carcere. Questa esperienza apre un nuovo scenario sul lavoro in carcere, facendo cadere i due pregiudizi più comuni. Il lavoro in carcere, infatti, riguarda generalmente lavori squalificati e squalificanti, compiti ripetitivi senza motivazione creativa. Inoltre costituisce, spesso, una condizione di sfruttamento del lavoro delle persone recluse. Questa volta, invece, il Progetto Le ali della libertà ha promosso un'attività di alta qualità professionale ed umana, con una tale attrazione utopica da cambiare radicalmente la qualità della vita e della motivazione delle persone in carcere fin dai primi gruppi di formazione promossi per realizzarla. Nuove strade per lo sviluppo. L'iniziativa si svolge nell'ambito della settimana organizzata da Res Int (dal 6 al 12 luglio) dedicata al rapporto - da sempre strettissimo - fra cibo, inclusione sociale, economia sociale. Da quando, negli anni 80, furono chiusi i manicomi, fino alle esperienze degli ultimi anni sui beni confiscati alla criminalità organizzata, il non profit ha sperimentato nuove strade per lo sviluppo sia economico che sociale dei territori. I prodotti, le storie, i processi sociali (modelli di economia sociale) nati da queste esperienze arrivano ora a Expo 2015. Economia sociale la via per l'inclusione. Res Int è la rete per l'economia sociale internazionale che raccoglie realtà italiane convinte che l'economia sociale sia la via principale per ricostruire un tessuto sociale inclusivo, più equo e in grado di produrre una rinascita economica sostenibile. Ha l'obiettivo di incentivare - attraverso l'innovazione e il sostegno alle potenzialità e capacità inesplorate dei territori, delle comunità e delle persone - un cambiamento socio economico strutturale, fondato su criteri di responsabilità ambientale, sociale e di contrasto alle diseguaglianze. Milano: l'arte apre le sbarre, a Bollate i detenuti nell'action painting di Jackson Pollock di Maria Rosa Pavia Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2015 Il cellophane avvolge tutte le pareti della stanza, tranne una. Sul pavimento preservato dalla pellicola sono poggiate 24 latte di vernice. Il via. Pennelli tuffati nel colore, le tinte scagliate, la vernice che gocciola sulla parete. Con forza, allegria, rabbia. La parete non è più bianca. Siamo all'interno del Carcere di Bollate, in provincia di Milano, e i detenuti giocano, e si sfogano, imitando la tecnica dell'action painting di Jackson Pollock. È questa una delle attività ricreative portate avanti dai volontari del "Centro Coscienza" che, con questo progetto, termina la collaborazione all'interno della struttura di detenzione. Attraverso l'arte astratta, il melodramma e la fotografia, i detenuti hanno scoperto parti di sé inedite, mai esplorate. I detenuti hanno realizzato quattro murales nelle aree relax e ciascuna rielabora l'opera di un pittore astratto, come ci spiega il volontario Marcello Princigalli: "Ho scelto di provare ad avvicinarli all'arte astratta, non immediata come quella figurativa. Gli artisti "ospitati" nelle pareti sono Pollock, Mondrian, Matisse e Mirò. In particolare attraverso Mirò, abbiamo riflettuto sulla sensazione trasmessa dal colore blu. Alla fine si sono aperti alla comprensione di qualcosa di più della percezione del disegno come contorni e proporzione. È stato un percorso di crescita". Marcello vorrebbe riproporre quest'iniziativa: "È stata un'esperienza formativa anche per me. Uno scambio umano dove l'arte ha fatto da perno". Non ha paura di usare un linguaggio colorito un altro volontario: "Se scopri qualcosa di bello, lo metti a servizio degli altri sennò sei un pirla". È Giovanni Silva che, per i detenuti, organizza dei momenti di riflessione che prendono spunto dal melodramma. "Sono un appassionato di musica - dice Giovanni - Da giovane facevo il baritono e la musica mi ha salvato dalla possibilità di fare qualche errore di cui avrei potuto pentirmi. Facile, quando si è giovani, finire sulla cattiva strada se non si hanno modelli solidi". Il suo punto di riferimento è il compositore Giuseppe Verdi perché dice: "La sua biografia testimonia una grande forza. Gli morirono moglie e figli quand'era molto giovane e ha saputo reagire grazie alla sua arte". Gli incontri, di una volta a settimana, che Giovanni organizza per i detenuti si compongono di un momento di ascolto di un'aria tratta da un melodramma a cui segue una discussione su ciò che ha trasmesso. Giovanni spiega: "Anche quando un brano non piace, spingo i detenuti a chiedersi il perché. La musica muove sentimenti che sono all'interno della persona, riconoscendoli se ne diventa coscienti. L'ascolto unito a una riflessione consente di conoscere sé stessi e guida all'introspezione". Il viaggio tramite l'osservazione di sé i detenuti lo hanno affrontato anche con il corso di fotografia. Mariagrazia Pumo e Rodolfo Tradardi, sono i due coniugi che hanno seguito questo progetto. Non a caso il primo soggetto su cui i detenuti si sono concentrati era proprio la loro persona: "All'inizio si fotografavano soprattutto tra loro. Poi li abbiamo guidati assegnandoli dei compiti specifici come le mani, le sbarre, le ombre. C'è stata un'evoluzione anche tecnica, all'inizio gli scatti erano confusi, adesso le immagini sono di alta qualità". Tanto che sono state già organizzate due mostre, una a Milano e una a Bergamo, dai titoli "Riscatti" e "Riscatti 2". Alle esposizioni sono stati presenti anche i detenuti, nel primo caso coloro che avevano il permesso, nel secondo tutti i partecipanti al corso accompagnati dalla scorta. Alghero: a Villa Gioiosa un archivio storico dell'ex colonia penale di Tramariglio di Gian Mario Sias La Nuova Sardegna, 3 luglio 2015 Diventerà un museo a cielo aperto della memoria carceraria. L'esperienza di Tramariglio estesa all'Asinara e a Castiadas. Il passato è una seconda possibilità. È così per villa Gioiosa, che oggi è la bellissima sede istituzionale del Parco di Porto Conte ma che un tempo è stata una colonia penale. Ed è così per i dieci tecnici che da oggi recupereranno la memoria di quel luogo, la catalogheranno, l'archivieranno e la renderanno disponibile per tutti. Oggi fanno gli archivisti, hanno imparato quel mestiere alternandosi tra la teoria, grazie alla collaborazione tra Archivio di Stato e Parco di Porto Conte, e la pratica, passando i mesi a scartabellare montagne di documenti abbandonati nelle cantine del vecchio carcere sassarese di San Sebastiano. In passato hanno sbagliato, e stanno pagando il loro conto con la giustizia. Sono detenuti: metà di loro sta a Bancali, l'altra metà ad Alghero. Sono i protagonisti del progetto varato dal Parco e finanziato dalla Regione con i fondi Por-Fesr. Grazie a quei soldi oggi riprende l'attività di digitalizzazione degli archivi storici della colonia penale di Tramariglio. Un progetto che il Parco aveva avviato due anni fa con mezzi propri e che coi soldi stanziati da Cagliari sarà completato ed esteso alle colonie penali dell'Asinara e di Castiadas. Arriveranno 836mila euro, daranno una possibilità di lavoro e di riabilitazione a dieci persone che vogliono chiudere i conti col proprio passato dedicandosi a quello di una struttura che, al contrario, si immagina come "un museo a cielo aperto della memoria e della storia umana carceraria", come Giovanni Antonio Farris, presidente del Parco di Porto Conte, definisce villa Gioiosa. Sino al 2012 il vecchio archivio dell'ex colonia penale di Tramariglio giaceva abbandonato e in condizioni di forte degrado negli scantinati di San Sebastiano. Nel luglio 2013, con l'inaugurazione dell'area museale dedicata all'agente di custodia Giuseppe Tomasiello, si poté dire completato il lavoro di 6 detenuti in regime di articolo 21: dopo 50 anni rividero la luce 3.958 fascicoli, 12.382 carte sciolte, 100 metri lineari e 750 chili di documenti. Da lì l'idea di allestire a casa Gioiosa un moderno centro di documentazione e consultazione, ma anche allestimenti multimediali con ricostruzioni tridimensionali della vita della colonia penale. "Il valore di questo progetto sta nella possibilità di riscatto che forniamo a dieci detenuti", conferma Giovanni Antonio Farris; "Sono loro i principali testimonial di quel che il Parco vuole essere, senza dimenticare la propria identità", fa eco il direttore di villa Gioiosa, Vittorio Gazzale. Al loro pensiero si allinea anche il Comune di Alghero. "Questo progetto concede alle persone coinvolte un'opportunità di riscatto attraverso la creazione di relazioni nuove e il confronto con i volti e le storie del passato", dice il vicesindaco, Raimondo Cacciotto. Al di là dei risvolti sociali, per il Parco il progetto ha un potenziale ritorno economico. "Restituire alla comunità la propria memoria storica rappresenta una chance in più sul piano promozionale e turistico - conclude Farris - per il Parco è importante essere l'espressione di tutto ciò che di eccellente il territorio esprime, a iniziare dalle vicende umane". Comune di Roma, ti denuncio per discriminazione razziale a danno del popolo Rom di Marco Pannella Il Garantista, 3 luglio 2015 Il leader radicale il 17 giugno si è rivolto al procuratore della Repubblica e ha presentato formale denuncia contro il Comune di Roma. Il 17 giugno Marco Pannella si è presentato alla Procura della Repubblica di Roma e ha depositato un formale atto di denuncia contro il Comune per il modo nel quale tratta il popolo Rom residente nel suo territorio e per la dissennatezza della politica, costosissima, degli sgomberi. Si tratta di un documento di nove cartelle che documenta con dovizia di particolari tutte le azioni e gli atti illegali che a partire dal 1994 sono stati compiuti a danno del popolo Rom e anche dei cittadini romani che hanno pagato soldi inutili per sgomberi inutili e crudeli. Palmella, tra l'altro, cita una sentenza emessa dal tribunale civile di Roma, il 30 maggio, a proposito del cosiddetto "campo attrezzato" della Barbuta, che viene dichiarato non idoneo a ospitare mi insediamento umano. Nell'ordinanza del giudice civile si ipotizza il reato di "discriminazione indiretta". On Sig. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, il sottoscritto Giacinto Marco Pannella, nato a Teramo il 2 maggio 1930 ed selettivamente domiciliato in Teramo presso lo studio dell'avv. Vincenzo di Nanna, espone quanto segue. La decisione di accogliere e concentrare i cittadini d'etnia rom in quei luoghi di segregazione spaziale, abitativa e sociale, denominati "villaggi di solidarietà", nasce nel 1994, come soluzione "provvisoria" assunta con ordinanze del Sindaco di Roma, nella forma dei provvedimenti "contingibili e urgenti" e con l'obiettivo, mai realizzato, di programmare una graduale serie d'interventi finalizzati a dare dignitosa e civile accoglienza ai nuclei di Rom e Sinti aventi i requisiti di legge e di cui si è accertata la presenza nel territorio comunale. Il Comune di Roma, tuttavia, non solo ha fallito tale obiettivo, ma, addirittura, ha condotto una politica marcatamente discriminatoria, alimentata da un sistema di malaffare, che sembra aver tratto rilevante profitto proprio dal mantenimento, a tempo indeterminato, del "sistema dei Campi", i cui elevatissimi costi pubblici potrebbero giustificarsi solo in una situazione realmente transitoria e non certo protratta per ben venti anni. (...). Il carattere palesemente discriminatorio della catastrofica gestione dei campi rom da parte di Roma Capitale, è stato peraltro accertato e formalmente riconosciuto, con ordinanza emessa dal Tribunale civile di Roma il 30 maggio 2015 (proc. N. 17035/2012 R.G.A.C.), in relazione alla specifica fattispecie dell'assegnazione di alloggi nel "campo attrezzato" della "Barbuta". Il Giudice del Tribunale di Roma, in effetti, all'esito di un'amplia e articolata istruttoria, dopo aver operato un'esauriente esposizione del quadro normativo vigente, ha accertato che detto "campo attrezzato" risulta: 1) non idoneo a ospitare un insediamento umano per incompatibilità con il d.lgs. n. 96/05 e D.M. 20 aprile 2006, perché posto a ridosso dell'aeroporto di Ciampino; 2) ubicato in ara periferica del Comune di Roma caratterizzata da strutturale mancanza della rete di servizi necessaria e propria delle aree destinate all'espansione urbanistica quale conseguenza inevitabile dell'originaria e non mutata destinazione a "verde pubblico" della zona; 3) realizzato con moduli abitativi rappresentati da prefabbricati di circa 30 mq, conformi alla normativa tecnica(...) e tuttavia destinati ad ospitare estesi nuclei familiari; 4) gestito in maniera da produrre rilevanti limitazioni persino alla libertà personale e riservatezza degli "ospitati", derivanti dal rigido regolamento del campo "Villaggio della solidarietà", che comprime, in maniera inaccettabile, modalità e orari di visite. Il Magistrato giunge persino ad affermare una compromissione e "Ridimensionamento" della "natura realmente libera della permanenza". Definisce "condizionata" la volontarietà dell'accettazione degli "alloggi" del campo autorizzato da parte di chi viene sgomberato dai campi non autorizzati ovvero abusivi, atteso che... la soluzione offerta, e quanto meno statisticamente prevalente, in quanto a monte predeterminata, non risulta essere altra che quella del campo autorizzato. (...) Un trattamento che, come si legge nel testo dell'ordinanza, appare riconducibile alla fattispecie della "discriminazione indiretta" ex art. 2 comma 1 lett. B) del d.lgs. n. 215/03. (...). L'accertata e dichiarata condotta di palese discriminazione razziale, protratta, si ripete, per quasi 20 anni, ben potrebbe allora assumere i connotati marcatamente dolosi della "premeditazione" e quindi integrare gli estremi del grave delitto di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, previsto e punito dall'art. 3 della legge del 13 ottobre 1975 n. 654, così come modificato dalla Legge n. 205 del 25 giugno 1993. Ma, come spesso accade, al malaffare delle speculazioni, si accompagna l'utile "diversivo" della propaganda razzista, come dimostrato dai numerosi (e costosi) esempi di "sfratti mediatici", posti in essere dall'Amministrazione Comunale, in maniera spettacolare e violenta, per così alimentare, se non creare, un sentimento d'odio. Accade allora che i nomadi "fuggiti" dai ghetti "autorizzati" siano raggiunti dalle ruspe che, con autentico furore, distruggono persino i pochi e miseri beni personali. Un'importante prova del peculiare funzionamento del "sistema" campi rom, utile per l'accertamento del grave delitto di discriminazione razziale, è rappresentata dal film "Dragan aveva ragione", un documentario-denunzia girato dai militanti radicali Giovanni Carbotti e Camillo Maffia all'interno dei campi rom nel periodo di agosto-novembre 2013, la cui visione pone in rilievo ulteriori fatti di chiara rilevanza penale. Il film (parte I, 40:51 - 51:51), in particolare, ritrae la cruda scena dello sgombero (distruzione) di un campo "non autorizzato" sito in via Salviati, quartiere Tor Sapienza, eseguito il 12 settembre 2013 (ordinanza a firma del Sindaco di Roma del 5 agosto 2013, n. 184, prot. N. 13159), in danno di alcuni rom d'origine serba, fuggiti da quello "autorizzato" di Castel Romano e immortala l'opera gratuitamente distruttiva delle ruspe, messe in azione in una zona neppur evacuata, tanto che si vedono bambini a brevissima distanza. (...) Ma non è finita. Il 19 settembre i rom non ancora "ricollocati" e accampati nei pressi del campo distrutto dalle ruspe, saranno sorpresi da un violento "raid" della polizia municipale, guidati dal vice comandante Antonio Di Maggio, per essere allontanati. (vd. Parte II, 7:59 - 11:59). Gli autori del film hanno peraltro ripreso, non solo la descritta scena di cruda e gratuita violenza delle operazioni di sgombero, ma anche un incendio di probabile matrice dolosa, raccolto testimonianze di violenze subite da donne e bambini, fotografato un contesto d'inaudito degrado sociale, descritto un ambiente gravemente inquinato, quale il campo "autorizzato" di via Salone, ove, tra le emissioni della fabbrica chimica "Basf" e quelle del deposito g.p.l., dei bambini giocano nei pressi di una discarica abusiva. Esposti dunque i fatti, con il presente atto propone formale Denunzia Per il delitto di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, previsto e punito dall'art. 3 della legge del 13 ottobre 1975 n. 654, così come modificato dalla Legge n. 205 del 25 giugno 1993 e per tutti i reati che si riterranno configurabili nei fatti narrati e documentati dal film "Dragan aveva ragione". "Voglio essere arrestata", Rita Bernardini insiste con la cannabis ma non l'arresta nessuno di Filippo Ceccarelli Venerdì di Repubblica, 3 luglio 2015 Tra qualche giorno ricorre il ventennale del primo arresto di Rita Bernardini per aver distribuito cannabis, la domenica mattina al mercato di Porta Portese. Disobbedienza civile, si chiamava, e si chiama ancora, anche se in (troppo) pochi ormai la praticano, comunque un'azione volta ad ottenere clamore e sostegno a favore della legalizzazione delle droghe leggere - di cui nel frattempo si sono approfondite le proprietà benefiche in caso di tumori, Sla, sclerosi multipla, glaucoma, morbo di Parkinson e di Crohn. Ora, se gli anniversari hanno un senso, e tendono a riproporlo con il vantaggio supplementare della coerenza, beh, la cosa buffa e drammatica è che da allora Rita ha seguitato a fare di tutto per farsi di nuovo arrestare con lo stesso capo d'accusa. Perciò si è data alla coltivazione dì cannabis, sul terrazzo di casa sua, diventando ormai espertissima, ma soprattutto documentando la semina, il passaggio in vaso, la nascita delle prime foglioline, le variazioni e anche i divertimenti - per esempio l'installazione di uno spaventapasseri con il volto del proibizionista Giovanardi - che le procura questa sua ludica, polemica e anche civica operosità. Tutto Rita fotografa e tutto quindi pubblica sulla sua pagina di Facebook, in tal modo trasformatasi nella più pacifica, verde e rigogliosa autodenuncia illustrata della storia repubblicana. Ma forse è anche per questo che in prigione la segretaria di Radicali italiani non ci finisce mai. Invano ha fatto girare video di lei che concima, invano ha chiamato Pannella in correità, e perfino suggerito ad altri, arrestati in flagrante coltivazione, di dichiarare di aver seminato su sua ispirazione. Ma niente - il che francamente è talmente sospetto da risultare ingiusto. In una foto Rita abbraccia lieta un vaso con due piantine. Sul contenitore ha appeso l'immagine di altre, sempre sue. In tutto 56. Era il 18 maggio scorso quando la Squadra mobile è venuta a sequestrargliele. Per la quarta volta in due anni. Ancora un raccolto inutile. Ancora una faccenda lasciata nella palude legislativa italiana. Stati Uniti: nel 2015 la polizia ha ucciso 463 persone, in 10 anni solo 12 agenti condannati da Nessuno tocchi Caino Il Garantista, 3 luglio 2015 Secondo il Washington Post dall'inizio dell'anno 463 sono state uccise dalla polizia, compresi 11 minorenni. La testata ha allestito una pagina internet che elenca tutte le vittime e fornisce alcune informazioni dì base, come, il nome, la razza, l'età, una breve descrizione del fatto, se era armato o no, se in passato aveva avuto segnalazioni di disturbo mentale, e poi aggiunge i link alle varie fonti delle notizie. I dati sono ricavati da una esaustiva rassegna stampa, e dalla collaborazione con due organizzazioni no-profit ("Fatal Encounters" e "Killed by Police") che da due anni hanno iniziato a tracciare le "vittime della polizia", che secondo loro, negli ultimi 10 anni, sono state circa 1.100 ogni anno. Le notizie di stampa vengono poi verificate e integrate utilizzando le leggi sull'accesso agli atti. Mentre la semplice "lista dei morti" viene aggiornata in tempo reale, nell'arco di qualche giorno ì media possono richiedere alla polizia i verbali completi del fatto, e quando disponibili, i video delle telecamere di sorveglianza che hanno ripreso la scena. Per legge, la polizia deve fornire tutti questi elementi ai media, e i media sono liberi di pubblicare. Il sito del Washington Posi non lo fa, ma "Fatai Encounters" e "Killed by Police" stanno cercando di completare le schede di ogni episodio aggiungendo anche il nome dei poliziotti coinvolti. I siti chiedono poi la collaborazione dei cittadini, con eventuali altre notizie, foto e video. La lista del Washington Post include solo le persone uccise a colpi di arma da fuoco da poliziotti in servizio. La lista non include persone uccise da poliziotti fuori servizio, persone uccise mentre erano in stato di arresto, o persone non uccise da colpi di arma da fuoco. Le persone uccise dal 1° gennaio erano: 439 maschi, 23 femmine; 387 avevano un'arma (pistola o coltello), 17 avevano un'arma giocattolo, 51 erano disarmate, e in 7 casi la definizione è "sconosciuto". Quanto alla razza, 228 persone erano bianche, 121 nere, 78 ispaniche, 7 asiatiche, e 28 "sconosciuto". 124 vittime avevano precedenti di malattia mentale, 338 non ne avevano o non si sa. Le vittime sono poi divise per fascia di età. 11 vittime avevano meno di 18 anni. Tra di loro, 3 ragazze di 17 anni, e un ragazzo di 15 anni. Il sito mette il link al video delle telecamere di sorveglianza nell'atrio di un commissariato in Texas, dove è entrata Kristiana Coignard, 17 anni, bianca, dicendo di essere armata. Tre poliziotti le sparano, salvo poi scoprire che la ragazzina aveva solo un piccolo coltello. La scheda della ragazza viene completata con la notizia che all'età di 12 anni le erano stati diagnosticati problemi mentali, e che prendeva tarmaci per la depressione. Due recenti articoli del New York Times e del Washington Post hanno dato per "molto attendibile" la cifre dei 1.100 morti l'anno, ed hanno fatto un ulteriore calcolo: dal 2005 ad oggi, solo 54 poliziotti in tutti gli Stati Uniti sono stati rinviati a giudizio per omicidio, e solo 12 condannati. La pena media è stata di 4 anni. Medio Oriente: ad Hebron in sei mesi le forze israeliane hanno arrestato 550 palestinesi infopal.it, 3 luglio 2015 Giovedì, la filiale di Hebron della Società per i Prigionieri Palestinesi (Pps) ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato 550 palestinesi del distretto di Hebron nella Cisgiordania occupata, dall'inizio del 2015. Il gruppo di detenuti include sette donne e 105 bambini, secondo quando dichiarato a Màan dal capo della filiale di Hebron, Amjad Najjar, aggiungendo che 225 detenuti sono stati condannati senza processo, attraverso l'uso della detenzione amministrativa usata frequentemente da Israele. Tra i detenuti, d'accordo con Najjar, ci sono 78 pazienti che "affrontano una grave minaccia contro le loro vite come risultato della detenzione" poiché non ricevono "alcun tipo di trattamento medico" sotto custodia israeliana. Najjar ha evidenziato la regolare umiliazione alla quale i detenuti palestinesi sono sottoposti dalle forze israeliane, che minacciano loro in una "maniera selvaggia e disumana durante la detenzione". Il rapporto del PPS arriva mentre i gruppi per i diritti umani affermano che Israele arresta in modo indiscriminato i palestinesi che vivono nella Cisgiordania, senza avere sufficienti prove. Molti di quelli arrestati nel distretto di Hebron dall'inizio del 2015 erano provenienti dalla città di Beit Ummar, dove oltre 60 residenti sono stati arrestati tra gennaio e marzo, dei quali la metà circa era di minorenni. Quando lo scorso mese è stato domandato il motivo dell'arresto di un quindicenne residente nella città, un portavoce dell'esercito israeliano ha dichiarato a Màan che "la ragione è quella di qualsiasi altro arresto, attività illegale o violenza contro i civili, o coinvolgimento nel terrorismo". Il distretto di Hebron è stato duramente colpito dalla forze israeliane durante una campagna di arresti dell'estate scorsa, conosciuta come Operazione "Brother's Keeper", che presumibilmente sarebbe stata effettuata per salvare tre giovani coloni scomparsi a giugno, che ha portato centinaia di palestinesi ad essere incarcerati, inclusi membri del Consiglio Legislativo Palestinese affiliati ad Hamas. Egitto: prigionieri del regime di al-Sisi di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 3 luglio 2015 Sono passati due anni sanguinosi dopo il terribile golpe del 3 luglio 2013, che abbiamo raccontato su queste pagine dai sit-in islamisti di tutto il paese. Ma l'Egitto di al-Sisi non si è stabilizzato. Altro che i diritti gridati in piazza Tahrir nel 2011. Il paese si è trasformato nella culla del sospetto e della repressione dei movimenti giovanili ma anche nel centro di un conflitto contro jihadisti e islamisti moderati che ha effetti in tutta la regione. I morti della guerra nel Sinai sono forse 170 tra civili, soldati, poliziotti e jihadisti soltanto nei combattimenti di mercoledì. Un vero attacco allo Stato che ha prodotto già nuove leggi anti-terrorismo, processi per direttissima e potrebbe avvicinare il giorno dell'esecuzione di Morsi e dei leader della Fratellanza. Sono stati ben 15 i sofisticati attacchi simultanei a due passi dalla Striscia di Gaza mentre i droni israeliani sorvolavano la zona. A Sheikh Zuweid ieri c'erano scene di distruzione, degne di Siria e Iraq, con jihadisti ancora asserragliati in alcuni palazzi, tanto che l'esercito egiziano ha assicurato che accetterà anche incursioni israeliane se la guerra dovesse andare avanti. E almeno 22 sono i jihadisti uccisi solo ieri in un raid condotto dall'aviazione del Cairo su Rafah. La vigilia dell'anniversario è stata così segnata da una notte intera di manifestazioni e scontri in molti quartieri del Cairo. Secondo fonti della Fratellanza, a Ein Shams i poliziotti hanno lanciato gas lacrimogeni all'interno e vicino a celle di detenuti. Questo avrebbe potuto provocare il loro soffocamento. Ma gli abitanti della zona sono intervenuti giusto in tempo per bloccare l'attacco. Tragici sono stati poi i funerali dei dieci politici della Fratellanza uccisi mentre tenevano una riunione in un appartamento della città satellite di 6 Ottobre. Il medico legale ha riscontrato segni di tortura e fratture multiple, inchiostro da impronte digitali sulle dita. Questo significa che gli uomini sono stati arrestati, poi identificati, per essere quindi torturati e uccisi a sangue freddo. Non ci sono infatti segni di sparatorie sebbene le autorità egiziane li abbiano accusati di resistenza all'arresto. Questo attentato potrebbe segnare il ritorno della Fratellanza alle contestazioni. "Il criminale Abdel Fattah al-Sisi sta preparando le basi per una nuova fase dove non sarà possibile controllare la rabbia degli oppressi", si legge in un duro comunicato del principale partito di opposizione, ora fuori legge. Questo è il paese del generale che ha visitato mezza Europa e presto sbarcherà in Gran Bretagna, salutato come il salvatore della pace in Medio oriente. Ma invece dietro la maschera si nasconde l'uomo che più ha esasperato il conflitto sociale e politico dopo la fine dell'occupazione inglese in Egitto. Ha trasformato il Medio oriente in una regione in guerra tra Stato e islamismo politico come sinonimo di terrorismo, ha reso impossibile l'ingresso nell'arena politica (non parliamo di elezioni parlamentari che in Egitto non si svolgono da tre anni) dei movimenti giovanili e dei partiti islamisti, eccetto i suoi solidi alleati salafiti. Mai dimenticheremo i volti dei giovani che in poche ore, forse quasi in 2 mila, sono morti o spariti dopo lo sgombero di Rabaa, le sparatorie fuori alla moschea al-Fatah, la repressione durissima dei movimenti studenteschi, la morte dell'attivista comunista Shaimaa al-Sabbagh mentre portava una rosa in piazza Tahrir. Tutto questo (insieme all'immagine di Mahiennour el-Masry ancora dietro le sbarre) ci fa credere che la rivoluzione non sia finita o forse non ci sia ancora stata in un paese che deve guidare il Medio oriente verso il cambiamento ma è invece prigioniero di un regime militare aggressivo, delle lotte di potere tra militari e polizia, della guerra tra giudici, il centro dei servizi deviati e collusi con l'islamismo radicale.