Giustizia: meno detenuti, stessi problemi di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 31 luglio 2015 Il Rapporto di Antigone: 52 mila detenuti, 16 mila in meno rispetto al 2014. Ma è ancora alto il ricorso alla carcerazione preventiva. E negli istituti mancano gli operatori sociali. Era il luglio del 2010 quando l'Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani per il trattamento disumano riservato al signor Soulemanovic che viveva in meno di tre metri quadri nel carcere romano di Rebibbia. A quel tempo i detenuti avevano raggiunto il numero record di 68.258 unità. Il tasso di sovraffollamento raggiungeva i vertici nella classifica europea. Un primato vergognoso. Alla prima sentenza ne seguì una seconda questa volta ben più significativa per gli effetti avuti sul sistema penitenziario italiano. Nel caso Torreggiani la Corte di Strasburgo non si limitò a condannare l'Italia che costringeva i ricorrenti a vivere in spazi minimi e insani ma chiese al nostro Paese di mettere in moto un meccanismo di riforme per uscire dalla melma in cui era finito. Questa volta l'Italia non ha messo la testa sotto la sabbia né ha fatto come il governo Cameron che ha minacciato di uscire dal sistema di controllo giurisdizionale europeo nel nome della propria sovranità punitiva. L'Italia ha cambiato alcune norme in materia di arresto obbligatorio, custodia cautelare, misure alternative alla detenzione. In parte è stata abrogata la legge Cirielli sulla recidiva. È stata introdotta la messa alla prova. Il processo di deflazione è stato aiutato dalla Corte Costituzionale che ha abrogato buona parte della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Così al 30 luglio del 2015 i detenuti sono scesi di ben 16 mila unità rispetto a cinque anni prima. Oggi infatti sono poco più di 52 mila. L'Italia aveva anche il triste record di percentuali enormi di detenuti in carcere in custodia cautelare. Erano il 43,4% nel 2010. Oggi sono il 33,8% del totale della popolazione detenuta. Il dato però continua a essere sopra la media europea. Tutti gli operatori della giustizia devono abituarsi all'idea che la custodia cautelare non deve rincorrere i tempi infiniti del processo penale. Anche gli stranieri sono in calo. Sono oggi il 32,6% del totale. Erano il 36,58% nel 2010 prima che la Corte di giustizia de l'Aja ci imponesse di disapplicare il reato di inottemperanza all'obbligo di espulsione del questore. Per questa fattispecie di reato presente nella famigerata Bossi-Fini entravano in carcere circa 15 mila detenuti l'anno. Ancora troppo pochi sono invece i detenuti in misura alternativa. Non c'è stata un'inversione di tendenza. Sono poco più di 30 mila, una parte dei quali in detenzione domiciliare ovvero la misura che più somiglia a quella carceraria e meno lontana da progetti di recupero sociale. Si consideri inoltre che ben 19.130 detenuti devono scontare meno di tre anni di pena e potrebbero dunque accedere a una misura alternativa alla detenzione; invece sono in carcere, sia a causa di preclusioni di legge che per attitudine di parte della magistratura di sorveglianza. Troppi e in crescita gli ergastolani che hanno raggiunto il numero di 1.603 alla faccia di chi dice che in Italia la pena dell'ergastolo non esiste. 18.312 sono i detenuti reclusi per avere commesso reati in violazione della legge sulle droghe. Alcune migliaia di tossicodipendenti sono a loro volta dentro per reati contro il patrimonio commessi per procurarsi la droga. Tutto si risolverebbe con la legalizzazione. Se questo è il quadro dei numeri qual è la conseguenza sulla vita concreta delle persone in carcere? Lo stare più larghi sicuramente ha migliorato la qualità della vita in alcuni istituti, però non dappertutto e non per tutti. Ci sono carceri dove ancora si sta male, molto male. Carceri dove ancora si vive nell'ozio forzato, dove i parenti sono costretti a fare la fila dalle 4 di mattina per andare a colloquio, dove manca l'attenzione minima per i nuovi giunti ovvero i soggetti più a rischio di suicidio, dove si abusa dell'isolamento, dove regna l'arbitrio, dove la salute è totalmente negata, dove manca l'acqua d'estate e l'acqua calda d'inverno. Il calo dei numeri deve essere l'occasione per spendere bene i tanti soldi che il nostro Stato mette a disposizione del sistema penitenziario. L'Italia è il paese tra quelli della Ue che in percentuale ha più operatori di polizia penitenziaria. Ma è anche il Paese con un numero insufficiente di operatori sociali oggi quanto meno essenziali per far decollare il sistema della probation che non può vivere di sole norme. Sono in corso gli Stati generali sulla pena, un'intuizione ministeriale importante e innovativa per discutere di riforme dell'ordinamento penitenziario, proprio ora che la Commissione giustizia ha approvato il disegno di legge delega del governo. Antigone ha presentato un lungo elenco di proposte, ben venti tutte tese a cambiare la filosofia della pena ispirandola a principi quali la dignità umana e la responsabilità. Proposte che si chiudono con la previsione delle liste di attesa, ovvero la previsione di un divieto di carcerazione qualora manchi in carcere lo spazio vitale. La dignità umana vale di più del potere di punire dello Stato. Rispetto a questo quadro è in controtendenza culturale e politica la norma anch'essa approvata in commissione Giustizia della Camera che prevede un aumento dei minimi edittali per taluni reati contro il patrimonio. Ciò di cui il sistema ha bisogno è invece una spinta verso un diritto penale minimo, che come ha spiegato al mondo intero Luigi Ferrajoli, minimizzi l'impatto violento dei reati e delle pene. Barack Obama ha preannunciato una riforma della giustizia penale nel segno di una maggiore mitezza visti i 2 milioni di detenuti presenti nelle carceri statunitensi. Ha voluto dare all'opinione pubblica e alle forze dell'ordine un segnale di tranquillizzazione sociale e non di invece di durezza e intolleranza. Ha graziato 46 detenuti condannati per reati non di sangue. Ha visitato un carcere, primo presidente Usa a farlo. Dunque il governo italiano ha finanche l'avallo Usa per abbandonare le politiche pericolose, disumane e oramai superate di tolleranza zero. Giustizia: da "Antigone" venti punti per la riforma dell'ordinamento penitenziario Adnkronos, 31 luglio 2015 Dal diritto alla sessualità al diritto di non essere etichettati a vita, le condizioni dei detenuti nei nostri istituti di pena possono cambiare. È quanto auspica Antigone, che oggi a Roma ha presentato un documento in 20 punti per la discussione che si sta svolgendo nell'ambito degli Stati Generali dell'Esecuzione Penale, organizzati dal ministero della Giustizia. Le proposte sono state formulate al termine delle visite dei volontari dell'associazione in circa 40 carceri italiane. "Nei giorni scorsi - spiega Antigone - la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha approvato i contenuti della legge delega di riforma del sistema penale, processuale e penitenziario. Tra le norme approvate, meritano menzione essendo coincidenti con proposte di Antigone: più diritti agli stranieri, norme per i minorenni ispirate a principi esclusivamente educativi. Inoltre è previsto che vi sia più spazio per le misure alternative, il lavoro penitenziario. Finalmente è prevista che sia disciplinata la sessualità in carcere". "In negativo - aggiunge Antigone - è stata approvata la norma che amplia le pene per taluni reati contro il patrimonio e che costituisce un errore nonché un ritorno all'indietro rispetto agli ultimi anni ricchi di importanti riforme". Il documento di Antigone parla anzitutto di dignità, responsabilità e normalità. Qualcosa è cambiato ma non in modo uniforme: in molte carceri oggi i detenuti trascorrono 8 ore fuori della cella "in occupazioni dotate di senso" ma questa "importante novità rispetto al passato" non avviene applicata ovunque. Il sovraffollamento è fortemente diminuito ma "permangono situazioni ancora difficili" come a Pozzuoli, una delle carceri femminili più grandi del paese, o a Salerno, dove il tasso di affollamento è ancora superiore al 150%. "In molti istituti - denuncia ancora Antigone - mancano beni essenziali come ad esempio, a Tempio Pausania, l'acqua corrente potabile, o il vitto, che a Frosinone, a detta dei detenuti, non è sufficiente". "La dignità in carcere dipende anche da quanto il territorio investe", sottolinea Antigone. A fronte di un "carcere aperto" come Pesaro, in quello di Isernia le attività svolte dai detenuti "sono del tutto convenzionali - canto, lavori di cera - poco utili per prospettive di reinserimento sociale". Al contrario nel carcere di Larino, i detenuti, pennello in mano, hanno dato nuovo colore a una sezione, in gran parte autogestita, che hanno anche arredata. Inoltre, ogni piccolo fazzoletto di terra tra una sezione e l'altra è utilizzato come orto. Sul diritto alla salute, Antigone parla chiaro: "Sempre più nelle carceri incontriamo persone in fin di vita, in condizioni disperate delle quali il sistema sanitario regionale non si fa carico. Ultimamente è successo nel carcere romano di Regina Coeli. La chiusura degli Opg deve essere perseguita commissariando le regioni non rispettose degli obblighi di legge". Un altro capitolo spinoso è il lavoro, "che non deve essere mai obbligatorio" ed "equamente retribuito", ricorda Antigone. Alla fine del 2014 lavorava in carcere il 27,13% dei detenuti (media nazionale). Ma anche qui si differenziano gli istituti virtuosi (come Massa Carrara o Lodè Mamone in Sardegna) da quelli come Enna o Brindisi dove lavora una esigua parte dei detenuti. Antigone fa il punto anche sul diritto all'istruzione definito "il più grande fattore di emancipazione da scelte di criminalità". E sul diritto alla sessualità e alla affettività, dice che "in mancanza di una modifica legislativa, rimane lontanissimo dall'essere garantito. Si arriva così ad alterare indebitamente rapporti famigliari e si aumenta la distanza con altre esperienze europee (la Francia su tutte). Gli istituti attrezzati con aree colloquio per famiglie sono ancora in minoranza". Inoltre, secondo Antigone "i rapporti tra carcere e territorio dovrebbero diventare uno dei principali oggetti di riforma. La politica dei trasferimenti dei detenuti non tiene ancora conto dei bisogni di continuità. Non si deve trasferire chi sta frequentando una scuola, chi ha un'opportunità di lavoro vera, chi ha legami affettivi in quella zona". E ancora "l'uso delle misure alternative alla detenzione rimane poco sfruttato rispetto alle potenzialità". Per quanto concerne i minori, secondo Antigone è fondamentale che vengano introdotte al più presto nuove norme che prendano in considerazione l'istruzione, la formazione professionale, il regime disciplinare, i rapporti con la famiglia, gli spazi detentivi, l'uso delle nuove tecnologie: "tutto va pensato a misura di una persona giovane e ancora in evoluzione". In conclusione, secondo Antigone "va riscritto il sistema delle pene, togliendo centralità al carcere fin dal momento della sentenza, dando spazio a pene di comunità che risultano nella stragrande maggioranza dei casi ben più utili e che non recidono il rapporto tra la società e colui che ha deviato dalle sue regole". "Dobbiamo riscrivere l'elenco dei reati - continua - cancellando da esso quei comportamenti che non rispondono a un serio principio di offensività e riscalando le pene abbinate ai rimanenti nel senso della minimizzazione. Dobbiamo riscrivere le procedure penali nella direzione di una riduzione dei tempi processuali e di un'esecuzione penale imposta solamente quando essa sia in grado di non ledere i diritti della persona (per chi riceve una pena detentiva, si introducano meccanismi di liste di attesa nel caso di sovraffollamento penitenziario)". Giustizia: il Sud discriminato persino nelle carceri, più reclusi rispetto al Nord di Errico Novi Il Garantista, 31 luglio 2015 Presentato il Rapporto Antigone 2015: i detenuti sono oltre 15mila in meno rispetto al 2010 ma restano troppi rispetto alla capienza. E serve una svolta su droghe e misure alternative. Persino nelle carceri il Mezzogiorno si scopre separato dal resto d'Italia. Tra i dati forniti nell'ultimo rapporto di Antigone, presentato ieri, questo è un motivo di allarme in parte imprevisto. Che attenua altri aspetti almeno incoraggianti, seppur non ancora del tutto positivi, svelati dall'annuale ricognizione sul sistema penitenziario. Ebbene, secondo lo studio si registra da una parte una significativa diminuzione delle persone recluse, ancor più notevole soprattutto se raffrontata con i dati del 2010, l'anno dei record: 52.754 detenuti al 30 giugno (di cui 2.262 donne) contro i 68.258 di cinque anni fa. Dall'altra però la tendenza è smentita per chi è originario di tre grandi regioni del Centrosud, Campania, Calabria e Abruzzo, oltre che del Molise: sono infatti in aumento i detenuti provenienti da queste parti del Paese. A fare eccezione, tra i meridionali, sono in pratica solo i pugliesi, passati dai 4.978 del 2005 agli attuali 3.730. Il tutto in un quadro composto da segnali positivi, riconducibili secondo Antigone alle "riforme messe in campo dal 2012 e consolidate di recente" e nello stesso tempo dall'urgenza di rafforzare le misure alternative. Che sono ancora insufficienti, se si pensa per esempio che il 55,8% di chi sconta una condanna dietro le sbarre (ben 19.130 persone) deve espiare una pena inferiore a 3 anni, e potrebbe accedere appunto a forme diverse di esecuzione penale. Non è un caso, e certo è assai utile, che il rapporto di Antigone arrivi nel pieno dello svolgimento degli "Stati generali dell'esecuzione della pena". I lavori convocati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando puntano proprio a rafforzare questo specifico aspetto. Ci vorrà certo tutta la determinazione politica del guardasigilli per arrivare una svolta, destinata a non incontrare immediatamente fragorosi consensi nell'opinione pubblica. Così come servirà un po' di sfacciato coraggio per spingere su un altro punto, segnalato dai Radicali e riproposto da Antigone: una politica finalmente antiproibizionista sulle droghe. Non più rinviabile, dice sempre il rapporto, se si pensa che le persone in carcere per reati relativi alle norme sugli stupefacenti sono oggi 18.312. "Alcune migliaia di tossicodipendenti", spiega l'associazione, "sono dentro per reati contro il patrimonio: tutto si risolverebbe con la legalizzazione, oltre al fatto che lo Stato guadagnerebbe molti soldi dalla tassazione pubblica". Il percorso è tutt'altro che compiuto, insomma. Anche perché se il sovraffollamento non ha più le proporzioni catastrofiche di qualche anno fa, resta il fatto che i posti regolamentari sono pur sempre oltre 3.000 in meno (esattamente 49.552) rispetto al numero dei reclusi. E poi c'è quell'odioso retrogusto di un'Italia che vede divaricarsi i livelli di tenuta civile persino in un ambito tipicamente statale come quello penitenziario. Oltre al brutto dato dell'aumento in controtendenza per i carcerati nati in Campania, Calabria e Abruzzo, ci sono anche dati come quello sui permessi-premio a sancire la secessione del Mezzogiorno: in Puglia, Calabria e Lazio viene concesso circa un permesso ogni 10 detenuti, in Sardegna 5 ogni 10, in Lombardia 6 ogni 10. Anche su questi numeri, studiosi e carcerati al lavoro negli "Stati generali" dovranno per forza interrogarsi. Giustizia: carceri, l'inferno è senza acqua di Arianna Giunti L'Espresso, 31 luglio 2015 Rubinetti asciutti, scarichi dei bagni rotti. Impossibile lavarsi, persino le mani. La carenza idrica in questi giorni di caldo rovente sta gettando nel caos molti penitenziari italiani e provoca tensioni, rivolte ed emergenze sanitarie. Viaggio nella nuova emergenza dietro le sbarre. Niente acqua per farsi una doccia, per lavare il cibo, per cuocersi un piatto di pasta, per dissetarsi. Scarichi del bagno che non funzionano o che buttano fuori liquami scuri e maleodoranti. Rubinetti asciutti da settimane, dai quali è impossibile far scorrere anche quel minimo di acqua che basterebbe a lavarsi le mani come basilare norma igienica o semplicemente a bagnarsi il viso, madido di sudore per l'afa infernale. E poi, ancora: pareti a rischio crollo, intonaci consumati dall'umidità e dalla muffa, lampadari che si staccano, perdite di acqua che rischiano di andare a contatto con fili elettrici scoperti, corridoi allagati, archivi informatici inesistenti e sospette coperture in amianto. Mentre si torna a parlare di allarme suicidi (cinque morti solo nell'ultimo mese) nelle nostre prigioni si sta consumando un'altra emergenza, non meno preoccupante: la carenza idrica che in questi giorni di caldo rovente sta gettando nel caos molti penitenziari italiani e che sta provocando tensioni, rivolte ed emergenze sanitarie. Segnalazioni ed esposti da parte dei sindacati di polizia penitenziaria e dalle associazioni a tutela dei detenuti sono già arrivati alle Procure e al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria da parte degli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Avellino, Cosenza, Cassino, Palermo. E situazioni analoghe sono state registrate a Milano, Lecce, Torino, Napoli. Le strutture che ospitano i detenuti, infatti, spesso antichissime (alcune risalenti addirittura al Seicento) hanno tubature e condotte usurate dal tempo che non riescono a rifornire di acqua tutti i piani degli edifici e a far fronte a una popolazione carceraria così massiccia. Dall'altro canto, il piano carceri indetto dal governo che prometteva di risolvere l'emergenza edilizia penitenziaria italiana sembra essersi arenato. Lo stato di fatiscenza, insomma, è all'ordine del giorno. Come dimostrano le fotografie scattate dagli addetti ai lavori in numerose carceri della penisola e pubblicate da l'Espresso. "È una situazione degradante e umiliante per tutti: detenuti e poliziotti. Che può avere conseguenze tragiche", tuona il segretario generale del Sappe Donato Capece. Gli episodi più critici nelle ultime settimane si sono verificati in Campania. Con tanto di rivolte fra i detenuti, esasperati dal caldo e dalle precarie condizioni igieniche. Ad Avellino, in particolare, lo scorso 16 luglio i detenuti di quattro celle del reparto alta sicurezza hanno incendiato per protesta stracci imbevuti di olio e bottiglie di plastica. Un agente della penitenziaria è stato ricoverato in ospedale per un principio di intossicazione. E problemi si sono registrati anche ad Ariano Irpino dove - nonostante il penitenziario sia annoverato fra le "carceri d'oro" italiane - non esiste una mappa della rete idrica interna che renda possibile interventi immediati o il tamponamento delle numerosissime perdite. "Per questo motivo - fanno sapere dal Sappe - il provveditore regionale ha incaricato l'ufficio tecnico di redigere un progetto che preveda il rifacimento dell'intera rete idrica del carcere, che deve essere portato a termine nel più breve tempo possibile". Segnalazioni che sono finite in un dettagliato esposto dritte alla Procura di Benevento, competente per territorio. Tragica anche la situazione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che potrebbe ospitare al massimo 547 posti. Qui il problema idrico è strutturale e si ripresenta immancabilmente ogni estate, quando il caldo si fa più torrido: la fornitura avviene attraverso un pozzo semi-artesiano, quindi l'acqua viene resa potabile all'interno delle mura del carcere, che non ha l'allaccio alla rete idrica. E così anche semplicemente lavarsi le mani diventa un'impresa. Eppure esisterebbe un protocollo d'intesa siglato nel lontano 2004 tra l'amministrazione penitenziaria e la Regione Campania, rimasto, però, lettera morta: il Comune non ha soldi per finanziare i lavori. In questi giorni la questione è tornata alla ribalta e il garante per i detenuti della Campania, Adriana Tocco, ha visitato il carcere. Quello che è emerso è stato soprattutto un problema di impasse burocratica: l'allaccio alla rete idrica sarebbe stata autorizzata dal Dap che avrebbe stanziato i fondi per la spesa prevista (circa un milione di euro) ma questi fondi non possono essere trasferiti dal Ministero della Giustizia a un ente locale, trattandosi di lavori da svolgere al di fuori dell'area demaniale dell'amministrazione penitenziaria. Insomma, una situazione kafkiana dalla quale non si riesce a uscire. Stesso copione alla casa circondariale di Cosenza, che accoglie 221 detenuti, dove la situazione nei giorni scorsi è diventata talmente intollerabile che il prefetto ha ordinato ai vigili del fuoco di fornire acqua d'emergenza, per uso igienico e sanitario, tramite le proprie autobotti. Le cisterne interne dell'edificio, infatti, dalla capienza di 50mila litri, si erano completamente prosciugate. E così la carenza cronica di acqua porta ad un'unica soluzione: l'acquisto di bottigliette di acqua minerale, che viene usata sia per bere che per lavarsi o per cucinare gli alimenti. Con una conseguenza deleteria per le tasche dei detenuti. L'acqua in bottiglia, acquistata nello spaccio del carcere, ha infatti un costo leggermente più basso rispetto a quella normalmente in commercio, ma rappresenta pur sempre una spesa sensibile per chi è dietro le sbarre. Va detto, però, che qualche carcere virtuoso esiste: come quello di Arghillà, Reggio Calabria, dove i detenuti possono accedere all'acqua potabile da appositi distributori attraverso una scheda ricaricabile, che permette anche di caricare la corrente per poter cucinare all'interno delle celle. A fotografare - nel senso letterale del termine - la situazione di abbandono e desolazione delle nostre prigioni ci ha pensato chi ogni giorno ne varca la soglia per svolgere il proprio lavoro: gli agenti della polizia penitenziaria. E così vediamo come nel carcere potentino di Melfi i muri siano quasi completamente scrostati, dalle pareti si staccano pezzi di intonaco, le infiltrazioni di umidità sono ovunque e le docce non vanno. Anche a Trani, Puglia, la situazione non è rosea: qui i wc che si trovano nelle celle sono fuori uso, gli scarichi non funzionano, tanto che i detenuti devono utilizzare secchi di acqua. Parla invece di "ambienti insalubri, saturi di umidità, invivibili in estate per mancanza di condizionamento e in inverno per inadeguato riscaldamento, condizioni igieniche impressionanti quando non completamente carenti", di personale "che non rispetta i turni mensili" e che è costretto a convivere "con la presenza di cemento amianto" l'esposto del sindacato Si.p.pe. sull'Ucciardone di Palermo. Calcinacci caduti, muffa, infiltrazioni di acqua piovana alle pareti, muri lesionati a rischio crollo e probabili coperture in amianto si trovano invece nella casa circondariale di Trapani, come ha testimoniato un recente sopralluogo guidato dal segretario regionale della Uil-Pa penitenziari. Il sovraffollamento invece è all'ordine del giorno al Pagliarelli di Palermo, una struttura penitenziaria titanica che conta più di 1.400 detenuti di cui oltre 400 in regime di alta sicurezza. Mentre sembrano essersi congelati da più di un anno i lavori per il nuovo padiglione del carcere di Agrigento, che doveva portare a 200 nuovi posti. "Qui ormai da tempo abbiamo superato il limite di guardia, e sapere che questa è la città del ministro dell'Interno Angelino Alfano rende tutto ancora più assurdo - tuona il coordinatore regionale della Uil-Pa penitenziari Sicilia Gioacchino Veneziano - i lavori sono fermi e manca ancora un dirigente in pianta stabile". "I soldi che sono stati spesi - conclude Veneziano - si potevano almeno utilizzare per il mantenimento della vecchia struttura, evitando così di renderla oggi un autentico colabrodo". La situazione interna al carcere, in effetti, a guardare le fotografie, è disastrosa: le perdite vengono contenute con i secchi di plastica, la pioggia entra dalle finestre e viene arginata da sacchi neri per l'immondizia, le celle e i corridoi si allagano e l'acqua rischia di andare in contatto con i fili elettrici scoperti, i lampadari sembrano in procinto di staccarsi dal soffitto da un momento all'altro, i documenti negli archivi non hanno supporto informatico ma vengono ammassati in scatoloni di cartone, i metal detector sono difettosi e obsoleti. Topi, celle fatiscenti, docce rotte e degrado dei reparti comuni anche Termini Imerese, il carcere speciale fortemente voluto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Emergenza sanitaria, invece, in Liguria. Che vanta uno dei penitenziari più piccoli e antichi d'Italia: quello di Savona, un ex convento risalente al 1.400 dalla capienza di 38 posti (che però ne arriva a ospitare quasi settanta). Nel corso degli anni solo il primo piano è stato ristrutturato, ricavando docce e finestre. Il secondo piano, che si trova sottoterra, non ha né docce né finestre, ma solo le antiche "bocche di lupo" (poco più che fessure) che non permettono il ricambio di aria, neppure quando la temperatura si fa infernale. Un carcere vetusto e continuamente in balìa di emergenze sanitarie si trova invece a Imperia, praticamente nel centro della città. "Trovandoci vicino al confine - spiega Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe Liguria - qui dentro vengono reclusi molti stranieri senza permesso di soggiorno e anche scafisti che arrivano in condizioni sanitarie preoccupanti. Abbiamo avuto episodi di Tbc, scabbia, e sospetti casi di Ebola che per fortuna poi si sono verificati falsi allarmi". "È inutile che l'amministrazione penitenziaria pensi di risolvere il problema con qualche intervento di manutenzione qua e là per tamponare i danni - prosegue Lorenzo - queste carceri andrebbero abbattute e ricostruite, per adattarsi a quelle che sono le problematiche e le emergenze di oggi". E il piano carceri che prometteva di costruire penitenziari nuovi di zecca e di rimodernare quelli già presenti, appunto, che fine ha fatto? Nessuno più ne parla e i lavori sembrano essersi interrotti. Anche il sito pianocarceri.it che informava in tempo reale i cittadini sullo stato di avanzamento dell'edilizia penitenziaria non risulta più attivo, per il momento. L'ultimo aggiornamento risale al febbraio 2014, più di un anno fa. Prima di finire - nel giugno 2014 - sotto la lente della Corte dei Conti, che ha portato a un'inchiesta sugli appalti che ha bandito le gare per la costruzione dei nuovi padiglioni. "Stiamo ancora aspettando anche che qualcuno nomini il commissario straordinario come aveva promesso il governo", sottolinea ancora il segretario generale del Sappe Capece. E a chiedersi dove siano finite le buone intenzioni del governo è anche l' Osservatorio Antigone, che nel suo ultimo rapporto 2015 sulla condizione detentiva in Italia lo mette nero su bianco: "Ad oggi l'unica grande novità è data dal prossimo avvio dei lavori del carcere di Bolzano con il project financing. Un esperimento di parziale privatizzazione che va ovviamente attentamente monitorato". Per il resto "L'Italia risulta essere, dopo la Russia (298 mila dipendenti), il paese europeo con il più numeroso personale carcerario, pari a 45.772 unità nonostante molti Paesi abbiano più detenuti in termini assoluti rispetto all'Italia". Personale che viene impiegato con mansione di sorveglianza dietro le mura carcerarie in condizioni lavorative disastrose e che condivide con i detenuti un amaro e beffardo destino: vivere da prigionieri in un inferno. Giustizia: il governo si accaparra (anche) la riforma del processo penale di Pasquale Quaranta Italia Oggi, 31 luglio 2015 Dopo le ampie deleghe già avute in materia di fisco e lavoro (riforma fiscale e Jobs Act), il governo si prende anche la competenza a legiferare in materia di giustizia. È iniziata la discussione alla camera del disegno di legge su "durata ragionevole dei processi e contrasto del fenomeno corruttivo" che mira a modificare il codice penale e il codice di procedura penale con l'obiettivo del rafforzamento delle garanzie difensive e di una durata ragionevole dei processi, oltre al contrasto della corruzione. Un provvedimento su cui si è lavorato molto in Commissione giustizia ma sul quale ancora non si è riusciti a trovare una quadra. Numerosi quindi gli emendamenti presentati in Aula con l'intento di potenziare l'efficacia legislativa del testo e sul quale il governo è disponibile a prendere in considerazione le proposte migliorative delle opposizioni. Apertura resa necessaria anche per via della presenza di numerose deleghe, che pongono l'esecutivo in una posizione di netta forza rispetto al Parlamento su temi quali la durata dei processi e la lotta alla corruzione. Ad esempio il Capo II (artt. 5-8) modifica la disciplina della prescrizione e delega il governo per la riforma del regime della procedibilità per taluni reati, per il riordino di alcuni settori del codice penale e per una revisione della disciplina del casellario giudiziale. L'articolo 7 del disegno di legge delega il governo a emanare un decreto legislativo per modificare la disciplina del casellario giudiziale. La norma di delega, inoltre, non individua particolari principi e criteri direttivi per l'attuazione della riforma, limitandosi a prevedere che la revisione della disciplina del casellario avvenga alla luce delle modifiche intervenute nella materia penale, anche processuale, e dei principi e dei criteri contenuti nella normativa nazionale e nel diritto dell'Unione europea in materia di protezione dei dati personali. C'è poi il primo articolo del Titolo IV del disegno di legge che delega il governo a modificare entro un anno, con più decreti legislativi, la disciplina del processo penale e dell'ordinamento penitenziario. Decreti legislativi che, una volta arrivati in parlamento, non potranno essere emendabili e quindi modificabili tramite proposta emendativa di un singolo parlamentare. Giustizia: disegno di legge sulle intercettazioni, tra magistratura e Pd stavolta è divorzio di Robert Vignola Il Secolo d'Italia, 31 luglio 2015 L'Anm attacca a testa bassa: danni all'attività investigativa, correggere il testo. Dal partito repliche al veleno: posizioni corporative, la giustizia abbia tempi certi. Scomunica in corso d'opera dell'Associazione Nazionale Magistrati sul disegno di legge sulle intercettazioni. L'Anm aveva già manifestato forti riserve in occasione dell'audizione davanti alla Commissione, ma ieri sul provvedimento in discussione alla Camera è andata giù davvero dura. "Per effetto degli emendamenti approvati in sede di esame da parte della stessa Commissione, il testo risulta addirittura gravemente peggiorato - sottolinea l'Associazione magistrati. La previsione di un termine di tre mesi successivo alla durata massima delle indagini costituisce un danno gravissimo all'attività investigativa e in particolare alle indagini più delicate e complesse, comprese quelle per terrorismo, mafia, corruzione e criminalità economica. È impossibile anche solo immaginare che, conclusa la fase investigativa, in tre mesi la polizia giudiziaria possa ascoltare migliaia di intercettazioni e redigere informative complesse e il pubblico ministero e il gip possano esaminare voluminosi fascicoli e scrivere articolate richieste e ordinanze cautelari nei confronti di numerosi indagati". Dalle valutazioni tecniche a quelle politiche il passo è breve. "Ancora una volta emerge il tentativo di risolvere il problema dell'eccessiva durata dei processi non con riforme strutturali ma imponendo termini illusori che nessuno potrà rispettare". E poi va al sodo: "L'introduzione del nuovo reato di diffusione di registrazioni fraudolente effettuate da soggetto presente al colloquio da un lato ignora l'esistenza di altre norme che già puniscono condotte analoghe (diffamazione, interferenze illecite nella vita privata), dall'altro rischia - di comprimere iniziative che rivestono un oggettivo interesse generale (ancorché svolte da soggetti diversi dai giornalisti professionisti)". E ancora: "Interventi su materie così delicate e con effetti così pesanti non dovrebbero essere affidati, come invece avvenuto, a emendamenti presentati e approvati nello spazio di pochi giorni o addirittura di poche ore". Di qui l'auspicio "quanto meno" di una "correzione dei profili maggiormente critici, in attesa che si realizzi una rivisitazione sistematica del settore penale". La replica di Walter Verini, capogruppo Pd in Commissione Giustizia della Camera, non è comunque improntata alla cieca obbedienza. "Le posizioni dell'Anm meritano sempre rispetto, attenzione e disponibilità al dialogo. Anche quando appaiono unilaterali e su certi punti sbrigative. Quella sul disegno di legge sul processo penale, per esempio, lo è. Il nostro intento è stato ed è quello, sui punti che l'Anm critica più aspramente, di tenere insieme le esigenze investigative con il diritto di qualsiasi cittadino a sapere, dopo quasi trenta mesi, se il suo destino di indagato è quello di essere rinviato a giudizio o archiviato". Fuor di polemica, difendono l'operato della commissione anche il viceministro alla Giustizia Enrico Costa e il deputato Anna Rossomando, mentre Donatella Ferranti e David Ermini esprimono "stupore e perplessità" per le dure critiche ricevute: "Su tutti i temi e i provvedimenti - affermano la presidente della commissione Giustizia della Camera e il responsabile Giustizia del Pd - l'Anm ha sempre avuto la possibilità, alla pari degli altri organismi rappresentativi di chi opera nel sistema giustizia, di interloquire e da parte del legislatore c'è sempre stata e sempre ci sarà la massima disponibilità al confronto e alla riflessione, ma riesce difficile accettare che possa passare un'informazione così errata e fuorviante come quella divulgata dall'Anm perché nessun articolo della riforma incide o limita la durata massima delle indagini né arreca "danni gravissimi" a quelle più delicate e complesse". Con questa conclusione: "se si vogliono le riforme - concludono Ferranti ed Ermini - bisogna avere il coraggio di superare posizioni meramente corporative e confrontarsi davvero nel merito. In Parlamento stiamo portando avanti anche la riforma della prescrizione che sulla base del riconoscimento della specificità dei reati di corruzione arriva addirittura a raddoppiare i termini attuali, ma è una riforma che necessariamente deve andare di pari passo con tempi certi e prevedibili anche per la fase delle conclusioni e delle indagini preliminari". Giustizia: Ucpi; una nuova legge per dare effettività al patrocinio a spese dello Stato camerepenali.it, 31 luglio 2015 Durante la conferenza stampa tenutasi ieri a Palazzo Montecitorio, è stata presentata la proposta di legge sul gratuito patrocinio. Per l'Unione hanno partecipato all'incontro il Segretario, Avv. Francesco Petrelli, e il Responsabile dell'Osservatorio Patrocinio a spese delle Stato, Avv. Savino Murro i quali hanno espresso apprezzamento per l'iniziativa dell'On. Rossomando, prima firmataria del Ddl, che tende a dare effettività all'istituto del Patrocinio a spese dello Stato. L'uovo di Colombo per rendere effettivo il diritto al gratuito patrocinio per i meno abbienti: visto che lo Stato non paga (o ci mette troppo, oltre due anni come accade ora) scatta la compensazione fiscale, e gli avvocati che ne hanno diritto possono detrarre quanto spetta loro da Irpef, Iva, contributi previdenziali. L'idea è contenuta in una proposta di legge a prima firma della deputata del Pd Anna Rossomando, che insieme ai cofirmatari Maino Marchi, Federico Massa, Simonetta Rubinato e Mino Taricco l'ha presentata oggi in una conferenza stampa alla Camera, alla quale erano presenti numerosi esponenti del mondo dell'avvocatura che hanno sostenuto la proposta: il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, la presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura Mirella Casiello, accompagnata dal coordinatore della commissione Oua sul gratuito patrocinio Alberto Vigani, il segretario Unione camere penali italiane Francesco Petrelli con il responsabile dell'Osservatorio sul gratuito patrocinio Savino Murro, il vice presidente della Cassa forense Valter Militi, il presidente del Movimento forense Massimiliano Cesali. "Il tema del gratuito patrocino per i cittadini non abbienti - hanno sostenuto Rossomando, Marchi, Massa, Rubinato e Taricco - ha a che fare con la tutela del diritto alla difesa per i cittadini: affinché tale diritto sia effettivo e reale, la legge prevede che lo Stato intervenga quando necessario, ma questo istituto va al rallentatore a causa della lentezza con la quale vengono erogati i compensi". Di qui l'idea della compensazione, contenuta in un ddl assegnato alla commissione Finanze di Montecitorio ma che un domani, chissà potrebbe far parte della prossima legge di Stabilità. "La Difesa - ha affermato Andrea Mascherin - è un diritto dei deboli che troppo spesso viene sacrificato all'economia. In questo modo si crea una giustizia di censo, e questo vale anche per la sanità e l'istruzione". "Il cittadino - ha poi detto Mirella Casiello - deve sempre potersi rivolgere allo Stato per avere giustizia, ma ora questo servizio è di fatto a carico degli avvocati, che devono attendere troppo tempo per il compenso. Se si attuasse la compensazione prevista dal ddl - ha osservato - ci sarebbe uno snellimento del lavoro dei tribunali perché non ci rivolgeremmo più alle cancellerie alleviandone il lavoro". "La sfida - ha detto Francesco Petrelli - è quella di garantire l'effettività dei diritti che i cittadini hanno, e che troppo spesso vengono negati". Anche perché, ha osservato Alberto Vigani, "una difesa con poche risorse è una difesa debole, e a quel punto solo i più abbienti possono avere un servizio adeguato". Giustizia: P. Occhetta (Civiltà Cattolica) "Giubileo occasione per parlare delle carceri" agensir.it, 31 luglio 2015 "La situazione in cui versano le carceri rappresenta la cartina di tornasole per misurare il grado di civiltà di una società". Lo sottolinea padre Francesco Occhetta sull'ultimo numero di "Civiltà cattolica". "Il carcere rimane tra i temi sociali e politici più scottanti nelle culture democratiche, ancora troppo divise tra giustizialisti e permissivisti", avverte padre Occhetta. I primi considerano le carceri "discariche sociali", "realtà esterne alle città, in cui la punizione deve prevalere sul recupero". I secondi, invece, ritengono che "le carceri facciano più male che bene". Ogni volta che ci si addentra nella riflessione legata al carcere e al significato della pena, "il rischio è di appiattirsi su una delle due posizioni menzionate: considerare cioè i detenuti tutti uguali, o utilizzarli per politicizzare l'argomento". È invece "l'esperienza vissuta in prima persona a rivelarsi capace di promuovere nuovi modelli di giustizia in grado di far espiare il male compiuto, riabilitando la persona che lo ha commesso. Le storie che lo testimoniano senza fare notizia sono molte", ricorda padre Occhetta, citando il caso di Claudia Francardi, vedova di un carabiniere ucciso il 25 aprile 2011 da Matteo Gorelli, allora diciannovenne: "È lei a chiedere allo Stato di fare giustizia e non vendetta attraverso un percorso di riabilitazione che non si limiti al carcere". "La riabilitazione del detenuto e il significato della pena, di cui parla l'art. 27 della Costituzione, sono possibili, per la dottrina sociale della Chiesa, ad una condizione: rimettere al centro il dolore della vittima e dei suoi familiari", chiarisce padre Occhetta, ricordando che "è questa la tesi centrale ribadita da Papa Francesco nei suoi interventi sulla giustizia". "Gli studi di criminologia - prosegue - dimostrano che l'inasprimento delle pene non fa diminuire il tasso di criminalità. Per questo il Papa chiede agli operatori della giustizia di introdurre la ‘pena medicinalè e di abbandonare la ‘pena vendicativà". La conversione culturale deve però includere "due cambiamenti di prospettiva: il primo si basa sul modo di riparare il danno insegnato dal samaritano, il quale, invece di rincorrere il colpevole, si inginocchia davanti alla vittima ferita gravemente, sul ciglio della strada; il secondo è il farsi carico non solamente dell'espiazione della pena oggettiva, ma della riabilitazione interiore del detenuto". L'attenzione della Chiesa verso i carcerati durante il Giubileo, conclude, "sarà l'occasione per interpellare le coscienze personali e sociali su un cambiamento del modello di giustizia che coniughi misericordia e verità, per promuovere politiche del perdono, come aveva sottolineato in passato anche Giovanni Paolo II". Giustizia: sulla delega fiscale la solita "manina" che aiuta gli evasori di Fabio Veronica Forcella Il Manifesto, 31 luglio 2015 Protestano solo Sel e M5S. Sabelli (Anm): "A rischio tutti procedimenti". E pensare che doveva correggere la famigerata norma sulla frode fiscale che a fine anno con quella "soglia parametrata" al 3% di evasione tollerata, sembrava nascondere l'ennesimo favore a Berlusconi. La discussione alla camera della Delega fiscale sta invece alimentando nuove polemiche, sia per la confusione delle norme contenute nei decreti, sia per il sospetto, neanche troppo velato, che tutto questo possa trasformarsi ancora una volta nell'ennesimo regalo ai grandi evasori. I passaggi più criticati riguardano soprattutto la definizione delle operazioni simulate e l'introduzione come requisito per avere la fattispecie della dichiarazione fraudolenta, di una fantomatica "idoneità a indurre in errore l'amministrazione finanziaria", con il rischio paradossale che se l'evasore viene scoperto e perseguito allora vuol dire che la sua presunta operazione fraudolenta non era idonea a ingannare il fisco. Quindi, se viene beccato si salva automaticamente. Paradossale, ma vero. Timori confermati anche da Rodolfo Maria Sabelli, presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati che spiega al manifesto: "C'è il rischio che una volta che l'amministrazione finanziaria non sia stata indotta in errore perché dimostratasi capace di rilevare la frode, si possa invocare questa circostanza proprio come prova dell'inidoneità ad indurre in errore l'amministrazione stessa". Infatti, il problema, sempre secondo Sabelli, è che "l'attuale norma già prevede un riferimento all'idoneità ad ostacolare l'accertamento", aggiungere un ulteriore elemento soggettivo rischierebbe di "rimettere in discussione tutta la giurisprudenza che si è andata formando intorno a questo articolo". Anche sul tema delle soglie di punibilità l'Anm, ma non solo lei, esprime le sue critiche. Riconoscendo che si tratta di una materia che rientra nelle prerogative del legislatore, Sabelli ci tiene a sottolineare che "in alcuni casi l'innalzamento di queste soglie è stato molto forte arrivando anche a triplicarle". Pur ammettendo di non essere contrario a priori ad alcuni casi di depenalizzazione, ricorda che si sta comunque parlando di comportamenti illeciti: "Se alla delimitazione dell'intervento penale corrisponde un forte intervento di controllo e sanzionatorio in sede fiscale, allora - entro certi limiti - può essere una scelta condivisibile". È una questione di equilibrio dell'intero sistema che si raggiunge, come osserva Sabelli se "si decriminalizzano le fasce più basse di evasione, rafforzando allo stesso tempo, però, gli interventi sanzionatori e penali sugli illeciti di fascia più alta". Ma ad oggi questo avviene solo nei casi di omessa dichiarazione dei redditi, per la quale è vero che c'è stato un innalzamento delle pene, ma è altrettanto vero che queste erano davvero molto basse. Critiche molto dure arrivano anche dalle opposizioni, soprattutto dal Movimento 5 Stelle e da Sel. I pentastellati, in una nota, temono "sia per la depenalizzazione dell'omessa dichiarazione, sia per il rischio che possa essere neutralizzato anche l'istituto della confisca". M5S punta il dito anche contro la modifica all'art. 4 del decreto legislativo 74/2000 che punisce la dichiarazione infedele, in cui è stata aggiunta tutta una parte che secondo il Movimento "è molto simile alla malfatta norma sul falso in bilancio", tanto che molti suoi esponenti si domandano se non "sia questo il vero ‘aiutino' a Berlusconi". Intanto alla Camera pochi giorni fa è stato approvato in via definitiva il decreto che depenalizza completamente il reato di elusione fiscale da adesso si chiamerà abuso del diritto. Un intervento grave, sottolinea Giovanni Paglia, deputato di Sel e membro della Commissione Finanze della Camera, "se pensiamo che da sempre l'elusione fiscale viene considerata l'evasione fiscale dei ricchi". Le misure messe in campo, secondo Paglia, nascondono un approccio studiato per "depotenziare fortemente la lotta all'evasione fiscale, soprattutto verso l'alto e attraverso norme che da un punto di vista formale sarebbero anche ragionevoli, ma che applicate in un contesto come quello italiano rischiano di dare carta bianca alle imprese più grandi". "La verità - sempre secondo Paglia - è che il governo è molto più liberista della destra. Culturalmente sta venendo avanti un'idea di business completamente libero da ogni ostacolo, cavillo, difficoltà normativa e fiscale. Tutti i decreti fiscali vanno in questa direzione. Oggi, più un soggetto imprenditoriale è grande, più è difficile fargli pagare le tasse". Le prove scientifiche da sole non bastano di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 31 luglio 2015 Nessuna prova scientifica, per quanto affidabile, da sola basta per fondare una condanna. A esorcizzare la retorica miracolistica da telefilm Csi è la sentenza milanese che assolve da una rapina un giovane calabrese arrestato perché l'impronta digitale del suo pollice destro era sullo scooter dei due banditi fuggiti parlando in dialetto reggino. Quand'anche l'impronta fosse di uno dei rapinatori, e si assumesse un'affidabilità della prova scientifica del 99,9 per cento%, il gip Giuseppe Gennari osserva che, in assenza di altre prove, trarre la conclusione che l'imputato abbia solo lo 0,1% di chance di non essere il rapinatore "confonde la probabilità che sussista una corrispondenza, data l'innocenza della persona, con la probabilità dell'innocenza della persona, data la corrispondenza". È "la fallacia del condizionale trasposto": un conto è stimare la probabilità che la persona sia colpevole a prescindere dalla prova scientifica disponibile, altro è stimare il rapporto di verosimiglianza, cioè la possibilità che la prova sia positiva se la persona è innocente. Il prodotto dei due valori fornisce la probabilità che, data la prova scientifica disponibile, l'accusato sia colpevole. Ma persino con un rapporto di verosimiglianza dello 0,1 per cento (cioè con una prova scientifica affidabile al 99,9), e con una probabilità a priori (quanti corrispondono al tipo giovane che parla calabrese?) di appena 1 su mille, dunque ultra favorevole all'accusa perché irrealistica per difetto, "la probabilità a posteriori è 1/2: cioè l'identificazione può essere frutto di errore al 50 per cento, chiaramente insufficiente per affermare la responsabilità". Se appena la probabilità a priori sale a 1 su 10 mila, esemplifica il gip, "solo una prova con un tasso di errore più basso di 1 su 1 milione genera una probabilità di colpevolezza pari al 99 per cento: e non è nota una prova scientifica che, considerando anche l'errore di laboratorio, goda di un livello così elevato di affidabilità". Reati fiscali, istanza al pm per ridurre il sequestro di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2015 Se dopo il sequestro preventivo relativo a un reato tributario il contribuente paga le prime rate dell'adesione, la conseguente riduzione dei beni oggetto della misura cautelare deve essere richiesta al Pm indicando i ratei di imposta versati al netto di interessi e sanzioni, e non direttamente al tribunale del riesame. A fornire questa indicazione è la Corte di cassazione con la sentenza n. 33602 depositata ieri. Nei confronti di due contribuenti indagati per infedele dichiarazione dei redditi era disposto il sequestro per equivalente su propri beni. I due chiedevano al Gip il riesame del provvedimento cautelare rappresentando, comunque, di aver nel frattempo perfezionato un'adesione con le Entrate con pagamento delle prime rate. Conseguentemente chiedevano almeno la riduzione in misura proporzionale dei beni sequestrati. Il Gip respingeva l'istanza rilevando che il sequestro preventivo aveva riguardato beni di valore inferiore al profitto del reato. Avverso questa decisione i due indagati si rivolgevano al tribunale del riesame che, pur dando atto della fondatezza dei rilievi difensivi sollevati contro il provvedimento di rigetto del Gip, respingeva comunque l'istanza in quanto la riduzione della somma sequestrata non doveva essere riferita a quanto già versato in base al piano di rateazione ma soltanto per la parte di ogni pagamento corrispondente all'imposta evasa con esclusione di sanzioni e interessi. Poiché dai modelli di versamento e dalle quietanze prodotte dalla difesa non era possibile individuare le somme versate a titolo di imposte, di sanzioni e interessi, il tribunale riteneva che la decisione sulla riduzione del sequestro fosse di competenza dell'organo che aveva eseguito la misura cautelare. Era così proposto ricorso per cassazione respinto dalla Corte fornendo interessanti spunti procedurali. Innanzitutto viene ricordato che in presenza di reati tributari il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria per la rateazione del debito, non può essere mantenuto per l'intero ammontare ma va ridotto in misura corrispondente ai ratei versati. Tuttavia, in sede di riesame o di appello avverso il provvedimento cautelare non è possibile stabilire l'importo da restituire, salvo i casi di evidenza dell'accertamento ovvero di questione facilmente risolvibile sulla base degli atti. Nella specie, pertanto, i due indagati avrebbero dovuto richiedere al pm che aveva disposto il sequestro la conseguente riduzione, dimostrando i ratei di imposta pagati per effetto della rateazione al netto di interessi e sanzioni, al fine di ottenere dal medesimo pm la revoca della misura per tali importi. Solo in caso di diniego (a questo punto illegittimo) avrebbero potuto rivolgersi al tribunale del riesame. Il nuovo falso in bilancio va ko di Debora Alberici Italia Oggi, 31 luglio 2015 La Cassazione mette ko il falso in bilancio così come modificato dalla legge 69 del 2015. D'ora in avanti saranno pochissimi i caso di punibilità. La nuova norma è stata infatti interpretata nel senso che l'imprenditore può essere condannato quando espone fatti non veri, ad esclusione delle valutazioni. È quanto affermato dalla Suprema corte che, con la sentenza n. 33774 del 30 luglio 2015, ha assolto dall'accusa per bancarotta mediante il falso in bilancio l'ex sondaggista di Berlusconi, Luigi Crespi. Al legislatore, in poche parole, è bastato eliminare dall'articolo 2621 del codice civile la locuzione "ancorché oggetto di valutazioni", per ridurre drasticamente la possibilità di una condanna. In 150 pagine di motivazioni i Supremi giudici spiegano, fra le altre cose, che il dato testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e 2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l'art. 2638 cod. civ., sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi, anche se subito dopo la riforma è stato sostenuto come non possa del tutto escludersi che l'eliminazione di qualsiasi espresso riferimento a questi ultimi sia da imputarsi alla ritenuta superfluità di una loro evocazione. Tale tesi si fonda soprattutto sul dichiarato timore di una riduzione della portata operativa della normativa e finisce per fare ricorso soprattutto a una interpretazione sistematica, partendo dall'assunto che le voci di bilancio sono costituite quasi interamente da valutazioni. Un altro interessante chiarimento la Cassazione lo fornisce sul dolo della nuova fattispecie: in sentenza si legge infatti che per quanto riguarda invece le modifiche apportate alla struttura dell'elemento soggettivo, deve osservarsi come il legislatore abbia confermato la necessità di un dolo specifico, caratterizzato dal fine di procurare per sé o per altri un ingiusto profitto. La nuova norma non ha invece riproposto la espressa caratterizzazione dello stesso come intenzionale, attraverso la soppressione dell'inciso "con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico", che era stato introdotto nel 2002. In diretta relazione alla descrizione della condotta ha fatto invece la sua comparsa l'avverbio "consapevolmente", che appare sintomatico della volontà del legislatore di escludere la rilevanza del dolo eventuale. Di diverso avviso la Procura generale del Palazzaccio che, nella lunga requisitoria esposta al Collegio lo scorso 16 giugno aveva chiesto la conferma della condanna inflitta a Luigi Crespi dalla Corte d'appello di Milano. La condanna è stata invece annullata senza rinvio e quindi il sipario sulla vicenda è chiuso. False comunicazioni sociali, la Corte rilancia l'attenzione ai fatti materiali Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2015 Con il deposito della sentenza relativa al fallimento di Hdc, di cui era amministratore Luigi Crespi, la Quinta sezione della Corte di cassazione fornisce una prima, importante interpretazione del nuovo delitto di false comunicazioni sociali. In particolare, la Corte era chiamata a specificare indirettamente se valutazioni non rispondenti al vero inserite tra le poste di bilancio dovessero ritenersi ancora penalmente rilevanti. Ma procediamo con ordine. I difensori di alcuni imputati avevano puntato il dito sulla modifica legislativa dell'articolo 2621 del Codice civile e sulla conseguente necessità di annullare la condanna per bancarotta impropria da falso in bilancio. I giudici di legittimità si sono posti dunque il problema preliminare della continuità normativa tra la precedente e l'attuale formulazione, posto che il reato di bancarotta impropria consisteva nell'aver cagionato il dissesto "commettendo alcuno dei fatti" disciplinati all'articolo 2621 del Codice civile. La motivazione segnala innanzitutto le novità della riforma, cioè la creazione di reati di pericolo anziché di danno, la procedibilità d'ufficio, la scomparsa delle soglie di punibilità, la necessità del dolo specifico e l'irrilevanza del dolo eventuale ricavabile dall'avverbio "consapevolmente". Passa quindi a occuparsi del significato e delle applicazioni pratiche derivanti dall'eliminazione dell'inciso "ancorché oggetto di valutazioni", in luogo dell'attuale formulazione che si concentra sui "fatti materiali rilevanti". Per ricavare correttamente ratio e voluntas legis, la Corte ricostruisce il cammino parlamentare e gli specifici emendamenti. Non solo. Traccia un parallelo con l'articolo 2638 del Codice civile (ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza) e con i reati tributari, ove continuano ad assumere rilevanza le "valutazioni". L'approdo di tali riflessioni conduce all'unica soluzione coerente della non punibilità dei falsi valutativi. La decisione replica altresì alla possibile obiezione della strisciante depenalizzazione del falso in bilancio, poiché presupporrebbe sempre una discrezionalità di base. Riprendendo la giurisprudenza che aveva già precisato come le valutazioni discrezionali non fossero punibili, a meno che non oltrepassassero il limite di ragionevolezza, la Cassazione spiega intanto come residui un consistente spazio di applicabilità dell'articolo 2621, nei casi di "fatti materiali" falsi, quali ricavi gonfiati, voci legate a fatture emesse per operazioni inesistenti, o la mancata svalutazione di una partecipazione in ipotesi di fallimento.della controllata. La Corte ritiene così definitivamente depenalizzate le falsità nascenti da mere valutazioni, disegnando confini di operatività della nuova fattispecie più ristretti rispetto al passato. Applicandosi il nuovo reato di falso in bilancio, quale disciplina più favorevole al reo, la Cassazione ha pertanto annullato senza rinvio la condanna per bancarotta impropria da reato societario, confermando tuttavia la condanna per le residue contestazioni di false comunicazioni sociali aventi a oggetto fatti materiali che. continuano a essere puniti, e rinviando alla Corte d'Appello per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. La Corte rimprovera infine il legislatore per le formule generiche adoperate, lesive del principio di tassatività. Nel complesso, un precedente importante, in grado di precludere la strada ad avventurose interpretazioni che facciano rientrare dalla finestra la punibilità delle valutazioni, cacciate dalla porta principale. Sospensione della pena subordinata a svolgimento di attività a favore della collettività Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2015 Sospensione condizionale della pena - Richiesta di patteggiamento a pena condizionalmente sospesa - Subordinazione della sospensione condizionale allo svolgimento di attività non retribuita in favore della collettività - Obbligo di specifica motivazione sui criteri di individuazione delle modalità e durata dell'attività da svolgere - Sussistenza - Condizioni. In caso di richiesta di applicazione concordata della pena subordinata alla sua sospensione condizionale, il giudice, che ritenga accoglibile l'istanza condizionando la concessione del beneficio allo svolgimento di attività lavorativa non retribuita in favore della collettività, ha l'obbligo di motivare adeguatamente in ordine a modalità esecutive e protrazione nel tempo della prestazione di pubblica utilità, qualora la durata della stessa non venga fissata in misura prossima ai minimi edittali. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 24 aprile 2015 n. 17131. Sospensione condizionale della pena - Subordinazione alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività - Durata massima complessiva e giornaliera. La prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, cui può essere subordinata in mancanza di opposizione del condannato la sospensione condizionale della pena, ha una durata massima di sei mesi e deve essere svolta prestando sei ore di lavoro settimanali e, quindi, per una durata complessiva non superiore alle cento cinquantasei ore, salvo che il condannato chieda lo svolgimento della prestazione per una durata giornaliera superiore, che non può comunque eccedere le otto ore, in modo da abbreviarne i tempi di esecuzione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 11 agosto 2009 n. 32649. Sospensione condizionale della pena - Subordinazione alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività - Natura sanzionatoria - Conseguenze - Revoca della sospensione condizionale per parziale inadempimento della prestazione - Criteri di determinazione della pena residua. La prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, cui può essere subordinata in mancanza di opposizione del condannato la sospensione condizionale della pena, pur non rivestendo natura di sanzione penale, ha contenuto afflittivo e, pertanto, nel caso di revoca del beneficio per il parziale inadempimento della prestazione, occorre tener conto nella determinazione della pena da scontare delle prestazioni adempiute e delle restrizioni subite dal condannato, con un giudizio analogo a quello svolto per l'affidamento in prova al servizio sociale o la liberazione condizionale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 11 agosto 2009 n. 32649. Sospensione condizionale della pena - Richiesta di patteggiamento a pena condizionalmente sospesa - Subordinazione della sospensione condizionale all'imposizione di obblighi - Ammissibilità - Attività non retribuita in favore della collettività - Specificazione del termine di durata della prestazione - Necessità. In caso di richiesta di applicazione concordata della pena subordinata alla sua sospensione condizionale, le parti possono ulteriormente subordinare la concessione del beneficio all'imposizione di obblighi ed, in particolare, alla prestazione da parte dell'imputato di attività non retribuita in favore della collettività, purché specifichino il termine di durata della prestazione. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 5 agosto 2008 n. 17651. La Pa non può imporre al proprietario incolpevole il risanamento di un sito inquinato di Mauro Calabrese Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2015 Il verbale emesso dalla Conferenza di Servizi nei confronti del proprietario di un complesso immobiliare situato all'interno di un'area di bonifica di interesse nazionale, che impone qualsiasi operazione di recupero, risanamento o bonifica, come la presentazione del piano di caratterizzazione, è illegittimo se egli non è responsabile, nemmeno in minima parte, dell'inquinamento rilevato. Così ha ritenuto il Consiglio di Stato, Sezione VI, con la Sentenza n. 3544 del 16 luglio 2015, con la quale ha accolto l'appello proposto da una società proprietaria di un complesso immobiliare situato all'interno di sito di interesse nazionale in Campania, avverso il provvedimento emesso dalla Conferenza dei Servizi con il quale l'Amministrazione le aveva imposto, quale mera proprietaria dell'area e non responsabile dell'inquinamento derivante da passate attività industriali, di realizzare un nuovo dettagliato piano di caratterizzazione degli inquinanti, da eseguire seguendo stringenti prescrizioni. In precedenza, infatti, data la presenza sull'area di stabilimenti industriali di produzione di fibre sintetiche, oltre alla vicinanza nella zona di una raffineria, presumendo la presenza di concentrazioni inquinanti superiori a quelle previste dalla normativa di settore e la conseguente compromissione della qualità ambientale del suolo, sottosuolo e della falda acquifera, la società appellante, di propria iniziativa, aveva prodotto un piano di caratterizzazione del sito. I giudici di Palazzo Spada, quindi, hanno ricostruito l'esatta portata della responsabilità che il Decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, cd Codice dell'Ambiente (già previsti dal precedente Dlgs n. 22 del 1997, cd Decreto Ronchi, applicabile ratione temporis al caso deciso) ascrive al proprietario di un'area inquinata, non responsabile dell'inquinamento. Invero, chiarisce la pronuncia, ai sensi delle disposizioni del Titolo V della Parte IV del Dlgs n. 152/2006, al proprietario non responsabile dell'inquinamento può essere attribuita esclusivamente una responsabilità patrimoniale, salvo l'obbligo, ai sensi dell'articolo 245, comma 2, di adottare e sostenere i costi delle misure di prevenzione urgenti di cui all'articolo 240, comma 1, lett. 1), ovvero "le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia", e salva la facoltà di eseguire spontaneamente gli interventi di bonifica ambientale. Ai sensi dell'articolo 244, commi 2 e 4, infatti, solo il soggetto responsabile dell'inquinamento, per avervi dato causa, a titolo di dolo o colpa, può essere chiamato a rispondere degli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino, ma ove questi non sia individuabile o non provveda, sarà la Pubblica Amministrazione a dover adottare tutti gli interventi che risultassero necessari. Solo in tal caso, sulla base di un motivato provvedimento che dia atto dell'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero della loro infruttuosità, il disposto dell'articolo 253 del Codice dell'Ambiente fa salva la facoltà di recuperarne i costi agendo in rivalsa verso il proprietario incolpevole, nei limiti del valore di mercato del sito, gravato quindi di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare, a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi. Come chiarito dalla Corte di Giustizia Europea di Lussemburgo, con la Sentenza del 4 marzo 2015 nella causa C-534/13, alla luce della Direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale e dei principi comunitari "chi inquina paga", di cui all'articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, di precauzione, di azione preventiva e della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente, così come previsto dalla normativa italiana, in caso di accertata contaminazione di un sito e impossibilità d'individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, la Pubblica Amministrazione non può imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi. In conclusione, quindi deve essere accolto l'appello del proprietario incolpevole e annullato il verbale della Conferenza di Servizi decisoria di diffida a eseguire la caratterizzazione del sito secondo le prescrizioni indicate, come anche tutti i provvedimenti accessori e connessi, non avendo lo stesso alcuna la responsabilità diretta per l'inquinamento del sito e non potendo la Pa, pertanto, imporre ai proprietari del bene inquinato lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento, potendo, eventualmente, questi solo rispondere sul piano patrimoniale delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente, nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi. "Stime" fuori dal falso in bilancio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2015 Non è un colpo mortale, ma il nuovo falso in bilancio esce azzoppato dalla sentenza della Corte di cassazione che ha prosciolto da alcuni capi d'imputazione l'ex sondaggista di Silvio Berlusconi Luigi Crespi. Per la corte, infatti, vanno ormai considerati di fatto depenalizzati i falsi estimativi, quelli basati cioè su una valutazione, sull'attribuzione, sottolinea la Corte, di un dato numerico a una realtà sottostante. Si tratta della diretta conseguenza della nuova legge n. 69 del 2015 che ha conferito rilevanza penale ai fatti materiali, ma ha soppresso il riferimento alle valutazioni. Il tutto in un contesto però, ammette la sentenza, di estensione dell'ambito "di operatività dell'incremento e della false comunicazioni sociali, avendo comportato, come evidenziato, l'eliminazione dell'evento e delle soglie previste dal precedente testo dell'articolo 2622 del Codice civile, mantenendo invece parzialmente coincidente il profilo della condotta tipica". Un intervento cioè di segno nettamente contrario a quello del Dlgs 61/2002 che aveva ristretto il perimetro della rilevanza penale. Questo in termini generali. Sullo specifico del falso in bilancio determinato da stime e valutazioni che si scostano da quelle corrette, la Cassazione è altrettanto netta e mette in evidenza quella che appare una scelta consapevole del legislatore. L'assenza del riferimento alle valutazioni nelle nuove fattispecie di falso in bilancio, dedicate alle quotate e alle non quotate, costituisce l'esito di uno specifico emendamento che cancellò quanto previsto in una prima versione del testo che, invece, considerava penalmente rilevanti le condotte e e le omissioni che avessero come oggetto le "informazioni". E in questa accezione sarebbero certo rientrate anche le valutazioni. Chiara quindi appare alla Corte l'intenzione di non attribuire più rilevanza penale alle stime che caratterizzano alcune voci di bilancio. Lo stesso confronto con la normativa penale tributaria che ha visto prima l'esclusione delle stime e poi il loro rientro nell'area penale e con il contesto del Codice civile, nel quale sopravvive il riferimento alle valutazioni nel reato di ostacolo all'attività di vigilanza, corrobora il ragionamento della Corte. Insomma, quando il legislatore ha voluto attribuire rilevanza penale alle stime l'ha scritto espressamente, come del resto aveva fatto nella precedente versione del Codice civile sul falso, dove il falso estimativo aveva comunque cittadinanza, seppure con un'area di esenzione penale circoscritta da uno scostamento inferiore al 10 per cento dai valori corretti. E se la cancellazione delle tanto contestate soglie di rilevanza penale rappresenta uno dei punti centrali della riforma, adesso, nel solo perimetro del falso estimativo, la Cassazione ne ricorda invece l'importanza in termini di tipicità della norma penale. Ma la Corte mette anche in risalto come il riferimento ai fatti materiali, che nell'ipotesi dell'articolo 2621 dedicata alle sole società non quotate devono anche essere rilevanti, introduce un elemento di genericità che amplia in maniera considerevole la discrezionalità dell'autorità giudiziaria nella definizione di quanto è passibile di sanzione penale. Una disposizione quindi che mostra significative carenze di tipizzazione, direbbe il giurista. E che appare alla Cassazione tanto più importante se solo si tiene conto, sottolineano i giudici, che la "maggior parte delle poste di bilancio altro non è se non l'esito di procedimenti valutativi e, quindi, non può essere in alcun modo ricondotta nell'alveo dei soli fatti materiali, come previsti dalla normativa introdotta dalla legge n. 69 del 2015". Alla fine, la riforma, sul punto, determina un ridimensionamento dell'elemento oggettivo del falso in bilancio (quanto ai soggetti che possono commettere il reato le previsioni sono rimaste di fatto identiche) con un effetto che è parzialmente abrogativo, limitato a quei fatti che non trovano più corrispondenza nelle nuove disposizioni. Lettere: le ragioni del "no" all'arresto di Azzollini di Pietro Ichino (Senatore Pd) Corriere della Sera, 31 luglio 2015 Caro direttore, nel Corriere di ieri mi ha colpito molto che nessun articolo, e neppure l'editoriale di Massimo Franco intitolato "Da giustizialisti a garantisti (solo per interesse)", fornisse alcuna notizia sugli argomenti sulla base dei quali il Tribunale di Trani chiede l'autorizzazione all'arresto del senatore Azzollini. Quel titolo e l'omissione di questa informazione essenziale sembrano dare per scontato che, in Parlamento, il voto "Sì" a una richiesta di autorizzazione all'arresto di un parlamentare possa soltanto essere espressione di "giustizialismo"; e il voto "No" soltanto espressione di "garantismo". Come se in questa decisione gli argomenti del giudice a sostegno della richiesta non avessero alcun peso. Le cose, per fortuna, non stanno così; e proprio il caso Azzollini, se si guarda bene ciò che è accaduto in Senato, lo dimostra. L'8 luglio la Giunta per le Autorizzazioni ha approvato a maggioranza, anche con i voti dei componenti Pd, la proposta del relatore in senso favorevole all'autorizzazione all'arresto. Nei giorni seguenti alcuni senatori Pd non appartenenti alla Giunta - tra i quali il sottoscritto - si sono letti gli atti giudiziali, apprendendo che: a) l'unica prova dell'accusa rivolta al senatore Azzollini di avere operato come "amministratore occulto" di una Congregazione di religiose finita in bancarotta è costituita dalla frase di argomento oltraggiosamente urologico rivolta alle medesime, ormai tristemente famosa; senonché di quella frase (drasticamente negata dall'imputato) non esiste alcuna prova degna di questo nome; b) l'unico movente del comportamento di cui il senatore Azzollini è imputato, secondo il Gip, essendo escluso ogni scopo di lucro, sarebbe costituito da "interessi di tipo politico, costituendo la Congregazione un bacino di consenso politico-personale di notevole portata"; c) l'altro comportamento che viene imputato ad Azzollini consiste nell'essersi adoperato in Senato per l'approvazione di norme di esenzione fiscale, delle quali anche la Congregazione avrebbe beneficiato. Nei casi precedenti ho votato a favore dell'autorizzazione all'arresto, non avendo ravvisato indizi di scorrettezza nell'operato dei giudici. Questa volta invece sono rimasto sconcertato, e con me diversi altri colleghi, da quella che ci è apparsa come una vera e propria confessione esplicita, nell'impianto accusatorio, della pretesa di mettere sotto controllo giudiziale proprio ed essenzialmente l'attività parlamentare. Per non dire dell'anomalia dell'arresto come misura cautelare, in una situazione nella quale il rischio di fuga appare nullo, e non si vede come possa temersi un inquinamento delle prove o la reiterazione del reato dal momento che l'amministrazione della Congregazione è attualmente affidata a un commissario. Abbiamo dunque ritenuto nostro dovere far circolare in seno al Gruppo le osservazioni di cui sopra, manifestando il nostro orientamento nel senso di un voto contrario. È accaduto così che l'orientamento prevalente del Gruppo, nel senso del "Sì" fino a venti giorni prima, si è spostato nel senso del "No". E non "per interesse" (in questo caso l'interesse politico sarebbe stato semmai quello di assecondare l'orientamento dal proprio elettorato nettamente prevalente, nel senso del "sì"), ma esclusivamente per considerazioni inerenti al caso specifico. E per senso di giustizia: il senatore Azzollini verrà processato come qualsiasi altro cittadino, ma da questo all'arresto preventivo del parlamentare in via cautelare ci corre davvero troppo. A me sembra un episodio di buona politica. E, semmai, di difettosa informazione dell'opinione pubblica. Piemonte: nota di Bruno Mellano sulla costituzione della rete dei Garanti comunali Ristretti Orizzonti, 31 luglio 2015 Nota informativa del Garante regionale dei detenuti, On. Bruno Mellano, relativa alla costituzione della rete dei garanti comunali in Piemonte. "Sin dal momento del mio insediamento e dell'attivazione dell'Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, avvenuta circa un anno fa, ho svolto una costante iniziativa di informazione e di sollecito, con contatti istituzionali e personali, telefonate e lettere, partecipazione a riunioni consiliari o di commissione affinché tutti i comuni piemontesi sede di carcere istituissero un Garante comunale dei detenuti. Il quadro si va delineando in queste giornate di fine luglio e nelle ultime riunioni dei consigli comunali prima della sospensione estiva, stanno arrivando a conclusione alcuni iter amministrativi ed altri, gli ultimi, stanno finalmente partendo. Altri stanno giungendo alla nomina o hanno provveduto al rinnovo dell'incarico. Martedì 28 luglio il Consiglio comunale di Cuneo ha adottato la delibera di istituzione, mercoledì 29 è stata la volta del Comune di Saluzzo e giovedì 30 la città di Verbania: a settembre ci saranno i bandi pubblici per la raccolta delle disponibilità a svolgere l'incarico. Venerdì 26 giugno aveva deliberato la Città di Alba, mentre il Consiglio comunale di Asti, tra i primi ad adottare la delibera istitutiva dell'Ufficio del Garante il 22 luglio scorso, ha deciso di stralciare la nomina dall'ordine del giorno della seduta per rimandarlo all'inizio di settembre, per garantire un ulteriore passaggio di condivisione attraverso il coinvolgimento dei capigruppo consiliari. Significativo il fatto che quasi ovunque le delibere siano state adottate all'unanimità o a larghissima maggioranza. Ivrea, Vercelli, Fossano ed Alessandria sono uffici già attivi, rispettivamente con i Garanti Armando Michelizza, Roswitha Flaibani, Rosanna Degiovanni e Davide Petrini. Biella e Novara hanno espresso interesse e disponibilità, che sicuramente matureranno con l'autunno. Torino, infine, venerdì 17 luglio ha provveduto a sistemare una tessera importante nominando il nuovo Garante comunale, a seguito della conclusione, avvenuta il 9 maggio scorso, della preziosa esperienza decennale di Maria Pia Brunato: è stata scelta Monica Cristina Gallo, già da anni impegnata nel "Lorusso Cutugno" con l'attività de "La casa di Pinocchio" e con le molte iniziative esterne di valorizzazione e diffusione dei prodotti carcerari, non ultimo con l'esperienza collettiva del Charity shop "Marte", gestito da una decina di realtà associative e cooperative piemontesi. Occorre giungere il prima possibile alla costruzione di una rete di garanzia per i diritti fondamentali dei cittadini ristretti perché perché ce lo chiede ma anche perché il pianeta carcere sta vivendo significative trasformazioni, che devono essere presidiate: la riorganizzazione dell'Amministrazione penitenziaria, la riattivazione di circuiti penali omogenei (dopo il grande sovraffollamento degli ultimi 10 anni), l'apertura di nuove strutture, la trasformazione funzionale di altre, gli Stati Generali voluti dal Ministro, la presentazione di una legge delega con l'ambizione di una riforma complessiva dell'Ordinamento Penitenziario a quarant'anni dalla legge istitutiva (la n. 354 del 26.07.1975). Per questo sono tra quanti richiedono con insistenza che il puzzle venga presto completato con la tessera decisiva della nomina del Garante nazionale, previsto dalla Legge 21 febbraio 2014, n.10, di conversione con modificazioni del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, (il cosiddetto "svuota carceri"). L'Ufficio è stato definito in primavera, ma ancora si attende dal Governo la scelta delle tre persone chiamate a svolgere questo compito, che sarà necessariamente anche di coordinamento e di rappresentanza del quadro complessivo che, intanto, si va delineando grazie alle Regioni ed ai Comuni". Ancona: detenuto morto in cella, Zoppi doveva sottoporsi a frequenti visite in ospedale di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 31 luglio 2015 Secondo i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Ancona, Zoppi non sarebbe stato incompatibile con il regime carcerario, eppure in un'ordinanza si dice che il detenuto avrebbe avuto bisogno di frequenti visite negli ospedali locali. Necessitava di frequenti contatti con i presidi sanitari territoriali a causa delle sue condizioni di salute. È quanto si legge nell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Ancona datata 13 luglio 2015, con la quale i giudici hanno rigettato la richeista di scarcerazione di Daniele Zoppi, il 34enne anconetano morto in cella lo scorso 23 luglio dopo aver più volte chiesto una sospensione di pena, proprio per motivi di salute. Un rifiuto motivato col fatto che, nonostante un peggioramento, il quadro clinico di Zoppi non sarebbe stato tale da giustificare il rinvio facoltativo della pena. Il motivo? Le sue condizioni di salute, sempre secondo il Tribunale, non erano compromesse al punto da non rispondere più alle cure disponibili. In pratica Zoppi poteva essere tranquillamente curato mentre scontava la sua pena in carcere. Ma doveva essere seguito all'interno di adeguate strutture sanitarie (anche penitenziarie se ritenuto necessario dal medico della casa circondariale) per sottoporsi ad adeguati esami, come sottolineato nella stessa ordinanza. Esami che non sono mai arrivati perché giovedì scorso Daniele si è sentito male nella sua cella ed è morto. Alla luce di quanto accaduto, l'avvocato Luca Bartolini ha chiesto che si faccia luce sulla vicenda, depositando un esposto alla Procura di Ancona che, nel frattempo, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti. Proprio l'avvocato è convinto che Zoppi non fosse compatibile con il carcere perché non solo aveva bisogno di cure, ma nel carcere avrebbe vissuto una condizione contraria alla dignità umana. Infatti il 34enne non solo era patologicamente obeso, nel 2014 era stato operato all'anca destra a seguito di un incidente, soffriva di stenosi a livello spinale con varie ernie. Al punto che aveva perso parte della sensibilità alle gambe. Insomma Zoppi era arrivato al punto da stare mala pena in piedi, costretto a vivere su una sedia nella sua cella, senza potersi mai alzare né per l'ora d'aria né per una doccia. Sassari: emergenza idrica nel carcere di Bancali, detenuti senz'acqua da oltre 10 giorni sardegnalive.net, 31 luglio 2015 La denuncia dell'Associazione "Il detenuto ignoto": "È sconcertante che non si sia saputo nulla né attraverso i media, né tramite il Garante dei diritti dei detenuti. "Da oltre dieci giorni nel carcere di Bancali a Sassari manca l'acqua. I detenuti sono costretti a vivere in una condizione a dir poco inimmaginabile così come gli operatori che sono impegnati diuturnamente a fronteggiare una nuova emergenza". È questa la denuncia dell'Associazione "Il detenuto ignoto" in merito all'emergenza idrica che riguarda il nuovo carcere di Bancali, a pochi chilometri da Sassari. "Oltre alla gravità inaudita di tale situazione - precisa Irene Testa, presidente dell'Associazione "Il detenuto ignoto" e della direzione di Radicali Italiani - è sconcertante che non si sia saputo nulla né attraverso i media, né tramite il Garante dei diritti dei detenuti. Grazie a un tam tam di post pubblicati su Facebook siamo riusciti a portare il problema all'attenzione del sindaco di Sassari Nicola Sanna. La nostra speranza è quella che la situazione possa essere ripristina quanto prima sia per i detenuti che per tutto il personale che lavora nel carcere di Bancali". Torino: i giardini delle circoscrizioni li puliscono i carcerati di Letizia Tortello La Stampa, 31 luglio 2015 L'assessore Lavolta: "Un progetto di impatto sociale che aiuta la città". Il coinvolgimento dei detenuti fa parte del loro percorso di riabilitazione ma aiuta anche il Comune da tempo a corto di risorse per la cura e pulizia di giardini e aiuole. Detenuti netturbini, per pulire i giardini della città. Il primo incontro di formazione è partito ieri mattina nella sede dell'Amiat di via Giordano Bruno, con il sindaco Fassino, l'assessore all'Ambiente Lavolta, il direttore delle Valette Minervini e un gruppo di 30 carcerati, che hanno ricevuto il biglietto del pullman dalla Gtt, da utilizzare per raggiungere il luogo di lavoro nelle circoscrizioni. Il primo turno scatterà lunedì e andrà avanti tutta la settimana. Si tratta di un progetto di reinserimento e recupero destinato a quei detenuti che hanno quasi finito di scontare la loro pena in carcere e possono offrire il loro contributo fuori dalla cella, con l'autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza. Una sperimentazione già lanciata durante i giorni della Sindone, che aveva permesso di integrare ai dipendenti Amiat, pettorine indosso e senza alcuna distinzione sui turni di lavoro, un gruppo di persone per migliorare la pulizia della città. Lo stesso verrà fatto sulla pulizia delle aree verdi delle periferie. Scopa in mano o alla guida dell'Ape dei netturbini, i carcerati affiancheranno gli spazzini per sette settimane. Di cui sei settimane da volontari, mentre una sarà pagata con un contributo erogato in voucher dalla Compagnia di San Paolo, grazie alla collaborazione con l'associazione Giuco del Cottolengo: 270 euro a testa. Le carceri scoppiano e i progetti di reinserimento hanno solitamente un alto tasso di successo. Questo dello spazzamento delle strade punta a responsabilizzare i detenuti che si sono distinti per buona condotta e hanno i requisiti per uscire oltre il muro di via Pianezza. Per questo, chi si è dato disponibile a partecipare ed è stato selezionato per l'intervento delle prime settimane, prenderà il pullman da solo, senza alcun accompagnatore. Dovrà presentarsi al lavoro tutti i giorni e puntuale, come un qualunque dipendente Amiat. "Oltre ad essere una modalità efficace per un reinserimento nella vita civile, questo progetto è anche un'attività di utilità sociale a favore di tutta la città", ha commentato il sindaco Fassino ieri mattina, alla presenza dei detenuti. Anche l'assessore al Verde Enzo Lavolta commenta con orgoglio l'accordo: "Contribuisce al miglioramento della qualità della vita dei cittadini torinesi, aumentando il livello di pulizia dei giardini, soprattutto quelli periferici e dà fiducia ai detenuti, fornendogli competenze che potrebbero diventare una professione", una volta usciti dal carcere. La rieducazione è uno degli strumenti che, per i detenuti giudicati non pericolosi, può contribuire anche ad abbreviare la loro detenzione di qualche giorno. Se si dimostreranno volenterosi e si presenteranno puntuali all'appello. La loro attività sarà monitorata direttamente dai responsabili di zona di Amiat. In tempi di minori risorse per il Verde cittadino, soprattutto sul capitolo della manutenzione dei giardini, l'aiuto del volontariato sociale è senz'altro utile. Anche se Lavolta tiene a precisare: "Non è un'attività che vada a sostituire le funzioni di Amiat". "Dalle Vallette oltre il muro", questo è il nome dell'iniziativa, che verrà poi replicata in altri due moduli da sette settimane ciascuno, verrà formalizzato il 9 settembre. Per l'occasione, è prevista addirittura la visita del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Castiglione delle Stiviere (Mn): l'Opg è chiuso? macché, ha raddoppiato i detenuti di Mario Consani Il Giorno, 31 luglio 2015 Erano 120 gli ospiti in cura nella struttura, ora gli addetti devono occuparsi di 200 persone. Il garante: "Castiglione cancellato solo sulla carta". L'ex ospedale psichiatrico giudiziario (opg) sta scoppiando. Erano 120 gli ospiti in cura nella struttura di Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, anche quando la chiamavano sbrigativamente manicomio giudiziario. Ora che l'opg sulla carta non esiste più, gli addetti devono occuparsi però di oltre 200 persone. In qualche caso più lager che luoghi di cura, spesso buchi neri dove esseri umani restavano anche decine d'anni senza ragioni mediche o giudiziarie, tre anni fa i manicomi criminali italiani sono stati finalmente chiusi per legge. Al loro posto stanno nascendo le "Rems", residenze per l'esecuzione di misure di sicurezza previste nelle diverse regioni ma con capienze più ridotte, massimo venti posti, e gestione tutta sanitaria (salvo la rete di sicurezza, ovviamente). Il problema è che, nonostante siano passati più di tre anni e un paio di proroghe nelle scadenze, molte rems per ora esistono solo sulla carta. "Così da tutte le regioni arrivano ogni giorno a Castiglione nuovi pazienti mandati dal Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. E la struttura ormai scoppia. Non è possibile continuare così", denuncia il Garante per i diritti dei detenuti della Lombardia, Donato Giordano. Fra l'altro, il costante sovraffollamento impedisce che nell'ex Opg, da sempre all'avanguardia per la sua gestione tutta sanitaria, vengano realizzate ora concretamente le 6 Rems previste dal progetto e per le quali sono già stati stanziati i relativi finanziamenti dalla Regione. "È vero che i posti 120 erano nel vecchio Opg e 120 saranno complessivamente anche nelle sei nuove strutture", chiarisce il Garante. "Ma le dimensioni ridotte consentiranno un miglioramento notevole nelle condizioni di vita dei pazienti. Però è evidente che finché gli ospiti continuano ad aumentare, i lavori non possono cominciare". A Castiglione manca la prospettiva. "In molte regioni le Rems sono ancora di là da venire - lamenta Giordano - e poi la legge che le ha istituite parla di venti posti come capienza massima, ma non indica la minima. Così in Alto Adige, per esempio, hanno aperto una struttura con due soli letti". Che certo non potrà ospitare pazienti non residenti in caso di necessità, come invece sta facendo ora la Lombardia. Bologna: convenzione Comune-Tribunale per l'inserimento di soggetti messa alla prova Ristretti Orizzonti, 31 luglio 2015 Venerdì 31 luglio alle 11 nella sala stampa Luca Savonuzzi di Palazzo d'Accursio sarà presentata la convenzione tra Comune di Bologna e Tribunale di Bologna per avviare, in via sperimentale, i primi inserimenti di soggetti sottoposti all'Istituto della Messa alla prova in attività e servizi dell'Istituzione per l'Inclusione sociale all'interno del Progetto Empori Solidali - Case Zanardi e nelle attività di Protezione Civile. Il nuovo Istituto della Messa alla prova, intervenendo nella fase processuale precedente alla sentenza, consente all'imputato di richiedere ed ottenere l'estinzione del reato (nel caso di un esito positivo della prova), attraverso lo svolgimento di un programma di trattamento elaborato d'intesa con l'Ufficio Esecuzione Penale Esterna e recepito dal Magistrato nell'Ordinanza di sospensione del processo con Messa alla prova. Saranno presenti: Nadia Monti, Assessore Protezione Civile, Legalità, Giovani e Servizi Demografici; Bruno Perla, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Bologna; Maria Paola Schiaffelli, Direttore dell'Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Bologna e Ferrara; Elisabetta Laganà, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale. Modena: Fp-Cgil; carcere di Sant'Anna, sottovalutazione di una situazione esplosiva mo24.it, 31 luglio 2015 "Le cause sono di svariata natura e legate alla situazione di esasperazione che si vive all'interno del carcere". In merito alle ultime situazioni di aggressioni subite dagli agenti della Polizia Penitenziaria del Carcere Sant'Anna di Modena da parte di alcuni detenuti, si è espressa la Cgil. Il Sindacato ha segnalato: "In questi giorni, mai come prima, l'opinione pubblica è informata in merito alle continue aggressioni subite dagli agenti di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale Sant'Anna. Non passa giorno nel quale i lavoratori addetti alla sicurezza siano costretti a recarsi al pronto soccorso od a ricevere cure mediche in conseguenza alle continue aggressioni subite. Le cause sono sicuramente di svariata natura e legate alla situazione di esasperazione che si vive all'interno di un carcere, ma è inaccettabile che chi dovrebbe prevenire tutto questo continui a sottovalutare il problema. A fronte delle richieste che i lavoratori sostengono, perché si ponga un argine a questa situazione, la Fp Cgil non può assolutamente tacere che, seppur posti davanti ai fatti, i vertici della Direzione del Sant'Anna si avvalgano di atteggiamenti quasi inquisitori verso i lavoratori che hanno subito le aggressioni. Nei giorni scorsi il Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria è stato dettagliatamente informato sulla situazione del Sant'Anna e sul comportamento censurabile di coloro che hanno la responsabilità della gestione del carcere. Con l'atteggiamento che questi ultimi manifestano nei confronti degli agenti e con il contestuale rifiuto ad ascoltare qualsiasi suggerimento per evitare manifestazioni di esasperazione da parte dei detenuti, dimostrano nei fatti di non voler prendere atto della situazione. Tutti coloro che si trovano all'interno del carcere, siano essi detenuti o agenti, vivono una situazione sempre più difficile. Alla luce di questo crescente incremento di aggressioni sconcerta e preoccupa il fatto che chi è preposto ad evitare ogni tipo di criticità non dimostra la necessaria consapevolezza della situazione, alimentando un clima di demotivazione e frustrazione tra i lavoratori. La Fp Cgil più volte aveva informato la Direzione della necessità di governare adeguatamente la nuova metodologia detentiva che prevede l'apertura delle celle. La sottovalutazione di questo aspetto posto da Fp Cgil, inascoltata, avrebbe prodotto criticità fino al determinarsi di fenomeni come quelli che si sono verificati in questi giorni. È necessario che coloro a cui è affidata la responsabilità della Casa Circondariale Sant'Anna si rendano conto che non si può continuare in questo modo. Si intervenga immediatamente con soluzioni utili e rapide perché gli agenti non possono continuare a subire violenze". Verona: Ronco all'Adige, dove gli ex internati in Opg si riabilitano coltivando l'orto di Zeno Martini L'Arena, 31 luglio 2015 Otto persone un tempo detenute per vari crimini in Ospedali Psichiatrici Giudiziari producono ortaggi che possono essere acquistati direttamente al centro. A distanza di un anno dall'avvio del progetto di reinserimento e recupero degli ex internati negli ospedali psichiatrici giudiziari, alla Casa Don Giuseppe Girelli di Ronco si vedono letteralmente i primi ottimi frutti. È proprio il caso di dirlo, perché grazie ad otto pazienti veneti, che fino a pochi mesi fa si trovavano rinchiusi in ospedali psichiatrici giudiziari del Nord Italia, ora dismessi per legge, vengono raccolti ogni giorno e messi in vendita ortaggi di primissima qualità. Il piano di reinserimento degli ex internati è portato avanti dalla Sesta Opera, dalla parrocchia di Ronco e dalla stessa Casa Don Girelli, assieme al Servizio psichiatrico dell'Ulss 21 di Legnago diretto dal dottor Tommaso Maniscalco. Uno dei progetti sperimentati consiste appunto nella coltivazione di un orto e di una serra. È stato messo a punto dagli operatori della residenza ronchesana con il finanziamento della Fondazione Cattolica e la concessione di un appezzamento di terra da parte della Casa di riposo "Baldo-Ippolita". "Gli otto ex internati", spiega Giuseppe Ferro, direttore di Casa Don Girelli, "vengono retribuiti con voucher e sono assicurati. Abbiamo acquistato pure una piccola cella frigorifera per conservare gli ortaggi. Ogni giorno, a turno, i pazienti psichiatrici che abbiamo accolto lavorano la terra seguiti sempre sul posto da un nostro operatore. Chiunque può venire ad acquistare i prodotti, che utilizziamo anche per la nostra cucina". Come responsabile della produzione orticola è stato chiamato Giancarlo Residori, un ex internato in un ospedale psichiatrico giudiziario che ha già concluso il suo percorso di recupero ed ha già saldato il suo debito con la giustizia. "Dalla scorsa primavera", mostra sul campo Residori, "coltiviamo legumi, quali piselli, fagiolini e stringhe, cinque diverse varietà di pomodori, zucchine gialle banana, cipolle di Tropea, sia la varietà rotonda che lunga, e peperoni". "Attualmente", prosegue il responsabile del progetto di reintegro, "siamo impegnati nella raccolta delle patate viola, una varietà particolare ricca di antiossidanti, che si mangia con la buccia, buona sia fritta che in insalata o cotta al forno. Mi piacerebbe creare un vero e proprio marchio poiché nel circondario non viene coltivata, chiamandola magari Patata viola di Ronco. "Per l'autunno", promette Residori, "avremmo pronti anche i fagioli Borlotti rampicanti". "Non è tanto importante l'aspetto commerciale, in quanto questi prodotti non vengono coltivati per la vendita", precisa il direttore Ferro, "quanto la finalità dell'intervento, ossia il recupero sociale di queste persone, che poco per volta, anche attraverso il lavoro manuale, vengono completamente recuperate e reintrodotte nelle loro famiglie e nella società". Chi volesse contribuire a questa iniziativa, dando se non altro una soddisfazione a queste persone che si stanno impegnando in un cammino non sempre facile, basta che si rechino alla Casa Don Girelli e chiedano di poter comperare gli ortaggi coltivati nella residenza, un tempo occupata da ex detenuti. Un impegno costante, anche sotto il sole cocente di questa estate torrida, che certamente non è facile da sopportare per persone che magari non hanno mai lavorato a contatto con la terra. Le prime commesse per gli speciali ortolani della Don Girelli ci sono già: alcuni di loro, infatti, sono dediti a preparare le prime cassette di pomodori e patate. Mamone (Nu): rubate 500 forme di pecorino, incredibile furto nella Colonia penale di Luca Urgu L'Unione Sarda, 31 luglio 2015 Ladri in azione nella colonia penale agricola di Mamone, dove cinquecento forme di pecorino prodotto nel penitenziario dai detenuti sono sparite nel nulla. Il clamoroso furto dal magazzino del caseificio del carcere è avvenuto giovedì scorso, ma la notizia - coperta dal più stretto riserbo - è trapelata solo nelle ultime ore. Il blitz ha destato grande scalpore nella storica casa di reclusione dove scontano una pena breve un centinaio di detenuti (molti di questi stranieri) impegnati nella produzione di latte e formaggi, ma anche di carni, olio, miele e legnatico. Sono stati alcuni agenti di polizia penitenziaria, appena si sono accorti del furto, a denunciare l'episodio ai carabinieri. Roma: Osapp; a Rebibbia detenuto in regime di 41 bis aggredisce gli agenti Ansa, 31 luglio 2015 Un detenuto italiano, affiliato alla camorra e soggetto al 41 bis nel carcere di Rebibbia, ha aggredito nella serata di ieri, "per l'ennesima volta e senza apparente motivazione", gli agenti della polizia penitenziaria addetti alla sorveglianza del reparto. Lo afferma in una nota il segretario dell'Osapp Leo Beneduci sottolineando che "si tratta almeno del quinto episodio di violenza in pochi mesi di cui si è reso protagonista lo stesso detenuto". Se questo è il carcere duro - aggiunge Beneduci - figuriamoci il carcere cosiddetto ‘ordinario' in cui, infatti, gli episodi di violenza in danno di poliziotti penitenziari sono la regola e si annoverano nell'ordine delle decine ogni giorno. Se, quindi, è ormai acclarato che l'attuale Guardasigilli ignora del tutto di avere alle proprie dipendenze la polizia penitenziaria, altrettanto evidente è la necessità che rispetto all'attuale e del tutto inconsistente politica detentiva penitenziaria di cui fanno in questo momento le spese l'incolumità fisica di migliaia agenti, ai vertici del Dap sia destinata altra rilevante e decisiva figura rispetto all'attuale capo Santi Consolo". È ora di legalizzare le droghe di Roberto Saviano L'Espresso, 31 luglio 2015 Dopo decenni non c'è più dubbio. Le politiche repressive hanno fallito e provocato danni enormi. Bisogna prenderne atto e cambiare strada. Come spiegare a un adolescente cosa sia la droga e come farne uso? Lasciare che la questione venga affrontata tra le mura domestiche o iniziare un dibattito politico che poi diventi dibattito pubblico e che giocoforza coinvolga tutti, chi ci rappresenta, organi di stampa e noi? Avete letto bene: come spiegare a un adolescente come fare uso di droga. È inutile e controproducente sperare che i ragazzi non si facciano canne, che non si sentano attratti dall'uso di droghe sintetiche, che non bevano il sabato sera. Deresponsabilizza tutti, genitori, educatori e istituzioni. La verità è che dovremmo trovare il coraggio di dire ai nostri ragazzi: scusateci, siamo talmente inadatti a questo mondo che preferiamo che ogni tanto qualcuno di voi muoia piuttosto che assumerci come società l'onere di vigilare affinché le sostanze che la maggior parte di voi decide di assumere non siano pericolose per la salute. Eh sì, perché chi prova droghe e beve alcolici il sabato sera non è l'adolescente con una vita familiare complicata, non è la ragazza mollata dal fidanzatino. Non è il diciassettenne sovrappeso o che si crede brutto. Le droghe le prova chiunque per semplice curiosità. È un momento di crescita, come fare sesso per la prima volta. È crescita e trasgressione insieme. È dimostrazione di coraggio, e la vita degli adolescenti è nella fase eroica, quella in cui si vuole costantemente dimostrare a se stessi - non necessariamente agli altri - di poter superare i propri limiti o quelli che la pubblica morale pone. A sedici anni ci si sente onnipotenti ed eterni e non c'è nulla che faccia davvero paura, ecco perché inutile demonizzare o vietare, l'unica cosa che gli adolescenti ascoltano è il ragionamento, l'unica cosa davanti alla quale si fermano è la conoscenza. Il vuoto che esiste tra la gestione del problema droghe, che di fatto è demandato alle sole famiglie, e le tragedie che si consumano periodicamente, deve essere colmato da uno stato che non può concepire più il suo ruolo solo come emergenziale. Le istituzioni non devono più arrivare quando la decisione da prendere è se chiudere o meno l'ennesima discoteca o fare processi più o meno equi ai giovani sopravvissuti, ma devono essere presenti prima, nelle scuole a fare informazione e in parlamento a fare leggi. Lamberto Lucaccioni aveva 16 anni ed è morto dopo una serata in discoteca per gli effetti letali di una dose eccessiva di Mdma. A me non interessa sapere chi gliel'abbia venduta (questo è affare da inquirenti), a me non interessa sapere se fosse al parco o in discoteca quando l'ha assunta. A me quel che interessa è comprendere se davvero Lamberto, a 16 anni, sapeva quali fossero i rischi che correva data la natura stessa del mercato degli stupefacenti in Italia. Chi sintetizza e chi spaccia, chi si fa carico di gestire il traffico di marijuana e cocaina non sono aziende che lavorano legalmente, per conto dello stato o sotto il suo controllo. I prodotti che mettono in vendita non sono testati perché non siano letali per la salute di chi ne fa uso. A gestire il traffico di droga nel nostro paese sono le organizzazioni criminali che hanno come unico fine il profitto. A loro poco importa se un acido uccida o se una canna possa provocare perdita di memoria, attacchi d'ansia e paranoia o, addirittura, disturbi motori. La chiamano amnèsia, si tratta di marijuana tagliata con metadone, eroina e addirittura con l'acido delle batterie delle auto e la spacciano a Napoli. Quel che viene fuori dalla combustione di queste sostanze è una droga dannosissima per la salute. Con chi ce la prendiamo? Con le organizzazioni criminali, certo. E poi che facciamo, andiamo ad analizzare caso per caso le famiglie dei ragazzi che hanno assunto queste sostanze? E che facciamo, puntiamo il dito su come quei genitori avrebbero tirato su o loro ragazzi? Ma davvero? E poi? Chiudiamo i locali dove avviene lo spaccio? E questo basterà? E cosa avremo capito? E cosa avremo risolto? Nulla. Non avremo capito nulla e avremo risolto ancor meno. Non è una questione morale, ma di salute pubblica. Le politiche repressive hanno avuto decenni per dimostrare la loro validità e non solo hanno fallito, ma hanno anche fatto danni enormi. È ora di legalizzare il mercato delle droghe in Italia e di farlo in maniera ragionata per evitare che continuino a circolare sostanze che uccidono. Non è più possibile girare la faccia dall'altra parte. È ora di capire che abbiamo troppo da perdere. Droghe: cannabis legale, i vantaggi per le casse dello Stato di Lorenzo Mantelli lettera43.it, 31 luglio 2015 Con la marijuana libera, 10 mld di beneficio per i conti pubblici. E Pil in crescita. Mentre calerebbe la spesa che il governo stanzia per la lotta alle droghe leggere. Con il ddl depositato il 29 luglio, l'operazione "cannabis legale2 ha preso ufficialmente il via. Duecentoventi firme in calce alla proposta di legge presentata dall'intergruppo presieduto dal senatore Benedetto Della Vedova hanno dato il là all'iniziativa bipartisan che potrebbe rivoluzionare il consumo di droghe leggere in Italia. E se davvero la campagna andasse in porto, a beneficiarne sarebbero anche le casse dello Stato. Una liberalizzazione del mercato, infatti, determinerebbe vantaggi non soltanto per l'aumento del gettito fiscale, ma pure perché queste attività entrerebbero a far parte del Prodotto interno lordo (Pil), contribuendo a migliorare gli indicatori di stabilità del nostro Paese. A tal proposito, gli studiosi Gary Becker, Kevin Murphy e Micheal Grossman del National Bureau of Economic Research sono stati tra i primi a diffondere una ricerca le cui conclusioni sono state riprese da uno studio dell'università La Sapienza di Roma che, nel 2009, ha calcolato la spesa pubblica italiana per il contrasto alla droga tra il 2000 e il 2005. Ebbene, nel periodo considerato, per punire violazioni di legge connesse al traffico di sostanze stupefacenti, sono state effettuate più di 140 mila operazioni investigative, che hanno portato a circa 226 mila denunce (di cui più di 100 mila per cannabis), 250 mila processi e 130 mila condanne. Nel periodo in questione, la spesa pubblica destinata alla lotta anti-droga (considerando le spese dei servizi di polizia, di magistratura e carcerari) è stata di 13 miliardi di euro, di cui il 44% riguardante la proibizione della vendita della sola cannabis, che dunque è costata allo Stato più di 1 miliardo all'anno. Sono diversi gli studi a sostenere poi che il traffico di stupefacenti rappresenti per la criminalità organizzata il business principale, con un fatturato annuo di circa 60 miliardi di euro (dati Sos Impresa 2009). Stime più prudenti forniscono un ricavo complessivo nel 2010 di circa 24 miliardi di euro. Mentre analisi sul mercato dei soli derivati della cannabis portano a una stima di oltre 7 miliardi annui. Ipotizzando che le droghe leggere rappresentino la metà del ricavato del traffico di stupefacenti, gli autori de Lavoce.info hanno stimato che la legalizzazione produrrebbe un aumento percentuale del Pil annuo italiano tra l'1,2 e il 2,34%, a seconda che si consideri la stima bassa di 24 miliardi o quella alta di 60 miliardi per il fatturato di questo mercato. La legalizzazione, è spiegato nello studio, non comporterebbe un aumento della ricchezza, piuttosto avrebbe ricadute positive molto importanti sui principali indicatori di stabilità economica e finanziaria del Paese, liberando parte delle risorse da destinare in futuro alla riduzione del rapporto debito-Pil. Altri due studiosi, Jeffrey Miron e Katherine Waldock, hanno indicato una metodologia per calcolare il gettito fiscale e i risparmi di spesa, utilizzata per il caso italiano nelo studio dell'università La Sapienza: per il nostro Paese si ipotizza un beneficio fiscale annuale di quasi 10 miliardi di euro dalla legalizzazione dell'intero mercato degli stupefacenti. In particolare, l'Erario risparmierebbe circa 2 miliardi all'anno di spese per l'applicazione della normativa proibizionista (polizia, magistratura, carceri) e incasserebbe circa 8 miliardi all'anno dalle imposte sulle vendite (5,5 dalla sola cannabis). Persino il governo di Mario Monti, in uno studio, arrivò a valutare i possibili effetti benefici per i conti pubblici della legalizzazione della cannabis. "La proibizione della cannabis" - stima il calcolo del report citato dal Manifesto - "implica un costo fiscale di circa 38 miliardi di euro, a fronte di 15 miliardi per la cocaina e 6 per l'eroina". Ergo, la completa legalizzazione delle droghe in termini di gettito, a consumi invariati, "porterebbe nelle casse dello Stato 30 miliardi di euro l'anno". Con la legalizzazione della sola cannabis, applicando la stessa normativa fiscale del mercato dei tabacchi e delle bevande alcoliche, "l'Erario nazionale incasserebbe 8 miliardi l'anno di tassazione sulle vendite", è la conclusione del rapporto montiano. D'altra parte, la cannabis è di gran lunga la droga più utilizzata, non soltanto in Italia, ma in tutt'Europa. I numeri della relazione 2014 dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze non lasciano spazio a interpretazioni: un europeo adulto su cinque ne ha fatto uso nel corso della propria vita, 18,1 milioni solo nell'ultimo anno, dati decisamente più alti rispetto ad altre sostanze illecite, come cocaina ed ecstasy. Il rapporto relativo all'Italia recita dati simili, anche se con una lieve tendenza al ribasso negli ultimi anni: con la non trascurabile eccezione dei giovanissimi, fra i quali il consumo di droghe (in particolare di cannabis) risulta leggermente in aumento. Un esempio concreto dei benefici economici della legalizzazione? Dallo scorso primo gennaio scorso in Colorado ha prodotto un gettito erariale di 5 milioni di dollari al mese, in uno Stato che conta 5 milioni di abitanti, a fronte dei 60 milioni di cittadini italiani. Israele: vietato protestare, alimentazione forzata per i detenuti palestinesi di Umberto De Giovannangeli L'Unità, 31 luglio 2015 Per l'associazione dei medici israeliani è una "forma di tortura della quale un medico non deve essere complice". Per la dirigenza palestinese è una "palese violazione delle Convenzioni di Ginevra e del diritto umanitario internazionale". Per la democrazia dello Stato ebraico è una pagina nera. A determinarla con un voto a maggioranza - 46 favorevoli, 40 contrari - è il Parlamento israeliano che ha approvato una legge che autorizza l'alimentazione forzata nei confronti dei detenuti palestinesi che hanno intrapreso lo sciopero della fame. Per il governo israeliano questa decisione è motivata dal fatto che lo sciopero della fame condotto dai palestinesi e portato all'estrema conseguenza, la morte, alimenta la protesta violenta in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Durissima la presa di posi-zione che l'Israel's Medical Association ha affidato a una nota ufficiale: "Chiediamo ad ogni medico di non prestare in alcun modo collaborazione ad una pratica inaccettabile, equivalente alla tortura, esserne parte va contro a tutti i principi etici che legano il medico alla sua professione". Altrettanto dura è la presa di posizione di B'tselem, l'organizzazione israeliana per i diritti umani: "Siamo di fronte ad un atto di forza mascherato da una presunta legalità - rimarca l'ong in un comunicato. I palestinesi sono espropriati anche del diritto di protestare in maniera non violenta nei confronti della loro condizione. Leggi come questa sono indegne di uno Stato democratico". La questione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane è uno dei nervi scoperti, forse il più sensibile, nella popolazione dei Territori: non c'è famiglia che non ha avuto o non abbia un proprio congiunto detenuto nelle carceri israeliane. "Questa legge è contraria alle Convenzioni di Ginevra e al diritto umanitario internazionale. In questo modo si legalizza la tortura dei prigionieri che stanno reclamando i loro diritti in una forma non violenta", dice all'Unità Issa Qaraqe, capo della Commissione per i prigionieri palestinesi. "Ciò che è avvenuto è qualcosa che dovrebbe far inorridire e indignare ogni persona che abbia una coscienza civile - sottolinea a sua volta Hanan Ashrawi, più volte ministra dell'Autorità nazionale palestinese, paladina dei diritti umani nei Territori. Quello compiuto dalle autorità israeliane è un atto disumano che lede la dignità della persona. È come voler dire ad ogni palestinese: tu non hai un'anima, non hai alcun diritto non solo sulla tua terra ma anche sul tuo corpo. E del tuo corpo noi ne disponiamo a nostro piacimento". Racconta Amira Hass, firma di punta del quotidiano Haaretz, in un articolo del 6 giugno scorso: "Un detenuto amministrativo palestinese che è stato in sciopero della fame durante lo scorso mese è stato ospedalizzato con la forza ed incatenato al letto. Kha-der Adnan Musa si trova nell'ospedale Assaf Harofeh di Tzrifin con un braccio e una gamba legati al letto 24 ore al giorno e tre poliziotti giorno e notte nella sua stanza, secondo quanto hanno riferito due attivisti israeliani contro l'occupazione, che lo hanno visitato venerdì. Musa, che è stato posto in detenzione amministrativa per la nona volta 11 mesi fa, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la sua prolungata detenzione senza processo. Tre anni fa, durante un altro periodo di detenzione amministrativa, ha ottenuto il rilascio dopo uno sciopero della fame durato 66 giorni. In tutto, ha passato più di sei anni nelle prigioni israeliane...". Con la nuova legge le migliaia di Musa detenuti, potranno essere alimentati a forza. Direttamente in carcere. Legalmente. India: impiccato Yakub Memon, i "Bombay bombings" e la destra nazionalista di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 31 luglio 2015 Yakub Memon, indiano di religione musulmana, è stato impiccato ieri mattina, all'alba del suo 54esimo compleanno, dai boia del carcere di Nagpur, in Maharashtra. "Giustizia è stata fatta" ha commentato Mukul Rohatgi, capo dell'accusa di Stato nominato dall'amministrazione Modi, "al colpevole è stato dato pieno accesso al sistema giuridico, è stato condannato per un crimine efferato": riferimento alle petizioni indirizzate alle massime cariche istituzionali - nell'ultima settimana, tre alla Corte suprema, una al governatore del Maharashtra, una al presidente della Repubblica - in cerca di una grazia "in extremis". Tutte respinte, l'ultima a poche ore dall'impiccagione. I reati contestati a Memon sono cospirazione, detenzione illegale di esplosivi e armi da fuoco, concorso logistico e finanziario nell'attentato più sanguinoso della storia dell'India indipendente. Nel marzo del 1993 tredici bombe esplosero nella città di Mumbai, uccidendo più di 270 persone. Un attentato che, pochi mesi dopo, le autorità indiane avrebbero potuto ricondurre al terrorismo pakistano in combutta con la mafia locale di Bombay, legata all'estremismo musulmano di Islamabad e a (una parte?) dell'Inter-Services Intelligence (Isi), i servizi pakistani. I due responsabili dei "Bombay bombings" sono Dawood Ibrahim, capo della mafia di Mumbai, e "Tiger" Memon, malavitoso di Mumbai e fratello di Yakub, protetti a Karachi dagli uomini dell'Isi. Come lo sappiamo? Ce l'ha detto Yakub. La famiglia Memon, avvertita da "Tiger" dell'imminente catena di esplosioni, qualche giorno prima dell'attentato parte per il Pakistan, via Dubai, accettando la protezione dell'Isi dalla rappresaglia delle autorità indiane. Yakub Memon, pentito della propria scelta, decide di tornare in India per collaborare con la giustizia e tentare di togliere dal proprio nome lo stigma del "terrorista". Secondo i memoriali dal carcere di Yakub, il proprio avvocato e Tiger gli sconsigliarono il ritorno in patria. Yakub, laurea breve in economia e commercio e commercialista praticante, è un metodico: riempie una valigetta di dati, nomi, indirizzi e informazioni da consegnare alle autorità in cambio di un accordo per una riduzione di pena per lui e parte della sua famiglia, e si consegna alla polizia del Nepal. I nepalesi, informalmente, lo trasferiscono in Bihar e lo consegnano agli uomini del Research and Analysis Wing (Raw, la Cia indiana). All'apparenza tutto sembra andare secondo i piani di Yakub, che viene arrestato, mentre altri nove membri della sua famiglia, compresa la figlia appena nata, vengono aiutati a raggiungere l'India dai servizi indiani. Grazie alle informazioni di Yakub, le autorità indiane sono in grado di delineare il percorso di uomini, esplosivi e soldi che dal Pakistan, attraverso Dubai, avrebbero permesso i "Bombay bombings". Yakub Memon entra in carcere nell'agosto del 1994 da pentito. Il 27 luglio del 2007, dopo tredici anni, viene condannato per "cospirazione" alla pena di morte, assieme ad altri nove membri della sua famiglia. La pena capitale sarà commutata in ergastolo per tutti, compresi chi aveva piazzato le bombe a Bombay, tranne per lui, sempre professatosi innocente. Secondo la difesa, i reati imputati a Memon sarebbero "provati" solo grazie alle confessioni di altri pentiti. Il processo, fuori dal tribunale, è di carattere politico. Ambienti della destra nazionalista indiana vogliono il sangue musulmano di un Memon per vendicare i morti di Mumbai, città controllata dal Bharatiya Janata Party (Bjp) con la formazione paramilitare ultrainduista del Shiv Sena (letteralmente, l'esercito di Shivaji, re guerriero marathi del diciassettesimo secolo). Dopo una campagna d'odio anti-musulmano del Bjp nel 1992 e culminata nella distruzione della moschea Babri ad Ayodhya, in Uttar Pradesh (da una folla di ultranazionalisti), focolai di protesta da parte della comunità islamica locale si accesero in tutto il paese. Anche a Bombay, dove le squadracce del Shiv Sena, tra il dicembre del 1992 e il gennaio del 1993 rastrellarono i quartieri islamici della città nei pogrom noti come i "Bombay riots": 900 morti in due mesi, di cui oltre 700 musulmani. Due mesi dopo, le bombe di Dawood Ibrahim e Tiger Memon sarebbero state la sanguinosa rappresaglia dei crimini dell'"hindutva", l'ideologia suprematista hindu del Shiv Sena. I giudici per i "Bombay riots", avrebbero condannato tre membri del Shiv Sena a un anno di carcere per "istigazione all'odio". Yakub Memon, dopo 21 anni di carcere, è stato ucciso ieri dalla giustizia indiana. La vicenda di Yakub Memon è una sconfitta per lo stato di diritto, per l'autorevolezza delle istituzioni e per l'indipendenza del sistema giuridico dalla "vox populi" indiana. Una catastrofe chiamata giustizia. Siria: le Forze di sicurezza fanno irruzione nel carcere di Hama, prelevati 40 detenuti Aki, 31 luglio 2015 Le forze di sicurezza siriane hanno assaltato il carcere di Hama, nel centro della Siria, prelevando 40 detenuti accusati di terrorismo. È quanto ha riferito il sito di notizie vicino all'opposizione All 4 Syria, che cita fonti del carcere stesso. Stando ad alcune fonti, elementi dell'intelligence aerea siriana hanno fatto irruzione sabato scorso nell'ala che ospita i condannati per reati di terrorismo, portandoli via e trasferendoli per ragioni sconosciute nel carcere di Lattakia. Secondo un detenuto raggiunto telefonicamente e che si fa chiamare Abu al-Wafa al-Hamawi, poche ore prima dell'assalto i 40 prigionieri erano venuti a conoscenza di quello che sarebbe accaduto e avevano cercato di contattare le famiglie per informarle che sarebbero stati portati via. La fonte ha espresso il timore che questi detenuti siano stati giustiziati in modo sommario, dal momento che la maggior parte di loro era stata condannata a morte senza alcuna inchiesta, e ha affermato che il destino dei 40 è tuttora sconosciuto. Lo scorso giugno i detenuti del carcere di Hama avevano osservato sette giorni di sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione e le condizioni in cui erano costretti, sciopero interrotto dopo le "promesse" del presidente della Commissione riconciliazione a Hama di rivedere le sentenze pronunciate nei loro confronti, come si legge su All 4 Syria. Iraq: una Commissione dell'Onu indaga su casi di torture in carcere a Baghdad Nova, 31 luglio 2015 Una commissione dell'Onu sta indagando a Baghdad sui casi di tortura avvenuti nelle carceri. Uno dei membri della commissione internazionale, Alessio Bruno, ha spiegato all'emittente televisiva "al Jazeera" che "il codice penale iracheno non prevede il reato di tortura e non è possibile nel paese processare in modo adeguato i responsabili di questo reato". L'ispettore dell'Onu si chiede dunque "come può un giudice condannare per un reato che non esiste?". A questa operazione di indagine sta partecipando anche il viceministro iracheno per i Diritti umani, Abdel Karim al Janabi, il quale ha promesso di "portare il parlamento ad aprire un dibattito su questo tema".