Giustizia: la riforma difficile di Alessandro Campi Il Mattino, 30 luglio 2015 Tra le tante riforme messe in cantiere dal governo di Matteo Renzi quella della giustizia è sicuramente una delle più importanti. Non fosse altro per l'incidenza abnorme che l'azione della magistratura - in particolare di quella inquirente - ha avuto sulla vita pubblica italiana degli ultimi vent'anni: un caso unico tra le democrazie occidentali. Ma è anche, come dimostra la cronaca di queste ore, una delle più difficili da realizzare. Sino a che si parla di giustizia civile, tutti - operatori del diritto inclusi - riconoscono che la lentezza dei pronunciamenti in materia civile è un freno alle attività produttive e una delle ragioni che più scoraggia le corporation estere dall'investire in Italia. Su questo terreno, già lo scorso anno il ministro della Giustizia Orlando è riuscito a far votare dal Parlamento alcune novità (il processo civile telematico, il tribunale delle imprese, l'istituto della negoziazione assistita) che, dati alla mano, sembrerebbero aver alleggerito gli arretrati e le cause pendenti negli uffici giudiziari. Anche se resta da capire quanto la riduzione in quest'ultimo anno delle controversie civili dipenda effettivamente dalle -nuove norme introdotte o piuttosto dallo stato di crisi che continua ad attanagliare l'economia italiana. Il fatto che presto dovrebbero essere approvate altre misure in materia di concordati e fallimenti, finalizzate a snellire ancora di più i procedimenti di natura civilistica, rappresenta comunque una buona notizia per chiunque svolga un'attività imprenditoriale. Il problema, come sempre, è rappresentato dalla giustizia penale, che è il vero terreno sul quale da due decenni si scontrano le forze politiche e la magistratura organizzata e sul quale non si riesce a trovare un punto d'intesa che faccia uscire l'Italia dal clima d'emergenza politica e fibrillazione istituzionale nel quale continua a vivere. Ma è anche il terreno sul quale ormai da tempo si registrano episodi, vicende e comportamenti non degni di un paese civile: abusi della carcerazione preventiva (utilizzata come strumento coatto di confessione), indagini che il corto circuito tra procure e stampa trasforma in una forma di pena anticipata per chi in esse si trovi coinvolto (spesso da innocente), inchieste giudiziarie eclatanti che talvolta si risolvono processualmente in altrettanto eclatanti assoluzioni, intercettazioni o registrazioni di conversazioni divulgate col fine manifesto di colpire o danneggiare un avversario politico, età. Per non parlare di un sistema carcerario che invece di redimere il reo genera nuova criminalità e favorisce il degrado della persona. A questa situazione si è cercato più volte di porre rimedio, ma ogni volta si sono scatenate polemiche roventi. Lo si è visto anche nei giorni scorsi. Stabilire un freno all'uso delle intercettazioni e alla loro divulgazione fuori da ogni regola (specie di quelle penalmente irrilevanti oppure ottenute in modo fraudolento), imporre ai pubblici ministeri un termine entro il quale, finite le indagini, debbono decidere tra il rinvio a giudizio o l'archiviazione di un'inchiesta, sembrerebbero persino misure di buon senso. Ma è bastato avanzare proposte di questa natura all'interno della legge di riforma del processo penale attualmente in discussione in Parlamento, per innescare la reazione compatta e furibonda, non solo delle opposizioni parlamentari (a partire dal Movimento 5 Stelle), ma ancora una volta e soprattutto della rappresentanza sindacale dei magistrati. Non è la prima volta che accade, ovviamente. Basti ricordare, senza andare troppo indietro nel tempo, le reazioni dell'Anni alla legge sulla responsabilità civile del magistrati approvata nel febbraio di quest'anno, presentata all'opinione pubblica come un'azione ritorsiva della (cattiva) politica nei confronti di chi, nel corso degli anni, ha avuto il solo torto di metterne a nudo i comportamenti criminosi. Così come una punizione contro i magistrati fu considerata, nei mesi scorsi, persino la proposta del governo di ridurre - da 45 a 30 giorni - il loro periodo di ferie. L'impressione, stante questo suo atteggiamento costantemente sospettoso e polemico nei confronti della politica e che la magistratura operi ormai come una corporazione talmente chiusa e autoreferenziale, talmente convinta di rappresentare l'unico freno legale e morale contro il dilagare della corruzione e del malaffare in ogni piega della società, da vivere come un attacco alla propria autonomia e al proprio ruolo di garante della moralità pubblica qualunque proposta di cambiamento, anche quelle finalizzate a raddrizzare abusi e storture ormai evidenti. Come è appunto il caso delle intercettazioni: strumento indispensabile d'indagine e di accertamento della verità processuale, come ogni magistrato s'affretta a spiegare, ma divenuto anche - attraverso la loro divulgazione ad arte - strumento di ricatto e di indebita pressione politico-mediatica. Il diritto d'informazione non dovrebbe arrestarsi dinnanzi al pericolo di esporre una persona innocente alla pubblica gogna? Davvero si è convinti che un'intercettazione fraudolenta o illegale si giustifichi per il solo fatto di essere un'interessante fonte per conoscere i cattivi costumi del prossimo, anche quando tali costumi non configurano alcun reato specifico? Ma come è anche il caso della patologica inversione che si è prodotta nella cultura giuridica del Paese e che ha fatto sì che alla segretezza delle indagini e alla pubblicità del processo, stabilite dalla legge, siano subentrate la massima rilevanza pubblica data alla fase investigativa e l'irrilevanza sostanziale dell'eventuale giudizio di condanna o assoluzione. Il racconto della nostra vita civile, non a caso percepita come intrinsecamente sporca e corrotta, è ormai da anni quello che emerge, non dalle sentenze (spesso assolutorie, sempre tardive) dei tribunali, ma dalle pagine degli atti giudiziari delle procure, che la stampa molto spesso si limita a riprendere e ad amplificare. Finanche il linguaggio pubblico-pubblicistico italiano si è uniformato strada facendo a quello dei procuratori e della magistratura inquirente, nella scelta dei termini come nella visione generale della politica e della società. Dal che si deduce che una vera e profonda riforma della giustizia (a partire da quella penale) potrà aversi solo quando sarà radicalmente cambiato il clima culturale dell'Italia, quando si sarà usciti da una stagione storico-politica sin qui caratterizzata da una visione della giustizia animata più da sete di vendetta politica, da spirito di rivalsa sociale e da accecamento ideologico, che da quel senso dell'equità e dell'imparzialità che è invece la vera base del diritto. Ma quel momento ahimè sembra ancora lontano. Giustizia: estate nera per le carceri, torna l'emergenza suicidi e sovraffollamento di Nello Scavo Avvenire, 30 luglio 2015 Non è mai piacevole restare con i rubinetti a secco d'estate. Ma se accade in carcere è un supplizio in più. Perciò a Caserta i detenuti, scherzando ma non troppo, hanno chiesto uno sconto di pena per ogni ora trascorsa nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Ma non è un caso isolato. A Cosenza l'emergenza idrica si aggiunge a disagi annosi e irrisolti. Altrove scoppiano rivolte di cui poco viene fatto filtrare. Nei giorni scorsi la deputata del Pd Enza Bruno Bossio si è recata in visita ispettiva nel carcere di Cosenza "in cui si è determinata una grave emergenza idrica che aveva causato una forte manifestazione di protesta da parte di tutti i detenuti", ha detto Bruno Bossio (che è membro del partito radicale). Quel che è più grave è che la vita del penitenziario può essere sabotata dall'esterno senza che si trovino i colpevoli. La mancanza d'acqua, infatti, è stata causata dal furto dei tubi di rame della conduttura comunale e "dalla rottura di una pompa di sollevamento con conseguenti danni ingenti anche all'impianto idraulico dell'istituto penitenziario". Per fronteggiare l'emergenza il prefetto, Gianfranco Tomao ha ordinato ai vigili del fuoco di fornire l'acqua al carcere tramite le loro autobotti per uso igienico-sanitario. Le cisterne di cui era dotato il penitenziario si erano completamente svuotate e solo in queste ore la situazione sta tornando alla normalità con l'erogazione dell'acqua potabile. Ad Avellino, il 16 luglio, i detenuti avevano organizzato una protesta sedata a fatica dagli agenti penitenziari. Un sovrintendente è finito in o-spedale per aver inalato i fumi sprigionati da stracci e bombolette incendiate durante la rivolta a causa della mancanza d'acqua. I detenuti hanno dato fuoco a lenzuola, effetti personali, bombolette di gas adoperate per alimentare i fornellini nelle celle. Al 30 giugno si contavano 45.552 detenuti, al di sotto dei record dei quasi 60mila raggiunti negli anni scorsi, ma comunque al di sopra della capienza massima di 38mila posti. La stagione calda non fa che aumentare i problemi ed esacerbare gli animi. A Santa Maria Capua Vetere è stata scelta la via nonviolenta, ma non meno chiassosa. Un'istanza firmata da 1.050 detenuti e indirizzata al magistrato di sorveglianza con la richiesta di ottenere uno sconto di pena di un giorno per ogni dieci trascorsi in condizioni disumane o, in alternativa, un indennizzo di 8 euro al giorno a testa. Avrebbe dovuto essere un carcere modello. Costruito una decina d'anni fa e presentato come all'avanguardia, la struttura non è mai stata allacciata alla rete idrica pubblica. Gli avvocati della Camera penale locale chiariscono che l'istanza "non ha alcuna possibilità' giuridica di essere accettata", ha spiegato il presidente Romolo Vignola, nel corso di una conferenza stampa. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha stanziato un milione di euro per i lavori ma i fondi non possono essere usati perché le opere di allacciamento vanno fatte al di fuori del perimetro del carcere, su cui il ministero delle Giustizia non ha alcuna competenza. "Ogni giorno - spiega l'avvocato Nicola Garofalo, responsabile della Commissione per i diritti dei detenuti della Camera Penale - l'amministrazione penitenziaria spende parecchi euro per acquistare l'acqua da imprenditori privati: due litri di acqua vengono distribuiti ad ogni detenuto per bere, il resto arriva con le autobotti che riempiono il pozzo che alimenta il carcere". Le esplosioni di aggressività sono all'ordine del giorno. Ieri un detenuto del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore ha staccato a morsi il dito di un agente penitenziario. Dall'1 gennaio sono oltre 250 i poliziotti penitenziari aggrediti e feriti. Altre volte il disagio e la frustrazione vengono sfogati in gesti di autolesionismo, fino ai 25 che si sono tolti la vita quest'anno. L'ultimo ieri a Terni. Un uomo di 48 anni, originario della provincia di Sassari, si è tolto la vita impiccandosi con delle lenzuola alla finestra della cella. Giustizia: il braccialetto elettronico? non c'è… e tu resti in galera dall'Unione Camere Penali* Il Garantista, 30 luglio 2015 L'Unione Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, ha avviato dalla fine del 2014 un'attività di monitoraggio, in tutti i Tribunali italiani, delle problematiche relative alla detenzione in Italia. Grazie all'impegno dei referenti di ciascuna Camera Penale territoriale, si è ottenuto un quadro preciso sull'applicazione delle norme in materia di esecuzione penale. Così sono stati raccolti, studiati ed analizzati i dati relativi a una serie di questioni. E, tra le altre, all'applicazione delle norme (si tratta dell'articolo 275-bis c.p.p. e dell'articolo 58-quinques dell'Ordinamento penitenziario) in tema di sorveglianza elettronica: e cioè dell'utilizzo dei cosiddetti braccialetti elettronici. Braccialetti introvabili. Con particolare riferimento all'indagine conoscitiva relativa all'applicazione di quest'ultima particolare misura cautelare, l'Osservatorio, dopo 8 mesi di monitoraggio, ha rilevato innanzitutto che si è riscontrata una certa difficoltà a reperire dati certi sul numero effettivo di dispositivi presenti ed utilizzabili da parte di ciascun Tribunale. Gli apparecchi complessivi attualmente a disposizione sono circa 2.000 e costano allo Stato italiano 11 milioni di euro l'anno (5.500 euro l'uno), versati a Telecom Italia (fornitore unico, senza gara d'appalto), a cui vanno aggiunti gli 80 milioni di euro, versati sempre a Telecom dal 2001 al 2011 per l'utilizzo, in via di sperimentazione, dei primi 114 braccialetti. Ma in questo decennio sono stati pochissimi quelli effettivamente utilizzati. L'attuale contratto di fornitura non prevede peraltro la possibilità dell'aumento del numero di dispositivi da parte di Telecom. Occorrerebbe dunque rifare nuovamente l'appalto milionario. Ad oggi, tale gara non è stata ancora indetta ed il plafond di strumenti a disposizione rimane quello del tutto insufficiente delle 2.000 unità. Dall'esame delle risposte nel loro complesso si può in ogni caso concludere che i casi di applicazione dell'istituto sono assai modesti (i casi di solito nei singoli Tribunali si contano sulle dita di una mano, tranne alcune rare eccezioni), e che anche negli Uffici giudiziari in cui fino a poco tempo fa l'applicazione risultava costante oggi si assiste ad una drastica riduzione dell'applicazione dell'istituto a causa della mancanza di dispositivi. Le alternative in ordine sparso. Molto interessate è lo studio statistico relativo alle conseguenze in caso di mancanza del dispositivo (che allo stato si può sostanzialmente definire cronica). A fronte di tale evenienza l'Autorità giudiziaria ha dato risposte assai diverse e per certi versi contrastanti tra di loro. Dal mantenimento della custodia in carcere tout court a quello accompagnato all'inserimento in una sorta di lista di attesa a tempo: se entro il termine indicato non perviene disponibilità si mantiene la custodia carcere; in altri casi passato il termine vengono invece concessi i domiciliari senza braccialetto, talvolta con la prescrizione che non appena il dispositivo sarà disponibile verrà applicato. Un caso interessante è emerso recentemente laddove al soggetto sottoposto agli arresti domiciliari con il braccialetto è stata sostituta la misura con quella meno afflittiva dell'obbligo di presentazione: orbene il G.I.P. nel provvedimento ha disposto il mantenimento della misura domiciliare detentiva (e quindi di fatto la sospensione della nuova misura non detentiva) fino a quando i tecnici Telecom non avranno disinstallato il dispositivo stesso (tempo stimato 10 giorni). All'esito del proprio studio statistico l'Osservatorio Carcere Ucpi rileva innanzitutto come anche in questo settore (come del resto già riscontrato in materia di studio sulle misure alternative o sull'applicazione dell'art. 35-ter O.P.) le cattive prassi applicative finiscano per azzerare i principi posti a base delle riforme. La denuncia. L'Unione Camere Penali, con il suo Osservatorio Carcere, avendo già in passato denunciato l'aberrante situazione relativa alla mancata applicazione dell'art. 275 bis C.P.P, ribadisce oggi, alla luce dei dati statistici in suo possesso, la denuncia dell'illegale detenzione di tutti coloro che, pur avendo ottenuto gli arresti domiciliari, restano in carcere per la mancata disponibilità di mezzi di controllo. Dopo oltre un anno dall'entrata in vigore della riforma, che avrebbe dovuto favorire e incrementare le uscite dagli istituti di pena, la norma trova, nella maggior parte dei casi, solo un'applicazione virtuale o viene disapplicata per l'impossibilità di darne esecuzione. Il sondaggio promosso dall'Osservatorio descrive una situazione raccapricciante per uno Stato di Diritto. Restare in carcere, pur potendo uscire, era ed è davvero inimmaginabile. Va sottolineato che il novellato art. 275 bis, contrariamente a quanto era stabilito in precedenza, prevede che la prescrizione degli strumenti elettronici di controllo debba rappresentare la regola. Regola che, invece, per la insufficienza di strumenti, trova le più diverse applicazioni. Pronti a nuove proteste. Le norme sono quasi del tutto disattese. Inoltre, contrariamente agli impegni internazionali assunti, non è stato ancora istituito il delitto di tortura. Per tutti questi motivi l'Unione Camere Penali, con il suo Osservatorio Carcere, invita le Camere Penali territoriali a continuare a vigilare sull'esito delle istanze depositate dai detenuti relativamente ai due istituti rimasti inapplicati, e si riserva, allo stato, eventuali azioni di protesta ove non venga immediatamente aumentato il numero di braccialetti a disposizione dell'Autorità Giudiziaria, ponendo fine a quella che altro non è che un'ingiusta detenzione per coloro che potrebbero usufruire del dispositivo di controllo e, invece, restano reclusi. *Documento a cura del presidente dell'Unione Camere penali Beniamino Migliucci e del responsabile dell'Osservatorio Carcere Ucpi Riccardo Polidoro Giustizia: i detenuti lasciati senz'acqua, l'ultima vergogna dell'estate di Riccardo Polidoro (Responsabile Osservatorio Carcere dell'Ucpi) Il Garantista, 30 luglio 2015 "In nome del popolo italiano Rossi Gennaro è condannato a sei anni di reclusione, parte dei quali da scontare senza acqua". Dispositivo di sentenza che nessun giudice potrebbe pronunciare, ma che di fatto trova esecuzione, a volte, nel periodo estivo. Il Paese non sa che in alcune carceri si sta vivendo un'emergenza idrica drammatica. A Santa Maria Capua Vetere il disumano disagio è endemico. La casa circondariale ospita 1.100 detenuti, mentre la capienza è di 833 unità, Al sovraffollamento si aggiunge l'ulteriore sanzione della privazione del bene primario per eccellenza: l'acqua. Molti, invece, sono a conoscenza della mancanza di acqua, per alcune ore e per momentanei problemi tecnici a Capri, dove i parrucchieri sono stati costretti addirittura a fare gli shampoo con la minerale. Sono lo regole del nostro giornalismo. Se mancasse l'acqua in un ospedale, i media insorgerebbero, si griderebbe allo scandalo, si valuterebbero responsabilità politiche, ì parenti dei degenti s'incatenerebbero sotto il nosocomio, avendo la totale solidarietà dell'opinione pubblica, oggi preoccupata dello shampoo dei vip. Tranquillizzo i lettori, l'acqua a Capri è tornata a sgorgare dai rubinetti. Non così in alcuni istituti dì pena e soprattutto a Santa Maria Capua Vetere, dove il disumano disagio è endemico. La casa circondariale è di recente costruzione, ma il progetto non ha tenuto conto dell'assenza dell'allacciamento idrico. Bazzecole! Ospita 1.100 detenuti, mentre la capienza regolamentare è di 833 unità. Al sovraffollamento dunque, si aggiunge l'ulteriore sanzione - anch'essa non prevista dalla Legge - della privazione; del bene primario per eccellenza che è l'acqua. La Direzione del carcere, ogni anno d'estate, è costretta a ricorrere a misure d'urgenza per tamponare una situazione d'incivile malessere che coinvolge lo stesso personale dell'amministrazione penitenziaria, per l'esasperazione dei detenuti. L'acqua necessaria viene prelevata da un pozzo semi-artesiano e filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione. Il rimedio consente docce razionate, acqua corrente a singhiozzo, ma lascia elevato il rischio di problemi igienici e di malattie. Si pensi alla pulizia di una cucina che deve servire migliaia di pasti! La Camera Penale di Santa Maria Capita Vetere si è fatta promotrice di un' istanza firmata dai detenuti e indirizzata al Magistrato di Sorveglianza per chiedere il risarcimento previsto dalla Legge per la reclusione in condizioni disumane e degradanti. Un'iniziativa che vuole accendere i riflettori sulla vergognosa situazione che ogni estate si ripeto nel carcere sammaritano. La soluzione del problema dovrebbe vedere coinvolti i Ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture, nonché gli Enti Locali per l'allacciamento alla rete idrica esterna. Sono anni che non si raggiunge un risultato non solo vitale e urgente, ma doveroso e imprescindibile per un Paese Civile, che altrove si sarebbe concretizzato con la stessa facilità di bere un bicchiere d'acqua. Giustizia: nuove norme sul processo, niente rito abbreviato per i delitti gravi di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015 L'aula della Camera, a larga maggioranza con 269 voti a favore, 27 contrari e con l'astensione dei deputati M5S, ha approvato le nuove norme sul processo abbreviato che ne escludono l'utilizzazione per i reati più gravi tassativamente indicati dalla legge. La nuova legge passa ora al Senato. Due le conseguenze della modifica all'articolo 438 del Codice di procedura penale. Innanzitutto il rito abbreviato viene espressamente escluso per alcuni reati di sangue o di particolare gravità. L'elenco è tassativo e comprende, ad esempio, strage, omicidio premeditato o aggravato da sevizie, violenze sessuali o motivi abietti, tratta di persone, sequestro di minori o a scopo estorsivo con morte dell'ostaggio. Per tali delitti, l'imputato non potrà chiedere l'abbreviato se non subordinandolo a una diversa qualificazione dei fatti o all'individuazione di un reato diverso. Per i reati di sua competenza, l'abbreviato si svolgerà invece di fronte alla Corte d'assise, mentre oggi a decidere è sempre il giudice monocratico. Se la richiesta di abbreviato è accolta, gli atti dovranno, dunque, essere trasmessi alla corte competente. "Escludere l'abbreviato per alcuni delitti di sangue particolarmente efferati risponde all'idea che la pena deve in qualche modo rapportarsi alla gravità dell'offesa: francamente cozza con il senso di giustizia riconoscere in automatico uno sconto di pena, solo per la scelta di un rito processuale, a chi commette un crimine feroce", ha commentato l'ok della Camera Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. "È un provvedimento - ha sottolineato l'esponente del Pd - coerente con il riassetto del sistema punitivo che stiamo attuando in questa legislatura attraverso il rafforzamento, da un lato, dell'aspetto risocializzante della pena e, dall'altro, della tutela di vittime e parti offese". Esulta anche la Lega, attraverso il deputato Nicola Molteni, primo firmatario e relatore della legge, che sul suo profilo Facebook ha postato "Grande vittoria della Lega Nord, approvata la nostra legge anti-Kabobo. Mai più sconti di pena e premi a criminali, pluriomicidi, assassini, sequestratori, stragisti, scafisti. Mai più sconti di pena ai vari Kabobo, il criminale che dopo aver ammazzato a picconate tre persone è stato condannato a soli 20 anni, e la metà li passerà da uomo libero". Il giudizio abbreviato è disciplinato dall'articolo 438 e seguenti del Codice di procedura penale. È caratterizzato dal fatto che con esso si evita il dibattimento e la decisione viene presa nell'udienza preliminare, tendenzialmente allo stato degli atti. In caso di sentenza di condanna, la pena da irrogare è ridotta in concreto di un terzo secco, salvo in caso di ergastolo senza isolamento diurno con riduzione a 30 anni di reclusione. Giustizia: i magistrati distinguano tra processo e azienda di Vitaliano Esposito (già garante dell'Aia per l'Ilva di Taranto) Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015 Gli articoli sulla questione dell'Ilva di Taranto, comparsi a firma di Paolo Bricco su Il sole 24 ore del 24 e 25 luglio, si inseriscono sul più ampio dibattito suscitato dalle dichiarazioni del vice Presidente del Consiglio superiore della magistratura sulla necessità che il giudice sappia valutare gli effetti delle proprie decisioni. L'esigenza di tener distinte le vicende del processo dal destino dell'azienda, sottolinea un dato che è sinora sfuggito al dibattito: la quasi totalità delle condanne che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha inflitto al nostro Stato è stata determinata proprio da tale omessa valutazione. È sfuggito al confronto che incombe sul giudice un inderogabile obbligo giuridico: quello di tutelare tutti i diritti, a chiunque appartenenti, che possono venire in discussione ed essere lesi nell'esercizio, pur legittimo e doveroso, dell'azione penale. Strumento di protezione degli interessi che in un determinato momento sono ritenuti dai governanti meritevoli di tutela, il processo penale può risolversi - e storicamente si è risolto - in un arnese di oppressione o prevaricazione dei diritti fondamentali appartenenti anche a persona diversa da quella oggetto del procedimento. I diritti che vengono in discussione sono quelli del rispetto della vita privata (art. 8 della Convenzione europea), delle libertà e sicurezza (art. 5), del principio di sicurezza giuridica (art. 7), della tutela della proprietà con riferimento a sequestri e confische (art. 1 del 1° protocollo aggiuntivo alla Convenzione). E ciò senza considerare le reiterate violazioni delle regole del giusto processo e dei canoni del processo celere (art. 6). Nella mia non felice esperienza, nel 2013, di Garante per l'attuazione dell'Aia dell'Ilva di Taranto non mancai di segnalare (e gli atti sono ancora tutti consultabili sul sito dell'Ispra) come, secondo la Corte di Strasburgo, il sistema assicurato dalla Convenzione europea in materia ambientale riposasse su due capisaldi: quello della Corporate governance (dovere primordiale dello Stato di dotarsi di un quadro legislativo ed amministrativo mirante ad una prevenzione efficace e avente una idoneità dissuasiva) e quello dell'obbligo e di incriminazione e di esercizio dell'azione penale; il primo di carattere preventivo, l'altro di carattere successivo e repressivo. Ma al contempo denunciavo come la peculiarità della situazione consistesse nella circostanza che, a quel momento, i due profili di tutela apparissero tra loro concorrenti e non tra loro temporalmente ordinati. Ed ammonivo come in quella confusa situazione venissero in discussione il diritto alla salute, all'ambiente, al lavoro, alla conservazione del posto di lavoro, all'iniziativa economica e privata ed alla stessa tutela della proprietà; diritti che trovano, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, la loro tutela, secondo i casi, nel diritto alla vita (art. 2 Conv.), o in un largo concetto del rispetto alla vita privata (art. 8), o in una concezione sociale dei beni (art. 1 del citato 1° protocollo). Resta da parte mia il rammarico per essere stato da pochi percepito il ruolo neutro del Garante di indiscussa indipendenza (come era detto nella legge istitutiva), equidistante tra gestore e governo, tra controllato e controllore: garante, quindi, non del governo o dell'Ilva, ma garante della legge nei confronti della collettività. Oggi l'incancrenirsi della situazione può aprire uno scenario tale da far scolorire completamente quello relativo a Punta Perotti di Bari (caso Sud Fondi, sentenza della Corte del 20 gennaio 2009), che pur costituisce, ancora oggi, un buco nero di dimensioni inestimabili per le nostre finanze. Ma nessuno - ad onta persino dei morti e del dolore - diventerà rosso di vergogna, anzi paonazzo, come nessuno lo divenne, quando, sotto questo titolo, Alessandro Pizzorusso commentò, la prima sentenza di condanna dell'Italia (caso Artico, sentenza della Corte del 13 gennaio 1980). Giustizia: e il Senato si ribellò ai pm "giù le mani da Azzollini" di Errico Novi Il Garantista, 30 luglio 2015 È così raro vedere la politica ribellarsi al circuito mediatico-giudiziario che non ci credono neppure i berlusconiani. Pochi minuti dopo il no del Senato all'arresto di Antonio Azzollini, Renato Brunetta se n'esce con uno sfogo difficilmente comprensibile: "Siamo garantisti, ma proviamo pena per il mercimonio della libertà di coscienza esercitato non per garantismo ma per salvare il governo". Dal che se ne dovrebbe dedurre che il garantista Brunetta avrebbe preferito vedere il senatore Ncd Azzollini agli arresti pur di far cadere la maggioranza. Paradossi di fine luglio. E segni che la novità dell'insubordinazione anti-pm è un trauma ingestibile. Fatto sta che nell'aula di Palazzo Madama si contano ben 189 contrari all'autorizzazione chiesta dalla Procura di Trani, appena 97 a favore (leghisti e grillini da soli ne assicurano la metà) e 17 astenuti., Niente custodia cautelare per il parlamentare di Molfetta, indagato per il crac della Casa della Divina provvidenza. Il più grande ospedale psichiatrico d'Europa (non d'Italia, d'Europa, almeno in termini di dimensioni fisiche) della cui sorte Azzollini si è probabilmente interessato. Con metodi e condotte criminali secondo la Procura di Trani, tesi che però non ha suggestionato i senatori. Sul no pronunciato ieri in Aula pesano chiaramente due questioni. La libertà di coscienza che il capogruppo dem Luigi Zanda aveva concesso ai suoi e il voto segreto. In stato di forte imbarazzo, lo stesso Zanda dirà a caldo che lo scrutinio segreto è diventato ormai "un'arma politica, troppo spesso usata strumentalmente, e così è molto difficile interpretare correttamente questo voto". Si riferisce al sospetto un po' paranoide ma subito condiviso da molti renziani secondo cui sarebbero stati leghisti e grillini a votare in gran numero a favore di Azzollini. Il tutto per poi additare il Pd come una banda di ladruncoli. Scherzi dell'eccessiva calura, probabilmente. Sì, ovviamente Grillo ci sguazza ("La legge non è uguale per tutti. Azzollini salvato dal Pd", il suo tweet) e Salvini segna a porta vuota ("Renzi e il Pd hanno calato le braghe per salvare le loro poltrone, che pena"), ma la verità è che le difese pronunciate in Aula dallo stesso Azzollini, da responsabile Giustizia dell'Ncd Nico D'Ascola e da un appassionato Tito Di Maggio (eletto con Monti e passato a Gal) fanno a pezzi le tesi dei pm. Il senatore incriminato fa notare come la gran parte delle accuse si regga sull'idea che fosse stato lui, negli ultimi anni, l'amministratore di fatto della Casa di cura, "eppure gli stessi sostituti che hanno firmato la richiesta d'arresto nei miei confronti chiedevano rendiconti minuziosi agli amministratori veri, quindi sanno meglio di chiunque altro che non ero io a gestire l'ente". Tito Di Maggio si occupa di destrutturare la vera arma letale spianata contro Azzollini, cioè quella frase con cui il senatore avrebbe minacciato le suore-amministratrici: "Se non fate come dico io vi piscio in bocca". L'onta di cui secondo grillini e salviniani si sarebbe macchiato il Pd sta tutta nel non essersi lasciati suggestionare da quella fantomatica ierofania folgorante. "Ma quelle parole le avrebbe riferite un testimone che ha detto agli inquirenti di essersi trovato in una stanza a fianco a quella teatro della mostruosa minaccia". La minaccia in realtà arriva dai banchi più inquieti dello schieramento dem, e in particolare dall'incredibile intervento di Lucrezia Ricchiuti: "Attenti, amici e colleghi, alle condotte che assumiamo e alla coerenza che mostriamo al nostro elettorato: in Giunta il gruppo ha votato per l'arresto, ora cosa è cambiato? Vi avverto", incalza la senatrice della minoranza pd, "come disse qualcuno, talora votare e scegliere male è peggio di un delitto, è un errore". Fatwe radicali opportunamente lasciate scivolare via, come quella persino divertente di Mario Giarrusso, plenipotenziario dei Cinque Stelle sulla giustizia: "Azzollini ha avuto un trattamento di favore della magistratura, che lo ha lasciato in pace tanti anni sul suo territorio". Non essere arrestati è dunque una concessione. Un'idea khomeinista della separazione dei poteri a cui ieri Palazzo Madama ha dato un liberatorio benservito. Giustizia: la svolta Democratica, da giustizialisti a garantisti (solo per interesse) di Massimo Franco Corriere della Sera, 30 luglio 2015 A sconcertare non è tanto il "no" all'arresto del parlamentare del Nuovo centrodestra, Antonio Azzollini, deciso ieri dal Senato. Colpisce soprattutto la sensazione che il destino giudiziario di una persona dipenda dal momento politico, al di là del merito delle imputazioni. Il sospetto è che il Parlamento sia condizionato dall'onda emotiva e demagogica provocata dalle sue scelte; o, come ieri, dagli equilibri di una maggioranza. Il risultato è il trionfo di un doppio standard nel quale non si capisce più quanto contino le garanzie e la giustizia, e quanto la realpolitik nel significato più crudo del termine. È un'incertezza sottolineata dal comportamento tenuto ieri dal Pd. Di colpo, è come se fosse finita la "fase eroica" di Matteo Renzi; e cominciato il confronto con la realtà dura di equilibri di maggioranza precari, che la "libertà di coscienza" offerta ai senatori non riesce a velare a sufficienza. Un anno fa, probabilmente il presidente del Consiglio avrebbe liquidato la pratica Azzollini con un perentorio pollice verso. Ma era un'altra epoca politica. Oggi, il suo non è il Pd feroce e vincente delle elezioni europee del 2014. È, invece, quello ammaccato dalle Regionali di maggio, dai ballottaggi di metà giugno e dagli scandali in alcune giunte locali. Si tratta di un partito lacerato da una faida interna senza fine, che mostra il governo in bilico proprio al Senato: quello che Renzi vorrebbe riformare e depotenziare. L'esito di ieri va dunque analizzato politicamente. È l'unico modo per spiegare perché il grosso del Pd abbia votato "sì" all'arresto in commissione, per poi smentirsi in Aula; e perché abbia usato due pesi e due misure rispetto al recente passato. È chiaro che se avesse prevalso la logica applicata in alcuni casi simili alla Camera, l'esecutivo avrebbe corso seri rischi. Il partito di Angelino Alfano sa quanto i suoi voti siano indispensabili a Palazzo Chigi per sopravvivere. "Rottamazione" oggi è una parola con un'eco ambigua. Appartiene agli inizi del renzismo, quando si trattava di conquistare il potere e dare segnali radicali di cambiamento. Ora il comandamento è la stabilità. E il premier non ha altra scelta se non quella di scendere a compromessi, favorito da opposizioni chiassose e inconcludenti; e obbligato dalla necessità di tenere conto di rapporti di forza fragili. L'imbarazzo espresso dopo il voto da alcuni esponenti del Pd non deve sorprendere. Rispecchia lo stupore di chi è stato spiazzato dalle contraddizioni e le giravolte del proprio partito. È un comportamento parlamentare da spiegare agli elettori: tanto più nel momento in cui il governo riceve l'appoggio di Denis Verdini e dei suoi transfughi berlusconiani. Per questo il vicesegretario, Debora Serracchiani, sostiene che bisogna "chiedere scusa". Dietro commenti come il suo si indovina anche l'irritazione per il regalo involontario fatto alla minoranza interna, che invece pare abbia votato con Movimento 5 Stelle e Lega. Ma l'altro vicesegretario, Lorenzo Guerini, rivendica il "no" e il diritto a decidere dopo aver letto le carte processuali. Gli avversari insinuano malignamente che ieri Renzi ha fatto la prova generale del "partito della Nazione". Vorrebbe dire che ha già optato per un asse trasversale moderato. Ma la conclusione appare prematura. L'impressione è di avere assistito ad una pagina ordinaria di storia parlamentare: un episodio destinato a sottolineare le difficoltà di una strategia ambiziosa che i numeri rischiano di rendere velleitaria; e dell'ennesimo scontro tra politica e magistratura, che il Parlamento stavolta risolve non assecondando i giudici ma rivendicando a scrutinio segreto la propria autonomia. Un atteggiamento dettato da convinzione o da calcolo? La domanda ineludibile è come mai il Pd "giustizialista" di alcuni mesi fa sia diventato di colpo "garantista". Le risposte possono essere molte. La più naturale è che Renzi non può rischiare una rottura con gli alleati. Rimane da capire se sia frutto di maturità o di debolezza. Giustizia: no all'arresto di Azzollini, segno di garantismo e sconfitta della minoranza dem di Sveva Biocca Italia Oggi, 30 luglio 2015 Con 189 voti contrari, 96 favorevoli e 17 astenuti, l'assemblea del Senato ha respinto la richiesta di arresto formulata dalla procura di Trani nei confronti del senatore Ncd-Area Popolare, Antonio Azzollini, nell'ambito dell'inchiesta sul crac della casa di cura della Divina Provvidenza di Bisceglie. Il voto segreto ha ribaltato la posizione espressa dalla giunta per le immunità che a maggioranza aveva votato a favore della richiesta di arresto. Il Pd ha lasciato libertà di scelta e i voti democrat sono stati decisivi. Una scelta - quella dei vertici del Pd renziano - apprezzata da Peppino Caldarola, giornalista di lungo corso, saggista ed editorialista, già direttore dell'Unità. Domanda. Caldarola, il "No" del Pd può essere visto come la fine del giustizialismo di sinistra? Risposta. Quello di sinistra no, ma la verità è che il Pd di Renzi non è mai stato giustizialista, bisogna dargliene atto. È vero però che, negli ultimi mesi, è stato molto ondivago. Il "No" è una scelta ragionevole, come lo è quella di far valere sempre un voto individuale e non di partito. D. Dice ondivago perché si riferisce al caso Genovese? Francantonio Genovese, senatore Pd, indagato per truffa e peculato e arrestato a seguito dell'autorizzazione, votata anche dal PD, della Giunta per le autorizzazioni nel marzo 2014. R. Anche, ma bisogna fare riferimento non solo ai casi di limitazione delle libertà personali. Ad esempio il comportamento giustizialista che ha avuto il Pd per il caso Lupi (l'ex ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, dimessosi nel marzo 2015 in seguito a forti pressioni pubbliche ricevute dal premier Renzi) non è stato lo stesso per altri casi ancora peggiori: serve una linea continuativa. Allora sì, il Pd di Renzi si potrà dire garantista. D. Perché, in questo caso, ritiene che il "No" sia stata una scelta ragionevole? R. Perché non sussistono i requisiti per una carcerazione preventiva, vale a dire quelli di inquinamento delle prove, della reiterazione del reato e della fuga dell'imputato. Ma questa è una mia opinione. La decisione dei senatori, lasciata loro la libertà di coscienza, volge sempre verso l'assoluzione sia per legami personali che per un generalizzato sentimento persecutorio da parte della magistratura. Poi, volendo essere garantisti anche nei loro confronti, diciamo che si sono letti le carte. D. E poi, nel caso Azzollini, non ha avuto un peso anche la volontà del vertice del Pd di non esacerbare i rapporti con il Nuovo centrodestra? R. Certamente. Renzi non può permettersi una prova di forza da parte dell'Ncd e così sia lui che Alfano possono tirare un respiro di sollievo. D. E la sinistra Pd? R. La sinistra Pd, dal suo punto di vista, ha avuto l'ulteriore conferma dello slittamento a destra di Renzi, quindi questo voto non farà altro che acuire lo scontro intra Pd. Probabilmente dopo l'estate ci sarà una scissione di fatto: sia tra alcuni parlamentari (che raggiungeranno Stefano Fassina e Sergio Cofferati) che tra gli elettori. D. Ma di cosa ha paura la sinistra Pd? R. Del Partito della Nazione. Il mandato di arresto europeo va eseguito anche se il termine è scaduto di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015 Corte Giustizia Ue - Sentenza 16 luglio 2015 - causa C-237/15. La scadenza del termine previsto per l'esecuzione di un mandato di arresto europeo non sottrae lo Stato membro richiesto dall'obbligo di eseguire il provvedimento. Di conseguenza, le autorità nazionali dello Stato di esecuzione sono tenute a pronunciarsi sulla richiesta di consegna che proviene da un altro Paese Ue anche quando i termini fissati dalla decisione quadro 2002/584 sul mandato di arresto europeo, recepita in Italia con legge n. 69/2005, sono ormai decorsi. È la Corte di giustizia dell'Unione europea, con la sentenza del 16 luglio (C-237/15) a chiarirlo, privilegiando, su tutto, le esigenze della cooperazione giudiziaria penale. Il mandato di arresto europeo era stato emesso dalle autorità inglesi nei confronti di un irlandese accusato di omicidio che, arrestato a gennaio 2013, non aveva dato il proprio consenso alla consegna. Solo a giugno 2014, l'Alta Corte irlandese aveva iniziato il procedimento, ma i termini stabiliti dall'articolo 17 della decisione quadro, che danno alle autorità nazionali 60 giorni di tempo (con proroga di altri 30) per l'esecuzione, erano ormai trascorsi. I giudici irlandesi hanno chiesto alla Corte Ue di chiarire se, malgrado l'inosservanza dei termini, il mandato di arresto doveva essere eseguito. Affermativa la risposta di Lussemburgo che punta a realizzare, nel segno della fiducia reciproca, la consegna del destinatario del provvedimento. È vero che la decisione fissa termini precisi, tuttavia, anche se non rispettati, non viene meno l'obbligo di adottare una decisione sulla consegna, tanto più che i casi di non esecuzione sono previsti in modo chiaro nella decisione quadro. D'altra parte, l'articolo 17, pur indicando la scadenza temporale, non limita la validità dell'obbligo di consegnare la persona. Gli Stati membri, inoltre, non sono obbligati a rimettere in libertà il destinatario del provvedimento nel rispetto, però, della Carta Ue dei diritti fondamentali. L'imputato di reato connesso va avvertito se depone in dibattimento di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 29 luglio 2015 n. 33583. In sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato, il mancato avvertimento sulla base dell'articolo 64, comma 3, lettera c del Codice di procedura penale (regole generali per l'interrogatorio) determina l'inutilizzabilità della deposizione testimoniale. In particolare, prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvertita che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall'articolo 197 e le garanzie dell'articolo 197bis. Questa la materia di cui si è occupata la Corte di cassazione a sezioni unite con la sentenza 33583 depositata ieri. In una vicenda che riguarda boss di Cosa nostra condannati per estorsione aggravata. Il rinvio alle sezioni unite è del 2 dicembre 2014 per iniziativa della seconda sezione penale, per la constatata esistenza di un contrasto giurisprudenziale sull'utilizzo delle dichiarazioni irritualmente assunte da chi riveste la qualifica di "testimone assistito". Va precisato che si sta parlando di dichiarazioni rese in dibattimento. Per quelle, infatti, assunte in sede di indagini è presente un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la disciplina sulle dichiarazioni indizianti non trova applicazione dove siano proprio queste ultime a concretare un fatto criminoso. Tutto ciò premesso, l'ordinanza di rimessione ha evidenziato che, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, si registrano tre diversi orientamenti, tutti sostenuti da una serie di pronunce depositate anche in epoca recente, quanto alla possibilità di utilizzo delle dichiarazioni rese dal soggetto indagato per reato connesso o collegato non assistito dal difensore di fiducia, o non prevalentemente avvisato sulla base dell'articolo 64, comma 3 del Codice di procedura penale: • il primo indirizzo ritiene inutilizzabili le dichiarazioni in questione, perché l'articolo 197-bis Cpp, rinviando all'articolo 64, comprende la sanzione di inutilizzabilità prevista dal comma 3-bis dello stesso articolo; • il secondo, viceversa, esclude la sussistenza di invalidità delle dichiarazioni anche se assunte irregolarmente ai sensi dell'articolo 64 perché questo si riferisce al solo interrogatorio mentre gli articoli 197-bis (persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato che assumono l'ufficio di testimone) e 210 (esame di persona imputata in un procedimento connesso) si riferiscono a esami destinati a svolgersi nel contraddittorio delle parti; in particolare si sostiene che nell'articolo 197-bis manchi il richiamo alla sanzione prevista dal comma 3-bis dell'articolo 64; • il terzo indirizzo, concorde nel sottolineare la mancanza del richiamo, ritiene che la conseguenza della mancata applicazione dell'articolo 210 non sia l'inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali rese ma la nullità a regime intermedio della deposizione, come tale eccepibile solo dal diretto interessato e non dall'imputato. Le sezioni unite hanno dato il via libera alla prima interpretazione elaborando due principi di diritto per affermare che: • in sede dibattimentale il mancato avvertimento di un imputato di reato connesso o collegato è causa di inutilizzabilità della deposizione testimoniale; • l'avvertimento deve essere dato non solo se il soggetto non ha "reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato", ma anche se egli abbia già deposto erga alios senza avere ricevuto tale avvertimento". Truffa per chi stacca assegni postdatati sapendo che non saranno mai coperti di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 29 luglio 2015 n. 33441. Emettere un assegno postdatato con la ragionevole consapevolezza che non c'è e non ci sarà adeguata copertura integra il reato di truffa aggravata. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 33441/2015. La Corte si è trovata alle prese con un soggetto che, dopo aver dimostrato di essere un contraente degno di credito, e non rivelando le reali condizioni economiche in cui versava la propria ditta, si era fatto consegnare materiale fornendo assegni postdatati per un ammontare prossimo ai quarantamila euro. A fronte di tale imputazione la Corte d'Appello di Milano con sentenza 27 febbraio 2015 ha condannato il soggetto per truffa aggravata. Il ricorso dell'imprenditore - Contro la decisione ha presentato ricorso l'imprenditore evidenziando come nella sentenza di condanna, nonostante si fosse fatto riferimento in più passaggi a garanzie e rassicurazioni che l'imputato avrebbe fornito alla parte offesa circa la copertura degli assegni dati in pagamento della merce fornita, nel fascicolo di indagine non era contenuto alcun riferimento a ciò e neppure la persona offesa nella propria denuncia-querela aveva menzionato tale fatto. Il racconto della parte querelante non soddisfaceva - a detta dell'imputato - quindi i requisiti di sufficienza e completezza necessari per ritenere provato il reato atteso che la giurisprudenza ritiene che sussista un quid pluris rispetto alla mera consegna di assegni postdatati al fine di configurare gli artifici raggiri di cui all'articolo 640 del cp. L'imputato, peraltro, aveva chiarito che il fallimento della società dell'imputato era intervenuto dopo un anno e mezzo dalla consegna degli assegni al fornitore dei materiali e non vi erano elementi per ritenere che l'imputato fosse certo ab origine di non poter onorare i propri debiti. La decisione della Corte - La Corte ha bocciato la tesi del ricorrente richiamando anche un precedente di legittimità (n. 46890/2011) secondo cui in tema di truffa contrattuale, il pagamento di merci effettuato mediante assegni di conto corrente privi di copertura - non costituente di norma, raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo - concorre, invece, a integrare l'elemento materiale del reato, qualora sia accompagnato da un malizioso comportamento nella vittima un ragionevole affidamento sul regolare pagamento dei titoli. Ne consegue che per integrare raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo e a indurre alla conclusione del contratto occorre un quid pluris tale da determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull'apparente onestà delle intenzioni del soggetto e sul pagamento degli assegni. Un qualcosa in più che nel caso concreto era evidente, ossia il comportamento dell'imputato di aver mostrato una certa notorietà e referenzialità a livello economico. Conclusioni - Gli Ermellini hanno quindi confermato quanto stabilito dalla Corte distrettuale sulla sussistenza del fatto-reato in esame anche sotto il profilo dell'elemento psicologico dell'imputato in base alla circostanza che la società acquirente il materiale era fallita dopo non molto tempo e che lo stato di decozione della stessa non poteva essere certo essersi creato solo negli ultimi mesi con la conseguenza che l'imprenditore ne era a conoscenza al momento della stipula del contratto e lo ha taciuto ai venditori del materiale. Alla luce di queste motivazioni la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato confermando la condanna per truffa aggravata. Conversione del sequestro conservativo in pignoramento Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015 Misure cautelari reali - Sequestro conservativo - Funzione - Individuazione - Conversione in pignoramento - Presupposti. Fatta salva la richiesta di riesame avverso l'ordinanza che ha disposto il sequestro conservativo che non potrà che seguire la disciplina prevista per il procedimento del riesame reale (articoli 324 e 325 cod. proc. pen.) - una volta intervenuta la sentenza irrevocabile, se non si tratta di sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere cui consegue la perdita di efficacia del sequestro conservativo, si determina la conversione del sequestro conservativo in pignoramento, a norma dell'articolo 320 c.p.p., comma 1. Così che, la competenza su ogni questione in ordine a sequestro conservativo è del giudice civile. Tale principio non è contraddetto dall'affermazione che la conversione del sequestro conservativo in pignoramento, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna al risarcimento in favore della parte civile, presuppone che la pronuncia abbia dichiarato l'esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, così da costituire titolo esecutivo; di talché, nel caso di condanna generica, detta conversione si verifica solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza del giudice civile, il quale, sulla base della certezza del danno acquisita in sede penale, abbia proceduto alla sua liquidazione. Con la conseguenza che se ciò non è avvenuto, prima della definizione del giudizio civile per la liquidazione del danno spetta al giudice penale la competenza ad adottare ogni provvedimento sui beni in sequestro. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 1 giugno 2015 n. 23439. Misure cautelari reali - Sequestro conservativo - Conversione in pignoramento - Passaggio in giudicato della sentenza di condanna al risarcimento nel giudizio penale - Esistenza di un credito certo, liquido e esigibile - Necessità - Condanna generica - Conversione automatica - Esclusione - Passaggio in giudicato della sentenza civile di liquidazione del danno - Necessità. La conversione del sequestro conservativo in pignoramento, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna al risarcimento in favore della parte civile, presuppone che la pronuncia abbia dichiarato l'esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, così da costituire titolo esecutivo; di talché, nel caso di condanna generica, detta conversione si verifica solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza del giudice civile, il quale, sulla base della certezza del danno acquisita in sede penale, abbia proceduto alla sua liquidazione. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 6 marzo 2015 n. 9851. Misure cautelari reali - Sequestro conservativo - Conversione in pignoramento - Sentenza di patteggiamento - Competenza del giudice civile in ordine alle istanze successive al passaggio in giudicato della sentenza - Sussistenza - Ragioni. In tema di sequestro conservativo, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di applicazione della pena, la competenza ad adottare ogni provvedimento relativo al bene oggetto del vincolo è devoluta al giudice civile, stante l'automatica conversione del sequestro in pignoramento. • Corte di cassazione, sezioni V, sentenza10 aprile 2013 n. 16312. Misure cautelari reali - Sequestro conservativo - Conversione in pignoramento - Istanza di riesame proposta dopo l'irrevocabilità della sentenza - Apertura della fase esecutiva - Conversione in pignoramento - Conseguenze - Inammissibilità. È inammissibile, una volta divenuta irrevocabile la sentenza penale di condanna, la proposizione dell'istanza di riesame avverso il sequestro conservativo di beni mobili ed immobili a garanzia del credito, che, con l'apertura della fase esecutiva, si converte automaticamente in pignoramento attribuendo al giudice civile la competenza a liquidare le somme effettivamente dovute. • Corte di cassazione, sezione III, ordinanza 12 aprile 2012 n. 13981. Misure cautelari reali - Sequestro conservativo - Conversione in pignoramento - Sentenza irrevocabile di condanna al risarcimento - Mancata indicazione del "quantum" - Conversione - Esclusione - Conseguenze. La conversione del sequestro conservativo in pignoramento non si verifica se la sentenza di condanna divenuta irrevocabile non contiene la determinazione dell'ammontare del risarcimento del danno da reato, rinviando per l'indicazione del "quantum" al giudice civile. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 14 novembre 2008 n. 42698. Lettere: ma lo sapete che per il Codice le manette sono un'eccezione? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 30 luglio 2015 Il senatore Antonio Azzollini non andrà agli arresti domiciliari, ma non tornerà neppure a sedersi sullo scranno di presidente della commissione Bilancio che aveva diretto con maestria per dodici anni. Così intanto un risultato politico è stato comunque raggiunto dal Gip e dal Pm che aveva proposto le manette. Anche se, con una decisione che interrompe la propria giurisprudenza degli ultimi mesi, il Senato ha respinto la richiesta della magistratura di mandare agli arresti domiciliari il senatore pugliese. E ha sottolineato il gesto anche con una maggioranza significativa, 189 no contro 96 sì e 17 astensioni, che contraddice e ribalta in modo clamoroso la decisione della Giunta per le immunità, che solo tre settimane fa aveva dichiarato con entusiasmo il proprio via libera all'arresto. Va anche detto che in quell'organismo (lo stesso che con gaudio ancora maggiore aveva deciso l'espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato) ci sono personaggi come Felice Casson, che è così indisponente nella sua sete di manette da farti venir voglia di augurarli a lui, un po' di arresti domiciliari, magari in un'abitazione senza aria condizionata, in questa simpatica torrida estate. Lui naturalmente ha ritenuto vergognoso e immorale (chissà mai che cosa c'entra la moralità) il voto dell'aula. La compagnia con cui si è ritrovato, un po' se la merita, quella del solito Giarrusso del Movimento Cinque Stelle, e un po' dovrebbe creare disagio, se a sinistra esistesse ancora un residuo barlume di quel garantismo che fu. Non è così, purtroppo. A qualcuno fa ancora impressione sentire Nichi Vendola dire "che tristezza" perché un senatore non finisce in ceppi, o Loredana De Petris a nome di Sei affermare "spero solo che di fronte a questo vergognoso mercanteggiamento nessuno osi adoperare il garantismo come alibi"? Non una parola, da parte di questa sinistra, sulle garanzie e i diritti di ogni cittadino, Azzollini compreso, solo la necessità di compiacere il nuovo Sire, il Pubblico Ministero. Eppure, prima ancora di "leggere le carte" (ah, il solito alibi), sarebbe bastato, soprattutto per persone una volta esperte nella "controinformazione", quando gli imputati erano i "compagni che sbagliano", fare quel lavoro che l'indagato Antonio Azzollini ha messo insieme, in solitudine. Si sarebbe scoperto che, per l'ennesima volta un Giudice per le indagini preliminari aveva svolto un lavoro di copia-e-incolla sulla richiesta del Pm, il quale a sua volta lo aveva fatto sulla relazione delle forze dell'ordine. Pigrizia pre-vacanziera o scarsa professionalità? Sarebbe bastato poco (e non occorreva ricordarsi il lavoro compiuto sul processo "7 aprile" o sull'omicidio Calabresi) per stupirsi del fatto che il senatore Azzollini non è "inchiodato" da compromettenti intercettazioni o dal ritrovamento di mazzette sui suoi conti o nascoste nel materasso, ma da dichiarazioni di due persone che avrebbero origliato dietro una porta e sentito una voce di uomo che dava ordini e insultava in modo volgare (la frase la lasciamo riportare a quelli del "Fatto quotidiano", più usi di noi a questo linguaggio) alcune suore della Casa di cura Divina Provvidenza, il cui crac ha determinato il processo. Se Azzollini comandava, dunque, era responsabile quanto meno di un'associazione per delinquere. Chi aveva curiosità, poteva anche domandarsi come mai i signori Antonio e Nicolino Lo Gatto, padre e figlio, preziosi testimoni della Procura di Trani, fossero stati interrogati a dieci mesi di distanza l'uno dall'altro, il che è un po' strano e molto sospetto. Argomenti che non paiono interessare un granché alla sinistra. Tanto che, fin dal primo momento, lo stesso presidente del Pd Matteo Orfini si era affrettato a dichiarare che sì, vabbè, c'era questa seccatura di dover leggere le carte, "ma mi pare che sia inevitabile votare a favore dell'arresto", aveva concluso. Costretto poi, in una telefonata al presidente dell'Ncd Quagliariello, a scusarsi e garantire che sicuramente le carte sarebbero state lette. Questa storia delle "carte" è sempre più un alibi. Quando infatti si deve decidere su un arresto, che questo riguardi un parlamentare o un qualsiasi cittadino, la prima cosa che deve preoccupare è verificare se esistono le condizioni previste dal codice per la privazione della libertà. Se un deputato o un senatore non sta scappando (cioè se non ha in tasca un biglietto aereo di sola andata), non sta inquinando le prove (bruciando carte in un pentolone come fece l'ex ministro De Lorenzo) o replicando il reato (per esempio insultando suore) e il magistrato lo vuole arrestare lo stesso, allora vuol dire che lo vuole perseguitare. Cioè che esiste il famoso "fumus persecutionis". Pare così chiaro. E allora, che cosa è questa libidine da tricoteuses che ha preso ultimamente il Parlamento? La decisione di ieri del Senato è decisamente una boccata d'ossigeno. Ma perché il senatore Azzollini nel frattempo ha dovuto rinunciare alla presidenza della commissione Bilancio? Per lasciare il posto a chi? Terni: detenuto di 48 anni si impicca in cella, scontava una condanna a 8 anni di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 30 luglio 2015 L'uomo, 48 anni, scontava una condanna a 8 anni: si è impiccato appena i compagni sono usciti Silvio Lai (Pd): "Ennesimo fatto preoccupante". Capece (Sappe): "Ripensare funzione della pena". Un detenuto sassarese di 48 anni, G.A.S., si è tolto la vita ieri intorno a mezzogiorno in una cella del carcere di Terni dove stava scontando una condanna a 8 anni di reclusione per evasione, calunnia, rapina aggravata e ricettazione a seguito di una sentenza che era stata pronunciata di recente. L'uomo si è impiccato utilizzando un lenzuolo e per agire ha profittato di un momento in cui era rimasto solo in cella, perché i compagni di detenzione erano fuori per partecipare a una partita nel campo sportivo della struttura carceraria. Inutile, purtroppo, l'intervento degli agenti della polizia penitenziaria che hanno prestato i primi soccorsi e fatto scattare l'allarme: per G.A.S. non c'era più niente da fare. Del fatto è stato informato il magistrato che ha disposto tutti gli accertamenti del caso. Sulla vicenda è intervenuto il segretario nazionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Donato Capece: "Un fatto grave - ha commentato - che lascia in noi amarezza e sgomento il suicidio di un detenuto costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze". Capece ha ricordato che la situazione nelle carceri resta ad alta tensione: dall'inizio dell'anno sono 24 i detenuti che si sono tolti la vita. E proprio a Terni si sono verificati diversi episodi critici: 8 tentati suicidi sventati dagli agenti, 46 atti di autolesionismo, 12 ferimenti e 27 colluttazioni. I detenuti sono 432 rispetto ai 400 posti disponibili. Sulla vicenda è intervenuto ieri sera anche il deputato del Partito democratico Silvio Lai. L'ennesimo morto in carcere non può essere considerato solo un numero che si aggiunge a tanti altri - ha detto Lai - ma deve spingere tutti ad una riflessione sulla condizione carceraria in Italia e su cosa fare per prevenire simili tragedie". Secondo il parlamentare del Pd è diventato ormai necessario un intervento legislativo, ma non solo. "Perché dietro ad un atto estremo come il suicidio si deve riuscire ad andare anche al di là dei numeri, per guardare ad ogni singolo caso e al sistema carcerario italiano in generale. Nel caso dell'Italia, l'Unione Europea è intervenuta in modo pressante ed in più di un'occasione per far sì che si diffonda una vera e propria cultura della prevenzione. Questo vuol dire agire su quella che i medici chiamano "perdita di ogni speranza" ma significa anche rivedere e ripensare alla funzione del carcere, perché non si tratti solo di strutture per punire o reprimere, ma che rappresentino anche o soprattutto occasioni di recupero. È nostro compito fare in modo che fatti come quello accaduto a Terni non si ripetano. E dobbiamo partire dal rispetto che si deve ad ogni essere umano". Parma: celle troppo calde, interrogazione al ministro dopo denuncia Garante dei detenuti Dire, 30 luglio 2015 "Ambienti detentivi caldi oltre ogni ragionevole grado di sopportazione". È da questa situazione, rilevata nel carcere di Parma dalla Garante regionale delle persone private della libertà personale Desi Bruno, che prende le mosse un'interrogazione parlamentare urgente presentata alla Camera da Forza Italia, con primo firmatario il deputato Elio Massimo Palmizio. Nel documento si fa presente al ministro della Giustizia Andrea Orlando come "le condizioni di vita dei detenuti, già di per sè complesse, a causa delle condizioni climatiche estremamente disagevoli possono esacerbare situazioni di forte pressione dei detenuti". Per questo si chiede "quali iniziative urgenti e necessarie si intendano intraprendere al fine di contrastare l'eccezionale ondata di calore che sta determinando gravissime ripercussioni sulla salute dei detenuti all'interno delle carceri italiane, il cui sovraffollamento contribuisce negativamente ad aumentare l'invivibilità degli spazi detentivi", e se il ministro "ritenga condivisibili le indicazioni contenute nella lettera del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Parma finalizzate all'introduzione di misure volte a facilitare le condizioni di vita dei detenuti". Come ad esempio l'apertura delle porte delle celle o l'aumento delle ore d'aria concesse ai detenuti. Ancona: Camera Penale; manca tipizzazione malattie per cui si può scarcerare detenuto anconatoday.it, 30 luglio 2015 E proprio la Camera Penale di Ancona è impegnata in un monitoraggio delle condizioni delle carceri attraverso la rilevazione di tutta una serie di parametri tramite questionari sottoposti agli addetti ai lavori e alla popolazione carceraria. I dati dell'Ombudsman ci parlano di 104 casi di autolesionismo nelle carceri anconetane. "Il problema è che, al di là di casi specifici come Aids, malattie immunodepressive o tumori in fase terminale, manca una tipizzazione delle ipotetiche malattie per cui si possa accettare la scarcerazione di un detenuto". Sono le parole del responsabile della Camera Penale di Ancona per l'osservatorio carceri Ucpi l'avvocato Tommaso Rossi che, in riferimento al recente caso di Daniele Zoppi, precisa come il problema risieda proprio lì. In sostanza per la legge, un detenuto potrebbe avere delle patologie che suggeriscano una serie di cure per evitare peggioramenti. Ma, salvo alcuni casi estremi, tutto il resto sarebbe compatibile con la detenzione. "La legge prevede due forme di tutela del detenuto malato. La prima è la sospensione della pena per le cure, la seconda è la detenzione agli arresti domiciliari dove sia agevolato il supporto medico e farmacologico. Ma questo viene accettato dai giudici del Tribunale di Sorveglianza laddove ci siano delle malattie gravi che vengano espressamente ritenute incompatibili con il carcere. Un caso come quello di Zoppi, è chiaramente a discrezione dell'organo decisore che si basa sulle analisi dei medici preposti. Manca una tipizzazione dei casi specifici. Anche se va detto come la Cassazione si sia espressa precisando che non importa quanto sia grave o reversibile la malattia del detenuto, piuttosto se l'espiazione della pena in cella in condizioni in cui versa il malato sia o meno in contrasto con il senso di umanità che deve essere garantito in detenzione, come espresso dall'articolo 27 della Costituzione". E propio la Camera Penale di Ancona è impegnata in un monitoraggio delle condizioni delle carceri attraverso la rilevazione di tutta una serie di parametri tramite questionari sottoposti agli addetti ai lavori e alla popolazione carceraria. Eppure ancora si muore dentro le celle. "Nelle carceri si muore per vari motivi - prosegue l'avvocato Rossi. I più frequenti sono i suicidi che spesso sono preceduti da atteggiamenti di autolesionismo. Molti sono malati e tutti avrebbero diritto all'assistenza sanitaria. Per questo mi appello perché le morti nelle carceri ci facciano riflettere sulla necessità di alcuni paletti che stabiliscano chi può sostenere il carcere e chi no". Napoli: l'On. Valente (Pd) visita Secondigliano "la pena deve avere funzione riabilitativa" Ansa, 30 luglio 2015 "Nel carcere di Secondigliano, ho preso atto con favore dello sforzo finalizzato a realizzare il principio secondo cui la pena deve avere una funzione di riabilitazione del condannato": così, la deputata del Pd Valeria Valente, ha espresso il proprio apprezzamento per le attività svolte all'interno dell'istituto di pena partenopeo, visitato insieme con Samuele Ciambriello, presidente dell'associazione "La Mansarda". Dopo un sopralluogo in alcune sezioni del carcere, incontrando i detenuti, Valente e Ciambriello si sono soffermati negli gli orti e nel tenimento agricolo (un etto e mezzo di terra), dove lavorano quattro detenuti assunti a tempo pieno, coltivando aglio, cipolle, peperoni, melenzane, piante aromatiche, pomodori, fiori di zucca e insalate. Un'attività in cui sono impiegati anche altri dieci reclusi, come volontari e a titolo gratuito. I prodotti della terra sono poi distribuiti ai Gruppi di Acquisto Solidale (Gas), oltre che riutilizzati e curati dallo chef di fama nazionale, Pietro Parisi. Un esperimento pilota, a livello nazionale, che si aggiunge alle altre attività che coinvolgono quotidianamente i detenuti, nei campi più disparati: dalla pittura alla raccolta differenziata dei rifiuti. "Le iniziative messe in atto dalla direzione del carcere, rappresentano un'ottima strada per ridurre il tasso di recidiva dei condannati, una volta scontata la pena", ha aggiunto Valente, ricordando che "il percorso avviato per la prima volta dal ministro Guardasigilli Andrea Orlando, e i risultati già ottenuti, hanno trasformato l'Italia da fanalino di coda dell'Ue, a modello di best practice". In un solo anno, ha concluso la deputata, "il numero dei detenuti è stato notevolmente ridotto, anche grazie al ricorso a pene alternative, contribuendo a ristabilire condizioni minime di civiltà all'interno degli istituti di pena". Iniziative del genere, ha sottolineato Ciambriello, "riconciliano il mondo penitenziario con la carta costituzionale e il diritto dei detenuti a vivere il reinserimento sociale". Padova: 33enne si oppone ad un Tso, i carabinieri aggrediti gli sparano e lo uccidono di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 30 luglio 2015 I punti fermi sono questi: c'è un uomo agitato, dà in escandescenze. Si chiama Mauro Guerra, 33 anni, servizio di leva nei paracadutisti dei carabinieri, fisico imponente (alto un metro e novanta, 130 chili), laurea in economia e la passione per il disegno. Intervengono i carabinieri e un'ambulanza del 118 per calmarlo e portarlo via. Mauro (in mutande e calzini) scappa, i militari gli corrono dietro. L'inseguimento finisce tragicamente: c'è un brigadiere ferito seriamente, mentre Mauro Guerra raggiunto da un colpo di pistola muore un'ora dopo nel campo dietro casa. A questo punto ci sono almeno due versioni su quanto è successo ieri dopo pranzo a Carmignano, frazione di Sant'Urbano, in provincia di Padova. Quella dei carabinieri: Guerra già in passato aveva mostrato segni di intemperanza. "Questa volta ha esagerato - dice un ufficiale -. Farneticava versetti della Bibbia, si è scagliato contro i genitori". Per questo, vista anche la stazza, alla prima pattuglia della compagnia radiomobile di Este se ne aggiunge un'altra. Quando la situazione sembra tranquillizzarsi, Guerra spintona due militari e fugge nei campi. Il brigadiere Stefano Sarto è il primo a raggiungerlo. Lo blocca, ma viene sopraffatto da Guerra che avrebbe afferrato qualcosa, forse un pietra, colpendolo violentemente. A questo punto, il maresciallo Marco Pegoraro, comandante della locale stazione, spara due colpi in aria e il terzo al busto di Guerra. Un testimone, Davide Pasquesi, che lo incontra durante la fuga e riesce anche a scambiare un paio di parole, racconta invece un epilogo diverso. Guerra viene raggiunto dal brigadiere, lo colpisce con un paio di pugni (il militare è ricoverato con sospette lesioni craniche, frattura della mascella e alcune costole incrinate), riesce ad allontanarsi di nuovo per un paio di metri, quando viene raggiunto dai colpi di pistola. "Impossibile - dice un inquirente. Il corpo di Guerra era sopra il brigadiere. E la testimonianza non ci risulta". Sarà il pm Fabrizio Suriano della Procura di Rovigo a ricostruire cosa è realmente avvenuto. I genitori di Guerra, Ezio e Giuseppina, hanno gridato: "Ce l'hanno ammazzato come un cane". L'amico Umberto Marsilio assicura che non è ver che "era incapace di intendere e di volere, né un deviato. Era un grande artista". Elia Pasquesi l'aveva incontrato ieri mattina al bar: "Era tranquillo, non so cosa sia successo dopo". Mauro Guerra per guadagnare qualcosa lavorava come buttafuori nei locali notturni, ma aveva un animo da artista e sognava di vendere t-shirt con il suo marchio "War Progect". Un progetto spezzatosi ieri all'ora di pranzo. Venezia: Sappe; detenuto stacca a morsi dito a un agente, 250 poliziotti aggrediti nel 2015 Askanews, 30 luglio 2015 Un italiano detenuto nella Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia per vari reati, tra i quali quello di maltrattamenti famiglia, ha aggredito un assistente capo di polizia penitenziaria e con un morso gli ha staccato la falange del dito di una mano. Lo rende noto il sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "È stata una scena semplicemente raccapricciante, con il detenuto che ha poi sputato sul pavimento la falange del dito strappata", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe. L'aggressione è avvenuta mentre il poliziotto penitenziario stava accompagnando il detenuto all'Ufficio Matricola del carcere per alcune formalità. "All'assistente capo ferito, tuttora ricoverato in ospedale, va tutta la nostra solidarietà e vicinanza, - afferma Capece - ma questo grave fatto deve fare riflettere, tanto più se si considera che il detenuto non è nuovo a episodi di intolleranza e violenza nei confronti degli Agenti di Polizia. Non siamo carne da macello e le istituzioni devono darsi da fare per fare in modo che si fermi la spirale di violenza contro i poliziotti penitenziari: dal 1 gennaio 2015 sono oltre 250 i poliziotti penitenziari aggrediti e feriti nelle carceri del Paese. È inaccettabile". Al 30 giugno erano detenute a Venezia Santa Maria Maggiore 257 persone rispetto ai 160 posti letto regolamentari (2.288 erano quelle complessivamente presenti nelle carceri del Veneto). Negli ultimi dodici mesi del 2014, nel penitenziario veneziano, si sono contati 2 tentati suicidi di detenuti, sventati in tempo dai poliziotti, e 19 atti di autolesionismo. Napoli: l'orto nelle carceri, il caso di Secondigliano econote.it, 30 luglio 2015 Un terreno incolto, di circa due ettari, trasformato in orto e serre per coltivare olio, frutta e ortaggi all'interno dell'istituto penitenziario di Secondigliano (Napoli) sta dando già dal 2013 una possibilità di riscatto e di riabilitazione ad alcuni dei detenuti del carcere. Il progetto parte nel 2013 con un orto carcere di Secondigliano, il riscatto che passa dalla "terra", protocollo firmato tra l'assessorato all'Agricoltura della Regione Campania, il centro penitenziario e il garante per i detenuti per la creazione di una cooperativa per la vendita di prodotti biologici di qualità e tipicità garantita, grazie al supporto tecnico degli agronomi dell'assessorato, che hanno messo a punto coltivazioni geneticamente legate al territorio. Gran parte infatti dei prodotti coltivati, pomodori, zucchine, carciofi, melanzane, e frutta e olio oggi vengono distribuiti a ristoranti ed esercenti, oltre che nel carcere stesso. Tutto ciò che si produce è di stagione, rigorosamente biologico e coltivato senza l'utilizzo di sostanze chimiche o concimi industriali. Il progetto è, inoltre, sostenuto dallo chef Pietro Parisi, ragazzo vesuviano, da sempre attento ai prodotti della tradizione locale e al riutilizzo di tutto ciò che normalmente viene considerato scarto, che ha donato ai contadini-detenuti, piante di pomodori, peperoni, melanzane, papacelle e piselli, prodotti che lo chef ha deciso di utilizzare lui stesso per i menù dei suoi locali e impegnato nel sociale già con la Comunità di San Patrignano, con Libera Terra contro le mafie e la Cooperativa delle detenute della Casa circondariale femminile di Pozzuoli che produce il Caffè Lazzarelle. Il progetto del Centro Penitenziario spiega lo chef Parisi : si ispira alla fattoria "Gli orti di Antonia" di Bamako in Africa, costruita dall'ingegnare ivoriano Dada Traorè con il mio aiuto. Tutti e due questi progetti si chiamano "Orti di Antonia", in omaggio a mia figlia e alle giovani generazioni, perché ricevano da noi un mondo migliore". La generosità della "Terra a km 0" che aiuta a dare nuova motivazione alla vita dei detenuti, un percorso che insegna loro un nuovo lavoro per ritrovare dignità anche dietro le sbarre, dove spessissimo lo stato di sovraffollamento e degrado è stato di emergenza. Volterra (Pi): Compagnia Fortezza a rischio, i detenuti-attori vittime dei tagli alla cultura di Anna Bandettini La Repubblica, 30 luglio 2015 Una delle conseguenze della discussa riforma dello spettacolo dal vivo: l'associazione che promuove il lavoro della celebre compagnia si è vista ridurre il contributo di 12mila euro. Una cifra tale da far traballare la sopravvivenza di una istituzione. È un momento un po' speciale per il teatro italiano, perché sono cambiate le regole con cui lo Stato finanzia l'intero settore e la cosa non è secondaria o marginale innanzitutto per noi spettatori, perché da sempre i finanziamenti sono ossigeno per la cultura e da essi dipendono la sopravvivenza o meno delle attività, specie le più coraggiose. Ma la discussa riforma dello spettacolo dal vivo, che ha modificato le regole di distribuzione del contributo dello Stato (il Fus 2015 ammonta a 406, 23 milioni di euro, di cui al teatro vanno 67.027.785 euro), sta creando non pochi scontenti e polemiche. Il caso più eclatante riguarda la Fortezza, la più celebre compagnia di detenuti-attori che da 27 anni fa teatro nel carcere di Volterra. Da un lato i grandi giornali ne parlano come di un'esperienza unica e eccezionale per l'alto valore artistico dei suoi spettacoli (riconosciuto dal ministero della Giustizia che da anni concede anche i permessi per tournèe nei teatri) l'ultimo dei quali, Shakespeare know well, ha ricevuto proprio qualche giorno fa osanna unanimi da tutta la critica. Dall'altro la stessa compagnia riceve una "punizione" con un taglio consistente dei finanziamenti che mette a rischio il suo stesso futuro. L'associazione Carte Blanche, che promuove il lavoro della Fortezza tra le sue principali attività di promozione culturale, si è vista ridurre il contributo 2015 da 95mila euro dell'anno scorso a poco più di 82mila euro. Dodicimila euro che nel mondo della cultura sono una cifra enorme, tale da far traballare la sopravvivenza di una istituzione. Tanto che si sta pensando a un ricorso. "Sì, ci stiamo pensando perché è un fatto grave - accusa Armando Punzo, il regista fondatore della Fortezza - significa non valorizzare a livello economico ciò che viene riconosciuto da tutto il mondo della cultura, del teatro e dell'arte internazionale da sempre, compresa la commissione ministeriale stessa che infatti premia con un punteggio alto la nostra attività. Ci saremmo aspettati che il Mibact affermasse l'eccezionalità della nostra attività, istituisse per noi una voce speciale invece si è deciso di non premiare il progetto, relegandolo in un settore in cui sono state destinate le briciole e per di più tagliando il contributo". A sostegno della Fortezza si stanno mobilitando intellettuali e spettatori che in questi anni hanno applaudito gli spettacoli della compagnia. Carte Blanche, che oltre alla Compagnia della Fortezza promuove numerose attività culturali sia di portata internazionale che radicate nel territorio, è stata inserita nella voce "Promozione - Progetti di inclusione sociale" con un un progetto triennale promozionale, formativo per il pubblico e formativo e lavorativo per i detenuti-attori (ad oggi circa 100 detenuti del Carcere di Volterra), che trasforma l'Istituto di pena in un Istituto di Cultura e sempre più si connota come un Centro Stabile teatrale all'interno del carcere (da anni chiedono il riconoscimento ufficiale di questa "stabilità"). Un esperimento tra l'altro unico in Europa che, se sostenuto, potrebbe diventare un progetto pilota. "Si auspicava, con la nuova riforma ministeriale, visto anche l'importanza del programma triennale presentato - sostiene Punzo - in un contributo più adeguato a sostegno di un'attività così prestigiosa e in via di sviluppo che necessita, oggi più che mai, di fare un passo in avanti per fortificare una struttura che ha incentivato, in quasi un trentennio di lavoro, un indotto culturale, economico e occupazionale che non po' più sopravvivere se non adeguatamente pianificato in modo pluriennale e sorretto con fondi che garantiscano programmazione e stabilità. Assegnare oggi poco più di 82.000 a Carte Blanche vuol dire non riconoscere non solo il lavoro della Fortezza ma tutte le altre attività di formazione, divulgazione, promozione che vengono fatte, vuol dire mettere a rischio il nostro stesso futuro". Prato: lo psicologo Pinzani padre dell'innovativo metodo anevrotico "entra" nelle carceri di Antonio Sorvillo firenzetoday.it, 30 luglio 2015 Il dottore Loris Pinzani, e il metodo da lui teorizzato, lanciano una sfida per aiutare i detenuti a non delinquere in futuro. Il rettificatore delle personalità tormentate, il formattatore dei disagi personali, il teorizzatore di un metodo innovativo nato sotto all'ombra della Cupola. Il padre del metodo "anevrotico", lo psicologo e psicoteraupeta Loris Pinzani, affronta le carceri cercando di offrire un contributo alla lettura delle condizioni del sistema di detenzione. Il dottore fiorentino è "entrato", grazie alle telecamere di Tvr 7 Gold, all'interno della casa circondariale de "La Dogaia" di Prato. Pinzani ha compiuto un'analisi dei soggetti, confidando di tracciare un percorso da cui risalire per capire quali siano le origini dei disagi che hanno poi portato gli individui a delinquere. Gettando, anche dopo un'attenta osservazione delle relazioni generatesi in cella, un guanto di sfida nei confronti del sistema nell'intero complesso: "È verosimile che, dopo aver coinvolto i detenuti nel mio metodo, in futuro non tornino a commettere reati". In cosa consiste questo metodo anevrotico? Il dottore parte dalla percezione del disagio mentale vissuto dall'individuo, cioè dalla discrepanza tra ciò che il soggetto desidera e ciò che invece ottiene. Un malessere, talvolta sfociato nella duplicazione di emozioni e modelli, spesso conosciuti nell'infanzia, che può terminare in patologie come depressione, ossessione, ansia, o altri tipo di disturbo. Il dottore, nel sistema anevrotico, ha un ruolo centrale. Fondamentale. Verrebbe da dire di "fulcro". Lui è il perno su cui ruota la comunicazione con il paziente; con l'obbiettivo di farlo arrivare a una più approfondita conoscenza di sé. In pratica, tramite un piano di conoscenza (Alpha), di cui da poco è stata scoperta esistenza, lo psicoterapeuta rende consci, e così "estirpa", i comportamenti che creano il disagio. Inserendo poi dei nuovi "input" su cui si ricalcolano le emozioni del paziente, e su cui può ricostruire il nuovo percorsocammino. Il metodo, basato sul filone "bioniano" della moderna psicoanalisi, dopo oltre dieci anni di studi, ha dalla sua anche una forte componente scientifica. Infatti il professor Pinzani, che ha compiuto un'indagine statistica abbinata a dati guarigione, presentati nei mesi scorsi all'Ordine dei Medici di Firenze, chiarisce come una volta che le nuove direttive hanno attecchito, il processo sia irreversibile. Il dottore, sostenuto da una miriade di pubblicazioni in numerose università italiane, si dice pronto a dimostrare ovunque nel mondo la validità della sua teoria mediante uso di interpreti entro la prima seduta di psicoterapia. E i risultati sarebbero evidenti. Come? Partendo dal fatto che il cervello si basa su stimoli biochimici ed elettrici. Amplificando da 20mila a 500mila volte i messaggi tra neuroni, Pinzani ha riscontrato variazioni significative sui pazienti tra le prime sedute e quelle precedenti alla fine del trattamento. Quest'ultimo di una durata media tra i sei e gli otto mesi. In sostanza il metodo anevrotico dimostrerebbe la capacità di cura delle sedute con la variazioni dell'attività celebrale. La percentuale di guarigione o di remissione dei sintomi arriverebbe al 90% dei casi trattati(appartenenti al campione studiato). Con un miglioramento intorno ai sessanta punti percentuali, in pratica un livello di galleggiamento nella società tale, che il paziente non possa in futuro esser più trascinato a fondo dai disagizavorra. E, se non bastasse, l'auto-percezione del benessere triplicherebbe: passando da 20 a 70. Cagliari: nuovo appuntamento con "Letture caldissime" alla Casa Circondariale di Uta Ristretti Orizzonti, 30 luglio 2015 "Carezze di sangue" di Maria Francesca Chiappe è il libro che offrirà gli spunti di riflessione nel terzo degli incontri di "Letture caldissime", domani giovedì 30 luglio ore 9.30, organizzato dall'associazione "Socialismo Diritti Riforme" in collaborazione con l'Area Educativa della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. A caratterizzare il precedente dibattito, animato dalla giornalista Rai Flavia Corda a partire da "Fuori dalla Gabbia" di Cristiano Scardella, è stata la ricostruzione della tragica vicenda di Aldo Scardella, il giovane cagliaritano trovato impiccato in cella nel carcere di Buoncammino nel 1986, dopo 185 giorni di isolamento patiti da innocente. Una rievocazione a cui ha contribuito, oltre al fratello autore del libro, Tatjana Goex, co-redattrice del volume. Una storia che ha permesso di ricordare il clima culturale e sociale degli anni Ottanta nella città capoluogo di regione, le differenti norme di procedura penale con un uso talvolta troppo ‘facilè della custodia cautelare. Si è però anche parlato dei suicidi dietro le sbarre, che hanno raggiunto ancora una volta in Italia numeri ragguardevoli (24 al 20 luglio 2015; 869 dal 2000), degli atti di autolesionismo (7mila nel 2014) e delle carenze di organico tra le fila degli Agenti della Polizia Penitenziaria, degli Educatori e perfino dei Magistrati di Sorveglianza. L'attenzione si è poi incentrata sulla recente riforma della carcerazione preventiva e sulla legge in vigore da circa un anno che ha introdotto la messa alla prova per gli adulti. Ad illustrare la nuova normativa è stata Carla Barontini, responsabile dell'Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Oristano. Una misura che in Sardegna, nonostante le carenze di organico negli Uepe, ha fatto registrare 875 richieste delle quali 299 in esecuzione mentre finora ne hanno usufruito 367 persone. Nel ricco e articolato dibattito, a cui ha partecipato Claudio Massa, responsabile dell'Area Educativa dell'Istituto, ci sono state significative testimonianze dei detenuti presenti. Dal confronto è emersa l'esigenza di costruire un percorso di collaborazione tra i cittadini privati della libertà e l'organizzazione interna della Casa Circondariale nell'ottica di raccogliere le esigenze di chi sconta la pena, dei familiari dei ristretti e di chi opera per la risocializzazione e la sicurezza. L'operosità e l'assunzione di responsabilità da parte dei detenuti nonché la condivisone delle misure di convivenza nel rispetto dei ruoli di ciascuno sono state poste come primo obiettivo affinché, concluso il periodo di perdita della libertà, chi ha scontato la pena possa ritornare ad essere un cittadino senza aggettivi. Alla presidente di Sdr Maria Grazia Caligaris le conclusioni di un incontro che ha offerto interessanti riflessioni non solo per chi è detenuto ma anche per chi lavora e per chi opera come volontario nella Casa Circondariale di Cagliari dove, accanto alle numerose criticità, a partire dalla dislocazione dell'Istituto, si intravede una forte volontà di individuare una strada per rendere la permanenza in carcere un'occasione di crescita culturale e umana. Immigrazione: la nostra libertà comincia dai migranti di Alessandro Portelli Il Manifesto, 30 luglio 2015 Migranti e confini. Le ferite d'Europa. Un po' per volta l'Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e pregiudizi nazionali e razziali, l'eredità di un secolo e mezzo di colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo sfrenato. Da Lampedusa non si entra. Da Calais non si esce. Da Ventimiglia non si passa. Dalla Serbia a Budapest si viaggia in vagoni piombati. A Ceuta e Melilla, enclave spagnole in terra d'Africa, come al confine fra Bulgaria e Turchia o al confine fra Ungheria e Serbia, si alzano reticolati e muri. Un po' per volta l'Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e pregiudizi nazionali e razziali, l'eredità di un secolo e mezzo di colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo sfrenato. Il tunnel di Calais è una vivida metafora di tutto questo: pensato per unire, è diventato una invalicabile barriera divisoria per chi non ha i soldi del biglietto - anzi, una barriera fra chi i soldi ce li ha e chi no. Scrivendo su un altro confine e un altro muro - quello fra Stati Uniti e Messico, la scrittrice chicana Gloria Anzaldúa conclude: il confine "es una herida abierta", è una ferita aperta, dove il Terzo Mondo si strofina con il Primo, e sanguina. Come il Rio Grande e il muro che lo costeggia, anche Lampedusa, Calais, Ventimiglia sono ferite aperte, il sanguinante confine fra un Primo Mondo sempre più selvaggio e un Terzo Mondo che non ce la fa più a sopportare fame, guerra e dittature come destini ineluttabili e viene a chiedercene il conto. Adesso questi due mondi non si strofinano più soltanto ai confini fra loro, ma anche dentro l'Europa stessa, e la insanguinano tutta; ma il senso è sempre quello: l'insopportabilità di un mondo in cui ricchezza e risorse si ripartiscono in misura sempre più ingiusta e disuguale. Un tempo, di queste ingiustizie si occupava la sinistra. Oggi, ci raccontano, sono finite le ideologie; ma la lotta di classe continua, in forme insolite e drammatiche. Da un lato, quella guerra di classe dei ricchi contro i poveri di cui ha scritto eloquentemente Luciano Gallino (e di cui la vicenda greca è una variante significativa). Dall'altro, la più antica lotta dei poveri per avere anche loro quello che hanno i ricchi: l'immigrazione di massa è infine (ed è sempre stata) proprio questo, l'arma estrema dei dannati della terra per un minimo di accesso ai beni della terra su cui viviamo tutti. A differenza delle forme di lotta e dei conflitti sociali del secolo scorso, questa lotta non è mossa dal progetto di abbattere un sistema, ma dall'ansia di condividerlo; non dall'ostilità ma dal desiderio, dal sogno, se non dall'amore idealizzato. Solo che siccome il sistema che vorrebbero condividere è in realtà retto da egoismo ed esclusioni, la richiesta di condivisione ne mette a nudo limiti e ipocrisie, impone inevitabilmente il cambiamento e per questo l'Europa la percepisce come invasione e minaccia e cerca in tutti i modi di fermarla. Ma fermare un simile cambiamento epocale è come provare a fermare il mare con le mani. È difficile dire come possiamo noi svolgere un ruolo in questa nuova lotta di classe. Il lavoro di tante forme di volontariato e di intervento di base è prezioso, aiuta, salva vite, crea rapporti; ma le dimensioni del dramma sono almeno per ora superiori alle forze che può mettere in campo da solo. Io credo che dobbiamo comunque tutti accettare che le nostre vite non possono continuare uguali come se nulla fosse, magari con un po' di tolleranza e benevolenza in più. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli: quelli che dicono "prima gli italiani" non hanno capito che entrambi abbiamo bisogno delle stesse cose - casa, lavoro, salute, scuola, diritti, tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo un poco per volta perdendo, e che possiamo forse salvare e recuperare insieme, per tutti. Dobbiamo ritrovare alla democrazia il suo significato profondo, che non sta nella politica e nelle istituzioni ma nelle anime: democrazia come solidarietà, come capacità di riconoscere nell'umanità degli altri la nostra umanità stessa. C'è ancora qualcuno che lavora su questo? Diceva un testo sacro del pensiero liberale: la mia libertà finisce dove comincia quella del mio vicino: che è precisamente un invito a vedere il vicino, specie si diverso e nuovo, come un limite alla propria libertà, come un ostacolo e un potenziale nemico. Io credo che dovremmo riformularlo: la nostra libertà comincia dove comincia la libertà del nostro vicino, i nostri diritti e quelli dei migranti sono per sempre inseparabili, la libertà di tutti noi finisce, e comincia, a Lampedusa, a Ventimiglia e a Calais. Immigrazione: nell'Eurotunnel esodo di morte di Marco Fanes Il Manifesto, 30 luglio 2015 Fortezza Europa. A Calais la "tendopoli" resiste, mentre i governi di Parigi e Londra mobilitano le forze dell'ordine. Sudanese perde la vita schiacciato da un camion, decine i feriti, 200 arresti. Un esodo nell'Eurotunnel. Migliaia di migranti hanno cercato di raggiungere, con ogni mezzo e senza preoccuparsi dei rischi, l'altra sponda della Manica. È morto così un migrante sudanese che nella notte di martedì - come gli altri - cercava di raggiungere la Gran Bretagna. Lo ha letteralmente schiacciato un camion durante la manovra di discesa da una delle "navette". E si contano anche decine di feriti, al termine di questo mancato viaggio nella notte europea. Un altro migrante di nazionalità egiziana è morto, invece, a Parigi. È stato fulminato dai fili elettrici alla stazione Gare du Nord mentre voleva saltare dal tetto di un treno diretto in Belgio sull'Eurostar diretto a Londra. L'uomo è spirato in ospedale. A Calais, l'altra notte in almeno 2 mila ad ondate si sono concentrati nella zona dell'Eurotunnel con l'obbiettivo di trovare una via verso Londra. Nella notte di martedì, a Calais, c'è stata una sorta di esodo di massa. E ieri il governo francese ha scelto di rafforzare il "cordone di sicurezza": il ministro degli interni, Bernard Cazeneuve, ha ordinato l'invio di altri 120 fra poliziotti e gendarmi. Da settimane, l'Eurotunnel è diventato il crocevia della disperazione. E la gestione del "normale" traffico fra Francia e Gran Bretagna si rivela ardua, anche a causa delle proteste degli ex dipendenti di una delle società del consorzio privato. Ma l'altra notte i migranti hanno riprovato in massa ad aggrapparsi alle "navette" con cui attraversare la Manica. Un esodo: migliaia in cerca della via di fuga. Alla fine, sono scattati circa 200 arresti oltre al bilancio tragico con un morto e centinaia di feriti. Già a giugno una decina di migranti è morta in vario modo, sempre nel tentativo di lasciare Calais. Il premier conservatore britannico David Cameron ha annunciato che farà "tutto il possibile". Peccato che le statistiche siano impietose: dall'inizio del 2015 almeno 37 mila migranti hanno cercato di attraversare la Manica. E d'estate la pressione aumenta in modo massiccio, com'è accaduto l'altra notte. D'altro canto, l'Eurotunnel rappresenta la via diretta per il traffico commerciale e passeggeri fra le due sponde. A Londra, le autorità hanno perfino invitato i viaggiatori a rinviare la partenza o, quanto meno, a ripianificare il modo di attraversare la Manica. Un esplicito riconoscimento dell'ingovernabilità: intorno alla sponda francese dell'Eurotunnel c'è una sorta di "tendopoli" con migliaia di migranti che ogni giorno s'inventano qualcosa pur di arrivare dall'altra parte. Ma prima di tutto, quest'onda umana "sbatte" sulle recinzioni e sui controlli. Poi prova a guadagnare un "passaggio" dai camion e dai Tir in transito. E addirittura si avvia a piedi lungo i binari. Tutti ci riprovano, sempre e comunque. L'ultima volta sono stati bloccati a centinaia. Per uno, invece, non c'è stato scampo. Secondo la ricostruzione, il giovane sudanese è stato investito dal camion in manovra sulla "navetta" e ha perso la vita schiacciato dal mezzo pesante. "Non siamo di fronte ad un passeggero che non paga il biglietto. Ma ad invasioni sistematiche, massicce, forse anche organizzate, a vocazione mediatiche visto che, in fin dei conti, nessuno riesce ad attraverso il tunnel sotto la Manica" commenta Jacques Gounon, presidente ed amministratore delegato di Eurotunnel intervistato dalla radio France Info. Il consorzio privato che gestisce l'infrastruttura della Manica mette le mani avanti: "Il nostro gruppo utilizza tutti i mezzi necessari, nel limite delle responsabilità, per assicurare la totale impermeabilità del tunnel nei confronti del passaggio di migranti nel Regno Unito". Tuttavia, non basta. L'ammissione è esplicita: "Bisogna far fronte ad un problema di effettivi e non di qualità: abbiamo un problema di quantità delle forze dell'ordine, nonostante i nostri ingenti investimenti". Insomma, l'Eurotunnel simbolo dell'unione europea agli albori si sta rivelando come una delle più clamorose "falle" nel sistema dell'Europa-fortezza alle prese con i flussi migratori che dal Mediterraneo puntano verso la Gran Bretagna. E Calais continua a rappresentare la mèta del lungo esodo, tant'è che gli "accampamenti" si sono sempre moltiplicati e rigenerati negli anni. Ancor di più durante l'estate. Un bel problema, soprattutto per il governo francese. La mobilitazione delle forze dell'ordine per Calais, infatti, non esaurisce i "fronti" aperti. A Parigi, è stato appena sgomberato proprio un accampamento di rifugiati. Già "azzerato", si era riformato di nuovo alla Halle Pajol, nel nord della capitale francese. Le operazioni di sgombero si sono svolte senza incidenti. Tuttavia, non è solo una questione di ordine pubblico. Si registrano storie di cittadini solidali: offrono un tetto e cibo. I riflettori anche mediatici, però, sono concentrati sulla Manica. È la galleria ferroviaria di più di 50 chilometri che collega Cheriton nel Kent a Coquelles, vicino a Calais. Eurotunnel è il nome della concessionaria che può gestire l'infrastruttura fino al 2086. Vanta la parte sottomarina (39 chilometri) più lunga del mondo e nell'intera tratta è superata solo dalla galleria Seikan in Giappone. Droghe: il "piano" nel cassetto, da sei anni non si riunisce la conferenza sulle dipendenze di Lorenzo Sani Il Giorno, 30 luglio 2015 L'ira degli operatori. "Da sei anni non si riunisce la conferenza nazionale sulle dipendenze". Mai presentata in Parlamento la relazione di settecento pagine. Patrizia De Rose, capo del Dipartimento per le politiche antidroga, avrebbe nel cassetto una relazione di 700 pagine pronta per il Parlamento. Il condizionale è una ciambella di salvataggio nell'anomalia di una struttura che non comunica con la periferia del sistema, perché politicamente è ancora clamorosamente acefala. Lo scorso anno fu il ministro Boschi a firmare la relazione annuale, ora non si sa. La delega l'ha tenuta Matteo Renzi. Il Pd si è svegliato di recente e ha riunito al Nazareno una quarantina di soggetti attivi nel campo delle dipendenze, invitando a sorpresa anche due rappresentanti di San Patrignano. A inizio 2016 ci sarà la Conferenza nazionale che manca da 6 anni. "Sulla questione droghe il governo risulta a fasico", sostiene Leopoldo Grosso, portavoce del Cartello di Genova e presidente onorario del Gruppo Abele. "Dopo un primissimo vagito nei giorni iniziali del suo insediamento, non ha più battuto un colpo, nonostante il semestre italiano di presidenza dell'Unione europea, occasione mancata per presentare la discontinuità dalla gestione Giovanardi-Serpelloni". Da tempo Grosso punta il dito contro lo stallo del Dpa. "Il Dipartimento ogni anno finanzia progetti a sostegno di obiettivi ritenuti prioritari o sperimentali, in collaborazione con i servizi pubblici e il privato-sociale accreditato: tutto è fermo e sono state bloccate anche le progettazioni che fruivano di una biennalità già predeterminata. L'indispensabile collaborazione con le Regioni, molto tormentata nella precedente gestione, non è stata ancora riavviata". Cosa aspetta la politica a fare la propria parte? "Il consigliere Patrizia De Rose è un tecnico, ha ereditato una situazione complessa e complicata" sostiene il radicale Marco Perduca. "Non avendo un referente politico rischia di pagare dazio. Usciamo da 50 anni di politiche fallimentari sulle droghe, diventa fondamentale riscattare il ruolo dell'Italia all'estero, isolata in un proibizionismo che non appartiene più neppure agli Stati Uniti". Appuntamento al prossimo aprile (19-20-21), quando "avrà luogo la sessione straordinaria delle Nazioni Unite, per rivedere e discutere le linee della politica sulla droga, tenendo conto che tutto nel mondo è cambiato e gli stessi Paesi del Sudamerica vogliono la dichiarazione di fallimento della guerra alla droga così come finora è stata condotta. Come vi arriverà l'Italia, con quali linee?" si chiede Franco Corleone, garante dei detenuti che, per inciso, con la cancellazione della Fini-Giovanardi sono diminuiti di 5.500 unità. "Il passato del Dpa è stato vissuto sotto l'ombrello di una legge molto ideologica, con una forte caratterizzazione punitiva e di stigma verso i consumatori. Riallacciare i fili con le Regioni, il privato sociale e aprirsi al confronto è una priorità, ma la politica deve dare segni di vita. La consulta degli esperti, prevista dalla legge, è stata convocata in tanti anni soltanto una volta: per esaminare il caso del cantante Morgan. È normale?". Pakistan: al patibolo otto detenuti, oltre 180 da inizio anno Ansa, 30 luglio 2015 Otto detenuti condannati a morte per omicidio sono stati impiccati oggi in diverse prigioni del Punjab, nel Pakistan centrale. Lo riferisce la tv Samaa. Tre uomini sono saliti al patibolo nel penitenziario di Attock, mentre gli altri in cinque carceri della provincia. Dallo scorso dicembre, quando il governo ha sospeso una moratoria volontaria di sei anni sulle esecuzioni, sono stati giustiziati 180 detenuti. Nel braccio della morte delle prigioni pachistane ci sarebbero circa 8 mila persone. Per il 4 agosto a Karachi è prevista l'impiccagione di Shafqat Hussain, un sospetto assassino che aveva meno di 18 anni all'epoca del suo delitto e che sostiene di essere stato torturato per confessare il reato. Il caso ha sollevato le critiche delle associazioni di difesa dei diritti umani come Human Rights Watch che ha rivolto un appello perché gli sia concesso la grazia presidenziale. India: impiccato Yakub Memon, cervello attacchi Mumbai nel 1993 Askanews, 30 luglio 2015 Unico di 11 condannati a non aver avuto commutazione pena. L'India ha eseguito la condanna a morte per impiccagione di Yakub Memon per il suo ruolo negli attentati di Mumbai del 1993, costati la vita a 257 persone. Le tv locali hanno dato la notizia dell'impiccagione dell'uomo considerato la mente e il finanziatore di una letale raffica di attacchi nella capitale finanziaria indiana, eseguita nel carcere di Nagpur, nello stato occidentale di Maharashtra, prima dell'alba e subito dopo la notizia che la sua ultima richiesta di grazia era stata respinta dal presidente indiano Pranab Mukherjee. Memon, un ex contabile, è l'unico degli 11 condannati a morte per quegli attentati a non aver ottenuto la commutazione della pena capitale. Ragioniere di professione, in carcere da 21 anni, oggi sarebbe stato il giorno del suo 53esimo compleanno. Ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento negli attacchi, che sarebbero stati organizzati come rappresaglia a un'ondata di violenze anti-musulmane che all'epoca fecero un migliaio di morti. La vicenda appare quasi paradossale, contando che gli attentati del 1993 furono messi a punto da altre due persone (il fratello dello stesso Memon, Tiger, e un boss della criminalità organizzata Dawood Ibrahim) e per loro la pena capitale è stata commutata in ergastolo, come pure le altre sette condanne a morte. In attesa dell'impiccagione, la polizia di Mumbai era in massima allerta e tutte le misure di sicurezza nella città erano state rafforzate, per timore di proteste e anche di attacchi terroristici in rappresaglia all'esecuzione. Myanmar: varata amnistia generale, governo dispone scarcerazione migliaia di detenuti La Repubblica, 30 luglio 2015 Tra i beneficiari dell'amnistia anche 210 stranieri e i 155 cinesi oggetto di un duro scontro diplomatico con Pechino. Il governo del Myanmar ha ordinato oggi il rilascio di migliaia di prigionieri, compresi 210 stranieri. L'hanno riferito fonti ufficiali di Rangoon. Le autorità hanno agito su ordine del presidente Thein Sein nell'ambito di una politica mirata a migliorare la reputazione internazionale del Paese. Sono in tutto 6.966 i detenuti che verranno liberati. Non è chiaro se tra loro vi siano anche prigionieri politici, ma nel totale sono inclusi anche 155 lavoratori cinesi il cui arresto nel nord del paese aveva provocato di recente una grave crisi diplomatica con il governo di Pechino. Un elenco ufficiale dei detenuti liberati non esiste. Le notizie sui singoli casi provengono dai diretti interessati o dai loro familiari e da queste si capisce che nella maggior parte dei casi si tratta di detenuti per crimini comuni. La nota ufficiale spiega che il provvedimento è stato preso per ragioni umanitarie e in vista di una riconciliazione nazionale, ma è chiaro che la decisione tiene conto della scadenza elettorale di novembre e delle critiche sulle mancate riforme mosse al governo insediatosi nel 2011 dopo decenni di dittatura militare. Marocco: grazia reale per 1.012 persone in occasione della festa del Trono Nova, 30 luglio 2015 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha emanato un decreto reale che prevede la grazia per 1.012 persone. Secondo quanto ha reso noto il ministero della Giustizia di Rabat, sono state graziate un numero di persone, alcuni dei quali già in stato di libertà vigilata, condannati da diversi tribunali del regno. Le persone scarcerate in virtù di questo decreto di grazia sono invece 725 e per 719 si è trattato di una riduzione della pena già scontata o la trasformazione di una pena all'ergastolo in detentiva a tempo limitato. Un decreto di grazia viene emesso ogni anno dal monarca marocchino in occasione della festa del trono che celebra la sua ascesa al trono in Marocco avvenuta alla morte del padre, Hasan II, nel 1999. Israele: il parlamento approva l'alimentazione forzata per i detenuti in digiuno volontario Agi, 30 luglio 2015 I prigionieri palestinesi in digiuno per protesta nelle carceri israeliane saranno alimentati con la forza. Lo ha deciso il parlamento approvando una legge che consente alle autorità penitenziarie di esercitare quella che l'Associazione medica israeliana definisce una tortura. La legge è passata con pochi voti di scarto (46 a favore e 40 contrari in un parlamento che conta 120 seggi), ma l'associazione ha invitato i medici all'obiezione di coscienza. Il governo di Benjamn Netanyahu teme che la morte per digiuno volontario dei prigionieri possa condurre a ondate di proteste nei Territori. Egitto: processo a giornalisti al-Jazeera, oggi attesa per il verdetto Adnkronos, 30 luglio 2015 È attesa per oggi la sentenza del processo in Egitto a carico dei giornalisti della tv satellitare del Qatar al-Jazeera accusati di aver "diffuso notizie false" e a favore dell'ex presidente Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani, organizzazione "terroristica" per le autorità egiziane. Lo scorso anno l'australiano Peter Greste, Mohammed Fahmy, con cittadinanza canadese ed egiziana, e l'egiziano Baher Mohammed sono stati condannati a pene detentive dai sette ai dieci anni di carcere. Per Amnesty International il processo è stato una "farsa" e le sentenze "un feroce attacco alla libertà di stampa". Lo scorso gennaio la Corte Suprema ha ordinato un nuovo processo. A febbraio Greste è stato scarcerato ed espulso, mentre Fahmy e Mohamed sono stati rilasciati su cauzione. I tre respingono ogni accusa. Le autorità del Cairo, dopo la destituzione di Morsi nel 2013, hanno ripetutamente accusato al-Jazeera di favorire i Fratelli Musulmani.