Giustizia: "Area" sui suicidi nel carcere di Regina Coeli Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2015 Eduard Thedor Brehuescu, 18 anni: muore impiccato nel carcere romano di Regina Coeli il 20 luglio. Poche ore prima, nello stesso reparto, trova la morte Ludovico Caiazza, 32 anni. Entrambi in custodia cautelare, entrambi morti per suicidio. Sono 24 i morti per suicidio in carcere dall'inizio del 2015; 63 il numero delle morti complessive tra la popolazione detenuta. In carcere, tra i ristretti, il suicidio colpisce 20 volte più che tra le persone libere. Tra il personale di polizia penitenziaria, 3 volte più che nella norma. Sono i dati del dossier "Morire di carcere", curato da Ristretti Orizzonti. Quando emettiamo condanne ad anni di carcere, quando disponiamo misure cautelari detentive, noi dobbiamo poter confidare che non stiamo inviando le persone in un luogo senza speranza. Invece, nel quarantennale dell'ordinamento penitenziario (26 luglio 1975 - 26 luglio 2015) constatiamo che quella "tavola" dei diritti e delle speranze delle persone detenute - in custodia cautelare e in esecuzione pena - non riesce ad arginare quelle che sono state definite le evasioni definitive: un lenzuolo annodato che ti conduce fuori dalla vita. Una morte che colpisce soprattutto i "nuovi giunti", i detenuti in custodia cautelare, quelli che hanno appena messo piede nel carcere, avvolti anche dal turbinio dei processi psichici di rimozione o di assunzione di responsabilità, di separazione dagli affetti, di primo contatto con la realtà dell'internamento. Come magistrati, come giudici chiamati ogni giorno ad applicare misure e pene privative della libertà, intendiamo combattere perché il carcere sia un luogo legale, conforme a Costituzione, all'interno del quale vita, incolumità e salute assurgano al livello di diritti inviolabili nella stessa misura che nella società libera. Riteniamo particolarmente importante, in questo momento, non accontentarsi. Vogliamo vedere. Vedere cosa c'è dentro la pena, dentro il carcere. Crediamo che sia compito di tutti i giudici di cognizione, al pari dei magistrati di sorveglianza esposti su questo fronte, esigere: livelli di assistenza sanitaria per i detenuti conformi a quelli pretesi per i liberi; prassi virtuose in materia di "prevenzione rischi"; diffusione dei presidi per i nuovi giunti; implementazione dei servizi di screening e monitoraggio degli ingressi e analisi dei fattori di rischio attitudinali e psicosociali; aumento del personale civile e di polizia penitenziaria; rivisitazione della cultura, delle disposizioni e delle prassi in materia di isolamento. Auspichiamo, inoltre, che la congiuntura di questi giorni - quarantennale dell'ordinamento, avvio degli Stati Generali dell'esecuzione penale, legge delega in materia penitenziari - consenta di mettere mano a riforme in grado di portare a compimento il processo di legalizzazione della pena carceraria: l'art. 27 della Costituzione, nel sancire solennemente che non è ammessa la pena di morte, rifiuta categoricamente anche la "morte per pena". Il Coordinamento di "Area" Giustizia: reati e carcere, da dove viene questa bulimia penalistica? di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 Non bastano già 37mila fattispecie di reato esistenti in Italia? E perché questa voglia di carcere, brandito a ogni piè sospinto, salvo poi piangere lacrime (di coccodrillo?) e chiedere all'opinione pubblica di comprendere che, nella maggior parte dei casi, il carcere è inutile e controproducente perché non riduce la recidiva? Perché l'ipocrisia di dispensare anni di galera, ma quel tanto che basta per scaricare poi la patata bollente sul magistrato, che dovrà valutare la particolare tenuità del fatto e archiviare? Scongiurato il pericolo di un limite al diritto di cronaca (anche se la prudenza consiglia di aspettare il voto) che bisogno c'è di un nuovo reato, sulle intercettazioni fraudolente, se illustri giuristi, come Giovanni Maria Flick, hanno spiegato che il Codice penale già punisce queste condotte (articoli 615, 616 e 617) ricordando che per la Cassazione è lecito registrare una conversazione privata? Infine: perché mai una norma dettagliatissima in materia di intercettazioni dovrebbe essere introdotta come norma ordinaria (quindi immediatamente vigente) in un testo che, invece, rimette al governo il dettaglio di tutta la materia? L'emendamento all'emendamento non risponde a nessuna di queste domande. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, è cominciata la rivoluzione, anzi no di Fabio Pizzi unimondo.org, 28 luglio 2015 Il 31 marzo 2015 l'Italia ha ufficialmente detto basta agli Opg, sostituiti con strutture completamente differenti pensate per garantire ai detenuti-pazienti ambienti di vita più umani e dignitosi. Ma la realizzazione di questi doverosi cambiamenti per molti aspetti è rimasta sulla carta e a perderci in termini di salute e dignità sono sempre i soggetti detenuti nelle strutture che rischiano, come già Unimondo aveva documentato, di venire trattati come cifre, come pacchi postali, anziché come persone. Il complesso rapporto di questi Ospedali non ospedali/carceri non carceri con la legislazione e la quotidianità del vivere una situazione doppiamente restrittiva, la malattia e la detenzione, risale alla famosa legge Basaglia del 1978 la quale, se da un lato ebbe il merito di sollevare la pietra tombale che di fatto veniva fatta cadere sulle vite di chi in un manicomio veniva rinchiuso senza spesso più uscirne e di parlare di dignità del malato di mente, dall'altro ancora oggi, a quasi trent'anni di distanza, viene ampiamente criticata per non aver valutato e pianificato in modo efficiente "il dopo", ovvero le conseguenze della chiusura degli istituti psichiatrici. La norma 180, questo il suo vero nome, affidava alle Regioni l'attuazione dei provvedimenti in materia di salute mentale, generando immediatamente difformità di trattamento, in quanto mentre alcune realtà regionali furono veloci ed esaustive nell'attuare la normativa altre si attardarono e sono ancora indietro, producendo di fatto carenze di assistenza e pessime conseguenze sulla qualità ed efficacia dell'assistenza stessa. Il passaggio da Opg a Rems - Residenze esecuzione misure di sicurezza, presenta oggi le stesse problematiche ed incognite. Ma quanti erano gli Opg ancora in funzione nel nostro paese alla fine di marzo? E in che condizioni? Ne risultavano 6 in 5 regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania e Sicilia con circa 700 detenuti, 450 dei quali già in predicato di entrare nelle nuove strutture, tra le quali solo il complesso di Castiglione delle Stiviere era stato riconosciuto idoneo a venire riconvertito direttamente in Rems. E per chi non aveva un posto già assegnato? Trasferimento verso altre strutture - e qui è lecito chiedersi di che tipo, dato che, ironia, i manicomi e gli Opg non esistono più - oppure sottoposizione a percorsi di recupero diversificati (!); ma se le Opg, come affermato recentemente anche dall' ex Presidente Napolitano rappresentavano "un esempio di estremo orrore, indegno di un paese appena civile", non era forse il caso di predisporre prima, come avrebbe fatto un paese appena civile, consoni sostituti? Laddove questo è stato fatto, come ad esempio nella residenza Casa degli Svizzeri di Bologna, si respira davvero aria di speranza: sbarre e muri scrostati hanno lasciato il posto a finestre, stanze comuni e tavoli da ping-pong, ma non ovunque purtroppo è così. In altre regioni la situazione è ancora critica e ingarbugliatissima e ben lontana dall'essere risolta, tanto che molti ex Opg in difficoltà hanno semplicemente deciso di shiftare i loro pazienti a Castiglione delle Stiviere, sovraffollandola subito e rendendo difficilmente garantibili gli standard minimi di legge per quanto riguarda sicurezza, cure e dignità. Un cane che si morde la coda, insomma, e si fa e fa parecchio male. E allora bene fanno i rappresentanti di Stop Opg, collettivo di associazioni nato nel 2011 in seguito al Forum di salute Mentale di Aversa, a monitorare l'operato delle amministrazioni regionali e a pungolare gli amministratori di qualsiasi livello e levatura politica affinché risolvano questa emergenza. "Gli Opg" dichiarano nel loro appello ai cittadini e alle istituzioni, stilato quasi cinque anni fa ma ancora attualissimo "rappresentano un vero e proprio oltraggio alla coscienza civile del nostro Paese, per le condizioni aberranti in cui versano 1.500 nostri concittadini, 350 dei quali potrebbero uscirne fin da ora. L'Ospedale Psichiatrico Giudiziario è istituto inaccettabile per la sua natura, per il suo mandato, per la incongrua legislazione che lo sostiene, per le sue modalità di funzionamento, le sue regole organizzative, la sua gestione. La sua persistenza è frutto di obsolete concezioni della malattia mentale e del sapere psichiatrico, ma soprattutto di una catena di pratiche omissive, mancate assunzioni di responsabilità e inappropriati comportamenti a differenti livelli." "Al VI° Forum salute mentale tenutosi ad Aversa nel gennaio 2011" continua l'appello "abbiamo denunciato le omissioni e la mancata assunzione di responsabilità da parte dei decisori politici (Governo e Regioni), delle Aziende sanitarie locali e di molti Dipartimenti di Salute Mentale; ciò è ancor più grave a 3 anni dalla emanazione del Dpcm 1.4.2008 - che dispone la presa in carico degli internati negli Opg da parte dei Dipartimenti - e dopo le sentenze della Corte Costituzionale, del 2003 e 2004, che hanno spalancato possibilità di trattamenti alternativi all'Opg in ogni fase". E concludono "Riteniamo sia improcrastinabile porre fine allo scandalo degli Opg e che sia possibile farlo all'interno dell'attuale normativa, perché, come afferma la nostra Costituzione - la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Degrado, sovraffollamento e scarsa assistenza psichiatrica erano la norma nei manicomi chiusi nel 1978 e, parimenti, negli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi nel 2015. Tutti si indignano, gridano allo scandalo e coniano nuove strategie e sigle, ma pochissimo in quasi trent'anni è cambiato, con pazienti e detenuti stritolati e isolati da una burocrazia elefantiaca e da un una politica sterile. C'è da impazzire, oppure da rinsavire e fare ciò che va fatto. Subito e fino in fondo, come un paese civile. Giustizia: intercettazioni, arriva l'emendamento del Pd "niente carcere per i giornalisti" di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 Orlando: "Nessuna volontà di colpire la stampa". Ma sul Ddl grava l'ostruzionismo di M5S. È arrivato ieri in Aula un emendamento del Pd al Ddl sulla riforma del processo penale. Il nuovo testo esclude la punibilità dei giornalisti che utilizzino conversazioni registrate di nascosto. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: nessuna volontà di colpire la stampa. Per Ncd si va in una direzione condivisa. Sul percorso del Ddl pesa, però, l'ostruzionismo di M5S. Fin da venerdì, quando era scoppiata la protesta grillina contro la norma bavaglio contenuta nel ddl sulla riforma del processo penale, Pd e governo avevano fatto sapere che sarebbe stata "corretta". Nessuna sorpresa quindi che ieri in aula sia arrivato l'emendamento, a firma dei deputati Dem Ermini e Verini, che modifica la versione votata in commissione la scorsa settimana. Il nuovo testo esclude esplicitamente la punibilità per i giornalisti, che utilizzino conversazioni registrate di nascosto e lo stesso principio si applica anche a chi se ne serva per esercitare il diritto alla difesa. Resta invece la punibilità, fino a 4 anni, per chi diffonde la registrazione audio o video al solo fine di diffamare terzi. "Credo che anche la rapidità con la quale si è ritenuto di dover riscrivere la norma dimostri che non c'era alcuna volontà di colpire la stampa", ha commentato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che assieme al ministro per i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, si era immediatamente attivato per accelerare la correzione di rotta. La riscrittura della norma è condivisa anche da Alessandro Pagano, il deputato di Ncd autore della cosiddetta "norma bavaglio" che aveva fatto insorgere le opposizioni. "L'impianto del mio emendamento e i principi di base non vengono toccati", ha detto Pagano. Posizione ribadita anche dal viceministro centrista Enrico Costa, secondo cui ci sono "le condizioni per un'intesa di maggioranza che, pur riaffermando garanzie già previste in termini generali dall'ordinamento, confermi i principi di civiltà giuridica che hanno ispirato il provvedimento". Principi a cui si è richiamato anche il leader di Ncd Angelino Alfano: "In questi giorni sento parlare a sproposito del tema delle intercettazioni su una questione che nulla ha a che fare con esse, e cioè il furto di audio e video. Secondo questo metodo sarebbe possibile andare a casa di qualcuno, registrare o filmare e poi buttare in rete quelle immagini rubate: questo è un furto e non ha nulla a che vedere con le intercettazioni, che sono autorizzate dai magistrati e servono per le indagini". La riscrittura della norma contestata tuttavia non convince le opposizioni. I grillini sono pronti all'ostruzionismo e hanno presentato più di 600 emendamenti. L'intento dichiarato è di impedire l'approvazione del provvedimento che governo e maggioranza vorrebbero licenziare prima della chiusura di Montecitorio per la pausa estiva. Un obiettivo che appare arduo realizzare visto che non è previsto il contingentamento dei tempi di discussione degli emendamenti. I Cinque Stelle chiedono di "eliminare la delega sulle intercettazioni e l'enunciato che dà solo tre mesi di tempo al pm per decidere, alla fine delle indagini preliminari, se chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione". Anche Sel vuole lo stralcio della norma sulle intercettazioni: "È inaccettabile la delega al governo in materia di intercettazioni. Il controllo rimanga parlamentare", ha detto il capogruppo alla Camera Arturo Scotto. Critica anche Fi. Secondo Renato Brunetta "il problema non sono le intercettazioni, che sono strumento d'indagine straordinario per colpire i criminali, ma l'uso e l'abuso che se ne continua a fare". Intanto sia sulla questione delle registrazioni fraudolente sia sulla norma che dà solo tre mesi di tempo al pm per decidere al termine delle indagini preliminari se chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione, si appresta a dare il suo parere il Csm. Una presa di posizione che si annuncia molto critica, come fanno pensare le parole del consigliere Piergiorgio Morosini, presidente della Commissione che sta preparando il testo: il tetto di tre mesi è una "soluzione miope che penalizzerebbe le inchieste su mafia, corruzione o fenomeni di criminalità in ambito societario e fiscale". Giudizio "affrettato e infondato", replica David Ermini, responsabile Giustizia del Pd sottolineando come "nella nostra proposta non viene penalizzato proprio un bel niente. Il tempo di tre mesi, infatti, decorre solo dopo, e sottolineo dopo, la chiusura delle indagini". Giustizia: intercettazioni, le bugie di Gratteri di Piero Sansonetti Il Garantista, 28 luglio 2015 Secondo il famoso pm, se approvato, l'emendamento che vieta la diffusione di immagini o audio rubati impedirebbe le indagini sulla mafia. Niente di più falso. È un fatto di civiltà che però dà fastidio. Il dottor Gratteri ha sempre rifiutato di discutere con noi del "Garantista", perché ci ritiene dei malfattori o giù di lì. Ha detto varie volte: "non li querelo per non dar loro soddisfazione". Noi però non possiamo esercitare la "reciprocità", perché mentre noi siamo solo un piccolo giornale che non fa male a nessuno, lui è il Pm più importante d'Italia, è il capo di una commissione governativa per riformare la giustizia, è il candidato perenne ad essere ministro Guardasigilli, è un giudice potente che spesso manda in prigione molta gente. A ragione o a torto. E per di più è adorato da quasi tutti i giornalisti giudiziari importanti. Dunque finché potremo non rinunceremo al diritto di critica. Ieri il dottor Gratteri ha rilasciato un'intervista al "Fatto Quotidiano" (e il "Fatto Quotidiano" ha aperto la prima pagina del giornale con questa intervista, giustamente considerata clamorosa) nella quale sostiene che il famoso emendamento-Pagano sulle intercettazioni (seppellito in poche ore da giornali e politica, su input o forse ordine dell'Anm) se approvato impedirebbe ai magistrati di indagare sulla mafia. Il titolo dell'intervista (che corrisponde al testo) è chiarissimo e riassuntivo. Lo trascriviamo: "Gratteri: un regalo ai boss". Questa è la riga grande che occupa quasi tutta la testata. E sotto c'è una riga più piccola che spiega meglio: "Stop alle registrazioni e ghigliottina sulle indagini su Cosa Nostra: assurdo". Nel corso dell'intervista Gratteri afferma in modo molto netto: "Questi provvedimenti renderebbero dì fatto impossibili le indagini per mafia". Adesso trascriviamo il testo dell'emendamento Pagano che costituirebbe il regalo ai boss e sancirebbe lo stop alle indagini: "Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all'immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. La punibilità è esclusa quando le riprese costituiscono prova nell'ambito di un procedimento dinnanzi all'autorità giudiziaria o siano utilizzate nell'ambito di esercizio del diritto di difesa". È assolutamente e innegabilmente chiaro che questo emendamento non danneggia nessun tipo di indagine. Non punisce le registrazioni ma la loro diffusione. Esclude qualunque sanzione a chi intercetti a scopo di indagine. Può non piacere ai giornalisti che ritengono proprio diritto sputtanare chi vogliono, e si può discutere finché si vuole, legittimamente, di questo diritto e se sia un elemento di trasparenza e di democrazia - come sostengono alcuni - o invece una tendenza all'inciviltà, o al bigottismo, o al linciaggio morale, come sostengono altri, tra i quali noi. Ma i magistrati da questo emendamento non vengono nemmeno sfiorati. Dice Gratteri che il commerciante che volesse registrare le minacce di chi gli chiede il pizzo non potrebbe più farlo. Non è così. Dice una cosa sbagliata. Oseremmo dire: dice una cosa falsa. I casi sono due, e tutti e due, francamente, preoccupanti. O Gratteri non ha letto l'emendamento (ed è possibile, anzi probabile che sia così) oppure se lo ha letto informa i lettori del "Fatto" fornendo loro notizie false per semplice amor di polemica. Nella seconda parte dell'intervista Gratteri se la prende con un'altra norma dell'emendamento, quella che fissa in tre mesi il termine entro il quale una indagine deve essere chiusa o con l'archiviazione o con il rinvio a giudizio. Sostiene, Gratteri, che in tre mesi non c'è il tempo per raccogliere le prove, e in questo modo si aiutano gli imputati, cioè i mafiosi. Non dice però che questa norma già esiste, e l'emendamento sì limita a renderla più stringente, riducendo la possibilità di proroghe che oggi è la norma in tutte le indagini. (C'è un mio amico, in Calabria, un ex sindaco, che fu indagato da Gratteri nel 1993 e la richiesta di archiviazione arrivò nei 2005...). Non dice neanche che molti Pm, di solito, per aggirare questa norma (già oggi) dilatano i tempi inviando gli avvisi di garanzia con un notevole ritardo rispetto al vero inizio dell'investigazione. Oppure trovano i Gip che per anni e anni concedono loro proroghe su proroghe rendendo "eterna" la nostra giustizia e - oltretutto - automatica la prescrizione. E poi non dice neanche un'altra cosa. Non racconta di quella volta che mandò mille uomini armati a circondare Paltì, nel 2002, e fece una retata con 140 arresti e altri cento incriminati, e poi ci mise non tre mesi ma tre anni per chiedere il rinvio a giudizio, e tuttavia le cose non andarono bene: 7 condanne 7. Più di duecento assolti! Eppure non gli era mancato il tempo per le indagini preliminari! Infine non dice, o forse non sa, che il nostro codice di procedura stabilisce che il luogo dove si formano le prove è il dibattimento, e non la fase delle indagini preliminari, che devono essere rapide e servire soltanto a verificare la solidità degli indizi. I magistrati che svolgono le indagini preliminari (in condizioni di superiorità rispetto alla difesa) non hanno il compito di raccogliere le prove e consegnarle a un tribunale che ratifichi, ma solo dì formulare l'accusa. La verità è che il mondo della magistratura che gravita attorno all'Anni è scosso per via di questa vicenda-Crocetta, e cioè l'intercettazione che non c'è ma che qualche magistrato ha inventato e passato ai giornalisti dell'Espresso. E invece di prendersela contro l'usanza di adoperare le intercettazioni non per indagare ma per sputtanare la gente, l'Anni se la prende con le mosche bianche che, in Parlamento, cercano di introdurre qualche norma pallidamente garantista che faccia assomigliare la nostra civiltà giuridica a quella degli altri paesi europei (dove, mediamente, il numero delle intercettazioni autorizzate dalla magistratura è 200 volte inferiore a quelle "italiane"). Domenica, "Il Fatto", e cioè lo stesso giornale che ha ospitato Gratteri e che sta guidando, insieme all'Anm, la campagna contro la limitazione delle intercettazioni, faceva squillar la tromba con l'editoriale del direttore. Il quale, senza falsi pudori, faceva notare a Renzi che tutti i governi che sin qui hanno osato mettere in discussione il potere della magistratura (da Amato, a Berlusconi, e di nuovo ad Amato II, e di nuovo a Berlusconi, e poi Prodi e poi ancora Berlusconi) sono stati fatti cadere in pochi giorni, prima che qualunque riforma della giustizia fosse possibile, e sostituiti da governi con ministri della Giustizia più graditi ai magistrati. È vero, è andata proprio come dice Travaglio. Che sì sia trattato di colpo di mano o no è un'altra questione. Giustizia: Dichiarazione dei diritti in Internet, viva un Web non asservito e "stupido" di Massimo Russo La Stampa, 28 luglio 2015 La cosa migliore che può capitare alla Dichiarazione dei diritti in Internet che sarà approvata questa mattina alla Camera è che non serva a nulla. Fuori di paradosso e rubando l'aforisma ad Aristotele, che lo applicava alla filosofia, la carta costituzionale della rete avrà successo se non sarà asservita a nessuno, se non alla volontà di definire Internet come un diritto fondamentale di cittadinanza. Il documento giunge al termine di un anno di lavoro della commissione voluta dalla presidente Laura Boldrini e coordinata da Stefano Rodotà. Di questa commissione hanno fatto parte parlamentari, studiosi, esperti, operatori, rappresentanti delle associazioni. Chi scrive è uno di loro. Come accade nel gioco della democrazia, il risultato è la sintesi di sensibilità molto diverse tra loro - sono felice che alla fine la parola doveri sia stata espunta dal titolo - con differenti obiettivi. C'era chi voleva cogliere l'occasione per dare una lezione alle grandi piattaforme digitali come Google e Facebook, chi si prefiggeva di dar fastidio al governo, chi aspirava solo a tutelare le grandi società telefoniche, chi era in cerca di visibilità personale, chi mirava a riaffermare la centralità del copyright. Tutto questo affiora qui e là nei 14 articoli e in alcuni eccessi, come la disciplina troppo restrittiva del diritto all'oblio o l'individuazione del consenso dei singoli come una base legale insufficiente al trattamento dei dati personali, quasi che lo Stato dovesse proteggerci da noi stessi. Azzardo una facile previsione: queste saranno le parti della dichiarazione che saranno superate più in fretta dalla storia. Ma, grazie al lavoro chiave di alcuni componenti - cito tra tutti Luca De Biase e Juan Carlos De Martin - che hanno asciugato l'articolato e sono riusciti a giungere a una sintesi tra la prima bozza e le 600 osservazioni civiche, alcuni passi sono altrettante pietre miliari. Non per caso, sono anche quelli in cui il linguaggio è più felice. A cominciare dal preambolo, in cui si afferma che "Internet ha contribuito in maniera decisiva a ridefinire lo spazio pubblico e privato", ha consentito lo sviluppo di una società più "aperta e libera" e pertanto deve essere considerata come "una risorsa globale, che risponde al criterio della universalità". Provate a chiedere agli uomini forti di alcuni Paesi vicini come Tayyip Erdogan in Turchia o Viktor Orban in Ungheria se sono d'accordo, e vi renderete conto di quanto queste affermazioni siano necessarie. Lo stesso vale per l'articolo 2, che individua l'accesso a Internet come diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo. Ancora, vanno ricordati il diritto all'identità, alla protezione dell'anonimato - sul quale nemmeno democrazie occidentali come Francia e Inghilterra, vittime dell'ossessione della vigilanza, oggi sarebbero d'accordo - alla tutela dei dati come rispetto di dignità, identità e riservatezza. E se pensiamo a fatti recenti quali l'attacco ad Hacking team, ci rendiamo conto di come oggi la nostra privacy, più che dal grande fratello, sia spesso messa rischio da tanti piccoli fratellini che si intrufolano con disinvoltura nelle nostre vite. Infine, anche la tutela da abusi quali l'incitamento all'odio, nella carta è subordinata all'inammissibilità di limitazioni "alla libertà di manifestazione del pensiero". Ora che succede? La dichiarazione diventerà una mozione del Parlamento e sarà fatta propria dal governo. Rodotà e Tim Berners Lee, l'inventore del web, la porteranno all'Internet governance forum in Brasile a novembre. Il tema del governo è rilevante. Non tanto per creare sovrastrutture inutili, ma perché sia riconosciuto che la ricchezza della rete è nella sua stupidità, nel suo essere infrastruttura acefala. L'intelligenza è ai margini, nei nodi che vi si collegano, che ogni giorno accrescono il corpus di conoscenze collettive con nuovi siti, nuovi link, nuove applicazioni. La tentazione dei governi oggi - dalle democrazie impaurite dal terrorismo fino alla Russia di Putin - è spezzettare Internet in un insieme di reti nazionali, che ognuno di essi possa controllare, con licenza di ficcare il naso nella nostra corrispondenza, di gestire in modo dirigista le linee guida di sviluppo del digitale per favorire i campioni nazionali, invece di mantenere le condizioni di libertà perché ne possano sorgere di nuovi. Una rete stupida e una dichiarazione che non serva sono il meglio che possiamo augurarci per festeggiare i prossimi 25 anni del web. Giustizia: accesso, oblio e garanzie, proposta della Camera per un diritto nuovo sul web di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 A vent'anni dal debutto commerciale della Rete - e dopo che nel 2003 l'Onu l'ha definita "componente essenziale di una società dell'informazione" - per il Web è assolutamente urgente la definizione di un quadro internazionale, e internazionalmente condiviso, di regole. Dal diritto d'accesso alla tutela dei dati personali, dal diritto all'identità al (rischio di) trattamento automatizzato dei dati, la società dell'informazione deve oggi porre al centro del suo sviluppo la persona fisica, difendendola dalle profilazioni, da derive del potere pubblico e dagli abusi dell'enorme potere privato di chi "fa" la rete. È questo il quadro di riflessioni che ha portato alla stesura della "Dichiarazione dei diritti di Internet", promossa dalla presidenza della Camera dei deputati - attraverso una Commissione istituita esattamente un anno fa - e che verrà approvata oggi a Montecitorio. Lo scopo, trasformare il testo di 14 articoli in una mozione in Aula ai primi di settembre, e presentarla poi all'Internet Governance Forum 2015 - che si terrà in Brasile a novembre - insieme a Sir Tim Berners-Lee, ovvero il creatore del Web che lo ideò ormai 40 anni fa. Se la preoccupazione di fondo - e il presupposto - è il riconoscimento e la garanzia dei diritti di ogni persona - estendendo al soggetto "virtuale" le Carte fondamentali della civiltà giuridica -, il problema miliare è l'accesso alla piattaforma globale del web, dove oggi viaggiano praticamente tutte le informazioni, le transazioni e gli archivi dell'umanità. Da qui scaturisce il principio secondo cui "l'accesso a Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo come persona e come soggetto della comunità nella quale vive e opera". Con una immediata conseguenza: che questo diritto deve essere reso effettivo dall'istituzione pubblica, per esempio in materia di digital divide, cioè di accesso a pari condizioni alla rete. Dopo di che la persona/soggetto, per poter sviluppare il proprio senso critico - cioè dar spazio alla propria "personalità - deve sapersi muovere nel "vuoto" digitale in modo "proattivo", distinguendo che cosa è attendibile da che cosa non lo è, ma soprattutto capendo che la Rete è un luogo di incontro di milioni di aventi diritto. Pertanto è indispensabile insegnare in primo luogo il rispetto degli altri e, subito dopo, il riconoscimento del diritto d'autore cioè di proprietà intellettuale dei contenuti. Nella Dichiarazione trova spazio un altro principio portante del web, cioè la "neutralità della Rete" che non può essere assoggettata al controllo preventivo - oggi tecnicamente possibile - degli "smistatori" Internet service provider. Un capitolo molto importante riguarda la tutela dei dati personali, messi fortemente a rischio dalla capacità degli algoritmi di tracciare ogni singola piega delle scelte - cioè del pensiero - di ogni singolo utente. L'aspirazione del regolatore è che ognuno possa sempre avere il controllo di ciò che la Rete sa - e fa - del suo Io virtuale, particolarmente se dietro alla rete ci sarà sempre meno un controllore "umano" e sempre più una somma di algoritmi. Un tema, questo, che porta a scenari da pre-polizia (dal famoso film "Minority Report") dove il riconoscimento della fisionomia delle persone, unito al network sempre più invasivo di telecamere pubbliche e private, rischia di classificare come "devianti" o "pre-delinquenti" inconsapevoli (e incensurate) persone. Paradossalmente la Rete ha però anche bisogno di molto anonimato, specie nelle situazioni in cui regimi politici oppressivi la usino per dare la caccia a dissenzienti, prima ancora che oppositori. E poi ancora il diritto all'oblio (trattato dalla ormai famosa sentenza della Corte di Giustizia su Google Spain), la sicurezza in rete, l'intangibilità degli strumenti personali per l'accesso alla rete (pc, smartphone etc) diritto violabile solo per ragioni di giustizia e solo da un magistrato. Fino al problema dei problemi: il governo della rete. Di fronte ad autorità nazionali disarmate dall'assenza di confini fisici nel web, al cospetto dei detentori di know-how in continuo sviluppo (e spesso sottotraccia) l'unica difesa/armonizzazione possibile è quella di un Regolatore internazionale. Che però, dovendo rispondere a bilanciamenti di enormi interessi finanziari e politici, rischia di nascere "spuntato". Giustizia: la Carta dei Diritti di Internet, in cerca di un equilibrio tra Assange e Google di Giovanni Paglia (Sel) Il Garantista, 28 luglio 2015 La Carta dei Diritti di Internet che presentiamo oggi alla Camera dei deputati costituisce anzitutto una sfida. Una sfida alle spinte contrapposte che animano la discussione intorno al Web e alle sue potenzialità, in particolare sul tema della regolarizzazione. Il lavoro della Commissione presieduta da Stefano Rodotà e fortemente sostenuta da Laura Boldrini si è basato sul metodo del "consensus" tra un gruppo di persone dalle diverse sensibilità politiche e culturali, e l'esito consiste in una cornice ricca e sintetica di diritti fondamentali: all'accesso, all'oblio, alla conoscenza condivisa, all'autodeterminazione informativa, all'inviolabilità dei sistemi e dei dispositivi informatici, a un rapporto corretto e trasparente tra le persone e piattaforme quali i social network, per citare alcuni dei 14 punti che compongono la Carta. In un Paese che, secondo una recente indagine di Demopolis, vede ancora 15 milioni di persone totalmente escluse dal Web, appare particolarmente degno di nota l'articolo 2 che definisce l'accesso ad Internet come "diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale" e che impegna anche le Istituzioni pubbliche a garantire "i necessari interventi per il superamento di ogni forma di divario digitale tra cui quelli determinati dal genere, dalle condizioni economiche oltre che da situazioni di vulnerabilità personale e disabilità". Due problematiche particolarmente avvertite sono state l'esigenza di cominciare ad intaccare lo strapotere delle corporations nonché di garantire un uso consapevole del Web, anche attraverso gli strumenti messi a disposizione dal sistema d'istruzione. Sullo strapotere delle corporations appare pregnante l'articolo sul "Governo della Rete" che si prefigge l'obiettivo di rendere il Web uno spazio effettivamente aperto e democratico anche al fine di "evitare che la sua disciplina dipenda dal potere esercitato da soggetti dotati di maggiore forza economica", e che prevede come qualsiasi innovazione normativa proposta in futuro dal Legislatore debba conformarsi al rispetto dei princìpi, molto avanzati, contenuti nella Carta. Un altro segnale viene dall'indicazione che non possa essere il "trattamento automatizzato dei dati personali" a fungere da base esclusiva per qualsiasi "atto, provvedimento giudiziario o amministrativo" destinato a incidere significativamente sulla vita delle persone; si pensi, al proposito, all'utilizzo spregiudicato che fanno dei nostri dati colossi quali Google e Facebook. La vera novità della stesura definitiva della Carta consiste nell'avere affrontato, a mio parere in maniera equilibrata, l'annoso dilemma del rapporto tra diritto alla conoscenza e diritto d'autore, lì dove si sancisce la priorità, tramite un chiaro principio di gerarchia interna, della "conoscenza in rete intesa come bene accessibile e fruibile da parte di ogni soggetto", dunque un diritto alla conoscenza come interesse supremo e in quanto tale tutelato dalle istituzioni pubbliche, rispetto alla dovuta presa in considerazione degli "interessi morali e materiali legati alla produzione di conoscenze". Da sottolineare, ancora, è il metodo di lavoro adoperato; intorno alla Carta è stato infatti attivato un notevole processo di inclusione: sono stati coinvolti gli stakeholder, cioè i portatori di interesse (enti, istituzioni, imprese, associazioni e cittadini), in quella che è stata una intensa fase di partecipazione che ha visto espresse circa 600 opinioni critiche e informate sulla Carta nonché registrati circa 15mila accessi alla piattaforma di consultazione. Ciò detto, occorre senza dubbio rilanciare certi temi affinché acquistino consistenza normativa e influenzino in maniera permanente e non episodica il dibattito. Quel che ci auguriamo è di intercettare un interesso vivo della politica e del grande pubblico giacché, come ha sostenuto di recente Arturo di Corinto, gli argomenti trattati dalla Carta sono stati costantemente al centro dell'attenzione dei media nel corso degli ultimi tempi oltre a riguardare direttamente la vita quotidiana della stragrande maggioranza della popolazione italiana. Questo nesso stringente tra la nostra elaborazione intellettuale e la realtà dei fatti va però messo a fuoco meglio; come pure va denunciato il ritardo ideologico della sinistra nel comprendere le trasformazioni determinate dalle rivoluzioni della comunicazione e dell'informazione, un ritardo che anche a partire dalla Carta stiamo cominciando a colmare. Bisogna che un lavoro ambizioso e necessario del genere diventi una vera e propria bussola per il Parlamento e per il Governo. Sarebbe il caso infine che ci si occupasse di un problema che va al di là della Carta e che investe in pieno lo spazio della Rete, ovvero il diritto alla distinzione tra l'informazione di qualità e l'informazione spazzatura che sempre più inquina la democrazia, e non stancarsi di sottolineare come l'educazione e l'alfabetizzazione (digitali e non) potrebbero ritagliarsi un ruolo decisivo. Giustizia: reati fiscali, dietrofront del Governo sulla riforma a tempo delle sanzioni penali di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 Dietrofront del Governo sulla riforma a tempo delle sanzioni penali. E se si troveranno le coperture, l'Esecutivo è pronto a superare, già in questa fase di confronto parlamentare con le commissioni Finanze, anche la valenza biennale della revisione delle sanzioni amministrative. L'annuncio è dello stesso viceministro dell'Economia, Luigi Casero, che, aprendo i lavori del seminario di studi organizzato ieri alla Camera sui decreti attuativi della delega in materia di sanzioni, di interpelli e contenzioso, ha voluto subito chiarire l'esatta portata della norma transitoria secondo cui la revisione delle sanzioni penali e amministrative ha validità fino al 31 dicembre 2017. "Un'assurdità logica, prima ancora che giuridica" l'aveva già definita Andrea Bolla, presidente del Comitato Tecnico per il Fisco di Confindustria, precisando che "le esigenze di gettito non possono condizionare la riforma del sistema sanzionatorio". E per sgombrare il campo da ulteriori contestazioni, Casero ha dunque precisato che l'indicazione di una data nella validità della revisione delle sanzioni, "nasce da un errore" del Governo: la validità fino al 31 dicembre 2017 nelle reali intenzioni dell'Esecutivo è legato solo al titolo II del Dlgs e dunque "con riferimento alle sanzioni amministrative e per esigenze di copertura". Questo passaggio, ha osservato ancora il viceministro, "potrà essere superato durante il dibattito", mentre, per quanto riguarda le sanzioni penali, "è da considerarsi già superato". Nessun ripensamento invece sulla cosiddetta "tassa sul bancomat" per le partite Iva come ribattezzata dalla stampa nelle ultime settimane, ma una precisazione della stessa direttrice dell'agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Nel decreto sulle sanzioni, ha spiegato Orlandi "è stata prevista l'eliminazione di una sanzione impropria, molto pesante, collegata alle somme prelevate che non trovano giustificazione in contabilità". Una norma, ha ricordato Orlandi, "oggetto di polemica, ma che in realtà introduce una sanzione proporzionata, con un elemento significativo di attenzione graduato al differente comportamento e che si applica ai soli imprenditori, non essendo la stessa applicabile anche ai professionisti". In particolare, ha spiegato la direttrice, in luogo di una sanzione "rilevante impropria" la nuova sanzione da 10 al 50% dei prelevamenti non giustificati degli imprenditori "non saranno più considerati come ricavi in sede di rettifica, ma saranno esclusivamente colpiti in misura commisurata al loro ammontare". Positivo, invece, per la Guardia di Finanza l'inasprimento delle sanzioni penali per occultamento e distruzione di scritture contabili. Come ha sottolineato il Capo di Stato maggiore delle Fiamme gialle, Giancarlo Pezzuto, dal 1° gennaio 2014 al 30 giugno 2015 la Gdf ha riscontrato ben 2.500 reati. Duro invece l'intervento sul Dlgs sanzioni del Pm ed esperto per questioni societarie della Procura di Milano, Francesco Greco. Il problema, secondo Greco, è capire se il gettito fiscale diminuisce o meno, e "dalle cose che vedo io quando si fanno questi tipi di norme i gettiti diminuiranno, punto". Non solo. La nuova soglia a 250mila euro per gli omessi versamenti secondo Greco è particolarmente elevata e soprattutto vanno distinti i comportamenti dei contribuenti tra "evasione per necessità" e le frodi che vanno sempre sanzionate. Per Confindustria invece, l'introduzione di soglie di non punibilità coglie la necessità di non accanirsi sull'evasione per necessità, ma sarebbe stato opportuno depenalizzare completamente l'omesso versamento. Manca poi un intervento incisivo su regime sanzionatorio applicabile al reverse charge. Per Rete Imprese Italia ben venga la riduzione delle sanzioni per le mancate comunicazioni dei dati ai fini degli studi di settore. Ma artigiani e commercianti dicono no alla tassa sul bancomat. Una misura peggiore della disciplina vigente e una complicazione fiscale da stralciare dal decreto legislativo. Per i commercialisti la revisione delle sanzioni non coglie pienamente "l'intento di attuare i principi di effettività, proporzionalità e certezza della risposta sanzionatoria dell'ordinamento di fronte a condotte illecite". Lo schema di Dlgs, infatti, invece di marcare la specialità delle fattispecie penali rispetto a quelle amministrative, "aumenta il rischio di violazione, da parte del nostro sistema sanzionatorio, del principio del ne bis in idem "sostanziale"". Sul nuovo contenzioso, invece, il presidente del Consiglio della giustizia tributaria, Mario Cavallaro, ha evidenziato le criticità del provvedimento presentato dal Governo: la mancata attuazione del principio della legge delega sulla terzietà dei giudici a partire dal mancato cambio di denominazione delle Commissioni tributarie in Tribunale e corti d'appello tributarie. "Una modifica a costo zero, ha precisato Cavallaro, che potrebbe essere recuperata ora dalle commissioni con l'espressione del parere sul decreto". Giustizia: "diffusione di notizia falsa", indagati a Palermo i giornalisti del caso Crocetta Corriere della Sera, 28 luglio 2015 Arriva una svolta nel giallo della presunta telefonata intercettata tra il medico siciliano Matteo Tutino e l'amico governatore Rosario Crocetta. Quella in cui il primo si sarebbe augurato che Lucia Borsellino, al tempo assessore alla Sanità della Regione siciliana, venisse "fatta fuori come suo padre" incontrando il silenzio da parte del presidente, per questo finito al centro di una vera e propria bufera politica. I due giornalisti palermitani che meno di due settimane fa pubblicarono su l'Espresso la notizia, Piero Messina e Maurizio Zoppi, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Palermo: gli inquirenti, gli stessi che all'indomani della pubblicazione smentirono recisamente l'esistenza di quella intercettazione, seguiti a ruota nei giorni successivi dai colleghi di Caltanissetta e Messina, contestano a entrambi i cronisti il reato di diffusione di notizia falsa. Nei confronti di Messina si procede anche per calunnia: avrebbe indicato un investigatore come fonte della notizia, che però avrebbe negato tutto. I giornalisti, al cui fianco nonostante le smentite giudiziarie si è schierato il settimanale ribadendo l'esistenza dell'intercettazione, sono stati sentiti ieri in Procura assistiti dall'avvocato Fabio Bognanni: entrambi davanti al procuratore capo Francesco Lo Voi e all'aggiunto Leonardo Agueci, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. "Non hanno nessuna registrazione. Quello che hanno fatto a me è terribile", è stato il commento di Rosario Crocetta, che subito dopo la pubblicazione del pezzo su l'Espresso aveva detto di aver pensato al suicidio e di essere stato convinto a desistere solo dalle smentite della Procura. Ma in piena bagarre politica sul destino della sua giunta, il governatore, che ha più volte parlato di tentativo di golpe a mezzo stampa, attraverso il suo avvocato Vincenzo Lo Re ha anche annunciato l'intenzione di chiedere al settimanale un risarcimento danni da dieci milioni di euro. Per giorni la notizia dell'intercettazione ha scatenato roventi reazioni politiche anche nel Partito democratico e gli echi della presunta telefonata sono risuonati alla cerimonia di commemorazione della strage costata la vita al giudice Paolo Borsellino. Dal palco Manfredi, il figlio del magistrato ucciso, poi abbracciato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è lanciato in una accorata difesa della sorella "lasciata sola" dalle istituzioni regionali, ha fatto cenno alla telefonata chiedendo che sul caso i magistrati andassero a fondo. Una sollecitazione venuta anche dai fratelli del giudice assassinato. Ora la svolta giudiziaria sembra andare nel solco di quella richiesta. Ma i due giornalisti indagati dovranno rispondere ora anche all'Ordine professionale siciliano che, in una nota, ha annunciato di averli convocati per avere chiarimenti. Carcere anche sotto il limite fissato dalla riforma della custodia cautelare di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 luglio 2015 n. 32702. La riforma della custodia cautelare, approvata giusto un anno fa, non impedisce al giudice di applicare la misura degli arresti in carcere anche sotto i limiti della pena prevedibile per la fattispecie al suo esame. La Terza penale della Corte di cassazione (sentenza 32702/15, depositata in cancelleria ieri) torna sul tema delle "manette preventive" per delimitare gli effetti dell'intervento legislativo dell'11 agosto scorso (legge 117/14) e per lasciare alla discrezionalità del magistrato la valutazione della necessità di ricorrere, nonostante tutto, alla custodia cautelare in carcere. Il ricorso era stato innescato da un giovane marocchino, indagato per detenzione a fini di spaccio di circa 30 chilogrammi di hascisc. Il Gip di Venezia, prima, e il tribunale del Riesame poi avevano respinto la sua richiesta di applicare la riforma del 2014, richiesta fondata sulle circostanze che, tra la piena confessione dell'arrestato e la valutazione corretta dell'aggravante (non esistente, secondo la difesa, stante il basso principio attivo nella sostanza sequestrata) la pena irrogabile non avrebbe verosimilmente raggiunto i limiti previsti dal nuovo articolo 275 del codice di procedura penale (3 anni), imponendo così l'adozione di una misura alternativa al carcere. La Corte, però, si è pienamente distanziata da questa interpretazione, avallando invece quello che è divenuto così il giudicato interno delle due decisioni di merito. "Il giudice - scrive il relatore nel principio di diritto contestualmente formulato - può prescindere dai limiti di applicabilità della custodia cautelare in carcere (...) come introdotti dall'articolo 8 c.1 del dl 92/14 convertito nella legge 117/2014 quando, ai sensi dell'articolo 275 c.3 del codice di procedura penale, prima parte, ritenga comunque inadeguata ogni misura cautelare meno afflittiva a soddisfare le esigenze cautelari". In sostanza, la Suprema Corte rimette la valutazione con criterio discrezionale al magistrato procedente, mediante un giudizio peraltro non sindacabile in sede di legittimità se non per violazione di legge. Nel caso specifico, tra l'altro, l'indagato aveva reiterato il reato di spaccio mentre si trovava in custodia cautelare (ma ai domiciliari) per un altro procedimento, aggiungendovi, peraltro, un'ulteriore accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Nel dispositivo dell'ordinanza previgente all'indagato era consentito allontanarsi dal domicilio solo per motivi di lavoro, e l'abuso di tale "semilibertà", secondo i giudici di merito, dava abbondante prova "della concreta inidoneità di ogni misura meno afflittiva di quella più grave a contenere il pericolo di reiterazione del reato". Messa alla prova possibile anche quando c'è l'aggravante speciale Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 Corte di cassazione - Quarta sezione penale - Sentenza 27 luglio 2015 - n. 32787. La contestazione di una circostanza aggravante ad effetto speciale non esclude la concessione della messa alla prova. Così la Cassazione ha interpretato la legge 67/2014 nella parte che prevede la messa alla prova in caso di reati con pena non superiore a quattro anni nel massimo. Secondo il gup, il cui provvedimento è stato cassato, l'aggravante della cessione di droga a minori avrebbe potuto far superare questo limite. Ma per la Corte la legge non parla delle aggravanti e ha lo scopo di decongestionare il contenzioso penale. Discarica abusiva per l'accumulo di ingenti quantità di rifiuti edili di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2015 Tribunale di Cassino - Sentenza del 26 gennaio 2015 n. 1342. In mancanza di autorizzazione alle operazioni di recupero, ex articolo 208 Dlgs n. 152/2006, l'attività di versamento, accumulo, spandimento e comunque di gestione di ingenti, quantitativi di rifiuti inerti provenienti da demolizioni edili, integra l'ipotesi del reato di discarica abusiva. Lo ha stabilito il Tribunale di Cassino con la sentenza del 26 gennaio 2015 n. 1342. Il giudice, infatti, ha ritenuto provato al di là di ogni ragionevole dubbio che sul sito, ubicato nella frazione di San Clemente, erano stati accumulati circa 2.525 metri cubi di brecciame e materiale pietroso, costituenti rifiuti provenienti da altre zone. E che tali rifiuti da demolizione erano di incerta provenienza e privi della necessaria autorizzazione regionale (di cui all'articolo 208 Dlgs n. 152/2006) per la successiva gestione e trasformazione a fini di recupero. Spiega, infatti, la sentenza che devono ritenersi sicuramente assoggettati al procedimento di autorizzazione "gli impianti mobili adibiti alla macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti prodotti da cantieri edili di demolizione, in quanto non possono essere considerati impianti che effettuano una semplice riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, essendo essi impiegati per effettuare un'operazione "di trattamento"". Non può dirsi, invece, sussistente il reato di abbandono incontrollato di rifiuti, non essendo emersa la prova che i rifiuti depositati e trattati fossero prodotti dalla stessa società che gestiva il sito. Anzi, dagli atti risulta che i materiali erano stati prodotti e depositati da altra ditta. Non può dirsi nemmeno sussistente la fattispecie di deposito temporaneo, in quanto per esso si intende "ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle condizioni dettate dall'articolo 183 Dlgs n. 152 del 2006". Con la conseguenza che, in difetto anche di uno dei requisiti normativi, il deposito non può ritenersi temporaneo, ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come "deposito preliminare" (se il collocamento di rifiuti è prodromico ad un'operazione di smaltimento), come "messa in riserva" (se il materiale è in attesa di un'operazione di recupero), come "abbandono" (quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero) o come "discarica abusiva" (nell'ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi). Infine, quanto alla riconducibilità all'imputato del materiale, la sentenza rifacendosi ad un principio di legittimità, ricorda che: "l'amministratore di diritto di una società risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sul primo, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto". Lettere: il mio duello con Luigi Pagano di Luigi Manconi (Senatore Pd) Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2015 Capisco che l'immagine possa risultare un po' enfatica (oltre che consunta per l'abuso che se ne fa), ma l'evocazione de "I duellanti" a proposito del mio rapporto con Luigi Pagano è davvero pertinente. Luigi Pagano, dopo una lunga carriera nell'amministrazione penitenziaria, che l'ha portato fino al ruolo di vice-capo, ora è tornato al lavoro in carcere. É diventato il provveditore regionale del Piemonte e riprende di conseguenza le sue funzioni a contatto diretto con i detenuti di una regione difficile. Insomma, ritorna "un po' più sbirro". Ecco, anche se all'inizio forse se ne adonterà un po', quella è la parola giusta. Sbirro: perché Pagano, a differenza di molti (anche suoi colleghi) non è ipocrita. É franco e leale (oltre che suscettibile e incazzoso) e, dunque non ha mai finto di essere diverso da quello che è. Per capirci: non ha mai dato a intendere di essere un rivoluzionario che, condizionato dalle situazioni miserevoli del nostro Sud, è stato costretto a entrare nell'amministrazione pubblica e, in particolare in quella penitenziaria. Invece, che so, di iscriversi ad Architettura a Roma o al Dams di Bologna. No. Pagano ha scelto di fare il direttore di carcere: certo democratico, addirittura di sinistra, ma direttore di carcere. E francamente non sarei voluto essere uno dei suoi detenuti quando era vicedirettore all'Asinara o a Badu e carros. Questo ha contribuito al nostro rapporto perché, sin dall'inizio, ha evidenziato le profonde differenze tra noi e reso più limpide e, allo stesso tempo, più intense e impegnative le relazioni tra noi. Per questo ho evocato "I duellanti". Tutti conoscono la vicenda raccontata nel romanzo di Joseph Conrad, poi portata sugli schermi dal film di Ridley Scott. La storia è quella di due ufficiali dell'esercito napoleonico che si rincorrono per quasi due decenni, sfidandosi a duello ogni volta che le loro strade si incrociano, nelle varie tappe della guerra tra Francia e Gran Bretagna: da Strasburgo ad Augusta alla Russia. Una ostilità prolungata tanto a lungo da risultare, infine, un legame contraddittorio e indissolubile. Dunque, io ho duellato con Pagano quand'era direttore di San Vittore, poi Provveditore regionale della Lombardia, infine vice capo dell'Amministrazione penitenziaria a Roma. E ora mi accingo a duellare con lui, se necessario, a proposito dei detenuti di cui è direttamente responsabile, ovvero quelli reclusi negli istituti del Piemonte. Il fatto è che io e Pagano siamo due riformisti: lui - com'è giusto che sia - un riformista cauto e prudente che ama l'istituzione e vi si identifica (anche quando la critica radicalmente); io sono un riformista extraistituzionale che ritiene necessario adottare un punto di vista estraneo al sistema e al linguaggio dell'amministrazione per introdurre in quella stessa amministrazione un po', giusto un po', di modeste riforme. É evidente che, al di là delle apparenze, i nostri punti di vista siano, per molti versi, coincidenti ma, per altrettanti, acutamente divergenti. Il che si deve, in primo luogo, al fatto che Pagano è - senza alcuna retorica - un servitore dello Stato consapevole di esserlo, con tutto ciò di buono e di cattivo questo possa comportare. Ma voglio ricordare due esempi di vero e proprio riformismo che devono moltissimo a Luigi Pagano. Il primo è l'apertura a Milano di un Istituto di custodia attenuata per detenute madri, il primo in Italia, che rassomigliava a quelle case famiglia protette alle quali proprio in queste ore si sta lavorando (e, per una volta, sembra possa ottenersi qualche risultato). Il secondo esempio riguarda il carcere di Bollate, forse l'unico "davvero riformato" dell'intero circuito penitenziario italiano. Se quell'istituito rappresenta tutt'ora una grande esperienza trattamentale lo si deve a due persone: all'allora direttrice Lucia Castellano e a Luigi Pagano, all'epoca provveditore lombardo che lo "protesse" da mille attacchi e da mille contestazioni, che ne volevano la fine prematura. Se non è andata così il merito va riconosciuto ampiamente a Luigi Pagano. Adesso che inizia un nuovo percorso, gli voglio dire: non pensare di passarla liscia. Qui con la sciabola o con la pistola (ad acqua, va da sé), ti aspettiamo a piè fermo, per ricominciare il duello. Vinca il migliore. Luigi Manconi Post scriptum. Forse tra le ragioni che hanno rafforzato il legame controverso tra me e Pagano c'è il fatto che, per entrambi, la canzone cult è "Guapparia". Lettere: quelle intercettazioni che ci rivelano la realtà di Dacia Maraini Corriere della Sera, 28 luglio 2015 Veramente pensiamo che le intercettazioni siano un pericolo per la società italiana? Veramente riteniamo che sia un abuso leggere sui giornali ciò che pensano e si dicono in privato coloro che passano la vita ad architettare inganni e abusi ai danni degli altri? L'uso fraudolento delle intercettazioni è già punito per legge. C'è bisogno ora di un'altra legge specifica, diretta principalmente ai giornalisti che fanno, a volte con pericolo della vita, il proprio dovere di cronaca? Chi difende la cosiddetta privacy, parte dal presupposto che la vita delle persone che maneggiano denaro pubblico, che portano la responsabilità di una delega, sia divisa in due: da una parte l'individuo riconosciuto, che deve essere creduto per quello che dice in pubblico e dall'altra l'uomo privato che è libero di frequentare gente della malavita, calunniare, raccomandare le sue amanti, favorire gli affari dei suoi amici. Ma sono veramente due spazi distinti? Colui che si occupa delle cose pubbliche non dovrebbe piuttosto essere una sola persona, le cui azioni corrispondano alle idee che propugna? Chi manovra i soldi degli altri, chi esplica una delega, chi ha delle responsabilità pubbliche, non può coltivare segreti, nemmeno privati, proprio perché è la sua persona in toto che deve creare fiducia e affidabilità. Troppo comodo pretendere che le proprie parole siano trasmesse attraverso i mezzi di comunicazione nazionali e poi reclamare che alcune cose, dette al telefono con gli amici, (che spesso risultano in realtà complici), non siano ascoltate da orecchie indiscrete! In una società in cui la sincerità è considerata un valore assoluto, in cui la menzogna è un delitto da punire, capisco che il privato possa essere tutelato più severamente. Ma in un Paese di sinistre complicità e fumosi silenzi che coprono delitti giacenti insoluti da anni, in cui prevalgono le doppie vite, le doppie dichiarazioni al fisco, le infinite omertà, se la verità può essere conosciuta solo carpendola attraverso spie telefoniche, crediamo davvero che questo danneggi la comunità? Non sapremmo niente di chi ha approfittato della ricostruzione dell'Aquila, tanto per fare un esempio, non sapremmo niente dei gestori dell'ospedale Santa Rita di Milano dove i medici facevano operazioni inutili per soldi, non sapremmo niente degli abusi di Venezia e di Roma Capitale se non ci fossero state le intercettazioni. Infatti i magistrati le difendono. I manipolatori di soldi pubblici, le rifiutano. Indovinate perché. Ancona: detenuto di 34 anni morto in cella, aperta un'inchiesta per omicidio colposo anconatoday.it, 28 luglio 2015 La Procura ha già avuto modo di entrare in possesso delle cartelle cliniche e della folta documentazione medica riguardante l'uomo. Documenti che hanno sempre portato a concludere che Zoppi fosse compatibile con la detenzione in carcere. La Procura apre un'inchiesta sulla morte di Daniele Zoppi, il 34enne anconetano deceduto in carcere giovedì scorso dopo aver avuto un malore. Non sono ancora arrivati i risultati dell'autopsia svolta sabato mattina sul cadavere dell'uomo, ma sembrerebbe confermato il fatto che sia morto per cause naturali. Un decesso che comunque ha portato l'avvocato Luca Bartolini a presentare un esposto alla Procura di Ancona, mentre il pm Paolo Gubinelli ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti. E se l'avvocato è convinto che Zoppi non doveva stare in carcere per motivi di salute, è anche vero che il medico del carcere aveva seguito per anni l'anconetano, accusato di traffico di stupefacenti e truffa. La Procura ha già avuto modo di entrare in possesso delle tante cartelle cliniche e di una folta documentazione medica riguardante l'uomo con gravi problemi di obesità. Carte che però hanno sempre portato a concludere che, nonostante tutto, la condizione di Zoppi fosse compatibile con le condizioni della detenzione in carcere. Ma a fare luce su questo potrà essere solo l'inchiesta. Ancona: Antigone; morti in carcere non frutto imponderabilità, ma errori di valutazione vivereancona.it, 28 luglio 2015 L'Associazione Antigone Marche in merito alla morte di un detenuto di 34 anni nel carcere di Montacuto. "Non è il frutto dell'imponderabile, ma di errori di valutazione. Una persona in carcere, infatti, è sempre sotto controllo". L'associazione Antigone per i diritti nel sistema penale, dopo il caso del detenuto di trentaquattro anni deceduto pochi giorni fa nella casa circondariale di Montacuto, nonostante fosse gravemente malato e avesse fatto più volte istanza di trasferimento, sempre rigettata, pone l'attenzione su una situazione di grave insufficienza dell'operato delle varie istituzioni Istituti penitenziari (Ministero della Giustizia), Sistema Sanitario Nazionale (Regione) e Magistratura. hanno una precisa responsabilità sui detenuti. "Una persona in carcere è costantemente sotto controllo - afferma Antigone - per cui la sua morte non può essere attribuita all'imponderabile o all'inevitabile. Tanto meno nel caso di Daniele Zoppi, le cui istanze di essere trasferito in un centro clinico sono state ripetutamente rigettate". Dall'inizio del 2015 le persone morte nelle carceri italiane sono 64, di cui 24 per suicidio: nelle prigioni del nostro Paese si muore, nonostante la pena di morte sia stata prima abolita nel 1889 in tutto il Regno di Italia e poi, dopo il ventennio che l'aveva reintrodotta, definitivamente abrogata con la Costituzione. "Una persona malata ha diritto di essere curata in un ospedale o in un centro clinico e, se in condizioni disperate, ha diritto di morire a casa propria" continua ancora Antigone che ricorda di aver "documentato e denunciato la presenza in carcere di soggetti in condizioni di salute, psichica e fisica, apparentemente incompatibili con la detenzione o che comunque richiedono cautele superiori a quelle apprestate dal sistema penitenziario. Abbiamo denunciato anche l'incapacità dimostrata dal Ssn, ad oggi, di farsi carico della specificità della medicina penitenziaria e abbiamo ripetutamente chiesto sia chiarimenti sia incontri con i responsabili della sanità penitenziaria ai vari livelli senza aver ottenuto riscontro alcuno". Un confronto, invece, sempre più necessario per l'associazione, visto che le problematicità non riguardano solo i casi maggiormente critici, ma anche le più comuni e quotidiane esigenze, da quelle odontoiatriche a quelle ortopediche. Un confronto doveroso, visto la legge Italiana risulta prevede che le persone private della libertà personale hanno diritto agli stessi standard di assistenza sanitaria assicurati a tutti i cittadini. Bollate (Mi): "malore fatale", muore in carcere 71enne ex consigliere comunale di Merate di Daniele De Salvo Il Giorno, 28 luglio 2015 Massimo Bonanomi aveva 71 anni e a febbraio aveva patteggiato tre anni per atti sessuali su bambine che non aveva mai toccato. Dopo l'arresto e la carcerazione il suo avvocato difensore aveva subito presentato domanda per una pena alternativa alla prigione sia per l'età sia per i problemi di salute di cui soffriva, ma ormai è tardi, l'istanza non verrà mai esaminata. Massimo Bonanomi, Mino come lo chiamavano tutti, settantunenne di Merate, ex consigliere comunale, è morto ieri sera, domenica, nel penitenziario di Bollate, dove era stato trasferito di recente da quello di Lecco, stroncato da un malore. A lanciare l'allarme è stato un altro detenuto, suo compagno di cella. Gli agenti della polizia penitenziaria gli hanno subito prestato i primi soccorsi, poi il trasferimento d'urgenza al più vicino ospedale, ma non è servito a nulla. Sulla vicenda è stata aperta un'inchiesta d'ufficio. Non è stata ancora disposta l'autopsia e quindi non si conosce ancora la data delle esequie. Il pensionato era molto noto in città, soprattutto nelle frazione di Pagnano, dove abitava non solo per i trascorsi nell'amministrazione comunale, ma anche per il suo impegno sociale e civile nel centro parrocchiale giovanile e nell'organizzazione della festa patronale di San Giuseppe di Cicognola. A febbraio aveva patteggiato una condanna a tre anni di reclusione per atti sessuali su tre bambine, che non aveva sfiorato ma alle quali aveva riservato attenzioni particolari. Per complessi meccanismi normativi, avendo scelto di assumersi tutte le sue responsabilità senza presentare ricorso in Appello, sebbene per lui fossero stati previsti i domiciliari, nonostante l'età e alcuni disturbi fisici, a maggio per lui si erano aperte le porte del carcere, dal quale è uscito solo su una barella e privo di vita. La notizia è stata confermata anche dal suo legale di fiducia Massimo Tebaldi che per lui aveva sollecitato appunto la scarcerazione perché le condizioni di reclusione non sarebbero state compatibili con il suo stato di salute. Santa Maria Capua Vetere (Ce): Ucpi; detenuti senza acqua è una pena aggiuntiva Ansa, 28 luglio 2015 "In alcune carceri si sta vivendo un ‘emergenza idrica drammatica", come a "Santa Maria Capua Vetere, dove il disumano disagio è endemico. La soluzione del problema dovrebbe vedere coinvolti i Ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture, nonché gli Enti Locali"; e invece "sono anni che non si raggiunge un risultato non solo vitale e urgente, ma doveroso e imprescindibile per un Paese Civile". A protestare le per la situazione, ma anche per lo scarso rilievo dato alla notizia dalla stampa, è l'Osservatorio Carcere dell'Unione delle Camere penali. La casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere "è di recente costruzione, ma il progetto non ha tenuto conto dell'assenza dell'allacciamento idrico - racconta il responsabile dell'Osservatorio Riccardo Polidoro - Ospita 1.100 detenuti, mentre la capienza regolamentare è di 833 unità. Al sovraffollamento dunque, si aggiunge l'ulteriore sanzione, anch'essa non prevista dalla Legge, della privazione del bene primario per eccellenza che è l'acqua". "La Direzione del carcere, ogni anno d'estate, è costretta a ricorrere a misure d'urgenza per tamponare una situazione d'incivile malessere che coinvolge lo stesso personale dell'amministrazione penitenziaria, per l'esasperazione dei detenuti. L'acqua necessaria viene prelevata da un pozzo semi-artesiano e filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione. Il rimedio consente docce razionate, acqua corrente a singhiozzo, ma lascia elevato il rischio di problemi igienici e di malattie. Si pensi - fa notare Polidoro - alla pulizia di una cucina che deve servire migliaia di pasti!". Santa Maria Capua Vetere (Ce): crisi idrica in carcere, detenuti chiedono sconto di pena di Biagio Salvati Il Mattino, 28 luglio 2015 Una richiesta di sconto di pena di un giorno per ogni 10 passati in carcere o un risarcimento di 8 euro giornalieri, così come prevede un preciso articolo dell'Ordinamento Penitenziario sulla base della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati. È questa la provocatoria forma di protesta adottata dai 1.050 detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, illustrata dalla Camera Penale presieduta dall'avvocato Romolo Vignola, venerdì scorso e ribadita ieri da Riccardo Polidoro, responsabile dell'Osservatorio Carceri dell'Unione Camere Penali, riferendosi alla situazione che stanno vivendo ("come ogni estate") gli oltre mille reclusi del carcere sammaritano, il cui impianto non è mai stato allacciato alla rete idrica esterna. Per questo - ricorda Polidoro - i detenuti hanno firmato un'istanza, indirizzata al magistrato di sorveglianza, con la richiesta di risarcimento per le loro "condizioni disumane e degradanti". "Alcuni media si preoccupano degli shampoo dei vip a Capri mentre a Santa Maria Capua Vetere il disumano disagio dei detenuti per l'assenza dell'acqua è endemico. Se mancasse l'acqua in un ospedale, i media insorgerebbero, si griderebbe allo scandalo, si valuterebbero responsabilità politi che, i parenti dei degenti s'incatenerebbero sotto il nosocomio, avendo la totale solidarietà dell'opinione pubblica, oggi preoccupata dello shampoo dei vip", osserva Polidoro riferendosi all'attenzione mediatica sul caso di Capri, dove mancando l'acqua per alcune ore, i parrucchieri sono stati costretti a fare gli shampoo con la minerale. "L'acqua a Capri è tornata a sgorgare dai rubinetti, tranquillizza l'avvocato - Non così in alcuni istituti di pena e soprattutto a Santa Maria Capua Vetere, dove il disumano disagio è endemico". I penalisti sammaritani e l'ordine forense avevano chiesto l'attenzione su imo scandalo che da anni passa inosservato, nonostante lo sforzo operativo che la direzione del penitenziario - rappresentata da Callotta Giaquinto - da anni mette in campo per utilizzando autobotti esterne che, purtroppo, incidono sui costi. "Ogni giorno - aveva spiegato il penalista Nicola Garofalo, a capo della commissione per i diritti dei detenuti della Camera Penale - il Dap spende parecchi euro per acquistale l'acqua da imprenditori privali: due litri di acqua vengono distribuiti ad ogni detenuto per bere, il resto arriva con le autobotti che riempiono il pozzo che alimenta il carcere". Brescia: Fp-Cgil; al carcere di Verziano, detenuti e agenti costretti a inalare gas tossici quibrescia.it, 28 luglio 2015 Costretti a respirare gas tossici, proprio come i detenuti che devono sorvegliare. Lo denuncia La Fp-Cgil di Brescia, raccogliendo le lamentele di alcuni agenti della Polizia penitenziaria impegnata a Verziano, in città. "I poliziotti penitenziari addetti alla sorveglianza della cucina detenuti, come anche i detenuti medesimi che prestano la loro attività come cucinieri", si legge in una nota, "sono letteralmente costretti a respirare i gas tossici, acidi e nocivi esalati dai prodotti impiegati nella pulizia dei predetti locali. Gli aspiratori presenti nei locali della cucina detenuti non funzionano da mesi, costringendo i lavoratori a respirare gas nocivi per la salute umana. Nonostante le varie segnalazioni poste in essere dal personale preposto alla sorveglianza in quei locali, la Direzione del carcere non ha intrapreso nessuna iniziativa, sembrerebbe, per mancanza di fondi. Forse il diritto alla salute, come anche la stessa vita dei lavoratori e quindi l'osservanza delle leggi come il D.lgs. 81/2008, non è un diritto inalienabile, sancito dalla Carta Costituzionale, ma subordinato allo stanziamento di qualche centinaio di euro, tanto quanto basterebbe per riparare gli aspiratori e quindi rendendo respirabile l'aria all'interno della cucina detenuti". L'Amministrazione Penitenziaria Regionale, la Direzione del carcere, chiamati in causa dalla Cgil, già da una settimana, non hanno intrapreso nessuna iniziativa. "L'Asl, in risposta alla nota della Cgil", prosegue la nota sindacale, "ha chiesto l'impegno dell'amministrazione a provvedere con urgenza. La Fp Cgil si è rivolta, con nota formale, direttamente al Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Presidente Santi Consolo, non solo per denunciare la gravissima situazione creatasi all'interno dell'Istituto Penitenziario di Verziano, ma anche per rilevare una condotta omissiva da parte degli uffici periferici dell'Amministrazione Penitenziaria regionali e bresciani, preannunciando che nel caso accadesse qualche grave fatto di malessere nei confronti di qualche lavoratore a causa dell'inalazione dei gas tossici la Camera del Lavoro non esiterà a denunciare la questione alla Procura della Repubblica nei confronti di tutti quei attori che nella questione hanno dirette responsabilità". Sanremo (Im): Sappe; da due mesi l'istituto penitenziario ospita detenuti psicolabili sanremonews.it, 28 luglio 2015 "Da circa due mesi l'istituto penitenziario ospita una serie di detenuti psicolabili a forte rischio di autolesionismo continuo, tra questi un extracomunitario davvero particolare nella sua gestione". Il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe, interviene nuovamente sulla gestione dei detenuti in carcere a Sanremo: "Da circa due mesi l'istituto penitenziario ospita una serie di detenuti psicolabili a forte rischio di autolesionismo continuo, tra questi un extracomunitario davvero particolare nella sua gestione, giunto a Sanremo e già ospite precedentemente di una ventina di sedi dove è sempre stato spedito via quale persona indesiderata. La polizia penitenziaria è davvero sfiancata da comportamenti caparbi e da gesti autolesionistici che per qualsivoglia scusa vengono posti in essere da questo recluso, peraltro ad assistere ai continui e costanti tagli su varie parti del corpo vi sono operatori di polizia davvero inermi in quanto il soggetto in questione pare pericoloso anche sotto l'aspetto di particolari e critiche affezioni patologiche". "Non riusciamo a comprendere - prosegue il Sappe - come si possa latitare e fingere che non ci sia un problema gestionale di questi tipi di detenuti, infatti riteniamo la Casa Circondariale di Sanremo totalmente non idonea a fronteggiare servizi di sicurezza a carico di psicolabili mentali. La gestione è a dir poco improvvisata, non vi sono celle adatte a poter fare della sicurezza con l'ausilio di tecnologie innovative così come pare esistere in altre sedi. Sanremo appare mille anni luce lontana dalla vera realtà penitenziaria che si continua a vivere al momento, l'istituto in questione per assurdo è la struttura più recente della regione, ma molto obsoleta e trapassata nella concezione lavorativa. Per questo riteniamo la struttura tra le peggiori in fatto di organizzazione e ammodernamento strutturale. Tra tutto questo marasma e la questione sollevata, non riusciamo a concepire come possa accadere che l'istituto resti per giorni sguarnito di Direttore e Comandante di reparto, casualmente assenti per l'ennesima volta entrambi per ferie". "La Polizia Penitenziaria sanremese - va avanti il Sappe - al momento è lasciata in mano ad un solo Commissario donna del Corpo, che guarda caso per impartiti ordini superiori, nella giornata di ieri si è dovuta sobbarcare anche l'istituto di Imperia lasciando per ore l'assenza totale dei vertici in quel di Sanremo, nonostante fosse un istituto con maggiore portata numerica di detenuti e con reparti di Alta Sicurezza. Come Sappe informeremo il Dipartimento di questa scellerata gestione fatta di improvvisazioni e menefreghismo, soprattutto dove è scarso il pensiero e la considerazione rivolta al personale impegnato 24 ore su 24 all'interno dei reparti, la polizia penitenziaria di Sanremo ha urgente bisogno di organizzazione e di una guida ferma e costante, chi non ha voglia oppure crede di buttare solo fumo negli occhi dei dipendenti, si faccia da parte, anzi gli è sufficiente alzare bandiera bianca e cedere il passo". "Siamo come si suole dire, davvero alla frutta - termina il Sappe - quando non si riesce a movimentare un detenuto che da solo vale per 10 e non si prende atto di quanto scompiglio stesse creando, allora diciamo riportateci nella realtà, le fiabe le abbiamo già lette da tempo". Modena: Sappe; due ispettori di Polizia penitenziaria aggrediti da un detenuto Adnkronos, 28 luglio 2015 Due ispettori della Polizia penitenziaria sono stati aggrediti oggi nel carcere di Modena da un detenuto nigeriano. A riferirlo il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). "La situazione nel carcere di Modena - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale - è ormai ingestibile e rischia di sfuggire al controllo. Ancora oggi un'altra aggressione nei confronti del personale di polizia penitenziaria". Secondo il Sappe "due ispettori hanno accompagnato in infermeria un detenuto nigeriano, il quale aveva detto di sentirsi male, ma, da quello che è accaduto, probabilmente non stava così male. Infatti, l'uomo, appena giunti in infermeria, ha aggredito i due ispettori che, con l'aiuto di un agente, hanno fatto fatica a ricondurlo alla calma. Uno degli ispettori e l'assistente sono stati curati in ospedale ed hanno avuto una prognosi di cinque e sette giorni, mentre l'altro ispettore deve essere ancora sottoposto a visita medica". Ques'ultimo episodio, denunciano Durante e Campobasso, "si aggiunge a quelli dei giorni scorsi ed è sintomatico di una situazione ormai difficile da gestire, poiché i detenuti sembrano convinti di poter fare ciò che vogliono, senza gravi conseguenze". "I detenuti che nei giorni scorsi si sono resi responsabili di aggressioni al personale continuano a permanere nel regime aperto. Riteniamo che andrebbero comunque trasferiti in altra struttura e - concludono i sindacalisti - ribadiamo la necessità di un'ispezione nel carcere di Modena, al fine di verificare l'organizzazione dell'istituto stesso". San Gimignano (Si): teatro per detenuti e non, incontri per un progetto di Officine d'Elsa gonews.it, 28 luglio 2015 "Non crediamo nel concetto di "teatro sociale" o "teatro terapeutico" più in genere non crediamo molto negli aggettivi che vengono collegati al termine teatro. Il teatro è una pratica artigianale per la produzione di spettacoli; ed ogniqualvolta viene posto un obiettivo primario differente da questo esso viene snaturato e snaturata è anche la sua reale efficacia all'interno della vita di chi lo pratica - dice Francesco Chiantese, direttore artistico del progetto Officine d'Elsa e formatore in questo ciclo di incontri - il teatro, infatti, nella sua pratica ordinaria costringe l'artigiano attore o l'apprendista a dialogare con se stesso, acquisire consapevolezza del suo passato, costruire un immaginario sul proprio futuro, ma ponendo tutta la propria attenzione al presente, all'hic et nunc che è la sua caratteristica fondante; allo s tesso tempo educa alla costrizione di relazioni efficaci basate sul dono di se, in quanto il teatro è artigianato delle relazioni. Se noi però ponessimo attenzione a questi obiettivi secondari, a queste conseguenze della pratica teatrale, allora il teatro diverrebbe altro, una forma di terapia, che non ha più nulla della sua vera natura e quindi non da più nulla della sua reale efficacia. Il nostro obbiettivo, come gruppo di lavoro, è accompagnare il teatro ad incontrare la cittadinanza; il motivo per cui nasce questo progetto è quello di poter dialogare con quella parte di cittadinanza che è all'interno della struttura carceraria. Non dialogare con loro è per noi negarci una parte di comunità ed abbiamo bisogno del dialogo con tutti i cittadini per far crescere e maturare il nostro teatro." L'idea centrale del progetto è mettere in dialogo le due cittadinanze, quella che vive all'interno della casa di reclusione di San Gimignano (che si trova in località Ranza) e quella che vive nella Val d'Elsa senese, e soprattutto lavorare assieme attorno al concetto di "confine". Entrambe i gruppi si troveranno a confrontarsi con un confine reale, quello che divide le due comunità, e ad affrontare e risolvere in pochi incontri il problema centrale: essere stranieri gli uni agli altri. Gli incontri sono aperti ad otto detenuti di media sicurezza e a cinque allievi attori e saranno finalizzati alla realizzazione di una breve performance "studio" sul tema proposto. Per poter partecipare occorre inviare una mail a formazione@officinedelsa.eu. Ancona: teatro-carcere, il 28 luglio a Montacuto va in scena lo spettacolo "Passione" di Ufficio Stampa Teatro Aenigma Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2015 Una libera ricerca intorno alla teatralità del canto. Esito conclusivo dell'attività teatrale all'interno delle sezioni "comuni" della Casa Circondariale di Ancona Montacuto. Sono 7 i detenuti attori che andranno in scena domani, martedì 28 luglio alle ore 14.00 nella sala polivalente, adibita a teatro, della Casa Circondariale di Montacuto. Davide, Robertino, Cataldo, Ciro, Giovanni, Guido, Mimmo: con loro reciterà anche l'attore Paolo Polverini, co-conduttore del laboratorio teatrale che si è tenuto da febbraio scorso e che ha coinvolto una ventina di partecipanti delle sezioni "comuni", molti dei quali usciti in libertà nel corso degli ultimi mesi (l'ultimo, due giorni fa, mentre era in corso una prova generale dello spettacolo). La prova è ambiziosa: come sceneggiare il bel canto partendo dalle emozioni che i vari autori dei testi selezionati hanno voluto trasmetterci? La scelta non poteva che cadere sulla tradizione napoletana, che vanta un lungo susseguirsi di interpreti, impegnati in particolare nel filone della "Sceneggiata" molto fiorente negli anni Venti, con un revival negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Stimolante è stato anche il contributo del musicista e compositore Andrea Celidoni, che da anni conduce in carcere, come volontario, un corso di chitarra e che quest'anno ha finalizzato i suoi incontri allo sviluppo di riflessioni sul potere evocativo della musica e del canto, anche in relazione ai vissuti personali dei partecipanti. Molte le canzoni ispirate al vissuto all'interno del carcere, alle speranze, alla nostalgia degli affetti famigliari, alla valorizzazione della solidarietà in situazione di privazione della libertà personale. Tra tutte spicca la canzone "Passione eterna" di Mario Merola, proposta da uno dei partecipanti e poi condivisa da tutti, fino a suggerire il titolo dello spettacolo. Una passione che va ben oltre le istanze espresse dall'autore napoletano, fino a diventare simbolo di una "rinascita" attraverso la riscoperta, in carcere, di forti motivazioni per un ritorno ad una vita di valori, dove ritrovano posto l'istruzione, la poesia, la fede. Il teatro diventa così veicolo di profondo ascolto delle istanze più profonde dell'animo umano. A condurre il laboratorio e la regia dello spettacolo, Vito Minoia, studioso di teatro educativo inclusivo, direttore del Teatro Aenigma all'Università di Urbino. Si ringraziano la direzione e l'area trattamentale della Casa Circondariale di Ancona Montacuto per aver reso possibile il progetto, attuato grazie al sostegno della Legge Regionale 28/08 (interventi in materia penitenziaria) a cura dell'Assessorato ai Servizi Sociali della Regione Marche. Nel corso del prossimo autunno si prevede di portare a conclusione un secondo laboratorio rivolto ai detenuti reclusi nelle sezioni di Alta Sicurezza dell'istituto penitenziario anconetano, attualmente impegnati in una elaborazione scenica ispirata al testo "Quinto piano, ti saluto!" di Eduardo De Filippo. Immigrazione: nel Cie di Torino condizioni igieniche al collasso, Sel regala asciugamani di Valentina Ferrero torinotoday.it, 28 luglio 2015 Secondo i dati della questura, fra gli 81 detenuti per la maggior parte rinchiusi per assenza di documenti, sarebbero 15 coloro che hanno fatto richiesta di asilo politico. Cibo scadente e sempre identico, lenzuola monouso in carta che durano poco più di una settimana, condizioni igieniche pessime, con bagni addirittura senza porte. Sono queste le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti del Cie, il centro di identificazione ed espulsione di corso Brunelleschi dove sono trattenuti gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione e/o di respingimento. A denunciare la situazione, già ampiamente risaputa, è in particolare il consigliere regionale di Sel Marco Grimaldi che in queste settimane ha effettuato un sopralluogo presso il centro per verificare la situazione e le condizioni dei detenuti. Stanze prive di finestre, nessun frigo per conservare cibi e bevande, nessun asciugamano in dotazione. Una situazione, quella dei detenuti del Cie, che rischia di arrivare presto al collasso. Grimaldi e suoi sono tornati al centro di espulsione di corso Brunelleschi con 100 asciugamani, raccolti fra i militanti e le militanti di Sinistra Ecologia Libertà: più del numero dei detenuti al Cie che sono 81. Ogni persona avrà finalmente il suo asciugamano e potrà decidere di riconsegnarlo a fine detenzione, per lasciarlo a disposizione di altri detenuti. "La Regione, su nostra proposta, ha chiesto mesi fa l'immediata chiusura del centro di corso Brunelleschi e la cancellazione della legge Bossi-Fini - ha affermato Marco Grimaldi -. Ancora nulla si è mosso, nessun segnale è giunto dal Governo. I Cie sono fra i più grandi fallimenti della nostra recente storia. Un'orrenda vicenda italiana dentro una catastrofe europea e mondiale". Lo scorso febbraio, infatti, il Consiglio regionale aveva approvato a larga maggioranza una mozione di Sel che impegnava la Giunta a reclamare ufficialmente al Governo la chiusura del Cie di Corso Brunelleschi nel più breve tempo possibile. Secondo i dati della questura, fra gli 81 detenuti per la maggior parte rinchiusi per assenza di documenti, sarebbero 15 coloro che hanno fatto richiesta di asilo politico: "Oggi il massimo della detenzione - scrive Grimaldi - è di 30 giorni per coloro che vengono da una precedente carcerazione, fino a 90 per i trattenuti che non arrivano dal carcere, ma per chi chiede asilo si bloccano le pratiche di identificazione ed espulsione fino al termine della procedura, ed è il tribunale ad avere la competenza per la proroga". Droghe: le sostanze sono nuove, non bastano più regole vecchie di Luigi Ripamonti Corriere della Sera, 28 luglio 2015 Un ragazzo morto per ecstasy pochi giorni fa, altri giovani alle prese con gravissimi problemi dopo l'assunzione di un composto a base di amnesia (una combinazione tra marijuana e metadone). È ormai indispensabile un'informazione capillare per questi giovani rimasti senza relazioni. Il problema non può più essere rimosso. Ognuno deve fare la sua parte: istituzioni, media, scuola, famiglie. Ma questo è soltanto l'abc, e l'informazione da sola non basta. La politica dovrà per forza metter mano a un adeguamento delle strutture di gestione delle tossicodipendenze, da aggiornare alle nuove esigenze. Un ragazzo morto per ecstasy pochi giorni fa, altri giovani alle prese con gravissimi problemi dopo l'assunzione di un composto a base di amnesia (combinazione tra marijuana e metadone). Ha ancora senso, di fronte a questo (prevedibile) trend occuparsi di liberalizzazione o meno della cannabis? Più in generale: ha ancora ragione d'essere un dibattito fra proibizionismo e antiproibizionismo sulle droghe "tradizionali"? Il fronte si è spostato. Bisogna prenderne atto. E anche parlare solo di "droghe sintetiche" rischia di essere una semplificazione. Non si tratta di capire soltanto quali sono le nuove sostanze e di impostare una strategia per arginarle secondo schemi consolidati, di maggiore o minore successo. Non sono cambiati solo gli stupefacenti. Sono cambiati anche i canali di diffusione e il mercato, sempre più fluidi, destrutturati e parcellizzati. Sono cambiati i consumatori, non più "tossici" riconoscibili ma ragazzi (e adulti) "normali" e integrati. E lo spacciatore non è più "l'uomo nero" ma il compagno di banco, e per la sintesi e i mix possono bastare quattro pentole a pressione. Invocare questo o quel modello di gestione del problema, sperimentato qui o altrove, può essere utile solo relativamente. In Olanda ci sono punti in cui i ragazzi possono portare la pasticca e farla analizzare: se è troppo pericolosa non viene restituita, altrimenti il ragazzo viene avvertito dei rischi e di come gestirli. Si chiama politica della "riduzione del danno". Non c'è moralismo, ed è una buona cosa, ma un aiuto attraverso l'informazione. Magari se gli amici del giovane morto a Riccione avessero saputo che cosa fare sin dalle prime avvisaglie della crisi del loro compagno ora non saremmo qui a parlarne. Ma un tossicologo potrebbe replicare, con argomenti solidi, che con le miscele di sostanze sempre nuove che circolano le possibilità di analisi rapida davvero efficace sarebbero molto esigue. Si potrebbero citare altri esperimenti, come quelli in Austria con camioncini che vanno ai rave party proponendo l'analisi delle sostanze, ma pare che siano pochi i giovani che aderiscono all'invito. Allora proibiamo? Possibile, e anche ragionevole partendo dal fatto che la distinzione fra droghe leggere e pesanti è quantomeno discutibile, e che la cannabis, come scriveva Alberto Mantovani (Corriere di ieri), fa comunque male. Ma il mercato delle dipendenze è fluido, come si diceva, e ha la tendenza a plasmarsi sulle normative vigenti. "Dopo la legge del 21 febbraio 2006 (art. 45) si è assistito a una temporanea riduzione dei consumi occasionali di cannabis" spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice dell'Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa. "Allo stesso tempo è aumentato il mercato delle sostanze chimiche e anche per quanto riguarda la cannabis i consumatori abituali non sono calati in modo significativo sul lungo periodo". Il dibattito potrebbe continuare, con l'elenco di pregi e difetti delle diverse soluzioni, ma la situazione è cambiata e ne servono di nuove. Di sicuro è indispensabile un'informazione capillare. Il problema non può più essere rimosso: va riconosciuto e conosciuto per quello che è. Ognuno deve fare la sua parte: istituzioni, media, scuola, famiglie. E va modulato il modo di informare. Ormai è chiaro che dire a un ragazzo che l'ecstasy può farlo morire serve fino a un certo punto. Così come serve poco dirgli che il fumo gli farà venire un cancro al polmone, è più efficace paventargli denti gialli o alito cattivo. Ma questo è ovviamente solo l'abc, e l'informazione da sola non basta. La politica dovrà per forza mettere mano a un adeguamento delle strutture di gestione delle tossicodipendenze, che fanno quello che possono, ma che vanno aggiornate alle nuove esigenze. E dovrebbe essere ormai una priorità un "tavolo" politico in cui si inizi un dibattito concreto, capace di voltare le spalle ai diversi lasciti ideologici, di qualunque segno. Infine serve una presa di coscienza come società civile, che ci chiama in causa tutti. Perché, bisogna avere il coraggio di ammettere che questi modelli di dipendenza li abbiamo forgiati noi su misura per i nostri figli, una generazione in cui la fragilità è diffusa forse anche perché la frustrazione è inammissibile e questo crea la necessità di passare da una soddisfazione all'altra: una volta è il gioco d'azzardo, una volta l'alcol, una volta la pasticca. Si possono mettere nell'ordine che si preferisce, ma è in ogni caso un continuum. C'è chi addirittura mette al primo posto la dipendenza da telefonino come inizio della catena. Possiamo pensare di abolire i telefonini? Non diciamo sciocchezze. Però sottolineare una distinzione fondamentale fra piacere e felicità è possibile, attraverso qualsiasi metodo educativo e culturale. Il piacere ha sempre un oggetto, e cerca in esso la propria soddisfazione, che esige di non essere negata, e crea perciò dipendenza, mentre la felicità procura piacere ma non ha oggetto e si consegue soprattutto attraverso le relazioni. Questo dovremmo ricordare prima di tutto a noi, per insegnarlo ai nostri ragazzi, troppo spesso soli, con i loro amici immateriali, con cui non si sono mai scambiati un bacio o un abbraccio. India: il ruolo della politica nell'arbitrato per i marò di Antonio Armellini Corriere della Sera, 28 luglio 2015 Con la richiesta di arbitrato l'Italia ha spostato a livello internazionale l'ambito della vertenza sui marò, raffreddandone la portata contenziosa sul piano bilaterale. Il passaggio dalla diplomazia degli annunci al negoziato politico di sostanza ha funzionato e il nostro impegno, come ha sottolineato il presidente Mattarella parlando agli ambasciatori italiani, deve ora continuare senza cedimenti. Non tutto è risolto e, prima di cantare vittoria, è bene restare prudenti. L'India ha contestato il diniego di competenza sostenuto dall'Italia e la decisione arbitrale, alla luce dei non molti precedenti esistenti, è tutt'altro che scontata. Così come non ci sarebbe da stupirsi se, pur accogliendo la richiesta italiana, il Tribunale optasse per trasferire Latorre e Girone in un Paese terzo, anziché in Italia: la decisione sarebbe meno pesante per Delhi e lascerebbe comunque i nostri marò liberi di lasciare l'India. Convenzione e Tribunale sono entrambi relativamente nuovi e tutto sommato poco testati, soprattutto in un caso che non riguarda diritti di pesca o simili, ma l'esercizio della sovranità in presenza di un incidente che ha coinvolto due vite umane. A tre anni dai fatti, si fa più forte per tutti il desiderio di chiudere. I continui rinvii indiani hanno alimentato in Italia polemiche strumentali che non tornano a vantaggio di nessuno, e men che meno dei due marò. Esaurito il traino che la storia degli Italian marines poteva avere su una campagna elettorale vinta alla grande, cresce in India l'imbarazzo per una vicenda che interessa marginalmente l'opinione pubblica, ma qualche fastidio sul piano internazionale lo dà. Il punto dunque, è quello di uscirne senza compromettere immagine, sensibilità e interessi: l'Italia recuperando piena dignità e mettendo a tacere le polemiche; l'India evitando ripercussioni capaci di alimentare fastidiosi colpi di coda dell'intransigenza nazionalista sempre in agguato nell'opinione pubblica e su cui potrebbe speculare, in una curiosa inversione di ruoli, il Congresso di Sonia Gandhi. Di arbitrato si era parlato a lungo in passato. Se è stato avviato solo adesso, è forse perché è adesso che possono verificarsi le circostanze affinché un processo che deve essere giuridico e politico al tempo stesso, dia i suoi frutti. Non è tanto utile entrare nella dinamica di un negoziato, che i fatti hanno dimostrato essere intanto efficace in quanto condotto fuori dal fascio dei riflettori, quanto sottolineare che la via seguita è quella di una giurisdizione straordinaria la cui efficacia è legata alla disponibilità di tutte le parti di seguirla, senza stravolgimenti o secondi fini. Questo non vuol dire che, nelle prossime settimane, potremo attenderci da parte indiana una correzione di rotta; gli uni e gli altri dovranno continuare a sostenere con convinzione le proprie tesi. Ma il tono con cui ciò avverrà, le indicazioni e i segnali - la politica, insomma - avranno un peso decisivo. L'India è un Paese fondamentale nel grande gioco della globalizzazione e la vicenda dei marò non ha scalfito che in minima parte il capitale di simpatia di cui disponiamo. Mentre i nostri partner si muovevano a passo di corsa noi siamo rimasti fermi ed è tempo di pensare a come recuperare il distacco. Agli inizi di questa storia, l'allora ministro degli Esteri Terzi andò a Delhi per farsi dire inopinatamente di no sulla liberazione dei marò e tentò di giustificarsi, sostenendo che quell'improvvido viaggio lo aveva fatto per difendere i nostri rilevanti interessi economici. Quegli interessi non erano rilevanti allora, non lo sono oggi, lo sono stati in passato e devono tornare ad esserlo. Pochi lo ricordano da noi, ma in India ancora oggi per dire "ventilatore" si dice "Marelli". Stati Uniti: Massimo Romagnoli, un detenuto italiano dimenticato di Ricky Filosa italiachiamaitalia.it, 28 luglio 2015 Completamente abbandonato dalle istituzioni, dalla politica, dagli amici e persino dalla famiglia. Per gli eletti all'estero il caso non esiste neppure. Intanto Massimo è dimagrito in carcere oltre 12 chili e si sente sempre più solo. Ma continua a ribadire la propria innocenza. È stato arrestato nel dicembre 2014 in Montenegro e alcune settimane dopo estradato negli Stati Uniti. Per Massimo Romagnoli, ex deputato di Forza Italia, l'accusa è gravissima: traffico internazionale d'armi e terrorismo. Di questi tempi non esiste un'accusa peggiore. In particolare se sono gli americani a puntarti il dito contro. Forse anche per questo Romagnoli di fatto è stato completamente abbandonato dalle istituzioni, dalla politica, dagli amici e persino dalla famiglia, da quella moglie che per tanti anni gli è stata accanto ma che dopo l'arresto ha deciso di dire basta e di lasciarlo al proprio destino. Romagnoli fin dall'inizio di questa brutta vicenda si è dichiarato innocente. Continua su questa posizione: "sono innocente e lo dimostrerò", scrive dal carcere di New York a quelle poche persone con cui è in contatto. Nei giorni scorsi Massimo ha ricevuto in prigione la visita di sua madre, accompagnata da Sonia Rinaldi, una tra quei pochi amici che ancora gli sono vicino. Sonia, italiana che vive in Belgio, a Italia Chiama Italia spiega: "Sono andata a visitare Massimo due volte durante il mio viaggio a New York. Le visite sono esclusivamente di giovedì, con 2 ore per visita". Romagnoli come sta? "Molto dimagrito, ha perso oltre 12 chili e si vede. Durante la nostra visita mi ha detto che si sentiva protetto quando eravamo accanto a lui. Era molto commosso - riferisce Sonia Rinaldi a Italiachiamaitalia.it, abbiamo pianto insieme ma poi tutti e tre ci siamo ricaricati a vicenda, pronti ad affrontare il futuro. Perché Massimo - conclude la donna - è innocente e lo dimostrerà". L'ex parlamentare intanto continua a scrivere dalla prigione. Chiede di non essere lasciato solo, chiede soltanto che le autorità italiane non abbandonino un proprio figlio che è nei guai oltre confine. Ma Roma è lenta, non decide, non si muove. Romagnoli ha chiesto per esempio l'intervento, tra gli altri, dell'On. Fabio Porta, presidente del Comitato per le questioni degli italiani all'estero alla Camera. Porta, sollecitato anche da noi ormai mesi fa, non ha tuttavia prodotto finora alcun risultato, né ci pare abbia fatto qualcosa per smuovere la situazione. Massimo ha chiesto anche il sostegno dell'On. Fucsia Nissoli, eletta nel Nord e Centro America e residente proprio negli Stati Uniti, ma sembra che lei di questa storia non ne voglia proprio sapere. Tra gli eletti all'estero solo Aldo Di Biagio, senatore eletto in Europa, si è mostrato disponibile ad aiutare Romagnoli, a stargli vicino, andandolo persino a trovare in galera. Vogliamo ribadire che nemmeno quel partito a cui Massimo ha dato tanto, Forza Italia, ha mosso un dito per sbloccare in qualche modo la vicenda. Nel partito azzurro l'ordine arrivato dall'altro è stato chiaro: non possiamo fare nulla per aiutare Romagnoli, né ci interessa il caso. Punto. E allora ecco che ancora una volta Italia Chiama Italia ribadisce il proprio appello: non abbandoniamo Massimo Romagnoli. Non abbandoniamo un detenuto italiano oltre confine. Nessuno qui si sogna di chiedere per lui l'impunità, ci mancherebbe altro: chiediamo soltanto che il suo caso non venga dimenticato, che la Farnesina se ne occupi, che i suoi diritti gli vengano garantiti. Insomma, istituzioni e politica non si girino dall'altra parte. Perché se è vero che essere stato un deputato non può dare a Massimo alcun privilegio particolare, è vero anche che nei suoi confronti non va nemmeno applicato il discorso contrario: è un ex parlamentare, il caso scotta, non avviciniamoci. No, non può essere questo il ragionamento. Qui si tratta semplicemente di un detenuto italiano all'estero in difficoltà. Come ce ne sono stati altri, verso cui c'è stata grande attenzione. Perché nel caso di Massimo Romagnoli si vuol fare finta di niente? Iraq: deputato chiede di non estendere amnistia a combattenti stranieri Nova, 28 luglio 2015 Il deputato iracheno Awatef Neema ha chiesto oggi al primo ministro Haydar al Abadi di non estendere l'amnistia ai combattenti stranieri accusati di terrorismo. "Concedere l'amnistia a terroristi stranieri attualmente nelle carceri irachene rappresenta una violazione della legge. È ingiusto liberare coloro che hanno versato il sangue degli iracheni con il pretesto del jihad e consentire loro di tornare ai loro paesi impunemente" ha detto Awatef Neema. "I sauditi domandano la liberazione dei loro cittadini senza vergogna - ha aggiunto il deputato iracheno - l'ambasciatore saudita in Giordania, Sami al Saleh, ha procurato un avvocato ai detenuti sauditi nella convinzione che questo possa consentire il loro rilascio. Il popolo iracheno ha bisogno di giustizia - ha concluso Neema - è ora di liberare il paese da questi gruppi mandati da Riad per spargere sangue nel paese". Il deputato si è detto certo che la messa in libertà dei combattenti stranieri consentirà loro di tornare a "massacrare" le aree sciite dell'Iraq. Pakistan: due impiccagioni in Punjab, quattro in due giorni dopo la sosta per Ramadan Ansa, 28 luglio 2015 Due detenuti sono stati impiccati oggi in due diverse prigioni nel Punjab, nel Pakistan centrale. Lo riferiscono i media locali. Entrambi erano stati condannati a morte per omicidio. Una esecuzione è stata condotta in Multan, mentre l'altra ad Attock. Altri due uomini erano saliti al patibolo ieri sempre a Multan. Le nuove esecuzioni giungono dopo una pausa decretata per il mese sacro del Ramadan. Una moratoria sulle impiccagioni di detenuti nel braccio della morte era in vigore dal 2008, ma il premier Nawaz Sharif ha deciso di revocarla dopo il cruento attentato ad una scuola militare del dicembre 2014 che ha causato oltre 140 vittime, quasi tutti studenti. Così dal 15 dicembre 2014 al 15 giugno 2015 179 detenuti sono stati messi a morte per impiccagione, a cui vanno aggiunti i quattro giustiziati negli ultimi due giorni. Secondo stime circa 8 mila prigionieri sono in attesa nel braccio della morte di diverse prigioni pachistane. Il 4 agosto esecuzione condannato minorenne Un tribunale dell'antiterrorismo di Islamabad ha annunciato che il prossimo 4 agosto sarà impiccato Shafqat Hussain, che aveva quattordici anni quando fu condannato a morte per il rapimento e l'omicidio di un bambino di 7 anni nell'aprile del 2004. Lo riferiscono al sito di Dawn fonti del carcere di Karachi, nel sud del Pakistan, dove Hussain è detenuto. La sua impiccagione era inizialmente prevista per il 9 giugno, ma la Corte Suprema aveva deciso per la sospensione. Lo scorso dicembre il Pakistan ha revocato una moratoria sulla pena di morte in vigore da sei anni in seguito alla strage di 136 bambini alla scuola di Peshawar, nel nord ovest, da parte di un commando di Talebani. Negli ultimi sei mesi sono stati impiccati circa 150 condannati a morte, portando il Pakistan al pari di Paesi quali Cina, Iran e Arabia Saudita per numero di esecuzioni.