Giustizia: slitta il ddl di riforma del processo penale, altalena di pressioni e correzioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 luglio 2015 Le critiche dei procuratori sul limite di tre mesi a fine inchiesta. L'ostruzionismo grillino fa slittare la discussione sul disegno di legge di riforma del processo penale, che contiene anche la delega sulla riforma delle intercettazioni che già tante polemiche ha suscitato. Se ne riparlerà la prossima settimana, ma è pressoché certo che non si arriverà al voto finale prima delle vacanze, come avrebbe voluto il governo. Il che significa, al di là delle schermaglie con il Movimento 5 Stelle accusato (soprattutto dal Pd) di opportunismo e strumentalizzazione delle questioni sul tappeto, che ci sarà altro tempo per riflettere e correggere alcune norme contestate. Già sulle cosiddette "registrazioni fraudolente" si è intervenuti con ulteriori emendamenti per specificare la possibilità di utilizzarle per dimostrare la commissione di reati, oltre che da parte dei giornalisti e altri professionisti. Dopo quella, però, è scoppiata un'altra grana, forse più fondata: la norma, inserita da esponenti del Partito democratico, che impone ai pubblici ministeri il termine tassativo di tre mesi dalla scadenza formale dei tempi d'indagine entro il quale chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione di un'inchiesta. Pena avocazione da parte del procuratore generale per chiudere la pratica. Una riforma che ha provocato una sorta di "insurrezione" da parte di diversi magistrati rappresentanti della pubblica accusa. Compreso il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, secondo il quale quasi sempre l'eventuale sforamento non dipende dai pm; soprattutto in procedimenti complessi, con molti inquisiti, si resta spesso in attesa delle informative finali della polizia giudiziaria; le norme per sanzionare eventuali inerzie dei pm ci sono già, inutile creare altre complicazioni burocratiche. La sintesi del super-procuratore trova concordi molti dirigenti di uffici inquirenti, ma anche un giudice come Piergiorgio Morosini, ora componente del Consiglio superiore della magistratura che sta preparando il parere dell'organo di autogoverno sulle conseguenze della riforma, parla di una soluzione miope a un problema reale: "Soprattutto in indagini di dimensioni medio-grandi, con una pluralità di indagati entrati nell'inchiesta scaglionati nel tempo, l'obbligo di chiudere entro tre mesi dalla scadenza dei termini, fissati dalla prima iscrizione e senza tenere conto delle successive, può provocare più guasti che vantaggi". L'alternativa potrebbe essere un "doppio binario", consentendo tempi più lunghi per le indagini più complesse, come già accade per la mafia e altri reati; oppure (ma pure in aggiunta), consentire una richiesta di proroga al procuratore generale a fronte di particolari esigenze. È ciò che suggerisce, da Palermo, il procuratore generale Roberto Scarpinato, fresco di avocazione per presunta inerzia su un omicidio del 1990, al quale la Procura ha reagito rivolgendosi al pg della Cassazione e ottenendo l'annullamento del provvedimento e la restituzione del fascicolo. Secondo Scarpinato la riforma è giusta, fatti salvi i "casi eccezionali" in cui si può chiedere altro tempo al giudice. Replica di Armando Spataro, procuratore di Torino: "Il nuovo meccanismo renderebbe le competenze del Pg automatiche- ordinarie anziché eccezionali; la sin qui isolata posizione del collega Scarpinato è spia di un'aspirazione a esercitare funzioni proprie del procuratore anziché del pg". Ma nel Pd non sembrano intenzionati a cedere. Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia, annuncia piccole correzioni sulla linea Scarpinato, salvo chiedere la proroga allo stesso pg anziché al giudice, lasciando così la procedura all'interno degli uffici dell'accusa, senza notifiche alle parti e viavai di fascicoli. "Bisogna garantire tempi certi per la richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione - spiega l'esponente Pd che prima di entrare in Parlamento ha fatto il pm -. Bisogna mettersi anche dalla parte degli inquisiti, i quali non possono restare appesi all'infinito a situazioni indefinite. Altrimenti non siamo credibili quando chiediamo di allungare i tempi di prescrizione. Tre mesi è il tempo concesso a un giudice per scrivere le motivazione di una sentenza di un maxi-processo, mi pare un termine congruo. Poi possiamo prevedere delle eccezioni, ma l'eccezione non può essere la regola, come adesso". La marcia indietro della politica, dunque, stavolta si annuncia molto parziale, con possibili ulteriore tensioni nei rapporti tra politica e giustizia. Ma chissà che il rinvio di discussione e voto non porti nuovi consigli, da un lato e dall'altro. Giustizia: quei pm che vorrebbero far durare le indagini senza limiti di Vincenzo Vitale Il Garantista, 29 luglio 2015 Lo scontro sui tre mesi di indagine: ma è una norma di civiltà. Una novità contenuta nella riforma della giustizia ha fatto sobbalzare sulla sedia sia Gratteri, procuratore capo di Reggio Calabria, sia Sabelli, presidente della Associazione nazionale magistrati: si tratta di una previsione secondo la quale il pubblico ministero, dopo la fine delle indagini, avrebbe a disposizione soltanto tre mesi per decidere se chiedere l'archiviazione o il rinvio a giudizio dell'indagato. È una regola di comune buon senso che serve a ridurre i tempi del processo, evitando stasi tanto lunghe quanto, a volte, immotivate. Ma allora perché i due magistrati si son tanto rammaricati della probabile approvazione di tale limite temporale, definendo la norma che lo prevede addirittura pericolosa o a favore per la mafia? Evidentemente, perché una tale riduzione vincolante dei tempi mette in riga, per dir così, il pubblico ministero, obbligandolo a stare all'interno di binari di durata predeterminati, senza poter fare perciò del tempo ciò che più gli aggradi. Ecco dunque una buona ragione per limitare i poteri, almeno da questo esiguo versante, della parte pubblica nel processo penale, a proposito della quale ci sarebbe molto da dire. In proposito, accennando appena ad una problematica che meriterebbe ben altra trattazione, c'è da osservare che paghiamo uno scotto all'hegelismo più deteriore il quale, innervando i gangli dei sistemi costituzionali continentali (e restando sconosciuto ai paesi di common law), porta a ritenere che tutto ciò che si presenti come pubblico - contrapposto al privato - per ciò solo sia nel giusto e non possa che essere nel giusto, quasi per virtù di un Dio che, eliminato da un'epoca fortemente secolarizzata, ricompare sotto le forme dello Stato. Così, evidentemente, non è. E non ci vuole un filosofo di professione per capire che anche la parte pubblica deve rispettare dei principi di civiltà giuridica che le preesistono e che appunto la rendono degna di definirsi pubblica (altrimenti essa si atteggerebbe come qualunque altra parte privata). In questa prospettiva, ben altre sarebbero le riforme da approntare allo scopo di arginare quello che ancora rimane lo strapotere del pubblico ministero nel processo penale. Ne cito soltanto due. Da un primo versante, è risaputo che il pubblico ministero, dal momento in cui è noto chi sia la persona al quale si possa astrattamente attribuire il reato, deve senza indugio iscriverne il nome nell'apposito registro e che da quel momento cominciano a decorrere i termini di legge per l'espletamento dell'istruttoria, che non potrà superare i sei mesi, prorogabili per giustificati motivi per non più di due volte, per un totale di un anno e mezzo complessivo. Ebbene, cosa accade nella pratica? Accade che a volte il pubblico ministero omette o ritarda consapevolmente di registrare il nome dell'indagato allo scopo di evitare la decorrenza del termine per le indagini, sapendo comunque che esse saranno salve e pienamente utilizzabili. Infatti, per la Cassazione - in modo uniforme - anche se il pubblico ministero nell'omettere o nel ritardare quella registrazione fosse incorso in un illecito disciplinare o addirittura nella commissione di un reato, egualmente le indagini saranno utilizzabili: dal che si ricava l'interessante insegnamento, elargito graziosamente dalla nostra Cassazione, per il quale non importa la genesi di un comportamento, in quanto anche comportamenti illeciti (in sede disciplinare o perfino penale) possono produrre atti leciti e pienamente utilizzabili. E su come un atto illecito possa - nel processo penale - partorirne di leciti ci sarebbe da meditare per generazioni, dubitandosi molto che si possa giungere a legittimare un simile sofisma, se non ricorrendo alla ragion di Stato, buona per chiudere la bocca ad ogni pretesa della ragione critica. Ma, come ebbe a scrivere Karl Kraus, quando si comincia ad invocare la ragion di Stato, si dà inizio alla rovina degli uomini. Il fatto è che siamo in presenza di un gioco di prestigio vero e proprio: dal momento che le indagini possono durare soltanto per un anno e mezzo, è sufficiente postergare il termine iniziale - ritardando la registrazione del nome dell'indagato - per farle durare anche il doppio o il triplo. Facile, no? Da un secondo versante, per quanto sembri strano, anche se in pubblica udienza il pubblico ministero abbia chiesto l'assoluzione dell'imputato (benché ciò avvenga raramente), la sentenza di assoluzione che ne assecondi la volontà potrà egualmente essere appellata dall'ufficio della Procura, come se nulla fosse accaduto. Insomma, le regole che governano il funzionamento processuale della Procura sembrano scritte da alienati mentali, perché ciò che la Procura dice oggi per bocca del pubblico ministero che la rappresenta in udienza, non varrà più domani mattina per bocca di un altro che stava fuori dell'udienza. Ne viene che il parere del pubblico ministero d'udienza pur essendo efficiente, cioè producendo effetti nel processo, potrà essere tranquillamente negato l'indomani dallo stesso ufficio al quale egli appartiene. Ne viene ovviamente un senso di straniamento che assume un sapore surreale, con l'effetto di spiazzare la difesa che a volte non sa come regolarsi in proposito, danneggiando in modo irrimediabile la persona assistita. Potremmo continuare, ma sarebbe cosa lunga e forse noiosa. Per ora ci limitiamo a chiarire al governo che la nuova norma è cosa buona, ma è soltanto una goccia di verità in un oceano di menzogne. Giustizia: la Procure difendono il loro potere di esercizio discrezionale dell'azione penale dalla Giunta dell'Unione Camere Penali camerepenali.it, 29 luglio 2015 L'introduzione di un termine di tre mesi entro il quale, una volta scaduti i termini delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero debba richiedere l'archiviazione o esercitare l'azione penale, pena l'avocazione da parte della Procura Generale, non limita in alcun modo l'efficacia delle indagini ed al contrario, si pone giustamente lo scopo di evitare che il principio di obbligatorietà dell'azione penale previsto dall'art. 112 della Costituzione sia quotidianamente frustrato da prassi che vedono procedimenti abbandonati dalle Procure in attesa che i reati contestati si prescrivano. L'emendamento approvato in Commissione Giustizia all'art. 11 del Disegno di Legge sul processo penale si limita a prevedere che, una volta scaduto il termine di durata delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero debba richiedere l'archiviazione o esercitare l'azione penale entro tre mesi, se questo non accade interviene il Procuratore Generale avocando l'indagine. Non è prevista alcuna sanzione processuale di nullità o di inutilizzabilità degli atti e non vi è, pertanto, alcun pregiudizio, neppure potenziale, per l'esito del procedimento. Le forti reazioni che provengono dall'Anm, da noti esponenti della magistratura e oggi occupano grandi spazi sui quotidiani nazionali, appaiono del tutto ingiustificate e pretestuose. In primo luogo va chiarito che il termine di sei mesi per le indagini preliminari può essere prorogato dal Giudice su richiesta del P.M. fino a diciotto mesi e per reati di particolare gravità, o comunque che richiedono accertamenti complessi, fino a due anni e l'emendamento non introduce alcuna modifica di tali termini. Va poi rilevato che il codice prevede già che entro il termine finale delle indagini, quale esso sia, anche due anni, il Pubblico Ministero debba richiedere l'archiviazione o notificare all'indagato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari nel quale sono contestati i fatti per i quali si procede e le norme che si assumono violate, il che presuppone che il Pubblico Ministero abbia già vagliato tutti gli esiti dell'indagine e abbia valutato di dover promuovere l'azione penale. Il vero problema però è che le norme del codice di rito non vengono rispettate e, una volta scaduto il termine di indagine, i fascicoli vengono lasciati giacere nelle cancellerie fino al sopraggiungere del termine di prescrizione del reato, o avviati al processo sulla base di valutazioni discrezionali del singolo Pubblico Ministero che, di fatto, cancellano il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale sancito dall'art. 112 della Costituzione. A riguardo è sufficiente ricordare che, sulla base dei dati ufficiali resi noti dal Ministero della Giustizia, quasi il 70% dei reati si prescrive nella fase delle indagini preliminari. L'attuale sistema non è però più accettabile e l'emendamento può semmai essere criticato per la scarsa incisività dei rimedi che prevede (avocazione da parte del Procuratore Generale), ma non certo per la regola che vuole introdurre, tesa ad inserire un controllo sull'operato del Pubblico Ministero che, allo stato attuale, può di fatto decidere se archiviare o meno un dato procedimento semplicemente abbandonandolo al decorso del tempo, senza nessun controllo da parte del Giudice che, investito della questione solo a reato prescritto, è costretto a constatare l'intervenuta estinzione del reato. In ogni caso, anche al di fuori delle ipotesi di archiviazioni "di fatto", la previsione di un termine effettivo entro il quale esercitare l'azione penale rappresenta una declinazione del principio dettato dall'art. 111 della Costituzione in materia di ragionevole durata del processo ed è garanzia, tanto per l'imputato quanto per la persona offesa, del rispetto dei principi dell'oralità e dell'immediatezza, certamente incompatibili con dibattimenti celebrati a distanza di anni dal fatto. Un passo, dunque, nella giusta direzione, anche se molto deve ancora essere fatto. Giustizia: siamo i più indulgenti in Europa, attiriamo tutti coloro che vogliono delinquere di Domenico Cacopardo Italia Oggi La sensazione è precisa: quest'Italia è un Paese allo sfacelo. Tra giugno e luglio ho percorso per lavoro l'Autostrada del Sole da Parma a Roma almeno otto volte. Non ho mai incontrato una pattuglia della Polizia Stradale. Anzi, nel tratto Bologna-Firenze, da qualche anno, si poteva constatare che il divieto di sorpasso di camion e di autotreni era rispettato. Ora non più: poiché gran parte dei mezzi pesanti non hanno targa italiana (è noto che diverse migliaia di padroncini hanno "estero-vestito" i loro mezzi), i conducenti se ne fregano e occupano tranquillamente per chilometri la corsia di sorpasso. Ma l'aspetto più inquietante del caso è la totale assenza della Polizia stradale che, ormai, interviene solo in caso di incidente grave. Anche la situazione dei furti in appartamento e in villa è peggiorata e di molto. Ora i più specializzati sono i georgiani che, insieme agli zingari, detengono il record anche in materia di efferatezza e di aggressioni inutili. La questione è semplice: attiriamo ladri. E non per carenze delle varie polizie di cui disponiamo: in un numero accettabile di casi, i responsabili di questi reati vengono arrestati. Ma la gestione giudiziaria di essi è molle, indulgente. Invece di tenere i ladri in galera e, possibilmente, buttare la chiave (anche per disincentivare questo genere di immigrazione specializzata), nel giro di una decina di giorni i delinquenti tornano in circolazione pronti a delinquere di nuovo e, avendo minacciato i già rapinati, a dare sfogo alla loro violenza bestiale. Certo, l'autorità giudiziaria è inefficiente per definizione, ma il complesso delle norme buoniste che governa il crimine è inidoneo a contrastarlo. Anzi, come abbiamo detto, un'analisi comparata di pene e condoni, fa ritenere l'Italia il Paese più indulgente d'Europa. Di sbieco ricordiamo che questo andazzo è estremamente frustrante per gli operatori della Pubblica sicurezza, sempre sull'orlo di durissimi procedimenti giudiziari, mai sugli scudi di un apprezzamento reale e verificabile da parte di coloro che giudicano i delinquenti che popolano la Nazione. In questo disastro dei fondamentali dell'ordine pubblico, ci si mette pure il più elevato giudice d'Italia: la Corte costituzionale. Come se si trattasse di un organismo lontano mille chilometri dalla realtà concreta (che è una realtà di difficile gestione, di risanamento coordinato con le autorità europee, di tagli e sacrifici distribuiti tra lavoratori e imprenditori) senza alcuna specifica attenzione alle conseguenze delle decisioni, la Corte, in questi ultimi mesi, ha inanellato una serie di sentenze che hanno dato un colpo mortale alle finanze pubbliche: i vari regimi di blocco delle crescite retributive sono stati dichiarati in tutto o in parte incostituzionali, senza apprezzamenti giuridici delle conseguenze su precetti costituzionali, della mancanza di inflazione (causa tecnica delle progressioni automatiche), dell'emergenza debito e dell'emergenza di bilancio. Il medesimo blocco dei contratti degli statali è stato giudicato incostituzionale, dimenticando che un contratto è il negozio giuridico che deriva da un libero confronto tra almeno due parti. E, in questo caso, una delle due, lo Stato è stata costretta a definire con la legge di bilancio la propria impossibilità ad aderire a una qualsiasi crescita degli oneri per stipendi della burocrazia. Senza volere esprimere alcun giudizio, constatiamo che questa Corte è presieduta da un magistrato ordinario. L'autorità giudiziaria, peraltro, usa, come un solerte impiegato delle poste addetto alla timbratura dei francobolli finisce, timbrare tutto ciò che gli capita a tiro, così molte corti si comportano di fronte agli eventi della vita quotidiana, usando il loro potere come un "juke-box" nel quale inserire la fattispecie e dal quale automaticamente fare uscire una sentenza devastante per l'ambiente lavorativo, sociale ed ecologico di riferimento. Occupazione a picco, stabilimenti strategici chiusi, investimenti gettati al vento: nulla importa, solo la cieca applicazione della norma, di norma generica. C'è una responsabilità della politica in questa situazione: senza parlare della ministra Severino, onusta di glorie professionali e di discutibili decisioni governative, ricordiamo il continuo inserimento nel codice penale di nuovi reati, dalle definizioni, in alcuni casi, così labili da indurre qualche bravo e onesto operatore di giustizia ad acchiappare chi gli capita a tiro, forte di una discrezionalità quasi assoluta. Un ampliamento delle fattispecie attuato con l'inspiegabile consenso di Confindustria, mai scesa sul terreno della contestazione dell'arbitrio fatto legge che regola molte attività umane e imprenditoriali. Lo sfacelo riguarda, quindi, anche il governo e la politica. Decine di gruppetti sono in movimento per contestare qualsiasi cosa accada in area di governo. Lo scopo non è quello di impedire qualche scempio, qualche errore, qualche decisione inaccettabile. L'unico scopo che anima le minoranze del Pd, il Movimento5Stelle e gli altri contestatori è uno solo: costringere alla resa Matteo Renzi. Anche se non sanno cosa e come fare dopo, pensano che, come in passato, l'Italia accetterà supinamente ogni nefandezza, ogni radicalismo, ogni ritorno a formule deprecabili. Abbiamo criticato e critichiamo Renzi: ma consideriamo inaccettabile il metodo delle congiure e delle pregiudiziali, quando è in gioco uno stretto passaggio dal disastro alla sopravvivenza. Certo, Matteo Renzi non è il politico di cui avevamo bisogno. È, però, l'unico dirigente di partito che ha saputo riporre in soffitta argomenti e uomini del passato, avviando, tra mille contraddizioni, errori e passi indietro, un processo riformista che inciderà su alcune delle rendite di posizione che paralizzano l'Italia. Più rimarremo ancorati a polemiche senza senso (quella sulla scissione di Forza Italia realizzata da Verdini) meno ci sarà la possibilità di andare avanti con le difficoltà che sappiamo nella riparazione dei tanti sfaceli che si vedono in giro. E lo scontro politico tra Orfini e Renzi è il caso emblematico della deriva autolesionista che attraversa il Paese e, in esso, il Pd: il prezzo è Roma, la preda uno dei due. Giustizia: Grasso "attenti, non limitate le intercettazioni, regolatele un po' meglio" di Errico Novi Il Garantista, 29 luglio 2015 Continua l'allarme delle toghe, dal Procuratore Antimafia Roberti all'attuale seconda carica dello Stato. Rinvio per il ddl penale. Intanto il Csm vara criteri "meritocratici" per gli incarichi direttivi. L'allarme c'è e non è infondato. La magistratura si è concentrata per mesi su provvedimenti come quelli anticorruzione, marca a uomo il governo sulla prescrizione, ma aveva forse sottovalutato la riforma del processo penale. Un po' perché il testo era rimasto a lungo dormiente nella commissione Giustizia di Montecitorio, un po' perché la sua complessità ha fatto credere che sarebbe stato lasciato in freezer per sempre. E invece il caso della nonna sulle "registrazioni nascoste" ha portato in superficie una materia temibilissima per giudici e pm. Tanto da indurre alcuni magistrati di primissima linea a segnalare nelle ultime ore i rischi contenuti nel disegno di legge. Dal Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti, assai preoccupato por il termine perentorio dei tre mesi entro cui, una volta chiuse le indagini, i pm devono decidere se chiedere o meno il rinvio a giudizio, all'attuale presidente del Senato Pietra Grasso, che ieri ha riunito la stampa parlamentare non a Palazzo Madama ma a Montecitorio per dichiarare quando già affermato da molti suoi (ex) colleghi. E cioè che le misure sulle intercettazioni, e quella sulle registrazioni "fraudolente", servono fino a un certo punto. "In questa materia esistono già diverse norme, evidentemente non sempre rispettate, quindi si potrebbe regolare meglio la gestione delle intercettazioni ad esempio attraverso un'udienza filtro che mantenga solo quelle utili al processo". Che è esattamente quanto previsto nel ddl ora all'esame della Camera. La discussione a Montecitorio non sarà breve. La lista dei deputati iscritti a intervenire nella discussione generalo è lunga e ieri l'Aula ha approvato la proposta di rinvio ad altra seduta presentata dal Pd. Il dibattito tra toghe e politica rischia di procedere più spedito dell'iter legislativo. Grasso sceglie di dire la sua spostandosi fisicamente nell'ala del Parlamento che ha ora in mano il provvedimento. E sembra preoccupato soprattutto di porre un argine allo nuove regole sugli ascolti. Non è chiaro fino dove Pd e Ncd siano intenzionati a spingersi. Si fermeranno all'udienza filtro? "Le intercettazioni, lo dico da sempre, sono un mezzo di indagine irrinunciabile e indispensabile che non va in alcun modo limitato", avverte Grasso. Monito preventivo ma evidentemente necessario, dal suo punto di vista. I timori sono anche dentro la maggioranza. Rosy Bindi chiede per esempio di rivedere il sopracitato limito dei tre mesi, forse la norma più sgradita alla magistratura: ieri Otello Lupacchini l'ha definita "ridicola". D'altronde le stesse toghe sanno che il cambiamento, in senso generale, non è del tutto eludibile: ieri il plenum del Csm ha approvato le nuove regole per il conferimento degli incarichi direttivi. "Più meritocrazia", ha assicurato il vicepresidente Giovanni Legnini. È passato anche un ordine del giorno che impegna il Consiglio superiore a varare una delibera sul "rientro in ruolo" dei magistrati dopo periodi di impegno politico. I laici, anche di centrosinistra, avrebbero voluto decidere già ieri. Se ne parlerà invece a settembre. Certo è che tra pm come Di Matteo che impugnano al Tar le nomine del Csm e parlamentari che limitano tempi delle indagini e richieste di rinvio a giudizio, le toghe hanno buona ragione a sentirsi accerchiate. Giustizia: Ferri "nessuno potrà punire le vittime che registrano i colloqui con gli usurai" di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 29 luglio 2015 Nessuna limitazione alle intercettazioni. e neppure a chi cerca prove per difendersi in un processo. così il rappresentante del governo smentisce chi si allarma per le norme della riforma penale. compresi magistrati come Nicola Gratteri. Sottosegretario Cosimo Maria Ferri, parliamo dell'emendamento Pagano che tante polemiche ha scatenato. Davvero il governo vuole mettere il bavaglio alle intercettazioni? Il dottor Gratteri è arrivato a dire che non sarà più possibile effettuare indagini. "Evitiamo equivoci e spieghiamo bene: l'emendamento in questione non c'entra niente con le limitazioni alla disciplina delle intercettazioni, che sono e restano un mezzo indispensabile nella ricerca della prova dei reati. La norma in discussione non avrà ricadute sull'efficacia di tale strumento di indagine. Inoltre, l'emendamento Pd depositato lunedì scorso chiarisce bene la portata della norma: il reato scatta in presenza della diffusione di riprese e registrazioni al solo fine di danneggiare la reputazione o l'immagine altrui. La previsione di tale scopo specifico non mi sembra possa entrare in contraddizione con la volontà del cittadino, vittima di un reato, di collaborare con la giustizia offrendo agli inquirenti eventuale materiale di indagine in suo possesso, in via riservata e per una finalità di per sé lecita". Quale fine si prefigge il legislatore? "Quello che si vuole colpire è l'uso distorto delle informazioni captate - al di fuori dei binari legali di utilizzabilità e divulgabilità dei dati oggetto di intercettazione - nei confronti di chi deliberatamente diffonda dati e immagini ottenuti fraudolentemente". Il dottor Gratteri non ha motivo di preoccuparsi? Cosa succede se la vittima del "pizzo" registra la richiesta estorsiva? "Lo ripeto, il cittadino potrà continuare a registrare la richiesta estorsiva di cui è vittima poiché si è opportunamente intervenuti sulle scriminanti per prevenire applicazioni generalizzate della norma in contrasto con l'esigenza di bilanciamento dei valori costituzionali, tra cui vi è quello dell'efficacia del processo penale. Si è così esclusa la punibilità quando le registrazioni e le riprese sono utilizzabili nell'ambito di un procedimento giudiziario". Ed il lavoro dei giornalisti sarà in qualche modo limitato? "Assolutamente no, il diritto di cronaca deve restare e rimarrà salvo. Del resto, l'emendamento va in questo senso ed è non solo ragionevole ma anche in linea con la più recente giurisprudenza comunitaria visto che, in tema di diffusione dannosa di riprese e registrazioni effettuate fraudolentemente, esclude la punibilità dell'autore in presenza del legittimo esercizio del diritto di cronaca". Quindi nessun riflesso negativo sulla libertà di stampa? "No. Secondo me è stata trovata una soluzione normativa equilibrata che sgombra il campo da qualunque sospetto di bavaglio per la stampa e - senza porre in discussione l'essenzialità delle intercettazioni come mezzo di ricerca della prova - si pone nell'alveo dei principi costituzionali che tutelano la libertà e la segretezza delle comunicazioni al pari della libertà di informazione spettante al giornalista. Non deve, infatti, destare preoccupazione una norma diretta a chi deliberatamente e fraudolentemente interferisce nel circuito - tracciato nel codice di procedura penale - per l'utilizzabilità e la divulgabilità delle informazioni intercettate, al solo scopo di recare danno alla reputazione o all'immagine altrui". E il pubblico interesse alla notizia ne esce sacrificato? "No, perché al contempo la norma fa doverosamente salvo il diritto del giornalista ad informare la collettività in presenza di notizie di pubblico interesse, sulla scia di una recente pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell'uomo, la sentenza del 24 febbraio 2015 Haldimann c. Suisse, che ha consacrato il diritto della collettività a ricevere dal giornalista informazioni su questioni di rilievo generale. Con l'approvazione dell'emendamento a firma Verini ed Ermini si raggiunge insomma una soluzione equilibrata, che concilia tutte le esigenze, innanzitutto quelle investigative e poi il diritto di difesa, il diritto di cronaca e il diritto alla privacy, meritevoli di tutela". Giustizia: diffamazione a mezzo stampa, carcere per 17 anni a trenta cronisti di Luca Rocca Il Tempo, 29 luglio 2015 È il rapporto di "Ossigeno per l'informazione" sulla diffamazione a mezzo stampa. Fra i giornalisti condannati ci sono anche il direttore di Panorama, Giorgio Mulè, insieme ad Andrea Marcenaro, Riccardo Arena e Maurizio Tortorella, dello stesso settimanale. Poi Luigi Vicinanza, attuale direttore dell'Espresso e al momento della condanna a capo del Centro di Pescara (condannati anche due cronisti dello stesso quotidiano), Claudio del Frate del Corriere della Sera (assolto in appello), Luca Fazzo del Giornale, Orfeo Donatini e Tiziano Marson, redattore e direttore dell'Alto Adige, e Antonio Cipriani, ex direttore delle testate free press E-Polis sottoposto a 34 processi e che ora a rischia carcere. Il dossier sottolinea che in realtà i casi di sentenze che prevedono pene carcerarie sono molto più numerosi. L'Osservatorio, infatti, che è promosso da Fnsi e Ordine dei giornalisti, si basa solo su quanto appreso direttamente attraverso un loro monitoraggio, tenendo ben presente che spesso i giornalisti non vogliono far sapere di essere stati minacciati, imputati o condannati per diffamazione. Il rapporto si sofferma anche sulla legge in discussione in parlamento dal 2013, che se da un lato elimina il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione, dall'altro prevede multe salate che vanno dai 5mila ai 50mila euro. Per Ossigeno, la norma non allineerà il nostro Paese alla giurisprudenza europea. L'Osservatorio riporta poi i dati della Federazione Italiana Editori Giornali, nei quali si evidenzia come "negli ultimi dieci anni a Roma e Milano si sono svolte 400 cause con richieste risarcitorie del valore di due miliardi di euro" con una durata media di nove anni. Secondo il dossier, ci sono "otto differenti tipi di azioni legali pretestuose" fra le quali "le querele penali e le cause civili per diffamazione a mezzo stampa sono le tipologie più diffuse". La querela sporta o minacciata "senza fondato motivo", inoltre, nove volte su dieci dà vita a "procedimenti giudiziari che durano anni" e obbligano il giornalista a tirare fuori molti soldi. Il codice penale, ricorda Ossigeno, "contiene una norma che punisce l'autore di querele temerarie", ma "non si ricordano casi in cui questo articolo sia stato applicato alle querele pretestuose e infondate". Quanto alla stessa norma prevista dal codice di procedura civile per "punire chi sostiene una causa con motivazioni che sa di essere false o infondate", l'applicazione si è verificata "due o tre volte". Nel 2014, infine, le "denunce e azioni legali" strumentali classificate da Ossigeno, sono state il 54,5 per cento del totale delle 506 minacciate e registrate dall'Osservatorio. Grasso, che ha ricevuto il rapporto nel corso della cerimonia del Ventaglio a Palazzo Giustiniani, ha parlato della "necessità di compiere decisivi passi in campo legislativo per adeguare il nostro impianto normativo a quello europeo" e della "urgenza alla quale il parlamento deve immediatamente rispondere, approvando al più presto il disegno di legge sulla diffamazione, la cui gestazione è stata finora troppo lunga e complicata". Giustizia: il Csm vara la riforma degli incarichi direttivi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2015 Attenuare la discrezionalità del Csm, ridurre il peso delle correnti, valutare l'effettiva attitudine dei magistrati a ricoprire ruoli di vertice negli uffici. Sono gli obiettivi del Testo unico sull'accesso agli incarichi direttivi e semi-direttivi, approvato ieri dal plenum del Consiglio superiore della magistratura e subito riconosciuto dal ministro Andrea Orlando come un passo nella direzione "di volere cambiare le regole e di voler dare un contributo al miglioramento della Giustizia italiana" da parte dei magistrati. Nonostante siano scivolate verso l'autunno altre due circolari fondamentali per il nuovo corso delle toghe - quella sugli incarichi extragiudiziari e l'altra sulle discese in politica e ritorno - il Testo unico sui direttivi è una tappa davvero significativa, perché infrange il tabù della spartizione correntizia che da decenni regola le nomine dei vertici degli uffici giudiziari. Con effetti perversi non solo - talvolta, non sempre - sulle scelte dei dirigenti, ma anche sulle prolungate scoperture delle sedi originate dal "domino" correntizio. Da oggi non sarà più così. Se parte dal superamento della discriminazione femminile ("promuovere l'equilibrio tra generi) la circolare apre soprattutto ai "requisiti attitudinali" del candidato capo (o aggiunto) dell'ufficio, attitudini specifiche per il ruolo richiesto (tribunali o procure, organi giudicanti di merito o Cassazione, uffici di primo grado o di appello). Tra i requisiti compare la "cultura dell'organizzazione", che indaga su come i candidati capi hanno gestito gli uffici da cui provengono, sui rapporti avuti con la polizia giudiziaria, con il personale amministrativo e con l'avvocatura. Le esperienze fuori ruolo d'ora in poi incideranno solo se "attinenti" all'organizzazione giudiziaria. Non avranno invece alcun peso positivo gli incarichi politici ricoperti in passato - destinazione parlamento, regioni, comuni o enti locali - da chi è poi tornato a indossare la toga. Al contrario se ne dovrà "tenere prudenzialmente conto" per evitare che nell'opinione pubblica possa nascere il "sospetto della possibile mancanza di imparzialità". E, sempre per la prima volta, si introduce un controllo su come i procuratori gestiscono i loro uffici, con un rapporto del Procuratore generale competente da cui il Csm non potrà prescindere in occasione del rinnovo dell'incarico. Il parto del nuovo Testo unico non deve essere stato comunque indolore se, come ha dichiarato il relatore al provvedimento Claudio Galoppi (Mi) "la forte portata innovativa ha subìto le forti resistenze di lobby minoritarie di vecchi e nuovi conservatori", osservazione replicata anche dal collega Piergiorgio Morosini (Area). L'impressione però è che il conflitto ideologico tra le componenti storiche delle toghe esca molto ridimensionato nel nuovo Csm che, pur con qualche compromesso al ribasso, ha votato all'unanimità un Testo comunque impegnativo. Un riconoscimento al lavoro di autoriforma è arrivato anche dal vicepresidente laico Giovanni Legnini: "Il Csm si è dato regole innovative e più certe e un percorso decisionale più trasparente, dimostrando di saper cambiare se stesso". In autunno è attesa un'altra prova, che sembra più in discesa rispetto a questa: la controriforma dell'organizzazione delle Procure, uscite gerarchizzate dalla legge Castelli del 2006. Giustizia: reati finanziari, nella delega fiscale stretta penale sui professionisti di Francesco Bomba e Dario De Santis Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2015 Consulenze su operazioni fittizie per generare indebiti vantaggi fiscali a forte rischio correità per il professionista. Lo schema di Dlgs di riforma delle sanzioni penali e amministrative - ora all'esame delle commissioni parlamentari - prevede una nuova circostanza aggravante (articolo 13-bis del Dlgs 74/2000) indirizzata specificatamente ai professionisti: "Le pene stabilite per i delitti di cui al titolo II (tutti i delitti tributari, ndr) sono aumentate della metà se il reato è commesso da correo nell'esercizio di attività di intermediazione fiscale, attraverso l'elaborazione di modelli seriali di evasione fiscale". L'aggravante, tuttavia, sottintende due questioni di non immediata comprensione: quando l'intermediario fiscale può dirsi "correo"; cosa si debba intendere per "elaborazione di modelli seriali di evasione fiscale". Alla luce dei principi generali di diritto penale, così come vengono ordinariamente interpretati dalla giurisprudenza, il professionista diventa complice dell'evasore fiscale ogni qual volta offre un contributo effettivo alla realizzazione dell'illecito penale. Nessun dubbio, pertanto, nelle ipotesi in cui il professionista collabori attivamente con l'evasore ponendo in essere le condotte descritte nelle fattispecie penali tributarie. Più controversi, invece, sono i casi - peraltro, i più frequenti - che vedono il contribuente compiere autonomamente il reato fiscale sebbene guidato dal parere tecnico dell'esperto. Il giudice potrà chiamare a rispondere penalmente dell'evasione anche il professionista se riscontrerà che quest'ultimo con la sua attività ha "rafforzato" la volontà criminosa del contribuente evasore. Occorre inoltre evidenziare come negli ultimi anni la Cassazione abbia delineato un ulteriore profilo di responsabilità del professionista, quasi a voler configurare, in capo a quest'ultimo, un vero e proprio obbligo di collaborazione con l'amministrazione finanziaria: "Nell'ipotesi in cui il professionista si veda affidare il solo compito di redigere la dichiarazione sulla base dei documenti annotati in contabilità direttamente dal contribuente e si renda conto, al momento di predisporre la dichiarazione, che una fattura passiva si riferisce a operazioni inesistenti, non v'è alcun dubbio che questi concorra con il cliente nel reato redigendo la dichiarazione" (sentenza 19335/2015). Rispetto alle menzionate ipotesi di responsabilità penale del professionista nel reato tributario, l'aggravante in questione richiede anche l'elaborazione di un "modello seriale di evasione fiscale". Il legislatore intende quindi punire più gravemente gli artifici di quei sistemi fraudolenti che prevedono la creazione di strutture societarie che hanno il solo fine di generare indebiti vantaggi fiscali attraverso operazioni sostanzialmente fittizie. È il caso, per esempio, di: frodi carosello o società interposte allo scopo di beneficiare dei regimi fiscali previsti dalle direttive comunitarie o dai trattati contro le doppie imposizioni. Né mancano i risvolti in tema di limitazione alla libertà personale dell'indagato: la contestazione dell'aggravante in esame rende, infatti, ammissibile la misura cautelare più grave della custodia cautelare in carcere anche per reati che nelle ipotesi base non la ammetterebbero come, ad esempio, nell'ipotesi di contestazione del reato di infedele dichiarazione. Giustizia: caso Yara; smentito tentato suicidio di Bossetti, Corte d'Assise nega domiciliari Agi, 29 luglio 2015 Niente arresti domiciliari per Massimo Bossetti, in carcere per l'omicidio di Yara Gambirasio. La decisione è stata presa dalla Corte d'Assise di Bergamo che ha rigettato la richiesta presentata dalla difesa dell'imputato alla fine della scorsa settimana, in seguito al presunto tentato suicidio in carcere che Bossetti, secondo il suo difensore, avrebbe commesso dopo aver sentito parlare in aula dei tradimenti della moglie, ma che non è stato mai confermato dalle autorità carcerarie. La stessa Corte d'Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja sottolinea che "il direttore del carcere e il comandante della polizia penitenziaria hanno escluso in radice ogni tentativo autolesionistico dopo l'ultima udienza e dopo il colloquio del Bossetti con la moglie, e anzi hanno testimoniato di aver raccolto lo sfogo dell'uomo, deluso dal comportamento della moglie ma per nulla incline a gesti anticonservativi". Gli unici problemi di Bossetti, secondo la Corte, sono "qualche episodio di faringite, lombalgia e problemi connessi all'ernia inguinale, per cui è stato recentemente operato". Aveva perso qualche chilo dopo l'arresto, ma attualmente ne pesa due in più rispetto all'arrivo in carcere. Lo psicologo e lo psichiatra del carcere non hanno "mai segnalato problematiche tali anche solo da far sospettare un problema di compatibilità", tanto che sono stati sospesi i farmaci tranquillanti in precedenza utilizzati per dormire. Quindi niente arresti domiciliari: "il monitoraggio del carcere, rappresenta la massima garanzia per l'incolumità e la salute dell'imputato". Giustizia: al Senato dibattito sulla richiesta arresto per il senatore Ncd Antonio Azzollini Askanews, 29 luglio 2015 È in corso in aula del Senato il dibattito sulla richiesta di arresto ai domiciliari nei confronti del senatore Ncd, Antonio Azzollini da parte della procura di Trani per il crac della casa di cura della Divina Provvidenza di Bisceglie. Dopo l'intervento del presidente della giunta per le immunità, Dario Stefano di Sel, nel corso del quale ha ribadito la decisione della giunta in senso favorevole alla richiesta di arresto, motivandola con la mancanza di fumus persecutionis nella valutazione della giunta, con voto a maggioranza, e ricordando come la difesa dello stesso Azzollini in sede di giunta sia risultata "piuttosto fragile e forse esposta a plateali contraddizioni logiche", è intervenuto il senatore Ncd, Nico D'Ascola, con la relazione di minoranza. D'Ascola non ci sono gli elementi per dire "sì " agli arresti domiciliari ne confronti di Azzollini. Nel corso della discussione il senatore dei Conservatori e riformisti, Tito Di Maggio annunciando il voto contrario all'autorizzazione all'arresto ha sottolineato di "non essere disposto a immolare la dignità di una persona sull'altare dell'opportunismo elettorale". La senatrice del Movimento 5 Stelle, Barbare Lezzi ha rivendicato lo spirito "antipolitico e populista" del movimento. "Ma abbiamo le mani libere" ha aggiunto. Poi, rivolgendosi all'assemblea ha proseguito: "Non potete offendere il Parlamento e la commissione Bilancio, noi preferiamo agevolare la magistratura nel perseguire chi non rispetta la legge. Non abbiate paura di perdere la poltrona e agevolate il percorso della legalità e della giustizia", votando a favore dell'autorizzazione a procedere. Il senatore Psi (gruppo per le Autonomie), Enrico Buemi ha rammentato che l'assemblea non è "qui a decidere sulle responsabilità del senatore Azzollini" che vanno approfondite dall'azione della magistratura, mentre "non si può accettare che per opportunità politiche e lotte territoriali si metta in discussione un principio fondamentale quale l'autonomia di un'aula del Parlamento". Per Buemi nel nostro ordinamento "non ci possono essere pene anticipate, senza la verifica dei tre gradi di processo" e su questo bisogna essere "intransigenti, anche a costo di pagare personalmente" per la difesa di tale principio. Buemi non ha mancato di criticare esplicitamente il Pd: "Non mi sono piaciute le decisioni collettive da parte della segreteria. Queste decisioni attengono le nostre coscienze, senza vincolo di mandato. Se il mio segretario avesse fatto una cosa del genere, l'avrei mandato a stendere" ha dichiarato. Droghe, l'illegalità della pena è rilevabile d'ufficio di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 28 luglio 2015 n. 33040. La Corte di cassazione a sezioni unite ha fatto chiarezza in materia di reati legati alla droga, oggetto l'8 gennaio scorso di un rinvio della VII sezione penale. Innanzitutto, la Corte - con la sentenza 33040 deposita ieri - ha definito illegali le pene determinate con i limiti edittali previsti dal testo unico sulla droga (Dpr 309/90) - modificate dalla legge 49/06 dichiarata incostituzionale dalla Consulta (sentenza 32/14) - "anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006". Quindi, se era finora pacifico che con il superamento dei limiti edittali - per esempio i 2-6 anni previsti per le droghe leggere - la pena comminata con le norme del 2006 fosse illegale, ora la Cassazione la ritiene tale anche se i limiti fossero stati formalmente rispettati. Lo spiega a pagina 12 delle 34 pagine che compongono la sentenza in cui ricorda la differenza che c'è tra l'abrogazione e l'illegittimità costituzionale delle leggi: nel primo caso la norma colpita resta valida fino all'entrata in vigore della norma abrogante, nel secondo viene eliminata con effetto ex tunc dall'ordinamento rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici "con conseguenze assimilabili a quelle dell'annullamento e con incidenza sulle situazioni pregresse, fatto salvo il limite del giudicato (Corte cassazione sentenza 127/1966). Veniamo ora alla seconda parte del primo quesito in cui si dice che qualora il giudizio fosse stato espresso a seguito di patteggiamento "l'illegalità sopraggiunta della pena determina la nullità dell'accordo e la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su questo accordo". In questo caso, esercitando una deroga alla giurisprudenza consolidata che ha sempre ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione riguardante motivi concernenti la misura della pena. La Corte ha infatti riconosciuto alle parti il diritto di rinegoziare l'accordo stesso su basi concrete. Veniamo infine al secondo importante principio sancito dalla Corte in cui - sempre in tema di illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità - l'illegalità stessa viene considerata rilevabile d'ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne nel caso di ricorso tardivo. Partendo da quest'ultimo caso la Corte ricorda "la sentenza a sezioni unite De Luca" in cui si stabilì che il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del gravame trasforma il giudicato sostanziale in giudicato formale. Per quanto attiene invece il principio generale, la Corte ieri ha posto fine a un dibattito già presente nella vigenza del codice del 1930 decidendo che "la decisione sull'inammissibilità precede sempre l'accertamento delle cause di non punibilità" in quanto il giudice dell'impugnazione, ancorché inammissibile, deve provvedere a ripristinare una sanzione "legale", basata, in questo caso, sui criteri edittali ripristinati per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale. Responsabilità degli enti, con la 231 impugnazioni separate di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 28 luglio 2015 n. 33041. Le Sezioni Unite penali della Cassazione, con la sentenza 33041/15 depositata ieri, sciolgono alcuni nodi sul conflitto di interessi che può emergere tra il rappresentante legale della società e l'ente stesso, nell'ipotesi di indagine penale che coinvolga entrambi. Nel caso da cui originava la remissione, il tribunale di Ancona - e poi il Riesame - aveva respinto un'impugnazione nell'interesse dell'ente (contro il sequestro preventivo finalizzato alla confisca) poiché la nomina del difensore della società era stata sottoscritta dal legale rappresentante, quindi violando la procedura prevista dall'articolo 39 del dlgs 231/2001 ("Rappresentanza dell'ente"). In sostanza, secondo un'opinione prevalente in giurisprudenza, il rischio di conflitto di interessi tra le stesse difese (quella personale e quella per l'ente) avrebbe fatto preferire, in questi casi di urgenza, una nomina d'ufficio. Le Sezioni Unite però, dopo una lunga ricognizione sui precedenti, hanno stabilito che il discrimine è dato dalla cronologia - cioè dall'urgenza - dei provvedimenti adottati contro l'ente. Nel caso di impugnazione contro il sequestro, quindi, non c'è tempo materiale per rispettare la procedura dell'articolo 39, mentre se l'ente avesse già ricevuto un avviso di garanzia la nomina "viziata" di un legale potenzialmente in conflitto non sarebbe ammissibile. Abogado respinto se è già stato cancellato dall'albo degli avvocati in Italia di Gabriele Ventura Italia Oggi, 29 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite civili - Sentenza n. 15694/15. La condotta del legale che utilizza la "via spagnola" per iscriversi nuovamente all'Ordine, nella sezione degli avvocati stabiliti, dopo essere stato cancellato da un altro Consiglio territoriale, è sintomatica infatti dell'esistenza di un abuso del diritto. Lo affermano le sezioni unite della Cassazione (sentenza 15694/15) che in sede cautelare hanno confermato l'esecutorietà della pronuncia del Consiglio nazionale forense n. 14 del 2015, che aveva revocato l'iscrizione all'albo dell'abogado. Entrando nel dettaglio, l'avvocato in questione, iscritto all'ordine degli abogados, aveva richiesto l'iscrizione al Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma, autocertificando l'assenza di carichi pendenti e sentenze di condanna. Acquisita informazione della pendenza di procedimenti penali nonché di una sentenza disciplinare comportante la cancellazione dall'albo, il Coa di Roma revocava l'iscrizione dell'abogado all'albo degli avvocati stabiliti. Decisione confermata poi dal Cnf con sentenza depositata il 10 marzo 2015, ritenendo che la richiesta di iscrizione all'albo degli avvocati stabiliti "non facesse venire meno la necessità che il professionista fosse in possesso del requisito della condotta specchiatissima e illibata, prescritta dall'ordinamento forense anche per le sezioni speciali dell'albo degli avvocati". Secondo la Suprema corte, invece, osta all'accoglimento dell'istanza dell'abogado, "sotto il profilo del fumus boni iuris, il rilievo che l'iscrizione richiesta dal ricorrente all'albo degli avvocati stabiliti appare connotata da elementi che lasciano fondatamente ipotizzare la natura abusiva della richiesta". Tale condotta, ad avviso del collegio, appare "sintomatica dell'esistenza di un abuso del diritto". Infatti, precisa la Cassazione, se da un lato deve escludersi l'abusività della condotta del cittadino di uno stato membro che si rechi in un altro stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia poi ritorno nello stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita, dall'altro lato "non viene meno la possibilità di verificare se, attraverso tale percorso, il cittadino dello stato membro persegua la finalità di esercitare la professione di avvocato versando in condizioni oggettive e soggettive tali che al cittadino italiano precluderebbero comunque l'esercizio della professione stessa. D'altra parte", conclude la Suprema corte, "emerge evidente la consapevolezza, da parte dell'abogado ricorrente, della impossibilità di svolgere la professione di avvocato in Italia, se non attraverso un utilizzo improprio della normativa comunitaria e di quella nazionale di attuazione, volte a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica". L'intervista sul giornale vale come testimonianza e smaschera la simulazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 28 luglio 2015 n. 15845. La simulazione nella cessione delle azioni può emergere anche a seguito di un'intervista giornalistica. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 15845/2015. La Corte si è adeguata a quanto stabilito dal giudice distrettuale che ha affermato l'esistenza del principio di prova scritta che in quanto tale autorizzava il ricorso alla prova testimoniale, individuandolo nell'intervista rilasciata dal soggetto che aveva messo in atto la simulazione a un giornalista. La sentenza d'appello - Secondo il giudice di merito l'intervista analizzata nel dettaglio si risolveva in una chiara ammissione di un ruolo effettivo svolto dal cedente all'interno della compagine sociale, anche se non ufficializzato, e rendevano plausibile il fatto che la vendita delle azioni fosse stata solo apparente, anche se il documento non conteneva un preciso riferimento al fatto controverso, bastando l'esistenza del nesso logico tra lo scritto e il fatto. Ma a convincere ulteriormente il giudice di merito sussistevano una serie di indizi assolutamente gravi, precisi e concordanti che andavano a suffragare e a integrare al tempo stesso gli elementi desunti dall'intervista. Ad esempio l'ingente numero delle cambiali firmate dal cessionario, mai riscosse né messe in circolazione; la mancata allegazione delle modalità di pagamento del prezzo da parte dell'acquirente e la conservazione dei certificati azionari da parte del cedente. Il ricorrente nei tanti motivi di appello aveva rilevato che alla base di tutto era stata posta una dichiarazione stragiudiziale, un documento così privo di sottoscrizione e, pertanto, inutilizzabile come prova. Sul punto è intervenuta la Cassazione fornendo chiarimenti. La Corte ha richiamato un precedente (sentenza n. 2212/1968) secondo cui può costituire principio di prova scritta anche una scrittura non firmata, purché espressamente o tacitamente accettata dall'autore e perfino uno scritto altrui, purché colui contro il quale è fatto valere lo abbia fatto proprio e ne abbia dato incarico, anche verbale all'autore dello scritto. Conclusioni - A fronte di questa puntualizzazione gli Ermellini hanno precisato che la Corte d'Appello aveva deciso in senso sfavorevole al ricorrente, anche e non solo sulla base del valore legale della confessione stragiudiziale, tanto è vero che nella sentenza di merito era stato affermato che la "la prova della simulazione deve pertanto ritenersi acquisita per mezzo di presunzioni. Le risultanze della prova testimoniale vanno prese in considerazione solo come elementi confermativi di una realtà già emersa in base alla prova logica". Lettere: Opg addio, parola della Consulta di Stefano Cecconi e Franco Corleone Il Manifesto, 29 luglio 2015 La scorsa settimana è stata pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale che ha respinto per totale infondatezza il ricorso promosso dal Tribunale di Sorveglianza di Messina contro la legge 81 del 2014 sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Veniva contestata la violazione di ben tredici articoli della Costituzione ed aveva come punto centrale la contestazione dell'accertamento della pericolosità sociale basato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni (cosiddette ambientali) di cui all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale e inoltre la norma per cui "non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali". La Consulta ha dunque affermato con nettezza la legittimità costituzionale della legge 81 sia nel procedimento legislativo sia nei contenuti e in particolare conferma che un malato povero, emarginato, senza casa o abbandonato dai servizi non può diventare, per questa ragione, socialmente pericoloso e finire in una istituzione totale per tutta la vita, come troppo spesso è accaduto in passato. La storia degli ergastoli bianchi nasce proprio da questa giustizia di classe. Si conferma e si rafforza così l'orientamento di quella che abbiamo definito una buona legge. Il tratto più interessante della nuova norma è di avere spostato il baricentro dai binomi prettamente manicomiali "malattia mentale/pericolosità sociale e cura/custodia" ai progetti di cura e riabilitazione individualizzati e all'affidamento al territorio. In particolare, confermando orientamenti espressi in fondamentali sentenze precedenti, la decisione della Corte ha stabilito che la regola deve essere l'esecuzione di una misura di sicurezza diversa dalla detenzione, ieri in Opg e oggi in una Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), salvo gravi situazioni ben fondate e motivate che devono costituire l'eccezione. Ora non possono essere più accampati alibi da parte del Governo, delle Regioni e della Magistratura di Sorveglianza: sono ormai passati più di cento giorni dal 31 marzo, data stabilità dalla legge per la chiusura dei manicomi criminali, come abbiamo denunciato nel seminario di Firenze del 14 luglio. È ora di abbattere questo muro di illegalità. La situazione di centinaia di internati che sono letteralmente sequestrati in strutture che non devono più esistere viola l'art. 13 della Costituzione che si esprime chiaramente sui modi di restrizione della libertà personale. Lo stato di diritto non può essere calpestato impunemente. L'associazione Altro Diritto ha raccolto 58 istanze di internati nell'Opg di Montelupo fiorentino in base all'art. 35bis dell'ordinamento penitenziario e rivolte al magistrato di sorveglianza competente per far cessare la violazione dei loro diritti. Viene dai pazzi una lezione di saggezza rispetto del principio dell'habeas corpus! Il Governo deve immediatamente commissariare le regioni inadempienti che non stanno applicando la legge 81 e non hanno potenziato i Servizi per la salute mentale. Compito essenziale del movimento abolizionista è vigilare per impedire il risorgere di forme nuove della logica manicomiale che deve essere superata per sempre. La sentenza del 24 giugno non dà adito a dubbi. Si aprono, come ha scritto efficacemente il costituzionalista Andrea Pugiotto, "contraddizioni, tanto inedite quanto feconde, al sopravvissuto sistema del doppio binario", sia pure a codice penale invariato. Ancora una volta la suprema magistratura indica un percorso per la piena realizzazione di una riforma di civiltà. I diritti, anche in questo caso, aspettano la politica. Lettere: criminalità minorile, assenze e ritardi di Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi (Associazione Jonathan) Ristretti Orizzonti, 29 luglio 2015 Ancora oggi le cronache riportano di minori e giovani adulti che si sono resi protagonisti di fatti di sangue nei ruoli di vittime e carnefici di se stessi. La gravità di quello che sta avvenendo è stato ben descritto nel dibattito che si è aperto in questi giorni su tutti i quotidiani dove si sono confrontate idee e opinioni di semplici cittadini e analisi più specifiche e complete di studiosi ed esperti del settore di diverse scuole di pensiero e orientamento su questa nuova "devianza" minorile. Nonostante le differenze tutti concordano che siamo di fronte ad un fenomeno complesso e pericoloso. Per rendere chiaro il livello di preoccupazione che è emerso da questo dibattito a più voci basta riflettere su alcuni concetti usati: "Mutazione Criminale", "Nuova Antropologia", "Camorra Massa". Queste affermazioni non possono non provocare qualche interrogativo in quanti istituzionalmente sono chiamati ad organizzare risposte mirate ad arginare il dilagare del fenomeno e promuovere servizi adeguati ai bisogni dei minori coinvolti: Giustizia Minorile e Regione Campania. Per quanto ci riguarda queste posizioni ci danno una speranza e una carica inaspettata, considerato che noi, per aver detto negli ultimi anni le stesse cose, siamo stati fortemente puniti: abbiamo dovuto chiudere la comunità "Colmena" per mancanza di minori, ci siamo visti sospendere una sperimentazione che promuoveva la specializzazione dell'intervento per i minori dell'area penale e, cosa ancor più grave, sopportare una costante e sistematica precarizzazione del nostro lavoro. Se siamo ancora aperti e continuiamo a fare sentire le nostre opinioni è solo perché l'impegno quotidiano di Jonathan è sostenuto da un sistema rete strutturato e integrato che produce, nonostante le difficoltà e la crisi, innovazione e buone prassi come ad esempio il laboratorio fotografico realizzato con la Manfrotto il cui modello quest'anno è stato esportato a Londra e New York. Dal nostro osservatorio privilegiato che sono le comunità da tempo diciamo all'Ufficio di Coordinamento delle Politiche Sociali della Regione Campania e alla Giustizia Minorile che la presenza organica di minori e giovani adulti nelle organizzazioni criminali con ruoli e compiti di primo piano è un emergenza, e come tale deve essere affrontata. Purtroppo rispetto a questa emergenza si registra un'assenza totale di strategie di politiche di welfare rivolta ai minori dell'area penale. Anche una programmazione semplice e banale, come il sostegno alle buone pratiche e la meritocrazia, non trova attenzione. Si continua a privilegiare l'omologazione più che la qualità derivante dalle differenze, gli unici interventi strutturati che la Regione Campania mette in campo sono quelli verso gli istituti penali minorili, ma in questo caso bisogna aggiungere che la misura custodialistica ormai è residuale, ridotta ad accogliere solo il 5% dei minori dell'area penale. Il grosso dei minori riguardano ormai l'area penale esterna con misure alternative - cautelari e sostitutive della detenzione. Lettere: intercettazioni, quella norma del codice che l'ex pm Grasso dimentica di Gian Domenico Caiazza (ex presidente Camera penale di Roma) Il Tempo, 29 luglio 2015 Caro Direttore, il Presidente del Senato Pietro Grasso ha voluto dire la sua sul tema ciclicamente ricorrente (che noia!) dell'abuso delle intercettazioni, telefoniche o ambientali che siano, e della loro pubblicazione e diffusione incontrollata. A questo si è ora aggiunto quello delle intercettazioni di conversazioni tra privati effettuate non dall'Autorità giudiziaria ma da uno dei partecipanti alla conversazione; che è un tema diverso, soprattutto se tali registrazioni avvengano nei luoghi di privata dimora dell'intercettato. Ma non importa, viene più facile fare di ogni erba un fascio, tanto non se ne accorge nessuno. Ora, che il Presidente Grasso, con la storia professionale che ha, tuoni contro ogni possibile limitazione allo strumento intercettativo, "mezzo di indagine irrinunciabile e indispensabile, che non va in alcun modo limitato", beh non è nemmeno una notizia. Merita invece l'attenzione dei lettori il passaggio successivo del suo intervento alla Cerimonia del Ventaglio, quando il Presidente Grasso, prendendo atto (meno male, aggiungo) che esiste un problema in ordine alla incontrollata diffusione extra processuale delle intercettazioni raccolte nel corso delle indagini giudiziarie, ha lumeggiato, come possibile soluzione "un'udienza filtro che mantenga solo quelle utili al processo". L'affermazione è sorprendente, non fosse altro perché l'udienza stralcio esiste già da quando fu promulgato l'attuale codice di procedura penale. L'art. 268, comma 6 prevede infatti che, "immediatamente" dopo il deposito delle intercettazioni, ed ovviamente ben prima che si concludano formalmente le indagini, il Giudice convochi difensori e Pubblico Ministero, al fine di decidere, sentite le parti, quali siano le intercettazioni utili al processo, e quali quelle inutili o addirittura illecite, disponendone, appunto, lo stralcio. Il fatto è che, da subito, i giudici italiani hanno, come un sol uomo, dalle Alpi alla Sicilia, deciso di non rispettare questa norma; tutti, compreso l'allora Procuratore Capo Antimafia dottor Pietro Grasso. Proprio così: di non rispettarla e di non applicarla. In ciò anche facilitati dal fatto che il legislatore non ha previsto una sanzione per il mancato rispetto di quella norma. Lascio ai lettori, o a chi abbia voglia di farlo, chiedersi perché ciò sia avvenuto e continui ad avvenire. Certo è che la norma è talmente desueta che il Presidente Grasso ne ha addirittura dimenticato l'esistenza, e ora la propone, come una buona ipotesi da considerare. Concludo: lo sa, Direttore, cosa basterebbe, per chiudere questo inesauribile e francamente insopportabile Circo Barnum sul che fare o non fare per porre un freno all'abuso eccetera eccetera? Un piccolo, semplicissimo comma 6 bis, con il quale emendare l'art. 268 c.p.p., che così reciti: "La mancata celebrazione della udienza stralcio di cui al comma precedente, determina la inutilizzabilità di tutte le registrazioni e di tutte le comunicazioni informatiche o telematiche raccolte nel corso delle indagini". Mi creda, Direttore: basterebbe ed avanzerebbe. Ed infatti, non si fa. La ringrazio per La Sua cortese attenzione. Napoli: mancano i "braccialetti elettronici", in cella 29 detenuti con i domiciliari-beffa di Biagio Salvati Il Mattino, 29 luglio 2015 Detenuti in attesa di giudizio ma anche di braccialetti elettronici da tempo in "sold out": solo duemila in tutta Italia mentre una trentina di detenuti in Campania (7 a Santa Maria Capua Vetere e 22 a Poggioreale), autorizzati dai giudici a lasciare il carcere per i domiciliari, non possono farlo perché la richiesta dei dispositivi ha ormai da tempo superato la disponibilità e alcuni tribunali iniziano a vedere respinte le loro richieste. L'ultimo caso riguarda un detenuto originario di Villa di Briano che ieri non ha potuto lasciare il penitenziario di Poggioreale. Motivo: una lista di attesa di 22 richieste da espletare per altrettanti detenuti in attesa del braccialetto da almeno tre mesi. Una lista di trenta detenuti in stato di domiciliari "virtuali" tra i fori di Napoli Nord e Santa Maria Capua Vetere (distretto giudiziario della Corte di Appello di Napoli) che potrebbe essere superiore se si considerano anche le attese nel carcere di Carinola o Secondigliano. Un paradosso giudiziario che ha provocato lo stato di agitazione della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dall'avvocato Romolo Vignola annunciato ieri durante una conferenza stampa alla quale hanno preso parte anche i penalisti Marco Alois (segretario), Pina Mascia (tesoriere) e Domenico Pigrini (consigliere) oltre al presidente dell'ordine degli avvocati Alessandro Diana, il consigliere Bernardino Lombardi e l'avvocato Angelo Raucci dell'Osservatorio dell'Unione camere penali. Sono appena duemila in tutta Italia, infatti, ibraccialetti disponibili, dopo che dal giugno 2014 l'iter per l'acquisto si è fermato perché il Ministero di Grazia e Giustizia non ha risorse per firmare un nuovo contratto con la Telecom. Parlamento e Governo puntano forte sulla misura dei domiciliari con il braccialetto, che "secondo la legge 47 del 2015 - ha spiegato l'avvocato Angelo Raucci - dovrebbe rappresentare la prima misura cautelare con il duplice scopo di ridurre ad extrema ratio la carcerazione preventiva e incidere sul sovraffollamento delle carceri. Ma la legge è inattuabile e la situazione coinvolge anche profili di costituzionalità riguardanti la liberta personale, visto che molti detenuti sono costretti a restare in carcere anche per mesi in attesa della disponibilità di un braccialetto". Se la vicenda, ha evidenziato il presidente Romolo Vignola, "dovesse arrivare alla Corte Europea dei Diritti Umani, che di recente ha già condannato l'Italia per le modalità di detenzione ritenute poco dignitose peri carcerati, potrebbero scattare ulteriori sanzioni per l'Italia". La mancanza dei braccialetti alimenta anche un corto circuito nell'ordinamento, di cui "i magistrati - dicono gli avvocati - sono in parte responsabili, visto che continuano a disporre i domiciliari con il braccialetto senza curarsi del fatto che gli apparecchi non sono disponibili". Il tutto è racchiuso in un documento che i penalisti hanno inviato all'Unione Nazionale delle Camere Penali e al Guardasigilli e alla ripresa dopo la sospensione feriale potrebbero indire alcuni giorni di astensione. Intanto, l'avvocato Alfonso Quarto, vicepresidente dell'Aiga e candidato alla presidenza della stessa associazione, nella qualità di legale del giovane di Villa di Briano che non ha potuto lasciare il carcere evidenzia "lo stato di frustrazione nel spiegare le ragioni che hanno determinato questa paradossale ingiustizia. Si tratta - conclude - dell'ennesimo fallimento di uno Stato che pensa a fare leggi "slogan" senza predisporre gli strumenti per darvi applicazione". Napoli: l'ombra dei clan sulla cooperativa di ex detenuti "La Primavera III", 24 indagati di Dario Del Porto La Repubblica, 29 luglio 2015 Raffica di perquisizioni della Finanza, 24 indagati, un pentito denuncia: "Ci pagavano per non lavorare". L'ipotesi dei pm: politici sensibilizzati per stanziare fondi anche in prossimità delle ultime Regionali. Quasi trent'anni dopo lo scandalo esploso a margine dell'omicidio di Giancarlo Siani, una nuova inchiesta scava nell'affare delle cooperative di ex detenuti. Il sistema si sarebbe trasformato, nella ricostruzione degli investigatori, in una "vera e propria filiera criminosa", capace di far confluire ingenti finanziamenti pubblici direttamente nelle casse della criminalità organizzata. E come ha raccontato un pentito, quasi tutti i dipendenti della sua cooperativa erano pagati pur non andando mai al lavoro. Per ordine del pm del pool anticamorra Henry John Woodcock, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria diretto dal colonnello Giovanni Salerno hanno eseguito una raffica di perquisizioni, anche nella sede della cooperativa "La Primavera III" e negli uffici di via Poggio-reale della Città Metropolitana. Gli indagati sono 24, tra questi alcuni soci di "La Primavera III", come un avvocato. Paolo Spina, di 57 anni, il dirigente della Provincia Massimo Ragosta, di 65 anni, ì funzionari dell'ente Giancarlo Sarno, Teresa Rubinacci, Giuseppe De Angelis. Vera Gallo e Vincenzo Falco, il rappresentante legale del Lisico, Libero Sindacato Cooperazione, Umberto Fiore. Tutti potranno replicare alle contestazioni nei successivi passaggi dell'inchiesta. Il lavoro degli inquirenti è ancora in una fase iniziale, dove la perquisizione rappresenta un mezzo di ricerca della prova e non un'affermazione di responsabilità. Lo scenario ipotizzato dal pm Woodcock configura "a monte" i rapporti che sarebbero stati allacciati tra i referenti della cooperativa "La Primavera III", i funzionari provinciali e, "ancora più a monte", esponenti politici "che potrebbero essere stati sensibilizzati - è la tesi allo studio della Procura - per lo stanziamento dei fondi pubblici da erogare alle cooperative". La Procura non esclude che i politici possano essere stati compulsati "anche nella prospettiva delle imminenti ultime consultazioni regionali svoltesi in Campania". A "valle" dì questa "filiera", ci sarebbero i presunti "rapporti e le relazioni esistenti tra i referenti delle cooperative, i fornitori e la criminalità organizzata". Nel decreto di perquisizione, la Procura ipotizza i reati di associazione per delinquere e truffa aggravata dalla finalità mafiosa. I fondi pubblici sarebbero stati erogati alla cooperativa in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge. Gli inquirenti danno atto del positivo contributo fornito dalla nuova dirigenza della Provincia nominata al vertice del settore che sì occupa della cooperativa "La Primavera III". All'indagine sono allegate anche le dichiarazioni del pentito Antonio Della Corte. Il collaboratore dì giustizia ha raccontato di essere stato iscritto a una cooperativa di ex detenuti di San Giovanni a Teduccìo dal 1978 al 2010, con un ‘interruzione di tre anni a partire dal 2007, perché in carcere. "Il sistema delle cooperative di ex detenuti - afferma Della Corte - era dapprima gestito dai Giuliano, poi dai Contini". Al pm Woodcock, il pentito ha ricostruito il funzionamento delle cooperative, spiegando che quasi tutti i dipendenti (compreso lui) venivano pagati pur non andando mai al lavoro. Un "soggetto addetto alla falsificazione delle firme" provvedeva ad attestare le presenze. Solo una minima parte degli ex detenuti svolgeva le mansioni, gli altri incassavano il compenso senza muovere un dito. Un sistema evidentemente "distorto", che secondo Della Corte ""prevedeva la riscossione di parte degli introiti di cui disponeva la cooperativa da parte degli esponenti del clan camorristici". Gli spunti investigativi emersi durante la prima parte delle indagini hanno indotto gli inquirenti a disporre nuovi approfondimenti lungo due versanti: da un lato, quello dei presunti intrecci con la criminalità organizzata, dall'altro quello con la pubblica amministrazione e con i rappresentanti delle istituzioni che gestiscono i finanziamenti. I magistrati vogliono inoltre verificare i rapporti fra "La Primavera III" e gli imprenditori titolari delle società che hanno fornito alla cooperativa servizi e beni di consumo per far luce sul sospetto che possano esservi verificati meccanismi diretti alla costituzione di fondi neri attraverso fatture per prestazioni in tutto o in parte inesistenti. Trent'anni dopo l'omicidio Sia-ni, tante ombre circondano l'affare delle cooperative di ex detenuti. Empoli: Uil-Pa; nella Casa circondariale del Pozzale solo 14 detenute, ma quanto ci costa? gonews.it, 29 luglio 2015 "Mentre nelle carceri della regione toscana i detenuti sono ammassati nelle celle, ci giunge comunicazione dalla direzione che presso la C.C.F. di Empoli le camere di pernottamento verranno riconvertite (con soldi pubblici) per essere utilizzate per magazzini archivi e quant'altro". È quanto comunica Eleuterio Grieco, componente della Segreteria Regionale della Uil-Pa Penitenziari Toscana. Ormai la politica regionale sulla differenziazione dei circuiti penitenziari in regione è alterata e manipolata da logiche che nulla hanno a che vedere con la garanzia della salute, dell'accoglienza, del trattamento e della sicurezza. Esempio è l'istituzione unilaterale di una Sezione denominata "Articolazione per la tutela della salute in carcere" all'interno dell'istituto Fiorentino di Sollicciano dei detenuti provenienti anche dagli Opg connotabili come "osservandi, 148 cp, infermi psichici di cui all'art 111, comma 5 e 7 del 230/00, gli "osservandi" ai sensi dell'art.112 del 230/00 che rappresentano una categoria di utenza penitenziaria oltremodo impegnativa sotto svariati aspetti, sia clinici ma soprattutto comportamentali per cui inserire tale utenza in un istituto già di per se promiscuo certamente non agevola le finalità istituzionali. Oppure la Rems a Volterra ove non è presente né un nucleo traduzione per piantonare i pazienti ne camere di sicurezza per i ricoverati. La riconversione di S. Gimignano prettamente per detenuti A.S. con una miriade di disagi e carenze. Aggiunge il Dirigente della Uil-Pa Penitenziari - più delle volte l'apertura di nuovi reparti oppure la conversione di essi, non è seguita da una visione generale del sistema penitenziario regionale, ma si connota da indirizzi di natura prettamente Politica oppure da quel mondo impenetrabile e nebbioso ed affaristico di cooperative, fondazioni ecc. Sottolinea il Dirigente della Uil-Pa Penitenziari - se ad Empoli vi sono posti disponibili perché non si è fatta lì la sezione denominata "articolazione per la tutela della salute in carcere" ricollocando anche i lavoratori del vicino Opg di Montelupo Fiorentino dotati di esperienza e professionalità. In conclusione - afferma Grieco - vorremmo sapere allora quanto costa oggi la gestione della Casa Circondariale Femminile di Empoli per 14 detenute. Questi sono gli sprechi della Pubblica Amministrazione per la quale l'Amministrazione Penitenziaria e la Politica si dovrebbero interrogare. Milano: dopo violenze e fiamme all'Ipm Beccaria allarme dei sindacati "mancano agenti" di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 29 luglio 2015 L'inesorabile agonia del carcere minorile che oggi ospita una cinquantina di detenuti. Molti di loro hanno problemi psichici. Una settimana fa il tentato suicidio di un 17enne. Non è l'emergenza degli ultimi episodi, quanto piuttosto la ripetitività degli avvenimenti negli anni più recenti: dai tentativi di suicidio, alle aggressioni agli agenti e agli altri detenuti, fino alle rivolte improvvisate. E stavolta non centra la storia di Pulce, il ragazzino di Quarto Oggiaro subito soprannominato "il piccolo Vallanzasca", protagonista tre anni fa di proteste e prove di ribellione. Quella del carcere minorile Beccaria di via Calchi Taeggi è un'agonia, lenta e inesorabile, fatta di carenze di personale, lavori di ristrutturazione non ancora completati e la presenza sempre più alta tra i giovani reclusi di ragazzi con problemi psichici. Malattie non così gravi da rendere incompatibile la detenzione, ma di fronte alle quali - così denunciano i sindacati - la struttura non è sufficientemente organizzata. Per raccontare i problemi del penitenziario minorile che attualmente ospita una cinquantina di ragazzi (possibile la permanenza fino ai 24 anni per chi ha commesso un reato da minorenne) conviene partire dai guai degli ultimi giorni. Da quel tentativo di suicidio avvenuto una settimana fa, la serata del 21 luglio, quando un ragazzo italiano di 17 anni con problemi di tossicodipendenza ospite dell'Istituto penale ha cercato di uccidersi in cella. Tentativo sventato grazie all'intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Ma una grossa mano è arrivata dalla fortuna, visto che come denuncia il coordinatore regionale della Fp Cgil Calogero Lo Pre-sti,"al turno notturno sono solo tre gli agenti a disposizione" per tutti i piani dell'edificio. Sezioni che si raggiungono esclusivamente con le scale, visto che non ci sono ascensori interni. "Bisogna considerare che alcuni ragazzi sono estremamente fragili - spiega Lo Presti, per questo sarebbe necessario aumentare l'organico previsto". Invece della cinquantina di agenti che dovrebbero prestare servizio, quelli effettivi sono quasi un terzo in meno. "Una decina sono distaccati in altre parti d'Italia", denunciano i sindacati. Poi ce ne sono altri in servizio al Cpa, il centro di prima accoglienza per il quale risulta in organico un solo agente. Nei giorni scorsi, e stavolta la denuncia è della Fns Cisl, un altro detenuto aveva dato fuoco alla sua cella. "Il problema è la carenza cronica di personale e la deficitaria organizzazione del lavoro - osserva Mario Tossi, segretario generale del sindacato. Questi problemi sono stati denunciati al Dipartimento di giustizia minorile, ma senza risultato". Anche il recente cambio di direzione, ora affidata ad Alfonsa Micciché, non ha portato a una svolta: "A piano ferie non è stato concordato con i sindacati e ha ulteriormente aggravato una situazione insostenibile". Modena: Sappe; rissa tra detenuti nel carcere di Sant'Anna, uno finisce all'ospedale Il Resto del Carlino, 29 luglio 2015 Episodio segnalato dal Sappe: "Ormai il Sant'Anna è diventato un inferno, a settembre faremo un'imponente manifestazione di protesta". Una rissa tra quattro detenuti marocchini, di cui uno poi trasportato in ospedale, è avvenuta nel pomeriggio di ieri nel carcere di Modena. La segnalano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale. Mentre avveniva la rissa, un altro detenuto si sarebbe barricato in cella. "L'Istituto di Modena - si legge nella nota del sindacato - è diventato un vero e proprio inferno, per colpa di un'amministrazione immobile ed incapace di affrontare i problemi. È giunto il momento di dire basta a questa gravissima situazione e lo faremo a settembre con una imponente manifestazione davanti al carcere modenese, se nel frattempo non saranno assunti provvedimenti adeguati per ripristinare l'ordine e la disciplina, presupposti ineludibile per qualsiasi programma di recupero". Vigevano (Pv): Sappe; detenuto appicca fuoco a cella, episodi simili sempre più frequenti Adnkronos, 29 luglio 2015 Poteva finire in tragedia la protesta di un detenuto del carcere di Vigevano che domenica scorsa ha appiccato il fuoco all'interno della sua cella. Sono stati gli agenti penitenziari, immediatamente intervenuti, a scongiurare il rischio che le fiamme si propagassero al resto della struttura. La notizia arriva dal Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, si tratta di "un fenomeno che, alimentato dall'effetto emulativo, ha ormai assunto le proporzioni dell'emergenza". "Nelle prime ore della mattinata - spiega - il detenuto ha dato fuoco al materasso e al secchio della spazzatura. I baschi azzurri hanno impedito che la situazione degenerasse, ma è chiaro che nelle carceri lombarde la situazione è diventata allarmante per la polizia penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Nei dodici mesi del 2014, all'interno del carcere vigevanese si sono verificati 7 tentati suicidi di detenuti sventati in tempo dai poliziotti penitenziari e 38 atti di autolesionismo. "Tensioni e criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti - sottolinea Capece. Per fortuna delle istituzioni, gli uomini della polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità". San Gimignano (Si): incontri di formazione per cittadini detenuti e cittadini non detenuti valdelsa.net, 29 luglio 2015 "Stranieri", incontri di formazione per cittadini detenuti e cittadini non detenuti della Val d'Elsa senese. Ciclo di incontri di formazione teatrale, finalizzati alla realizzazione di una performance, aperti a cittadini detenuti ed a cittadini non detenuti della val d'Elsa e della provincia senese. Un progetto di Francesco Chiantese per Officine d'Elsa in collaborazione con la Casa di Reclusione di San Gimignano. "Non crediamo nel concetto di "teatro sociale" o "teatro terapeutico" più in genere non crediamo molto negli aggettivi che vengono collegati al termine teatro. Il teatro è una pratica artigianale per la produzione di spettacoli; ed ogniqualvolta viene posto un obiettivo primario differente da questo esso viene snaturato e snaturata è anche la sua reale efficacia all'interno della vita di chi lo pratica". Con queste parole, Francesco Chiantese, direttore artistico di Officine d'Elsa e formatore in questo ciclo di incontri, spiega il progetto, finalizzato alla realizzazione di una performance, aperto a cittadini detenuti e a cittadini non detenuti della val d'Elsa e della provincia senese. "Il teatro - spiega Chiantese, nella sua pratica ordinaria costringe l'artigiano attore o l'apprendista a dialogare con se stesso, acquisire consapevolezza del suo passato, costruire un immaginario sul proprio futuro, ma ponendo tutta la propria attenzione al presente, all'hic et nunc che è la sua caratteristica fondante; allo s tesso tempo educa alla costruzione di relazioni efficaci basate sul dono di sé, in quanto il teatro è artigianato delle relazioni". "Se noi però ponessimo attenzione a questi obiettivi secondari - continua, a queste conseguenze della pratica teatrale, allora il teatro diverrebbe altro, una forma di terapia, che non ha più nulla della sua vera natura e quindi non da più nulla della sua reale efficacia. Il nostro obbiettivo, come gruppo di lavoro, è accompagnare il teatro ad incontrare la cittadinanza; il motivo per cui nasce questo progetto è quello di poter dialogare con quella parte di cittadinanza che è all'interno della struttura carceraria. Non dialogare con loro è per noi negarci una parte di comunità ed abbiamo bisogno del dialogo con tutti i cittadini per far crescere e maturare il nostro teatro". "L'idea centrale del progetto è mettere in dialogo le due cittadinanze, quella che vive all'interno della casa di reclusione di San Gimignano (che si trova in località Ranza) e quella che vive nella Val d'Elsa senese, e soprattutto lavorare assieme attorno al concetto di "confine". Entrambi i gruppi si troveranno a confrontarsi con un confine reale, quello che divide le due comunità, e ad affrontare e risolvere in pochi incontri il problema centrale: essere stranieri gli uni agli altri. Gli incontri sono aperti ad otto detenuti di media sicurezza e a cinque allievi attori e saranno finalizzati alla realizzazione di una breve performance "studio" sul tema proposto". Per poter partecipare occorre inviare una mail a formazione@officinedelsa.eu indicando chiaramente i propri dati, lasciando un recapito telefonico funzionante, ed inserendo le proprie motivazioni e le proprie esperienze formative e/o professionali in ambito teatrale. Le mail dovranno arrivare entro e non oltre il 13 agosto; i "selezionati" saranno contattati il giorno 17 agosto per avviare le procedure legali che permetteranno loro di accedere all'interno della struttura penitenziaria (ovviamente la loro partecipazione e subordinata al permesso dell'autorità giudiziaria). Per maggiori informazioni è possibile contattare direttamente Francesco Chiantese all'indirizzo posta@francescochiantese.it. Milano: Franco Mussida "con il progetto CO2 porto la musica nelle carceri" di Barbara Giglioli Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2015 L'ex membro della Pfm insegna che la musica è un linguaggio universale, da tutti comprensibile. Una comunicazione che va al di là della parola, che parte da dentro. E alla Triennale di Milano si è appena conclusa l'installazione "Musica: Respiro Celeste". Ha da poco lasciato la Pfm perché le cose da fare erano troppe. Ecco che Franco Mussida, storico componente della Premiata Forneria Marconi, ha deciso di dedicare il suo tempo ai detenuti di quattro carceri italiane. Attraverso il progetto CO2 insegna che la musica è un linguaggio universale, da tutti comprensibile. Una comunicazione che va al di là della parola, che parte da dentro. Ma a tenere impegnato Mussida, sono anche le mostre esperienziali: è appena terminata alla Triennale di Milano “Musica: Respiro Celeste” e in programma per settembre c'è la nuova installazione “Suono di Sole”. Questa volta al centro dell'opera non saranno più altoparlanti, ma dipinti vibranti. Franco Mussida, cos'è il Progetto CO2? "Si tratta di audioteche create per i detenuti all'interno di quattro carceri italiane. Ogni brano è inserito da un musicista ed è classificato secondo stati d'animo". Cosa vuol dire CO2? "Controllare l'odio". Come è nato il progetto? "Nasce nel 1987 grazie al pensiero di una persona ispirata, il professor Garavaglia, responsabile del gruppo di psicoterapia all'interno del carcere di San Vittore". Secondo lei cosa manca nelle carceri italiane per la rieducazione dei detenuti? "Manca un minimo comun denominatore che permetta ai detenuti di leggere il proprio intimo". Per questo lei ha pensato alla musica e in particolar modo alle audioteche? "Esatto. Nelle audioteche abbiamo raccolto solo musica strumentale, niente parole. Ogni canzone deve poter arrivare a tutti, stranieri e non. Le playlist sono organizzate per stati d'animo permanenti. I detenuti, ascoltando i suoni, si rapportano con loro stessi, con il loro intimo. È un'attività consapevole. Ascoltano musica così come si deve ascoltare". Cosa serve per ascoltare musica? "Il tempo… Il tempo che dedichi alla musica lo dedichi a te stesso. È inutile andare dall'erborista per stare bene. Concediti piuttosto 10 minuti per ascoltare musica, perché i musicisti ti danno pappa reale. Non c'è altro modo di assimilarla, se non donandole tempo". La musica quindi è educativa? "Assolutmente sì. Può aiutare molto. Io ne ho esperienza diretta con le mie mostre esperienzali. L'ultima è stata “Musica Respiro Celeste”, presente alla Triennale di Milano fino a pochi giorni fa. E per coloro che non possono vedere le mie istallazioni ho pensato al Progetto CO2". Qual è il suo prossimo obiettivo con CO2? "Portare questa realtà in altre carceri. A Monza e a Opera si è già passati dalla fase di sperimentazione alla utilizzazione nelle biblioteche. Il mio grande obiettivo sarebbe poi dotare gli istituti penitenziari italiani di spazi di ascolto. Mettere le audioteche al servizio di giudici e avvocati, perché anche loro, come gli agenti di custodia, fanno parte di un sistema". Ascoltando musica i detenuti lasciano traccia sui tablet del loro stato d'animo? "Sì. Noi sappiamo quanto rimangono collegati, cosa ascoltano e per quanto tempo. Leggendo questi dati capiamo molto. Come diceva Jung, l'inconscio è un elemento collettivo e a maggior ragione la musica dimostra che la nostra interiorità poggia su una struttura emozionale comune, a prescindere dalle esperienze di ognuno. Se i neri d'America non avessero avuto la musica e se non si fossero organizzati a cantare, quanto ci avrebbero messo i bianchi ad accettarli?". Mussida, lei lavora da solo al Progetto Co2? "No, il progetto nasce all'interno della mia scuola, il Cmp Music Institute. Il progetto è mio e dei miei ragazzi. Poi ora vorrei creare un gruppo di sostenitori. Io non sono un santone. Non mi taglio la zazzera semplicemente perché ci sono affezionato". (ride, ndr.) Quali artisti le piacerebbe coinvolgere nel progetto? "Mi piacerebbe contattare persone che hanno cercato meno consensi e hanno fatto più ricerca. Due nomi che mi vengono in mente sono Vinicio Capossela e Andrea Bocelli, nessuno più di lui credo abbia consapevolezza di quanto la musica possa aiutare". Lei passa molto del suo tempo nella sua scuola, il Cpm Music Institute. Che effetto le fa essere un esempio per i ragazzi? "Una premessa: il compito delle persone di una certa età è mettere a frutto le esperienza maturate negli anni, ma senza la genialità dei ragazzi gli adulti fanno fatica ad esprimersi. Quindi questo è un luogo di sperimentazione, in cui uno arriva con un'idea della musica e ha la possibilità di realizzarla. Sia io, sia i miei ragazzi. La musica è una meravigliosa e straordinaria forma di comunicazione che va al di là dei contenuti. Qualsiasi opera ben fatta, artisticamente valida, è di fatto un agglomerato di pensieri e sentimenti. Tutta la musica prodotta è sapienza organizzata da uomini che fanno un lavoro per gli ascoltatori". Connazionali scomparsi all'estero, la Farnesina a "caccia" di 3.024 italiani di Andrea Ossino Il Tempo, 29 luglio 2015 Il rapporto ministero degli Esteri: "Il numero dal 2012 è in costante ascesa". L'appello lanciato dal Papa in merito alla vicenda di padre Paolo Dall'Oglio, rapito due anni fa in Siria, e il successivo intervento del Presidente Mattarella, che ha voluto ribadire l'impegno per la sua liberazione, riaccendono i fari sulle sorti dei nostri connazionali sequestrati o scomparsi in terre lontane. Sono 3.024 infatti le procedure aperte nel 2014 dalla Farnesina per le ricerche degli italiani scomparsi all'estero. Un numero in costante ascesa se si considera che nel 2013 gli italiani che avevano fatto perdere le proprie tracce dopo aver varcato il confine erano 1.815 e nel 2012 erano l.694. I dati sono forniti dall'annuario statistico pubblicato dal ministero dell'Esteri. Le pagine che compongono il report non possono rappresentare il dolore che quotidianamente migliaia di famiglie affrontano. L'aridità dei numeri non riesce a trasmettere quel senso di angoscia dato da una stanza vuota, da un libro riposto in un comodino una sera e mai più riaperto. Le storie sono molte e si vanno a sommare a quelle degli italiani scomparsi dentro i confini del Belpaese. Si tratta di un esercito composto da oltre 27mila persone. Amici, fratelli, figli o genitori usciti di casa senza mai fare ritorno. A dominare la triste classifica delle persone di cui non si hanno notizie c'è la regione Lazio, dove si registrano 6.580 casi. Solo nel 2013 a Roma sono sparite 7.603 persone. Come se ad un tratto quasi tutta una delle due curve dello stadio Olimpico svanisse nel nulla. I motivi dell'allontanamento dalla propria abitazione sono diversi. Molti scompaiono volontariamente cercando di evadere dall'isterismo di una società frenetica. Altri scappano dai problemi familiari o con la giustizia. Spesso i giovani si allontanano per problemi connessi alla droga. Il fenomeno si complica quando vi sono deficit mentali pregressi. Il 14% della totalità degli scomparsi sono anziani che hanno superato i 65 anni e soffrivano di disturbi cognitivi. Da poco esiste una banca dati dove i numeri vengono aggiornati quotidianamente e, purtroppo, spesso vengono messi in relazioni con il fenomeno dei cadaveri senza nome, corpi mai reclamati che attendono di essere inumati con l'incisione "sconosciuto" sulla lapide. Libia: condannato a morte Saif al Islam, secondogenito di Muammar Gheddafi Ansa, 29 luglio 2015 La sentenza del tribunale libico per avere represso le proteste pacifiche durante la rivoluzione del 2011 che ha messo fine al governo del padre. Saif al Islam, secondogenito di Muammar Gheddafi, è stato condannato alla pena di morte per avere represso le proteste pacifiche durante la rivoluzione del 2011 che ha messo fine al governo del padre. Saif al-Islam, secondo l'agenzia di stampa libica, è stato condannato con l'accusa di "genocidio". Il tribunale ha condannato a morte per fucilazione anche il capo dell'intelligence di Gheddafi, Abdullah al-Senussi, e il suo ex primo ministro, Baghdadi al-Mahmoudi. Il verdetto su al-Islam è stato reso in contumacia perché il secondogenito dell'ex leader libico è detenuto da un ex gruppo di ribelli nella regione di Zintan che si oppone al governo di Tripoli, non riconosciuto dalle potenze mondiali. Il processo era iniziato ad aprile 2014, prima dello scontro tra fazioni rivali che ha portato il Paese a nuove fratture e creato due governi paralleli a Tobruk e Tripoli. Il secondogenito dei nove figli di Muammar Gheddafi, Saif al-Islam, era stato catturato nel sud della Libia dopo tre mesi di fuga, il 19 novembre 2011, un mese dopo l'uccisione del padre a Sirte da parte dei ribelli: stava cercando di fuggire in Niger. Saif al-Islam non aveva alcun ruolo ufficiale nel governo, ma era considerato l'erede del rais e la figura più influente dopo di lui. Anche la Corte penale internazionale aveva emesso un mandato di arresto nei suoi confronti, per crimini contro l'umanità e violenze contro le proteste, chiedendo di processarlo. Le milizie che lo avevano catturato si opposero, determinate a processarlo in Libia. "Non ho paura di morire, ma se mi ucciderete dopo un processo del genere dovrete solo parlare di omicidio", aveva detto Saif al-Islam, secondo quanto riporta Bbc. Amnesty: processo segnato da forti carenze Amnesty International condanna "l'agghiacciante" verdetto del tribunale di Tripoli che ha emesso condanne a morte per Saif al-Islam Gheddafi, figlio di Muammar Gheddafi, e altri otto esponenti del passato regime libico. In tutto più di 30 persone - tra ex diplomatici, ministri e ufficiali dell'intelligence - sono state condannate in un processo segnato da "forti carenze", denuncia l'organizzazione. "Invece di contribuire a stabilire la verità e ad accertare le responsabilità per le gravi violazioni durante il conflitto armato del 2011, questo processo dimostra la debolezza del sistema giudiziario, appeso a un filo in un Paese devastato dalla guerra senza un'autorità centrale", ha commentato il responsabile del programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty, Philip Luther. "Le condanne a morte, estrema violazione dei diritti umani, aggiungono al danno la beffa e devono essere annullate in appello", ha aggiunto. Saif al-Islam, l'ex numero uno dell'intelligence, Abdallah Senussi, e l'ex premier Baghdadi Ali al-Mahmoudi, insieme ad altri sei esponenti del passato regime sono stati condannati a morte con l'accusa di "genocidio" in relazione alla rivolta del 2011 contro Muammar Gheddafi. Altri 23 imputati sono stati condannati a pene che vanno dall'ergastolo ai cinque anni di carcere, quattro persone sono state assolte e un'altra ha ottenuto il rinvio per motivi di salute. Amnesty, che ribadisce la richiesta di consegnare Saif al-Islam alla Corte penale internazionale che lo accusa di crimini di guerra e contro l'umanità, chiede una revisione indipendente e imparziale da parte della Corte Suprema. "L'unico modo per ottenere vera giustizia per le vittime dei gravi crimini commessi durante il conflitto del 2011 è consegnare Saif al-Islam Gheddafi alla Corte penale internazionale e garantire processi giusti per tutti i fedelissimi di Gheddafi detenuti", afferma l'organizzazione. Saif al-Islam, ha detto Luther, "è stato processato e condannato in contumacia e continua a essere tenuto in isolamento in una località segreta senza accesso a un avvocato". Libia: una sentenza-farsa per Gheddafi Jr., condannato a Tripoli, prigioniero dei rivali di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 luglio 2015 Una condanna a morte, che però non può essere eseguita. Un delfino assurto a simbolo di un regime una volta odiato, che oggi è rimpianto da molti. E poi le reazioni negative della comunità internazionale, che pure in larga parte con il suo intervento militare nel 2011 ha contribuito a generare il caos odierno. Un Paese diviso, impotente di fronte alla violenza interna, lacerato dalla memoria del passato e ancor più dai progetti per il futuro. Sono questi alcuni degli elementi che emergono dalla sentenza pronunciata ieri dal tribunale di Tripoli nei confronti di Saif Al Islam, 43 anni, secondogenito di Muammar Gheddafi, "il più politico" tra i figli del dittatore che secondo molti avrebbe forse potuto sostituirlo per evitare il caos della guerra civile. Il verdetto era scontato. Dall'inizio del "processo farsa" (come lo definiscono oggi il Consiglio d'Europa, Human Rights Watch e numerosi altri attori internazionali) nel 2013, i responsabili delle milizie che dominano nella capitale avevano espresso l'intenzione di applicare la massima pena contro i capi dell'ex regime. Lo stesso Gheddafi venne linciato alle porte di Sirte dalla soldataglia di Misurata il 21 ottobre 2011. Vale la pena ricordare che i ribelli riuscirono a fermare il suo convoglio solo grazie ai missili dei Mirage francesi. Centinaia di suoi fedelissimi vennero torturati, fucilati sommariamente. Il verdetto di ieri rappresenta l'epilogo coerente di quelle vendette. Con Saif dovrebbero essere fucilati altri otto esponenti dell'ex regime: tra loro il capo dell'intelligence, Abdullah Senussi, il responsabile della Guardia Popolare, Mansour Daud Ibrahim, quello della sicurezza interna, Millad Raman. Ieri erano in aula, si trovano nelle prigioni di Tripoli, in tutto sono una trentina. Sei sono condannati all'ergastolo. L'accusa è uguale per tutti: avrebbero organizzato la sanguinosa repressione delle rivolte nel 2011, "incitato al genocidio". Hanno sessanta giorni per ricorrere in appello. Saif però ieri non c'era. Come già durante l'altra ventina di udienze pubbliche della corte di Tripoli, ha seguito il dibattimento per video-conferenza dalla sua cella nei dintorni di Zintan, oltre 160 chilometri a sud-ovest della capitale. E qui sta un altro degli elementi-simbolo del disordine libico che emergono dalla sentenza. Tripoli propone, ma Zintan dispone. La sentenza di ieri rappresenta la debolezza intrinseca del governo centrale privo di autentica sovranità. Sulla carta quattro anni fa le milizie ribelli erano unite dalla causa comune di abbattere la dittatura. In realtà già allora prevalevano le differenze tribali, gli odi, persino i razzismi localistici, che del resto per quarant'anni Gheddafi aveva coltivato ad arte secondo il classico "divide et impera". Solo l'intervento bellico della Nato aveva permesso la loro vittoria. I ribelli avevano potuto godere del privilegio di restare divisi anche se militarmente meno efficienti. Così, quando i miliziani berberi di Zintan nel novembre 2011 avevano catturato Saif in fuga verso l'Algeria, si erano guardati bene dal consegnarlo a Tripoli o al Tribunale Internazionale dell'Aja, che da subito ne ha chiesto l'estradizione per fargli un "processo equo". Da allora Saif rimane "bottino di guerra" dei berberi, che nel frattempo si sono alleati al governo di Tobruk e sono in guerra contro Misurata e Tripoli. L'aspetto più paradossale è che oggi Tobruk ha rafforzato i legami con le tribù pro-Gheddafi. Risultato: Saif, condannato a Tripoli, viene rivalutato come partner politico potenziale a Zintan. Tunisia: pugno duro sul terrorismo "15 giorni di fermo, poi il giudice, intanto le torture" di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2015 Ines Harrath, avvocato tunisino: "Oltre 7 mila arresti dal 2012 a oggi. Bastano la barba o vestiti ‘troppo musulmanì per far scattare le manette". In cella i detenuti spesso finiscono per confessare e le pene vanno "dai 5 ai 12 anni per terrorismo e fino a 5 anni per propaganda. Se si è preso parte a un'azione in cui sono morte delle persone - come nel caso di Abdulmajid Touil, 22enne marocchino arrestato in Italia con l'accusa di aver preso parte alla strage del Bardo - c'è la possibilità della pena capitale". "Arrestati, denudati, picchiati e torturati per strappare una confessione che, se non si è abbastanza forti, viene rilasciata anche se non corrisponde alla verità". Ines Harrath, avvocato tunisino, non nasconde la rabbia quando ripensa alle storie dei propri clienti finiti in carcere con l'accusa di essere dei terroristi. Decine di persone che, però, rappresentano una minima parte degli "oltre 7 mila arresti" per terrorismo ordinati in Tunisia negli anni dopo la caduta del regime di Zine El Abidine Ben Ali, dal 2012 a oggi. Quando il reato sospettato è quello di terrorismo, la discussa legge 75 del 10 dicembre 2003, creata ai tempi della dittatura militare e oggi sostituita dalla più restrittiva legge anti terrorismo del 27 luglio 2015, sembra giustificare qualsiasi azione da parte delle forze di polizia: "Bastano il tuo aspetto - spiega Harrat a Il Fatto Quotidiano, la tua barba o i tuoi vestiti che ti identificano come troppo musulmano per far scattare un arresto in piena notte". L'avvocato tunisino è uno dei personaggi che maggiormente si è esposto contro il pugno duro di Tunisi e alle leggi antiterrorismo in vigore. Tutti i suoi clienti sono accusati di far parte o di aver fatto propaganda in favore di qualche gruppo jihadista presente nel Paese. Se si entra sul suo profilo Facebook non si può non notare, in evidenza, la foto di Seifeddine Erraies, ex portavoce di Ansar al-Sharia in Tunisia e suo cliente: "Non ho problemi a parlare di Seif - dice - prima di essere un cliente è un amico". Tra i suoi difesi, però, ci sono anche e soprattutto storie più controverse, come quella dell'ingegnere 25enne Zied Younes, anche lui finito in una cella tunisina con l'accusa d essere il membro di un movimento terroristico: "Una storia veramente brutta - racconta, di cui si è interessata anche Amnesty International. Forse la storia più brutta con cui ho avuto a che fare. Zied è un ragazzo incredibilmente intelligente, detenuto nel centro delle Brigate Antiterrorismo (Bat) di Gorgeni. Dopo il suo arresto, è stato denudato, lasciato senza cibo, senza possibilità di dormire, schiaffeggiato, umiliato e colpito con strumenti di tortura. È ancora in carcere. La prova della sua colpevolezza? Il giudice sostiene che un video riguardante i combattimenti dei ribelli in Siria sia un elemento sufficiente a stabilire quale sia il suo credo". Se esiste un solo sospetto, anche un elemento di poca importanza che può, però, creare un collegamento tra la persona e l'estremismo islamico, sostiene Harrath, scatta l'arresto. Ad eseguirlo sono gli ufficiali delle Bat che, poi, "possono tenerti in stato di fermo per massimo sei giorni (diventati 15 con la nuova legge, ndr), prima che tu possa comparire davanti a un giudice. Già in quell'arco di tempo - dice l'avvocato - nel 99% dei casi il detenuto viene torturato per ottenere una confessione. È per questo che diffido sempre dalle confessioni degli imputati". Una volta che il detenuto ha parlato, un giudice stabilirà una pena che va "dai 5 ai 12 anni per l'appartenenza a un movimento terroristico e fino a 5 anni si è fatto semplice attività di propaganda. Se viene dimostrato, però, che si è preso parte a un'azione in cui sono morte delle persone, come nel caso delle accuse nei confronti di Abdulmajid Touil, il ragazzo marocchino arrestato in Italia, c'è la possibilità della pena capitale". La gestione della lotta al terrorismo in Tunisia è un problema che va avanti ormai da anni, con i vari governi che, nonostante il pugno duro, non sono riusciti a impedire la formazione di zone, soprattutto a sud del Paese, al confine con la Libia, quasi totalmente in mano ai terroristi legati ad Al Qaeda e, ultimamente, dello Stato Islamico. "Il governo ha voluto diffondere l'idea che tutto l'Islam al di fuori dei canoni che loro definiscono moderati sia sbagliato. Ha messo sullo stesso piano le correnti più radicali con i terroristi veri e propri, scegliendo la repressione e generando, così, sentimenti di vendetta. Anche per questo motivo i gruppi jihadisti sono potuti crescere". Dopo l'attentato del 18 marzo al Museo del Bardo, poi, la situazione è ulteriormente peggiorata: "L'atteggiamento di Tunisi e delle forze di polizia si è radicalizzato. Le torture sono diventate più dure da sopportare, le condizioni delle carceri, con celle sporchissime e che contengono fino a 120 detenuti, sono peggiorate, si arresta con più facilità e lo si fa anche con bambini di 13 o 14 anni. L'altro giorno è stata arrestata una ragazzina di 16 anni per un post che aveva pubblicato su Twitter". Iraq: prigionieri sauditi non saranno inclusi in amnistia, molti sono accusati di terrorismo Nova, 29 luglio 2015 L'ambasciata saudita in Giordania ha rivelato che il programma di amnistia in fase di approvazione da parte delle autorità irachene non includerà i detenuti sauditi nelle carceri irachene. Sami al Saleh, ambasciatore saudita in Giordania, ha detto al quotidiano "al Riadh" che la maggior parte dei prigionieri sauditi sono accusati di terrorismo, e la legge di amnistia è ancora in discussione. Al Saleh ha confermato che "non vi è alcun progresso tangibile nel caso dei prigionieri sauditi" aggiungendo che "ci sono centinaia di cittadini sauditi nei centri di detenzione, dei quale non ci è stato detto il motivo del loro fermo, mentre l' identità di molti altri non è stata svelata".