Giustizia: il piano per migliorare le carceri (dopo 40 anni) di Evelina Cataldo ilsussidiario.net, 26 luglio 2015 L'ordinamento penitenziario compie quarant'anni. Risale al 26 luglio del 1975. Oggi si vorrebbe modificare una legge non solo attuale, ma anche rispettosa delle garanzie costituzionali richiamate in ogni suo articolo. Alcuni magistrati, tra cui Glauco Giostra - coordinatore dei tavoli degli Stati Generali dell'esecuzione della pena - hanno evidenziato quanto sia necessaria un'inversione di tendenza culturale rispetto alle questioni del carcere e della pena considerando vani meri aggiustamenti normativi per attuare un mutamento di visione nelle risposte penali in seno alla collettività. È palese come il ruolo dell'informazione sia quasi votato a confondere l'opinione pubblica sulle questioni della giustizia, a causa di automatismi di connessione con il settore della sicurezza sociale. Le questioni che ruotano intorno alle sanzioni penali meritano di essere analizzate sotto diversi profili: politico, giuridico, sociologico, amministrativo, con una visione transdisciplinare che non dovrebbe lasciare spazio al pressapochismo. L'aspetto politico è molto interessante, non potendo esso essere scisso dal comune sentire. I maggiori rappresentanti dei partiti politici, che in genere appaiono in tv, hanno una grande responsabilità rispetto al modo e al linguaggio utilizzati per spiegare ai cittadini, ovvero agli elettori, problemi e temi di carattere sociale attinenti la sicurezza e aspetti caratterizzanti la certezza della pena. Conoscere i contesti rispetto ai quali si argomenta, dovrebbe essere il primo grande passo da compiere. Inutile parlare di carcere e pena come esponente politico se quell'universo è sconosciuto. Diversamente, se chi ne discetta è anche avvocato, magistrato, docente esperto, operatore del settore giustizia, in qualche modo avrà una visione, forse settoriale, ma indispensabile per un approccio alla materia realistico ed imparziale. La richiesta di una pena "carcerocentrica" è apparsa tuttavia dettata dalla necessità di ripristinare uno stato fondato sulla legalità, ma si sono tralasciate nel tempo le pratiche discendenti da un orientamento di tipo etico e costituzionalistico. Se l'esponente politico è il primo soggetto posto sotto accusa dalla collettività quando rompe il patto sociale per il quale è stato eletto come degno rappresentante, perché smarrisce il fondamento del proprio mandato, ci si aspetta un sopravvenire di sentimenti di credibilità e di onorabilità. I cittadini richiamano a una sospensione automatica da quel ruolo, senza la necessità di appigli normativi o di rimessione della questione nelle mani della magistratura. Si potrebbe demandare un parere preventivo a un gruppo di costituzionalisti, integrato da qualche magistrato, impegnandoli su aspetti relativi alla mancata conformità ex art. 54 della Costituzione, stabilendo procedure ad hoc di immediata sospensione dalla funzione pubblica esercitata. Si pensi: all'abuso di posizione determinato dall'esercizio di un'alta funzione pubblica, allo scambio di promesse tra politici e burocrati, agli evidenti conflitti di interesse, alle pratiche di occupazione a chiamata, tutte attività non sempre riconducibili a concrete fattispecie di reato. Il mancato esempio di disciplina e onore genera nell'ambito sociale un risentimento, che riaffiora in sfiducia rispetto al contesto istituzionale, e si rafforza in accanimento forcaiolo nei confronti degli unici soggetti sanzionati con la pena carceraria: immigrati, tossicodipendenti, ladruncoli. L'assassinio è solo un atto materiale o può essere anche un atto formale-burocratico che conduce lentamente alla morte morale e civile di un popolo? Gli scandali di Roma capitale sono l'esempio, forse, più attuale ed eclatante di questo dubbio or ora sollevato. Anche la questione del diritto penale minimo, ovvero di un necessario ripensamento della procedura penale e del suo codice, potrebbe rappresentare un passaggio mirato verso la civiltà. Posto il raggiungimento dell'obiettivo di disciplina e onore e di osservanza della Costituzione e delle sue leggi da parte dei politici e della classe dirigente, diverrebbe naturale una riconsiderazione del diritto penale come pena di restituzione in termini sociali, non mera interdizione della libertà personale in carcere, ma ravvedimento operoso da attuare direttamente in società, in maniera progressiva, bilanciata e ponderata rispetto all'azione antigiuridica compiuta. L'ossimoro di carcere e risocializzazione potrà essere attenuato avviando una riflessione su come renderlo luogo di legalità e di occasione per un recupero. Ripensare al pianeta carcere nel suo organico di risorse umane rappresenta la prima strada, a garanzia di maggiore professionalità e dedizione al compito. A questo punto, occorrerebbe creare un team di dirigenti carcerari suddividendo per macro-aree: amministrativa, sicurezza e trattamento, sburocratizzando le mansioni interne ed eliminando tutte le prassi non consentite che si frappongono al corretto esercizio della legge penitenziaria. Per favorire il dispiegamento del buon andamento e dell'imparzialità della Pubblica amministrazione in tale delicato settore, bisognerà da un lato, attualizzare un ricambio dirigenziale slegandolo da nomine politiche, soggiacendo in questo modo, ai soli criteri previsti dalla Carta Costituzionale. Dall'altro, per vigilare sulla correttezza delle procedure e sulle responsabilità derivanti dagli adempimenti funzionali, sarà necessaria la costituzione (già prevista dalla L. 10/2014) del Garante nazionale dei detenuti e relative commissioni territoriali per ciascun provveditorato regionale. Sicurezza, gestione amministrativa e trattamento a rappresentanza dell'Amministrazione penitenziaria per un verso e Garante dei diritti dei detenuti a tutela della popolazione ristretta dall'altro, apparirebbe un ottimo binomio sul quale bilanciare l'applicazione di una legge costruita quarant'anni fa sull'indirizzo della volontà del Costituente. Giustizia: perché la barbarie cinese contro gli avvocati suscita cattivi pensieri anche in noi di Beniamino Migliucci (Presidente dell'Unione Camere penali) Il Garantista, 26 luglio 2015 La notizia della repressione contro gli avvocati di Pechino porta inevitabilmente alla mente quanto avvenuto nel 2013 in Turchia contro gli avvocati che difendevano i diritti civili. Leggere che i legali vengano definiti "bande di criminali colpevoli di interferire nei processi e di fomentare disordini" provoca indignazione e mette tristezza. Per i media vicini al Governo, gli avvocati "operavano contro il sistema costruendo casi finalizzati a infangare la giustizia cinese". Questo ha giustificato perquisizioni, arresti e confessioni estorte con la violenza. La solidarietà è fuori discussione, ed è poca cosa. Ci sentiamo colpiti nel profondo per essere impotenti di fronte a prepotenza, sopruso, violazione delle regole civili, dolore di chi subisce violenza fisica e psicologica per aver fatto rispettare i diritti e la dignità delle persone. Riscontriamo che tutti i regimi autoritari disprezzano la funzione difensiva e il ruolo dell'avvocato, che vengono ritenuti espressamente un ostacolo al perseguimento degli obiettivi del sistema. Naturalmente ogni paragone sarebbe improprio e irrispettoso per chi soffre condizioni inaccettabili e non ha la fortuna di vivere in un Paese liberale e democratico. Qualche considerazione, però, sulla insofferenza che spesso si registra, anche nel nostro Paese per la funzione difensiva, con la conseguente difficoltà di proteggerne gli ambiti nell'interesse dei cittadini, può essere fatta. L'insofferenza è determinata dall'idea piuttosto rudimentale dell'autosufficienza di una giurisdizione affidata a chi accusa e a chi giudica, all'idea di dover sconfiggere ora l'uno o l'atro fenomeno criminale ottenendo facile consenso nell'opinione pubblica. La difficoltà di garantire l'effettività della difesa e di affermare la sacralità della funzione difensiva sono originate da una diffidenza di fondo e da una visione manichea del diritto, secondo cui chi accusa rappresenta il bene e chi difende rappresenta invece un ostacolo a raggiungere obiettivi di lotta alla criminalità. Nel processo, lo spostamento dell'attenzione dall'accertamento di un reato e della sua attribuibilità ad una persona, al perseguimento dei fenomeni criminali e alla spiegazione degli stess con giudizi di natura etica, accresce il rischio di aumentare l'intolleranza nei confronti di chi rappresenta una visione diversa delle cose. La Cina è stata chiara: gli avvocati sono "bande di criminali colpevoli di interferire nei processi". Non serve altro per comprendere quale sia l'importanza di difendere la difesa che deve poter sempre "interferire nei processi" con la forza della libertà, della autonomia e della indipendenza. La questione degli avvocati cinesi non può essere archiviata come è avvenuto per gli avvocati turchi. La comunità internazionale democratica dovrebbe far sentire la propria voce e manifestare il totale dissenso nei confronti di una barbarie motivata dalla necessità di preservare la Cina da chi voleva "cancellare l'identità cinese e infettare la nazione con i valori occidentali". Tra i valori occidentali c'è anche quello dell'inviolabilità del diritto di difesa, che è patrimonio di tutti e che deve essere preservato come irrinunciabile fondamento di ogni stato di diritto. Giustizia: basta con i "segreti di Stato" che nascondono le malefatte del potere di Valter Vecellio Il Garantista, 26 luglio 2015 "Universalità dei Diritti Umani per la transizione verso lo Stato di Diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza". È un obiettivo ambizioso quello che si pone la seconda Conferenza Internazionale che, con il patrocinio del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, il Partito Radicale assieme a Nessuno Tocchi Caino e Non c'è Pace Senza Giustizia convocano domani a Roma nell'aula della commissione Difesa del Senato. Obiettivo ambizioso, ma non velleitario. Tra i relatori il Ministro agli Affari esteri Paolo Gentiloni, il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, il ministro della Giustizia del Niger Marou Amadou, la segretaria di Stato presso il ministero delle Finanze della Tunisia Boutheina Ben Yaghlane Ben Slimane. E ancora, tra i relatori, troviamo: l'ex primo ministro algerino Sid Ahmed Ghozali, l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, la parlamentare islandese Birgitta Jónsdóttir, il prof. Jianli Yang, il Senatore francese André Gattolin, la Segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, il presidente dell'Aide Party Sir Graham Watson, Furio Colombo, Aldo Masullo, Marco Pannella e altri ancora. L'evento segue la Conferenza di Bruxelles "Ragion di Stato contro Stato di Diritto" del febbraio 2014 e le successive presentazioni a Ginevra, Londra, Parigi, Roma e Napoli. L'obiettivo è quello di proseguire l'iniziativa intrapresa un anno e mezzo fa approfondendo il percorso per l'affermazione del diritto alla conoscenza in sede Onu e promuovendo la comune transizione verso lo Stato di Diritto del mondo europeo e del mondo a maggioranza arabo-musulmana. La Conferenza, nell'ambito del diritto alla conoscenza toccherà (anche se la questione, data la sua complessità e importanza meriterebbe una specifica riflessione e momento di confronto), tra le varie tematiche, il tema del segreto di Stato. Segreto che dovrebbe servire per tutelare "l'integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali; la difesa delle Istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento; l'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e le relazioni con essi; la preparazione e la difesa militare dello Stato". Così almeno il decreto del 2008 a proposito del segreto di Stato; a utile integrazione possiamo aggiungere quanto poi stabilito dalla Corte Costituzionale l'anno successivo: "l'individuazione degli atti, dei fatti, delle notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e che devono rimanere segreti costituisce il risultato di una valutazione ampiamente discrezionale". Non v'è dubbio che il segreto di Stato è un qualcosa che ogni paese ha il diritto, e anche il dovere, di opporre in determinate circostanze. Tuttavia, è pur vero che troppe volte il "segreto di Stato" viene invocato e apposto non tanto per garantire la sicurezza, quanto per impedire di conoscere le malefatte che vengono consumate da sue branche e comparti. A tutti verrà in mente una serie di segreti di Stato che a tutto sono serviti, meno che a difendere gli interessi supremi del Paese, la Costituzione e le sue istituzioni: che la sicurezza dello Stato sia compromessa dalla conoscenza delle dinamiche del cosiddetto "golpe bianco" degli anni 70, lo si può lecitamente dubitare: anche a voler proteggere eventuali fonti, sono ormai trascorsi cinquant'anni... Per quel che riguarda la strage alla stazione di Bologna, si sta parlando di 34 anni fa... Insomma, che non ci siano più zone d'ombra coperte dal segreto di Stato dovrebbe essere elementare diritto di tutti noi. Negli Stati Uniti esiste il Freedom of Information Act (Foia): una normativa che garantisce un controllo democratico sull'azione amministrativa e di governo nel suo complesso. Approvato nel 1966, consente a tutti i cittadini di richiedere l'accesso a documenti o altro materiale conservato dalle agenzie governative, senza necessità di dimostrare un personale e diretto interesse, o anche di fornire alcuna motivazione per la domanda. L'accesso può essere negato nei casi indicati dalla legge, sostanzialmente ristretti a dati particolarmente sensibili sul piano dell'ordine pubblico interno, della sicurezza nazionale e della privacy oppure di natura confidenziale; in questi casi, la decisione è appellabile: attraverso un ricorso amministrativo interno, e nel caso di fronte ad un tribunale. Analoghi Freedom of Information Act sono in vigore in Regno Unito, Svezia, Germania, e in altri paesi europei. Non che il Foia di per sé sia sufficiente a garantire conoscenza e verità, sia pure nel tempo. E su questo ci si tornerà, che la storia è di utile insegnamento e ammonimento per il presente e il futuro. Ad ogni modo, in Italia, su questo terreno siamo molto in ritardo; al contrario, la cosa andrebbe affermata e inserita nella "categoria" dei diritti umani, e potrebbe contribuire a risvegliare l'anima sfiduciata e rassegnata in cui sembra essere precipitata la democrazia italiana. Nella passata legislatura, i parlamentari radicali presentarono una interrogazione molto semplice, e breve: "Per sapere in quali casi e in quali date nella storia repubblicana sia stato apposto il segreto di Stato e per quali di questi è tuttora valido". Interrogazione rimasta inevasa. Si potrebbe partire da qui, ed è una "curiosità" che potrebbe essere soddisfatta dal presidente del Consiglio, o volendo, dal presidente del Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir): il sapere in quanti e quali casi il segreto di Stato è stato apposto, e per quale motivo resta, potrebbe essere una buona, utile base di partenza. E potrebbe aiutarci a capire e sciogliere i tanti interrogativi e dubbi che la questione inevitabilmente comporta. Giustizia: bene riformare le intercettazioni, ma non si può silenziare l'interesse generale di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 26 luglio 2015 Cosa si può pubblicare? Come si può provare la verità di ciò che si pubblica? Cosa l'opinione pubblica ha diritto di sapere? Come possono lavorare i media, "cani da guardia della democrazia"? La risposta a questi quesiti disegna il tipo di società che vogliamo e il suo livello di democrazia. Se il cittadino è tenuto all'oscuro di quanto riguarda le cose di interesse pubblico e del comportamento di chi nella società svolge un ruolo importante, è inutile farlo votare. O è addirittura pericoloso, se alla censura dell'informazione rilevante si aggiunge il bombardamento di slogan, battute, promesse mirabolanti, ecc. Questi sono i quesiti inevitabili dopo quanto è avvenuto (sta avvenendo) alla Camera. Alla fine della lunga gestazione in Commissione giustizia di un disegno di legge presentato dal governo nel dicembre dell'anno scorso, con il complesso titolo di "modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all'ordinamento penitenziario per l'effettività rieducativa della pena", al testo viene apportata un'integrazione. L'attenzione che si era soprattutto indirizzata al tema dell'utilizzo e della pubblicabilità delle intercettazioni disposte dal magistrato, viene dirottata verso tutt'altro terreno: quello del diritto di ciascuno alla riservatezza della propria vita privata (che si usa chiamare privacy). Nonostante la sua eterogeneità rispetto al titolo e all'oggetto della legge, viene ammesso, votato ed approvato, anche con voti di deputati della maggioranza, un emendamento presentato da un deputato anch'esso della maggioranza. Vedremo subito di cosa si tratta, ma prima un cenno va fatto alla tecnica legislativa. L'omogeneità e coerenza del contenuto di una legge, anche rispetto al suo titolo, sono prescritte e sono indispensabili per permettere al cittadino di sapere dove si trovano le norme che cerca. Le leggi non sono treni cui si possa attaccare qualsiasi vagone. Regola elementare, ma largamente disattesa in Parlamento. È questo un primo motivo di critica a quello che è avvenuto. Ma i motivi di sconcerto sono anche altri. Appena votato il testo che comprende quell'emendamento, cui il viceministro della Giustizia ha dato parere favorevole, il ministro della Giustizia si dissocia e promette che in aula, lunedì, si cambia. Non è più tempo di sorpresa per queste cose, ma chiedersi se c'è una linea del governo è d'obbligo, insieme, ancora una volta alla constatazione di quanto infide e piene di mulinelli siano le acque in cui naviga il ministro cercando di tenere la barra dritta. Ma vediamo di che si tratta. La norma su cui la Camera dovrà votare prevede la reclusione da 6 mesi a 4 anni, per chiunque, al fine di recare danno alla reputazione o all'immagine altrui, diffonda riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate. Sono previste eccezioni, che sembrano introdotte per agganciare questo vagone al treno che sta per arrivare in stazione e che qui non interessano. Il punto è che viene punita (gravemente, ma è il principio che conta) la pubblicazione della registrazione di immagini o conversazioni effettuata all'insaputa altrui. Cioè, per intendersi, se un giornalista pubblica quello che ha appreso chiacchierando sottobraccio a un ministro che gli parla a ruota libera (che può essere di grande interesse, anche se non ha niente di penalmente rilevante), fa il suo mestiere. Anzi adempie al suo dovere, ma si espone alla smentita di quel ministro, il quale magari aggiungerà che il giornale che ha pubblicato le notizie è di segno politico avverso al suo e dunque è sospetto. Il giornalista prudente, non per correttezza professionale, ma per paura di conseguenze per sé e per il suo giornale si guarderà bene dal pubblicare quel che il ministro gli ha detto. Non censura, ma efficacissima autocensura. La conversazione circolerà tra gli addetti ai lavori, ma non giungerà ai cittadini, che hanno diritto di essere informati per farsi un'opinione su ciò che avviene, chi viene eletto, chi esercita poteri che riguardano tutti. Se invece quel giornalista ha in tasca un registratore che fissa indelebilmente la conversazione, da un lato ottiene la prova di ciò che è stato effettivamente detto e della correttezza di quanto pubblica, ma, se la norma che è stata proposta dovesse diventar legge, viene processato e condannato. Il giornalismo d'inchiesta, la cui efficacia deve essere fermamente difesa anche a costo di dover vedere eccessi e sbavature, sarebbe impedito. Impedito paradossalmente proprio nel momento in cui, con la registrazione, si premura di assicurare se stesso e il pubblico dei suoi lettori della verità di ciò che pubblica. L'esempio fatto del giornalista sottobraccio al ministro è solo uno dei possibili. Lo stesso varrebbe per chi fotografa di nascosto il deputato a cena con il mafioso. Ma l'interesse pubblico di una notizia può essere legato a tante altre situazioni, anche meno di vertice. Recentemente la ripresa nascosta e la pubblicazione di una conversazione tra un giornalista svizzero e un intermediario in campo assicurativo sono state oggetto di una sentenza della Corte europea dei diritti umani. Il giornalista aveva subito la condanna a una piccola ammenda, ma la Corte ha ritenuto che la scorrettezza nei confronti dei clienti dell'assicuratore, che quella conversazione rivelava, provasse il rilevante interesse pubblico del programma televisivo che l'aveva trasmessa. E dunque sulla pretesa di chi aveva parlato riservatamente, doveva prevalere il dovere del giornalista di informare il pubblico e il diritto del pubblico di ricevere l'informazione. Naturalmente questo discorso vale per le notizie di interesse pubblico, quelle su cui si fonda la vita di una società civile, informata, democratica. Niente a che vedere con il gossip che può incuriosire e far vendere certi giornali, ma non aggiunge nulla al dibattito che nutre la vita pubblica. Di quelle pubblicazioni dovrebbe occuparsi l'Ordine dei giornalisti, difendendo la libertà di informazione anche con il rigore delle regole deontologiche. Ma intanto va detto che, reagire, come è stato fatto, alle proteste e alle preoccupazioni per gli effetti censori del testo di legge proposto, dicendo che occorre proteggere la vita privata di tutti noi dal gossip, null'altro è che "disinformatia", irrispettosa del pubblico che si trae in inganno. In nessun Paese la libertà è guadagnata una volta per tutte. Occorre essere ipersensibili, ogni volta che essa è messa a rischio. Giustizia: intercettazioni, il governo studia modifiche di Nicola Barone Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2015 Ancora alta tensione tra i partiti sul fronte intercettazioni e annessi. Accade mentre sono nell'aria gli echi delle accuse legate all'approvazione fra giovedì e venerdì dell'emendamento della maggioranza, in commissione Giustizia della Camera, sulla stretta per i contenuti video e audio "rubati". Per ora soprattutto i centristi non appaiono intenzionati a cedere posizioni e la linea è posta sulla strumentalità delle critiche venute fuori. Tornando sul punto ieri il viceministro della Giustizia Enrico Costa di Ncd ha spiegato che i principi di delega sulla diffusione delle registrazioni fraudolente sono finalizzati a evitare abusi che possano rovinare la vita delle persone. Per sgombrare il campo da letture fuorvianti Costa si chiede se "c'è qualcuno disponibile ad ammettere che è giusta la diffusione, al fine di recare danno all'immagine altrui, di riprese o registrazioni di conversazioni effettuate in sua presenza, fraudolentemente effettuate". Questo, sottolinea il viceministro, è il contenuto delle norme. Non altro. Qualcosa che non è "contro nessuno, ma per affermare valori costituzionali". Dunque piena disponibilità a considerare miglioramenti del testo, ma altrettanta indisponibilità a fare marcia indietro sui principi. In realtà è a domani che si sposta l'attenzione per capire quale piega possa prendere la vicenda, quando la delega contenuta nel ddl di riforma del processo penale approderà in Aula a Montecitorio. L'emendamento contestato, rispetto a cui lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando ha nell'immediato e apertamente preso le distanze, prevede il carcere fino a 4 anni per chi diffonda, "al fine di recare danno alla reputazione o all'immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate". Una vera e propria "norma bavaglio", secondo i grillini, i quali in segno di protesta avevano occupato persino la commissione parlamentare con decine di deputati per cercare di bloccare (ma vanamente) l'esito finale. È assai probabile, da quanto si capisce in ambienti parlamentari, che venga formulata una correzione - forse attraverso una sorta di "contro-emendamento" - per abolire il carcere nel caso degli ascolti rubati. "Cambieremo quel testo, si tratta solo di specificare meglio qual è lo scopo della norma che non vuole penalizzare l'attività legittima del giornalismo d'inchiesta", è stata l'assicurazione della presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti (Pd). La ratio è "solo punire i privati che in modo fraudolento intercettano qualcuno per poi danneggiarlo pubblicamente". Come detto più marcata rimane invece la posizione del Nuovo centrodestra, che fa quadrato e compatto respinge le accuse di aver pensato a un'azione liberticida. "Ribadiamo - dice l'autore dell'emendamento incriminato, Alessandro Pagano - che non c'è alcuna norma "ammazza-Iene". Sono pronto a miglioramenti del testo per la parte relativa alle sanzioni, ma non c'è nessun bavaglio alla stampa". Pagano non accetta che si parli di una sua retromarcia, perché si sente vittima di "una palese forzatura dell'interpretazione della norma". Per cui "definire "salva-Iene" l'emendamento che verrà presentato in Aula - dice - è improprio, per il semplice fatto che appunto non c'è nessuno da salvare". Con lui i senatori centristi Giuseppe Marinello e Luigi Compagna e il capogruppo di Ap alla Camera Maurizio Lupi che lamenta come "in questo Paese c'è sempre un allarme democrazia, censura, bavaglio... anche di fronte alle cose più ovvie e di buon senso". Le deputate del Pd Vanna Iori e Gea Schirò evocano una "soluzione d'equilibrio". Mentre Scelta Civica, con il segretario Enrico Zanetti, condivide e sostiene l'emendamento, pur ritenendo necessario "chiarire la norma per tutelare il diritto di cronaca in modo più chiaro". Preoccupata nel frattempo l'Fnsi. Per il tentativo, si denuncia, di introdurre norme che rendano meno libera la stampa, limitino il diritto di cronaca e scoraggino i giornalisti dal compiere il loro dovere. Giustizia: intercettazioni, la scusa della privacy usata per zittire gli scandali di Marco Menduni Il Secolo XIX, 26 luglio 2015 Ncd difende l'emendamento, il sindacato giornalisti insorge: "Limitata la libertà di stampa". Orlando fa il pompiere. L'incendio è divampato e ora il governo prova a spegnerlo. La benzina che alimenta il fuoco è la norma che prevede il carcere, da sei mesi a quattro anni, per chi filma o registra di nascosto un'altra persona. Il piromane è il Nuovo Centrodestra, che però rifiuta sdegnosamente l'insinuazione di voler così, surrettiziamente, mettere il bavaglio ai media: "Solo una norma di civiltà". Il blitz degli alfaniani però scatta nel bel mezzo della discussione sulle intercettazioni, uno dei tasselli conclusivi della riforma della giustizia, e sembra una testa di ponte lanciata per impedirne, tout court, la pubblicazione. Esistono già norme precise: tutelano i non indagati, che hanno buon diritto di non vedere sbandierate in piazza conversazioni e situazioni che non hanno attinenza con le inchieste. Ma la valutazione finale della stampa deve andare al di là della semplice contraddizione indagato-non indagato. Nel caso di amministratori pubblici (l'ultimo caso: quello di Tirreno Power) alcuni dialoghi hanno una fondamentale importanza etica, politica e di opportunità, aldilà di quella giudiziaria, e il cittadino deve avere il diritto di conoscerli. Il pompiere, ancora una volta, è il ministro della Giustizia Andrea Orlando che imbraccia l'idrante e tenta di spegnere il rogo, mettendo fine al fuoco concentrico dei Cinque Stelle, del mondo della stampa e dell'Associazione dei magistrati. Tutto previsto? Il tema intercettazioni è tra i più scottanti rimasti nell'agenda del governo per completare la riforma. Ncd cerca, in vista del traguardo, di portare a casa risultati sostanziali sulle sue battaglie. Orlando e l'esecutivo annunciano: non siamo d'accordo. Puntano a depotenziare gli effetti della norma, magari con una sorta di contro-emendamento che potrebbe essere presentato alla Camera già domani e che dovrebbe far sparire lo spauracchio della gattabuia per chi trasgredisce. Ncd non pare intenzionato a mollare la presa. Nessun attacco al giornalismo d'inchiesta, giura il presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, Pd. Il testo sarà cambiato, insiste: "Vogliamo solo punire i privati che in modo fraudolento intercettano qualcuno per poi danneggiarlo pubblicamente". C'è da crederci, non c'è da crederci? Non ci credono i giornalisti e la Fnsi, il sindacato dei giornalisti, che denuncia con il segretario Raffaele Lorusso, "il tentativo di introdurre, neanche tanto surrettiziamente, norme che rendano meno libera la stampa, limitino il diritto di cronaca e scoraggino i giornalisti". Giustizia: l'interesse pubblico della notizia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2015 Non si legifera sull'onda dell'emozione. Dovrebbe essere una regola aurea della buona politica, spesso, però, dimenticata. Di riforma delle intercettazioni si parla ormai da oltre vent'anni, e tuttavia, l'approccio politico continua ad essere più emotivo che ponderato e razionale; meno che mai condiviso, spesso pasticciato. Troppi i nervi scoperti per una materia che è carne viva della democrazia. Anche stavolta, le premesse non depongono per una riforma "a mente fredda" e l'emendamento Ncd approvato in commissione giustizia all'ultimo momento ne è una spia, non fosse altro perché governo e maggioranza (che lo hanno votato) già ne ammettono l'ambiguità e preannunciano aggiustamenti in Aula. Tanto basterebbe a suggerire un supplemento di riflessione: gli interessi in gioco - libertà di informazione, riservatezza, accertamento giudiziario delle responsabilità - sono troppo importanti per consentire a un legislatore forse anche confuso da Caronte di licenziare un testo con l'ambizione di bilanciare quegli interessi costituzionali, senza sacrificarli. L'obiettivo dichiarato è limitare i "danni" derivanti dalla pubblicazione di intercettazioni "non rilevanti penalmente", soprattutto se riguardano persone estranee alle indagini. Ma per raggiungerlo, c'è il rischio che il diritto di cronaca paghi un prezzo troppo alto, al netto delle responsabilità dei media. Che, va detto subito, non sono senza peccato. Non finché sarà "il mercato" a stabilire quali e quante intercettazioni pubblicare (per ragioni di concorrenza) invece della rilevanza pubblica che esse rivestono. È un'autocritica che la stampa deve fare, senza alibi: troppo spesso si è privilegiata la quantità di intercettazioni da pubblicare piuttosto che la qualità, con danni gravi alle persone e alla corretta informazione. Detto questo, il discrimine, per i media, non è la "rilevanza penale": non è questo il perimetro del diritto/dovere di informare, ma quello della "rilevanza pubblica" dell'intercettazione. Che, quindi, va pubblicata anche se il magistrato la considera solo "di contesto". In sostanza, e giocando un po' con le parole: non tutto ciò che non è pubblico in un processo non è pubblicabile, se riveste un interesse pubblico. Giornalisti e magistrati fanno mestieri diversi e, dunque, valutazioni diverse. È impensabile che il legislatore possa sindacare o sostituirsi alla discrezionalità insita nelle loro valutazioni, rispettivamente, sulla rilevanza penale e pubblica di un'intercettazione. Ma ciò impone a entrambi rigore e professionalità. Peraltro, sarebbe anche sbagliato ampliare per legge l'area del segreto, per di più con la minaccia di sanzioni detentive in caso di violazione: ci riporterebbe a un processo inquisitorio e a una forma di censura (altro che bavaglio!) incostituzionale e illiberale. Eppure, il vizio di ricorrere al carcere è sempre in agguato, come dimostra l'emendamento Ncd sulle intercettazioni private, peraltro in un provvedimento che, oltre alla delega su intercettazioni e processo penale, contiene anche quella per riformare l'ordinamento penitenziario all'insegna della decarcerizzazione. Una schizofrenia bella e buona, che getta un'ombra sulla credibilità di questa politica. E che fa il paio con l'aumento delle pene per furti, scippi e rapine inserito sempre nello stesso provvedimento, cavalcando, appunto, l'emozione. Tutto ciò mentre sono in corso gli Stati generali dell'esecuzione penale che, tra l'altro, dovrebbero sensibilizzare l'opinione pubblica sull'inutilità del carcere (per certi reati). Sì, sulle intercettazioni, e non solo, forse occorre proprio una pausa di riflessione per riordinare le idee. Giustizia: le perplessità di Cantone "tanti criminali scoperti con i registratori nascosti" di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 26 luglio 2015 Il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, vorrebbe tanto tenersi fuori dal putiferio che si è scatenato sull'ultimo emendamento alla legge di riforma delle intercettazioni - "non ho visto la norma", "non conosco il testo", premette con onestà - ma la sua esperienza di magistrato per quasi un decennio alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli lo spinge ugualmente ad alcune urgentissime riflessioni. La prima è questa: "Molte volte la captazione nascosta di colloqui tra le persone ci è servita per individuare dei fatti gravi e colpire di conseguenza la criminalità organizzata. Ecco, vorrei che si tenesse conto di questo dato nella formulazione della futura norma...". E già, perché l'emendamento incriminato (presentato dal deputato ncd Alessandro Pagano) recita così: "Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all'immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni". Carcere, dunque, per i "colloqui rubati". Ma il presidente dell'Anticorruzione, pur cauto, conosce benissimo l'argomento: "Il tema dei colloqui rubati impatta certamente sulla privacy delle persone ed anch'io trovo giusto che ci siano limiti alla divulgabilità delle intercettazioni. Ma...". L'esperienza le suggerisce tutt'altro, non è vero? "Certo! Quante volte i soggetti, vittime di estorsioni, penso a tanti imprenditori, sono andati all'appuntamento coi loro aguzzini con un registratore nascosto, una trasmittente. È proprio grazie a quei colloqui rubati che è stato possibile inferire dei colpi seri alla criminalità organizzata. Ho capito: il registratore nascosto è uno strumento invasivo, può danneggiare immagini e reputazioni... Sì ma intanto l'estorsore è finito in cella". Cantone ora è anche piuttosto scosso, perché giusto giovedì sera si trovava a Sessa Aurunca (Caserta) per una delle tappe del "Festival dell'impegno civile" promosso dal comitato "Don Diana" e dall'associazione "Libera". Era lì per ricordare la figura di Alberto Varone - un imprenditore che distribuiva giornali ucciso 24 anni fa dalla camorra per il suo rifiuto di pagare il pizzo - e sedeva al fianco di Antonio Picascia, titolare di un'azienda che produce detersivi (la Cleprin) e che proprio come Varone non si è mai voluto inchinare al racket. "Scarafaggi", così l'altra sera Picascia, coram populo, aveva ribattezzato i camorristi. Poche ore dopo la fine del convegno, però, la sua azienda è andata completamente distrutta dal fuoco. Incendio doloso, secondo i primi riscontri dei carabinieri. Mentre a Roma si discute, Cantone, la camorra rialza la testa. "Per questo è necessario assolutamente che quest'episodio non passi inosservato. Sarebbe un grande regalo alla criminalità organizzata. Le mafie vivono di simboli e quella dell'altra sera è stata una prova di forza della camorra, un pugno in faccia dato ai cittadini e alle istituzioni. Un minimo di cautela è d'obbligo, ma se la matrice dolosa dell'incendio sarà confermata è inevitabile pensare che sia stata opera dei clan. E il messaggio ai cittadini è chiaro: noi siamo ancora qui, abbiamo subìto dei colpi letali ma ci stiamo riorganizzando, non crediate che non ci siamo più... Quel fuoco è stato una riaffermazione di potere". Altro che il carcere per i colloqui rubati, dunque. Gli imprenditori come Picascia non vanno lasciati soli. Non è così? "Guai se restasse isolato, per fortuna so di tanti imprenditori anche del Nord che gli hanno subito espresso grande solidarietà. Le istituzioni dovranno stargli vicino, altrimenti il messaggio sarà devastante: i cittadini penseranno "ecco il prezzo che si paga per denunciare". Picascia è un uomo di grande coraggio. Lo conobbi già nel 2007 quando ero alla Dda di Napoli. All'epoca ci fece arrestare per tentata estorsione, con le sue denunce, due soggetti del clan Esposito: uno era un semplice manovale ma l'altro era un colletto bianco, un funzionario comunale di Sessa Aurunca che faceva da tramite con il clan. Fu un processo velocissimo e subito arrivarono le condanne". E il colletto bianco oggi che fine ha fatto? "Credo sia uscito di prigione". Giustizia: all'estero via libera ai microfoni nascosti se svelano notizie di interesse pubblico di Antonio Pitoni La Stampa, 26 luglio 2015 Il tema è delicato e, al netto delle polemiche e delle possibili retromarce peraltro già annunciate, non solo italiano. Certo, la norma partorita alla Camera che prevede il carcere da 6 mesi a 4 anni per "chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all'immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate", fa discutere. Ma cosa succede fuori dall'Italia? Francia. Oltralpe il faro è quello dell'interesse pubblico. Utilizzare lo strumento della registrazione, audio o video, realizzata all'insaputa dell'interlocutore non è la regola ma l'eccezione. Ma la sua divulgazione è consentita se la notizia ottenuta attraverso a registrazione fatta di nascosto non può essere reperita in altro modo. Così come, d'altra parte, molto più di rado rispetto all'Italia finiscono sui giornali i contenuti delle intercettazioni disposte dalla magistratura che da noi sono molto più frequenti per non dire la regola. Olanda. Da sempre ai primi posti in tutte le classifiche internazionali sulla libertà di stampa, anche in Olanda le registrazioni con microfoni e telecamere nascoste sono consentite purché, fermo restando l'interesse pubblico, la notizia non poteva essere scoperta in altra maniera. E per i politici, anche gli "inganni" dei giornalisti possono costare caro. "Ricordo il caso di un collega che aveva inventato di sana pianta un personaggio inesistente, arrestato per reati gravi. Un parlamentare abboccò e iniziò a commentare il caso come se fosse vero. Una figuraccia che lo spinse alle dimissioni", racconta Marteen van Aalderen ex presidente dell'Associazione Stampa Estera. Stati Uniti. Le comunicazioni tra privati sono regolate da una legislazione federale e da quelle dei singoli Stati. In molti dei quali è consentito a chi intrattiene una conversazione registrarla purché sia parte della conversazione stessa. In ambito giornalistico, tutto ciò che riguarda un personaggio pubblico è divulgabile: anche una semplice battuta carpita. Per l'uso delle telecamere nascoste si segue un principio deontologico: la notizia svelata deve essere di rilevanza tale da giustificare l'eventuale danno arrecato alle singole persone. Gran Bretagna. Anche nel Regno Unito, le telecamere nascoste possono essere essenziali per la riuscita di un'inchiesta giornalistica. Come quella dello scorso marzo realizzata da Channel 4 che è riuscita a denunciare maltrattamenti e umiliazioni nel centro di detenzione di Yarl's Wood, a Nord di Londra, dove erano ospitati circa 400 profughi. Un'inchiesta dalla quale emerge l'indiscusso interesse oltre che la rilevanza pubblica della notizia. Come dire: il fine giustifica i mezzi. Lettere: strage di Brescia, la giustizia e gli strappi di Benedetta Tobagi La Repubblica, 26 luglio 2015 Anche serve una sentenza di condanna 41 anni dopo il fatto? È davvero giustizia? Domande come queste serpeggiano insistenti nell'opinione pubblica dopo la condanna dei due neofascisti Maggi e Tramonte per la strage di piazza della Loggia, lo scorso 22 luglio. Un verdetto così tardivo, infatti, agli occhi di molti ha quasi il sapore di una beffa, l'ultimo scherzo maligno di uno Stato colluso e traditore. La giustizia, per esser tale, deve giungere tempestiva a riparare i torti e ristabilire l'ordine spezzato da un reato. Quanto alla funzione di simili giudizi, poi, non si può certo invocare l'effetto di deterrenza: la prospettiva di decenni d'impunità non potrebbe che rassicurare, al contrario, qualunque aspirante criminale. Non regge la logica retributiva; della prospettiva costituzionale della rieducazione del detenuto, infine, neanche parlarne. Perché, allora, i mezzi d'informazione stanno dando tanta attenzione a questi due ergastoli fuori tempo massimo? Credo si possano fare due ordini di considerazioni. In primo luogo, il significato e il valore di questa sentenza non possono prescindere dalla natura particolarissima del reato. Il massacro di piazza della Loggia s'iscrive a pieno titolo nella strategia della tensione. Tra il 1969 e il 1974, anni di Guerra Fredda, anche per effetto del fortissimo vincolo di fedeltà atlantico, pezzi importanti degli apparati dello Stato non obbedivano alla Costituzione, ma piuttosto operavano secondo la logica di una costituzione materiale anticomunista, in nome della quale, pur di arginare lo scivolamento a sinistra dell'asse politico e l'ascesa elettorale del Partito comunista, pareva legittimo coprire e proteggere, anziché i cittadini inermi colpiti dalle bombe, i terroristi che organizzavano e compirono attentati che avevano la funesta finalità di "destabilizzare per stabilizzare". Con un passato del genere alle spalle, il fatto che oggi gli anticorpi democratici della Repubblica riescano a ottenere un po' di giustizia contro quell'antica perversione del potere, è un risultato di grande significato politico e simbolico. Lo dobbiamo a chi è sempre rimasto fedele alla Costituzione contro la logica feroce della ragion di Stato. La durata abnorme di processi come quelli per le grandi stragi politiche o mafiose è dovuta ai reiterati depistaggi, non a inefficienze burocratiche. La giustizia, attraverso la parte sana della magistratura e delle forze di sicurezza, ha dovuto operare in un contesto a tal punto ostile e alterato che il fattore-tempo non deve far sminuire il valore di aver fatto prevalere un altro pezzetto di legalità costituzionale. Ma la pur tardiva sentenza sulla strage di Brescia è preziosa anche in un'altra prospettiva. Possiamo immaginare la convivenza civile nella società come una preziosa seta multicolore, intessuta di molti fili, le vite dei cittadini. Alcuni crimini hanno un impatto diretto e profondo sulla collettività, non solo sulle vittime dirette: stragi, terrorismo, delitti di mafia producono lacerazioni profonde in questo tessuto delicato. Meno drammatica, ma profondamente logorante, la corruzione onnipervasiva lascia una miriade di strappi che lo indeboliscono. Ottenere giustizia per un attentato che mirava a sovvertire la democrazia come fu la bomba di piazza della Loggia vuol dire operare nel solco di una "giustizia riparativa" in senso lato: una giustizia che cerca di riparare i danni inflitti al rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Visto che il tessuto della società non è mai al riparo dal logoramento, e in Italia, in particolare, la seta è stata brutalmente stracciata in più punti, non è mai troppo tardi per provare a ridurre, se non riparare, qualcuno di quei vecchi strappi con una parola di giustizia. Non lo dobbiamo solo alle vittime della violenza del passato. È un investimento per il futuro. Giustizia: strage di Brescia, una sentenza che ci parla di democrazia di Agnese Moro La Stampa, 26 luglio 2015 È di questi giorni la sentenza della Corte d'appello di Milano che condanna all'ergastolo Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi per la strage di piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1974. Condanne che significano anche dire con chiarezza che quella fu una strage di destra, voluta da Ordine Nuovo; che ci sono state coperture e depistaggi; che è dimostrato il legame di continuità con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 a Milano. C'è un grande lavoro dietro a questo risultato. Il lavoro di un bellissimo gruppo di avvocati di parte civile, che hanno saputo unire capacità tecnica, professionalità, passione e impegno. Un gruppo che si è speso nelle aule di tribunale e nelle piazze, nelle scuole, tra la gente per far capire quello che era successo e il perché. Dietro il risultato di questi giorni c'è anche e soprattutto l'intelligenza e la determinazione dei familiari delle vittime che, con Manlio Milani, per 41 anni - un tempo immenso - non si sono arresi allo scoraggiamento e ai muri di gomma. Un impegno probabilmente inevitabile, ma che costa tanto, e forse troppo, a loro, i sopravvissuti, ma anche a tutti coloro che, uniti a loro da vincoli di sangue o di elezione, condividono il peso multiforme e invasivo del "dopo". L'impegno di tutti costoro ha aiutato la città a non dimenticare e, soprattutto, a cercare di capire. Non per coltivare e trasmettere un rancore nei confronti dei colpevoli, evidenti o celati nell'ombra che siano, ma per amare coloro che morirono o restarono feriti e per imparare che la democrazia dell'inclusione, della responsabilità e della sovranità dei cittadini comuni costa, e non tutti la amano. Per insegnare che siamo immersi in una storia di umanizzazione e di liberazione, spesso osteggiata con ferocia, ma che è troppo bella e importante per essere abbandonata. Hanno pensato tanto ai giovani, curandoli in maniera particolare, e trasmettendo loro in modo rinnovato il sogno a cui altri giovani prima di loro, e coloro che manifestavano in piazza quel 28 maggio, diedero il nome di "antifascismo"; volendo intendere con questo l'impegno per un mondo in cui non ci siano signorotti e sudditi, chi vale e chi no, ma persone, tutte con pari dignità, libere di scegliere il proprio destino e di contribuire a costruire un "noi" che sia di tutti e che non preveda esclusi e dimenticati. Sardegna: Pili (Unidos); 66 boss di mafia e camorra trasferiti in segreto nel carcere Bancali Ansa, 26 luglio 2015 "Sardegna Cajenna di mafia: 66 tra i più pericolosi uomini della criminalità organizzata nazionale e internazionale, un vero e proprio esercito di capimafia occupa da qualche ora le celle del carcere di Bancali (Sassai). Codice assegnato ai detenuti: 41 bis, i vertici della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta. Con un blitz segreto, durato giorni, i capi del crimine sono stati trasferiti a Sassari. All'appello ne mancherebbero ancora venti, rispetto alle 92 celle predisposte, alcune verranno tenute libere", è la denuncia del deputato Mauro Pili (Unidos) che ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia, perché riferisca in parlamento, ed ha effettuato una visita ispettiva nel carcere. "Tra i detenuti uomini di primissimo piano, fra cui Pasquale Zagaria detto Bin Laden, e Raffaele Amato detto O Spagnolo. Un atto di una gravità inaudita - ha aggiunto Pili - consumato nel silenzio e con la complicità delle istituzioni che hanno in modo deplorevole avallato la decisione del governo. Aver trasferito in Sardegna 66 capimafia è un atto di follia. Un piano demenziale contrastato da tutti gli esperti in materia di antimafia e avallato invece da incompetenti che hanno volutamente trasformato la Sardegna in una Cajenna di mafia. I capimafia non vanno concentrati ma semmai separati". Per Pili "il rischio infiltrazioni mafiose in Sardegna è ora altissimo e ancora più concreto. Un pericolo che alti magistrati, dopo due anni di mie denunce, hanno confermano in modo esplicito, forte e chiaro. Un trasferimento gravissimo, se personaggi come Pino Arlacchi, responsabile Onu per la lotta alla mafia, hanno definito folle il piano del governo. Affermare come hanno fatto i massimi dirigenti del Dap che non c'è nessun pericolo significa coprire la realtà". "Il pericolo non è tanto quello interno al carcere, dove le condizioni sono comunque gravissime, piuttosto le infiltrazioni mafiose o camorristiche - ha sottolineato Pili - in un territorio ancora sano ma oggi piuttosto debole. Insomma il rischio è il movimento indotto intorno al carcere. Un po' come in passato era avvenuto a Carbonia, nel Sulcis, dove erano stati confinati esponenti della criminalità organizzata con gravi ripercussioni sul fronte dell'ordine pubblico". "Il mortificante silenzio della regione e della classe politica è l'ennesimo atto di servilismo verso lo Stato e questo governo - ha concluso Pili - che pensa solo a scaricare sulla Sardegna nuove e gravi tensioni". Abruzzo: elezione del Garante dei detenuti, la Radicale Bernardini concorre per nomina emmelle.it, 26 luglio 2015 Elezione del "garante dei detenuti" in Abruzzo: deve essere Rita Bernardini (segretario nazionale dei Radicali e da sempre impegnata a più livelli in una continua battaglia per i diritti civili). Marco Pannella e Vincenzo Di Nanna (rispettivamente presidente e segretario di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi), in una nota ribadiscono che la segretaria dei Radicali Italiani "è la nostra unica ed esclusiva candidata" e, come annunciato, ha presentato formale domanda per concorrere all'elezione del "garante dei detenuti" e spedito il suo straordinario "curriculum" presso i competenti uffici regionali. La candidatura di Rita Bernardini a Garante dei detenuti della Regione Abruzzo, per il non comune valore e prestigio, derivanti da un'esperienza unica e irripetibile, non ha bisogno di quella, presentata peraltro come di mero "supporto", dal radicale Ariberto Grifoni, al quale rivolgiamo un sentito ringraziamento". Viterbo: detenuto di 37 anni muore in cella, soffriva di varie gravi patologie Ristretti Orizzonti, 26 luglio 2015 Si chiamava Cristiano Mennoni ed era originario di Roma. Giovedì 16 luglio è morto nel carcere di Viterbo a causa delle gravi patologie di cui soffriva. Mennoni era in carcere dal 2011 e scontava una condanna definitiva di 16 anni per "omicidio volontario". Durante un tentativo di scippo nel quartiere romano di San Basilio investì un uomo, poi morto in ospedale. Santa Maria Capua Vetere: in Regione Odg per detenuti senz'acqua, sfida alla burocrazia di Fabrizio Ferrante blastingnews.com, 26 luglio 2015 Passa un ordine del giorno in consiglio regionale sulla questione relativa all'acqua mancante in carcere. Spesso si parla di carceri degne del Medio Evo quando, a proposito delle galere italiane, vengono evidenziate le numerose violazioni alle leggi vigenti, non senza situazioni al limite come nel caso del carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere. Già nei giorni scorsi abbiamo dato conto (non per la prima volta) della cronica assenza di un allaccio alla rete idrica che, da diversi anni, assilla i detenuti, almeno quanto i miasmi del sito di San Tammaro, posto a breve distanza dal carcere e nel quale si trattano i rifiuti. Dopo anni in cui solo i Radicali e talune associazioni "di categoria" hanno denunciato i danni alla salute dei detenuti (oltre che alla loro dignità) derivante, tra gli altri fattori, dall'assenza di acqua corrente sembra che qualcosa inizi finalmente a muoversi. Specie ora che anche i maggiori media si sono interessati allo strano caso del carcere senz'acqua (meglio tardi che mai) ecco che anche la politica locale muove i primi, timidi, passi. Venerdì 24 luglio, ha fatto sapere l'ufficio stampa del Garante dei Detenuti della Campania con una nota emessa stamane, il consiglio regionale della Campania ha approvato all'unanimità un ordine del giorno. Nel testo si impegna la Regione ad attivarsi e risolvere, in tempi brevissimi, l'assenza di acqua corrente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si chiede, ancora una volta ma stavolta in via ufficiale, l'allaccio alla rete idrica del comune della provincia di Caserta. L'acqua corrente, quindi, può essere prospettiva per una volta realistica laddove il servizio idrico è, ad oggi, appaltato alle autobotti con tutti i disagi e le insufficienze del caso. L'iniziativa in Consiglio Regionale è stata promossa dalla consigliera Vincenza Amato e dalla deputata Camilla Sgambato (entrambe del Pd) quest'ultima particolarmente attiva sulla questione al punto da incolpare la burocrazia per l'assenza dell'acqua nel carcere di Santa Maria. Il tutto espresso in una missiva che alcune settimane fa la deputata inviò ai sottosegretari alla Giustizia, Umberto Basso De Caro e Paola De Micheli. In particolare, anche tenendo conto dell'estate torrida che stiamo vivendo, l'allacciamento idrico è ritenuto non più rinviabile. Opera che, va ricordato, costa un milione di euro già stanziati dal Dap ma che, per questioni burocratiche pur esistendo già un progetto, non possono passare dal Ministero a un Ente Locale. Trapani: carenze di organico nel carcere, Polizia penitenziaria in assemblea permanente trapanioggi.it, 26 luglio 2015 Con una nota inviata al Provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria per la Sicilia, Maurizio Veneziano, i sindacati della Polizia Penitenziaria Sappe, Sinappe, Osapp, Fns Cisl e Coordinamento nazionale Polizia Penitenziaria hanno confermato lo stato di agitazione e l'avvio, a partire da lunedì prossimo, di una assemblea permanente al termine di ogni turno di servizio per discutere le problematiche legate alla carenza di organico presso la Casa circondariale di Trapani. Le organizzazioni sindacali contestano le deduzioni contenute nella nota di Veneziano, datata al 9 luglio scorso, con la quale, analizzando i numeri del personale presente, compresi i distacchi in entrata e quelli in uscita, conferma che sì esiste una carenza di personale nell'Istituto trapanese ma che il coefficiente ottenuto, calcolando il rapporto numerico detenuti/agenti è lo 0,68 e quindi non "di allerta", rispetto alle disposizioni dipartimentali che fissano la soglia allo 0,45. "Le sue considerazioni - si legge nella nota dei sindacati - non tengono assolutamente conto dell'alto numero di assistenti capo (circa 20) a disposizione della C.M.O. di Messina, di fatto assenti per lungo periodo; non tiene conto dell'elevata anzianità anagrafica (età media 50 anni) che influisce negativamente sui servizi e sulla sicurezza dell'Istituto - che ormai potremmo definire come un optional, date le assenze giornaliere per malattia legata a varie patologie molte delle quali cause di servizio. La sua analisi non tiene conto dell'assoluta mancanza di figure intermedie quali i sovrintendenti (solo 5, di cui 3 al Sat e 2 al Ntp) motivo per il quale numerosi assistenti capo svolgono le mansioni di capoposto, e talvolta di coordinatore, demandate ai sottufficiali". I sindacati ribadiscono che, attualmente, i poliziotti penitenziari in servizio non sono 281 - come sostenuto dal Provveditorato regionale per la Sicilia - ma "poco meno di 260 unità nei vari ruoli", e che "entro l'anno 2016 si prevede un esodo massiccio di poliziotti penitenziari verso la pensione a fronte di quattro nuove unità, appena uscite dal corso di formazione". "Ci saremmo aspettati si legge ancora nella nota - maggiore considerazione da parte del Prefetto di Trapani, il quale probabilmente impegnato in problemi più importanti, non ci ha degnati di un incontro né di una lettera, eppure il problema è serio se si considera che alla Casa circondariale di Trapani vi sono ristretti, ad oggi, 412 detenuti, con tre reparti detentivi in regime di celle aperte per almeno 8 ore al giorno e un reparto con 100 detenuti del circuito "alta sicurezza", socialmente pericolosi, con fine pena molto lunghi e che nelle ore pomeridiane e notturne la presenza di personale di Polizia Penitenziaria è ridotta ai minimi termini; ma questo pare che non preoccupi nessuno, salvo che succeda qualcosa di grave o di eclatante per poi cercare le responsabilità". I sindacati ribadiscono che "rispetto alla pianta organica che è di 323 unità allo stato mancano circa 60 unità e che se dovesse continuare, con questo ritmo, lo stillicidio di personale che va in pensione o alla C.M.O., da qui a qualche mese non si potranno più assicurare nemmeno i diritti soggettivi al personale o la presenza dei detenuti nelle aule dei tribunali per le udienze visto che anche al Nucleo traduzioni vi è una forte carenza di organico". Verona: detenuti al lavoro gratis in tribunale, ma scatta la rivolta contro il Ministero di Laura Tedesco Corriere di Verona, 26 luglio 2015 Da settembre il Comune non pagherà più le spese correnti. Ed è bufera sui nuovi diktat di Roma. È da mesi che il presidente del Tribunale lancia l'allarme: attenzione) dal primo settembre - salvo proroghe - è previsto che le spese correnti relative alla gestione e alla manutenzione degli uffici giudiziari non vengano più pagate dalle amministrazioni comunali bensì dal ministero della Giustizia. Parliamo, ad esempio, di luce e acqua ma anche del servizio di vigilanza: "Il problema è che, ad oggi, non c'è alcuna certezza su come avverrà il passaggio del testimone dal punto di vista operativo, più volte ho chiesto lumi a Roma ma non ho ottenuto risposte - spiega il giudice Gianfranco Gilardi. L'unica comunicazione certa ci è arrivata dal Comune, che ha confermato che dal primo settembre non sosterrà più le spese ordinarie relative al funzionamento del tribunale". Al già gravoso problema, però, se n'è aggiunto un altro da qualche giorno: sul tavolo del presidente Gilardi, infatti, direttamente dal ministero della Giustizia ha fatto capolino uno "schema di regolamento" appena approvato dal Consiglio dei ministri e relativo proprio alle misure organizzative che dovrebbero entrare in vigore da settembre. Non si tratta di un documento definitivo: prima dovrà superare il vaglio del Consiglio di Stato, delle commissioni parlamentari e nuovamente del Consiglio dei ministri. Dopo aver letto ed esaminato tale "schema di regolamento", però, Gilardi è sobbalzato: al suo interno, infatti, è previsto che per la gestione delle nuove incombenze relative proprio alla gestione delle spese correnti e di manutenzione "ogni ufficio giudiziario" debba "avvalersi di proprio personale". Ed è qui che il presidente del Tribunale scaligero si ribella: ma come, siamo in cronica carenza di personale da anni, non abbiamo sufficiente organico da delegare alle incombenze relative ai processi e ci ordinano di impiegare le nostre scarne risorse per fare il lavoro di contabili? Ragione per cui "dopo aver sentito anche altri miei colleghi che sono della mia stessa opinione, ho deciso di scrivere al Ministero per manifestare la mia contrarietà a tale previsione", annuncia il presidente. Anche perché tale bozza di regolamento non ammette scappatoie: "L'unica opzione prevista, è di poterci avvalere di convenzioni con altre amministrazioni, ma senza oneri aggiuntivi a carico del Tribunale". Visti i tempi di crisi, una strada difficilmente percorribile "soprattutto perché - rimarca il giudice Gilardi - al momento non ci è ancora stato chiarito in alcun modo dal ministero a quanto ammonteranno i fondi che ci verranno destinati". Qualcuno potrebbe proporre di impiegare per le nuove incombenze di tipo "contabile" i dipendenti dei Palazzi scaligeri (in totale 230 persone) di cui la riforma Delrio e la legge di Stabilità 2015 hanno previsto la messa in mobilità. Sul tema, lunedì scorso si è tenuto un altro incontro tra lo stesso Gilardi e il direttore generale della Provincia Elisabetta Pellegrini, Una decina, al momento, i dipendenti che il Tribunale sarebbe disponibile ad accogliere nei propri uffici: "Al momento, però, non ci sono certezze. Anche su questo, cercheremo dì avere lumi dal Ministero perché sembrerebbe esserci una nuova opzione a cui possiamo ricorrere grazie al decreto dì mobilità. Chissà però quando potrebbero arrivare". Ma Gilardi non demorde e intanto sta lavorando per attuare un altro progetto: far lavorare detenuti in tribunale, "anche solo per svolgere interventi di manutenzione come risanare le buche nel parcheggio". In altri tribunali lo si sta già facendo e Gilardi sta portando avanti l'idea a stretto contatto con la direttrice del carcere: l'iniziativa è in stato avanzato; prima dì metterla in opera, però, occorrerà il via libera del Comune in quanto proprietario dell'area. "Speriamo di farcela: sarebbe un segnale di giustizia". In tutti i sensi. Verbania: "Malachite", un progetto del Gruppo Abele dedicato ai detenuti sex offender di Cristina Pastore La Stampa, 26 luglio 2015 Sono quindici i detenuti ospiti della casa circondariale di Verbania che devono scontare reati a sfondo sessuale. Capire la sofferenza prodotta in altri dalle loro azioni e allo stesso tempo avere coscienza della loro fragilità per imboccare un nuovo percorso: per aiutarle in quello che è un "tragitto" verso un'altra esistenza, dall'inverno - e per un anno con incontri individuali settimanali e di gruppo quindicinali - viene proposto, e tutti hanno accettato di aderire, il progetto "Malachite, un'occasione per sex offender". "È un'iniziativa frutto della collaborazione tra istituzione penitenziaria, l'associazione Gruppo Abele e la Compagnia San Paolo, che ha finanziato con 25 mila euro" spiega Gabriela Gualtieri, educatrice con competenza sulla mediazione dei conflitti che con una collega psicologa/psicoterapeuta svolge gran parte del lavoro. Al progetto partecipano anche il dipartimento dipendenze dell'Asl Vco, la parrocchia di San Leonardo e le associazioni "Camminare insieme" e "Non solo aiuto". Padova: Fondazione Zancan; sempre più donne si rivolgono ai centri antiviolenza Redattore Sociale, 26 luglio 2015 Nel 2014 827 donne si sono rivolte agli sportelli padovani del Centro Veneto Progetti Donna - Auser di Padova. Fondazione Zancan: "Anche i figli sono vittime: pagano le conseguenze della violenza subita e assistita". Sempre più donne chiedono aiuto ai Centri antiviolenza di Padova. Da gennaio a dicembre 2014 827 donne si sono rivolte al servizio, provenienti da tutta la provincia. È quanto emerso nel corso del seminario di ricerca "Ripensare al futuro" organizzato dal Centro Veneto Progetti Donna - Auser di Padova in collaborazione con la Fondazione Emanuela Zancan, che si chiude oggi nel centro studi di Malosco (Trento). L'obiettivo del seminario era do "ripensare alle ragioni che sostengono l'impegno quotidiano del Centro e proporre gli orientamenti per i prossimi cinque anni" spiega la presidente del Centro Veneto Cristina Bastianello. La maggior parte delle donne che chiede aiuto (71%) è di nazionalità italiana e la fascia di età prevalente va dai 30 ai 50 anni. Quasi la metà sono coniugate o vivono in una relazione stabile. Circa il 62% ha figli e i minori coinvolti in situazioni di violenza assistita sono 535. "Quando una donna si rivolge ai nostri servizi noi la accogliamo e costruiamo un percorso di aiuto e accompagnamento per uscire dalla violenza". "L'indice di violenza contro le donne dentro e fuori casa segnala che aumentano in modo esponenziale le donne che chiedono aiuto ai Centri - evidenzia Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan -: si tratta di un servizio prezioso per la comunità e i centri di responsabilità a tutti i livelli. Ma c'è un dato ancora più preoccupante che riguarda i figli, che insieme con le madri, sono a loro volta vittime, poiché pagano pesantemente le conseguenze della violenza subita e assistita come testimoni diretti". Le proposte emerse dal seminario saranno organizzate in un documento messo a disposizione di tutti i centri di responsabilità sociali e istituzionali affinché il problema possa essere affrontato e condiviso da parte di tutta la comunità. Milano: vigilia dell'anniversario di via Palestro, raffica di scritte sui muri contro il 41bis di Franco Vanni La Repubblica, 26 luglio 2015 Sono comparse a decine nella notte e continuano le segnalazioni. Il presidente della commissione Antimafia in Comune: "Campagna aggressiva di sostegno ai mafiosi, i cittadini ci aiutino a cancellarle". Milano, raffica di scritte sui muri contro il 41 bis alla vigilia dell'anniversario di via Palestro. Scritte contro il 41 bis. Graffiti che si oppongono al regime di carcere duro, solitamente riservato ai condannati per mafia, tracciate a caratteri cubitali sui muri di Milano. Sono comparse a decine nella notte, e l'assessore comunale ai Lavori pubblici, Carmela Rozza, si sta impegnando a farle cancellare. L'autore è ignoto. La grafia delle varie scritte sembra molto simile, ma con qualche differenza fra un graffito e l'altro, tanto da fare pensare che possa esserci più di una mano. A dare l'allarme, tramite il proprio profilo Facebook, è il consigliere comunale del Pd David Gentili, presidente della commissione Antimafia di Palazzo Marino. "Le faremo cancellare immediatamente - scrive Gentili sul social network - per la commemorazione della strage di via Palestro (che ricorre il 27 luglio), ci piacerebbe coinvolgere i cittadini stessi nel censurare con nettezza una campagna aggressiva, anonima, di sostegno ai mafiosi, che ci preoccupa. Vi farò sapere. Vi prego di condividere il messaggio!". Le scritte sono comparse in diversi punti della città e col passare delle ore altre ne vengono segnalate e cancellate. La mappa va allargandosi: piazza Leonardo Da Vinci, piazzale Maciachini, uno dei viadotti in zona Mac Mahon, viale Monza all'altezza di Precotto, Villa San Giovanni, viale Monteceneri. E la lista è ancora lunga. Sul muro di cinta dell'ippodromo è stata poi trovata la scritta "omertà = rispetto", ma potrebbe essere stata tracciata precedentemente e notata solo ora. Il Comune ha segnalato la cosa alla questura. La cancellazione del regime di carcerazione previsto dall'articolo 41 bis (introdotto dalla Legge Gozzini) è una battaglia ormai storica dei parenti dei detenuti che vi sono sottoposti. Fece scalpore nel 2002 la comparsa allo stadio di Palermo di uno striscione contro il 41 bis durante la partita Palermo-Ascoli del 22 dicembre. Un'inchiesta della Procura di Palermo chiarì come a fare esporre lo striscione furono direttamente i boss di Cosa nostra del quartiere Brancaccio. L'abolizione del 41 bis sarebbe anche stata la richiesta da parte di Cosa nostra alla base della trattativa Stato-mafia successiva alle bombe del biennio 1992 e 1993. Partendo da tutt'altro presupposto, il 41 bis è inviso anche a una serie di associazioni che si battono per i diritti dei detenuti. Una rassegna di queste posizioni si ha sul portale web ilgarantista.it. Sostenitrice della "assoluta inumanità del carcere duro" è anche Rita Bernardini del partito Radicale, che da anni ne chiede l'abolizione con digiuni e iniziative non violente. Il 41 bis, motivato dal tentativo di impedire i contatti fra il detenuto e l'organizzazione criminale di appartenenza, prevede forti restrizioni dei contatti con l'esterno, l'isolamento del detenuto rispetto agli altri carcerati e una serie di "divieti accessori di sicurezza" fra cui quello di cucinare in cella, o di dedicarsi ad attività artigianali. In Italia sono sottoposte a questo regime carcerario circa 650 persone. Oltre ai condannati per mafia, anche detenuti per terrorismo, sequestro di persona, sfruttamento della prostituzione minorile. Livorno: appello per Gorgona, l'isola delle buone pratiche nella relazione umano-animale Il Tirreno, 26 luglio 2015 Firmato da Rodotà, Colò, Tamaro, De Luca e esponenti della cultura: "Proseguite con il percorso di salvaguardia". Dopo la petizione firmata da migliaia di cittadini e la recente mozione approvata in Senato (che impegna il Governo a "valorizzare e promuovere buone pratiche come l'esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell'isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici"), ora è la volta di importanti persone del mondo giuridico, della cultura e dello spettacolo, che indirizzano l'appello al ministro Orlando, oltre che al presidente Mattarella, al premier Renzi e al governatore Rossi. Titolo: "Appello per Gorgona: l'isola delle buone pratiche nella relazione umano-animale". Fra i firmatari Stefano Rodotà, Licia Colò, Sveva Sagramola, Susanna Tamaro, Erri De Luca, è significativa l'adesione di un'antropologa che ha redatto una tesi sulla comunità di Gorgona e quella di un ex persona detenuta sull'isola. L'appello ripercorre alcune delle tappe fondamentali che hanno caratterizzato il percorso di tutela degli animali presenti sull'isola, sottraendoli ai meccanismi di sfruttamento zootecnico e, quindi, alla morte . Chiede, per tutti gli animali presenti sull'isola, che tale percorso, iniziato con la stesura della Carta dei diritti degli animali di Gorgona e proseguito con l'emanazione di Decreti di Grazia per alcuni animali dell'isola, giunga al proprio definitivo compimento. In uno dei principali punti dell'appello si legge infatti: "Vi chiediamo di tutelare la vita di tutti gli animali presenti sull'isola, riconoscendo la loro soggettività e il loro status di "esseri senzienti" (cosi come affermato nell'articolo 13 del Trattato di Lisbona) e sottraendoli da ogni forma di vendita o sfruttamento per finalità produttive nonché dalla morte per macellazione. Lo sfruttamento e l'uccisione degli animali sono, infatti, incompatibili con la missione istituzionale del carcere". Dello stesso avviso è anche la prof.ssa Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario e procedura penale europea e sovranazionale presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, che nel suo contributo al documento "Carceri: materiali per la riforma" richiama esplicitamente l'esperienza di Gorgona come inedita e innovativa nell'ambito della rieducazione delle persone detenute e ispirata alla relazione nonviolenta tra umano e altri animali. Il prossimo 14 settembre una delegazione di parlamentari visiterà l'isola di Gorgona per conoscere sul campo questa innovativa realtà. Volterra (Pi): Shakespeare nel carcere-mondo, detenuti-attori e regia di Armando Punzo di Renato Palazzi Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2015 I testi scelti dagli stessi detenuti-attori per la regia di Armando Punzo, trasmettono un senso tragico della vita di portata universale. Se il festival di Santarcangelo è parso un lucido aggregato di acri suggestioni mentali, Volterra Teatro è stato un incalzante susseguirsi di pure scosse emotive, come si conviene a una rassegna che si svolge interamente dentro e attorno a un nucleo di sensazioni e sentimenti esasperati, quale è il carcere. Quest'impressione di una squassante tensione interiore è risultata evidente fin dallo spettacolo inaugurale, quello di Armando Punzo con la compagnia dei detenuti, che si è rivelato uno dei più estremi e definitivi nei ventisette anni di storia di un'esperienza senza pari. Mentre la scorsa estate Santo Genet, concitato collage di brani del grande autore francese "maledetto", era di una forza inaudita, ma improntato a una sontuosa costruzione formale, questo primo "studio" per un nuovo lavoro su Shakespeare - già affrontato più volte da Punzo - sembra celebrare l'irreversibile apocalisse di ogni forma possibile: è anch'esso un tormentato florilegio di situazioni, di oggetti, di frasi estrapolate da opere diverse, di personaggi ridotti a meri fantasmi della scena che si aggirano fra le macerie dell'Occidente, come avrebbe detto Heiner Müller. Nel suo lugubre furore, esso trascende però la nera visione di Müller, come trascende e corrode ogni certezza acquisita. Shakespeare. Know well è ciò che resta dopo una catastrofe epocale. È un incubo post-shakespeariano, post-teatrale, post-tutto. Come avveniva anni fa, l'azione è ambientata unicamente nel cortile, sotto il rovente sole pomeridiano, e non nel labirinto di stanzette laterali che venivano utilizzate ultimamente. Lo spazio è un paesaggio di enormi croci lignee e di scale a pioli, quasi un moltiplicarsi di deposizioni di un Cristo assente. È un ideale cimitero dove le labili figure che furono Otello o Calibano vagano senza meta e senza più ruoli definiti. Uomini con libri infilati intorno al collo come gorgiere, una Desdemona meccanicamente aggrappata al suo fazzoletto, una pallida fanciulla intenta a trafficare senza sosta con un vassoio di tazze e bicchieri si muovono intorno a Punzo che, vestito di nero, siede a una sorta di scrivania ai piedi di un grande letto matrimoniale, un po' Amleto, un po' Shakespeare stesso, un po' un'incarnazione dell'uomo d'oggi impegnato a interrogare invano i miti del proprio passato. Lui prova a interloquire con quelle ombre, le sfiora, sussurra delle parole al loro orecchio o se le fa sussurrare, non si sa se per dare loro qualcosa o per rubarglielo, che è una metafora del suo metodo registico. Ma esse sembrano rivoltarsi e sfuggire al suo controllo. Le voci amplificate e come dissociate dai corpi, la straordinaria colonna sonora ossessivamente ripetitiva di Andrea Salvadori, le movenze da sonnambuli degli attori evocano un clima febbrilmente onirico. I brani, scelti dai detenuti stessi, che sembrano averli assimilati nella loro stessa carne, per arrivare a recitarli con una misura e una sensibilità sorprendenti, provengono da vari testi spesso difficili da identificare, Riccardo II, Enrico VI, Timone d'Atene, Pericle principe di Tiro, ma soprattutto dalla Tempesta: e sembra centrale, nello spettacolo, proprio l'idea di una terribile tempesta che si è abbattuta sull'umanità mandando a monte i suoi valori e i suoi progetti, separando gli individui da se stessi, confondendo uomini e dei, furfanti e re. Questo sentore di distruzione, nella circostanza, va ben oltre il dramma della reclusione, riflettono uno smarrimento, uno sconvolgimento universale: l'unico spiraglio di speranza, alla fine, è l'apparizione di un bambino che fa rotolare a fatica un gigantesco globo terrestre: è l'incerta promessa di un possibile futuro? Nel segno dell'emozione sono state anche la festa per gli ottant'anni di Giuliano Scabia, che, fresco come un ventenne, ha letto pagine della sua Commedia di matti assassini, e la presentazione dell'archivio storico della compagnia, intitolato alla memoria dell'avvocato-drammaturgo milanese Augusto Bianchi Rizzi, scomparso di recente, da sempre amico e sostenitore dell'attività di Punzo: un inesauribile patrimonio di immagini e conoscenze messo a disposizione - grazie a un lascito della moglie Rosanna - di chi vuole consultarlo, anche da remoto. L'archivio, affidato all'Università di Bologna, raccoglie migliaia di ore di materiali video che documentano non solo tutti gli spettacoli, ma anche le prove, le fasi di preparazione, i procedimenti attraverso i quali gli attori-carcerati vengono messi in condizione di accostarsi a testi all'apparenza lontanissimi dalle loro conoscenze e dai loro mezzi interpretativi, studiandoli e approfondendoli fino a padroneggiarli con la sicurezza che mostrano in scena: ed è forse questo l'aspetto più importante di un simile progetto. Ma si è trasformato in una preziosa occasione dimostrativa anche l'illuminante work in progress - guidato passo passo da Punzo, in quella totale simbiosi che è alla base del suo modo di dirigere - del detenuto- attore-scrittore Aniello Arena, il protagonista di Reality, nel teatro del Larderel di Pomarance: la maschera facciale sghemba, i gesti disarticolati, Arena ha mostrato scene dei precedenti spettacoli in carcere e assaggi di una ricerca in divenire sulla Montagna incantata di Thomas Mann. E non lasciava certo indifferenti la rappresentazione, da parte della compagnia Archivio Zeta, di una delle tappe del suo percorso nel Pilade di Pasolini in un antico cimitero sulle colline, nel profumo dell'erba e nella luce del tramonto, con costumi fatti di ruvidi panni contadini: quando alla fine, in questo clima sospeso, irrompeva la voce registrata del poeta, l'effetto era davvero irresistibilmente struggente. Libri: "Lettere dall'assassino. Quattro storie dal lato oscuro", di Chiara Prazzoli La Presse, 26 luglio 2015 "Fabio Savi, uno dei killer della Uno Bianca, ha imparato a sparare da bambino. Da adulto, assieme ai fratelli poliziotti, ha ucciso 24 persone. Non ha mai chiesto scusa. Giovanni Erra, coinvolto nell'omicidio di una ragazzina che si chiamava Desirée Piovanelli, ama i fumetti di Lupo Alberto. Nicola Sapone e Andrea Volpe, due della Bestie di Satana hanno la passione per la filosofia. Carmelo Musumeci, il boss che scatenò la prima faida di mafia del Nord, cerca di sorridere ma ricorda quando desiderò di morire". Chiara Prazzoli, cronista del settimanale Giallo, ha cercato di andare oltre verbali, processi, resoconti giornalistici, suggestioni. Ha cambiato punto di vista, senza perdere lo sguardo fermo e senza alcuna indulgenza. Ha scritto in carcere ai responsabili di delitti atroci e dalle missive con le risposte ha tratto un libro, un viaggio dal passato al presente attraverso le parole dei protagonisti negativi. Il volumetto si intitola "Lettere dall'assassino". Racconta "Quattro storie dal lato oscuro". È edito da Informant. La prefazione ha la firma di una criminologa nota al grande pubblico per le apparizioni televisive, Roberta Bruzzone. È online, sulla piattaforma Amazon, a 3.99 euro. A settembre uscirà in formato cartaceo. Iran: giustiziati 11 detenuti durante le proteste degli insegnanti a Teheran politicamentecorretto.com, 26 luglio 2015 Mercoledì 22 Luglio il disumano regime iraniano, con un atto criminale, ha impiccato collettivamente 10 detenuti nella prigione di Gohardasht (Rajai Shahr) di Karaj. Un altro detenuto è stato impiccato lo stesso giorno nella prigione di Esfahan. Queste atrocità sono state commesse contemporaneamente alle manifestazioni di protesta degli insegnanti che chiedono la libertà per gli insegnanti in carcere e il rispetto dei loro diritti calpestati. Di fronte alla crescente opposizione e al malcontento popolare, il fascismo religioso al potere in Iran, che il popolo iraniano ha ribattezzato "il padrino dell'Isis", incapace di occuparsi delle giuste richieste dalla maggioranza del popolo iraniano che sta vivendo al di sotto della soglia di povertà, sta continuamente inasprendo la repressione. Nel suo comunicato del 23 Luglio, Amnesty International ha sottolineato il numero scioccante di 700 esecuzioni avvenute in soli sei mesi dicendo: "Lo sconcertante numero di esecuzioni della prima metà di quest'anno mostra l'immagine inquietante di un apparato dello stato che pratica l'omicidio premeditato e legalmente legittimato, su vasta scala". La Resistenza Iraniana chiede al popolo iraniano, ed in particolare ai giovani coraggiosi, di organizzare delle proteste contro la catastrofica situazione dei diritti umani in Iran e di sostenere le famiglie delle vittime di esecuzione e repressione. Sollecita inoltre la comunità internazionale ad adottare una politica decisa nei confronti del regime iraniano. Tunisia: nuova legge antiterrorismo, reintrodotta la pena di morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 luglio 2015 Nel testo approvato due giorni fa dal Parlamento di Tunisi, diversi reati saranno puniti con la pena capitale. Più poteri a polizia e magistratura dopo gli attentati a Sousse e al Museo del Bardo. Società civile, sinistra e islamisti lanciano l'allarme: sarà colpita la libertà individuale. Scendono in campo in Tunisia la società civile e i centri per i diritti umani per protestare contro la reintroduzione della pena di morte per alcuni reati, dopo una moratoria di 25 anni, nel quadro della nuova legge antiterrorismo approvata con una maggioranza bulgara venerdì sera dal parlamento, alla vigilia della Festa della Repubblica. Un passo che giunge, non inatteso, dopo l'entrata in vigore dello stato d'emergenza annunciato il 4 luglio dal presidente Beji Caid Essebsi. Quella che per lo speaker del parlamento Mohamed Ennaceur "è una legge che renderà più sicuri i cittadini" dopo la strage compiuta a Sousse da un jihadista dell'Isis (38 morti) e quella di marzo al Museo del Pardo (21 morti), per tanti tunisini è invece una minaccia concreta alle libertà individuali. Proprio a Sousse ieri due uomini a bordo di una moto e armati di un fucile da caccia hanno sparato contro una pattuglia della polizia. Un agente è rimasto ferito alla testa e al petto. Poco dopo la polizia ha annunciato l'uccisione di un "terrorista" a Biserta e il fermo di 16 sospetti a Sousse, Sfax e Kasserine. L'agguato a danno della polizia potrebbe essere legato alla Festa della Repubblica. Il capo dello stato Essebsi per l'occasione ha graziato 1.581 detenuti, in considerazione anche delle pessime condizioni di vita nelle carceri tunisine. Dal provvedimento sono esclusi i responsabili di crimini come terrorismo, traffico d'armi, spaccio di stupefacenti e omicidio volontario. "Ci sono molte lacune nella legge antiterrorismo che potrebbero aprire la strada a gravi violazioni dei diritti umani", è scritto nel comunicato di protesta diffuso da un raggruppamento di 10 gruppi della società civile tunisina, tra cui l'associazione degli avvocati, il sindacato dei giornalisti e diversi centri per i diritti umani. Il testo approvato dal parlamento rimpiazza la legge antiterrorismo del 2003, in vigore sotto la dittatura di Zine El Abidine Ben Ali (costretto alla fuga dalla ribellione del 2010-11) e largamente utilizzata per reprimere l'opposizione. Tra i vari punti prevede la condanna alla pena di morte - assente dalla legge del 2003 - per una serie di reati di "terrorismo" che potrà essere applicata anche contro tutti coloro che uccideranno intenzionalmente persone che godono di protezione internazionale (i diplomatici) o che commetteranno stupri nel corso di un atto di terrorismo. I servizi di sicurezza potranno detenere e interrogare un sospetto senza la presenza del suo avvocato anche per 15 giorni. I danni a proprietà pubbliche compiuti nel corso di manifestazioni politiche saranno considerati terrorismo. Gli investigatori inoltre potranno utilizzare con più facilità lo strumento delle intercettazioni telefoniche nei confronti di persone che manifesteranno sostegno a presunte organizzazioni terroristiche. Il testo è troppo vago nella definizione del reato di terrorismo e può aprire la strada ad azioni repressive contro coloro che manifestano dissenso, anche in forma pacifica, spiega la sinistra temendo che alle autorità sia data anche la facoltà di vietare proteste e raduni popolari, come quelli visti durante la rivolta contro Ben Ali. Preoccupazione condivisa anche dalle forze politiche islamiste. "Dobbiamo essere consapevoli che saranno colpiti i diritti religiosi, la libertà di espressione e le conquiste della rivoluzione", ha avvertito Sahbi Atig, un membro del partito islamico Ennahda. Da più parti si sottolinea che la legge piuttosto avrebbe dovuto prevedere provvedimenti per la riforma dei servizi di sicurezza, considerati il punto debole della lotta alle organizzazioni armate jihadiste. Su questo insiste anche l'International Crisis Group che in un rapporto diffuso poche ore prima del sì del Parlamento, sostiene che la legge senza un miglioramento dell'addestramento e delle regole di condotta delle forze di polizia non farà altro che far passare la Tunisia "da una crisi all'altra anche in conseguenza del peggioramento del clima regionale, con il rischio di finire nel caos e aprire la strada a un ritorno della dittatura". Quello che in sostanza è già accaduto all'Egitto figlio della rivolta anti Mubarak. Stati Uniti: donna afroamericana morta in carcere, diffusi i dettagli dell'autopsia Askanews, 26 luglio 2015 Multeplici ferite hanno portato a concludere che si sia suicidata. Sandra Bland, la ventottenne afroamericana trovata morta il 13 luglio scorso in una cella di un carcere del Texas (Stati Uniti), ha usato una busta bianca della spazzatura per impiccarsi. È questo uno dei dettagli emersi ieri, quando sono stati resi pubblici per la prima volta i risultati dell'autopsia condotta il giorno dopo il suo decesso. Stando all'autopsia, sull'avambraccio sinistro della ragazza - deceduta al terzo giorno in prigione - sono state trovate dalle 25 alle 30 ferite orizzontali, definite come "cicatrici in via di guarigione". Sul polso sinistro aveva invece "abrasioni in via di cicatrizzazione" e sul lato destro della sua schiena abrasioni multiple. La diffusione dei dettagli dell'analisi dell'anatomopatologo è arrivata all'indomani di quanto spiegato da un procuratore texano, secondo cui l'autopsia metteva in risalto ferite riconducibili al suicidio. Bland aveva svelato ai funzionari del carcere un precedente tentativo per togliersi la vita motivo per cui crescono i dubbi sul fatto che la ragazza sia stata monitorata in modo appropriato prima della sua morte. La ragazza - residente in Illinois ma in Texas per un colloquio di lavoro - era stata fermata da un agente per non aver segnalato un cambio di corsia; in seguito, tra i due era scoppiata una lite, che aveva indotto l'agente ad ammanettarla. Le immagini dell'arresto sono state diffuse dalle autorità del Texas: una volta scesa dalla macchina, la donna è stata portata a bordo della strada, fuori dal campo visivo della videocamera, che a questo punto ha registrato solo le urla e gli insulti della donna, che accusava l'agente di averle sbattuto la testa a terra; da parte sua, il poliziotto la accusava di averlo colpito e di opporre resistenza. L'avvocato della famiglia aveva respinto le ipotesi che Bland avesse avuto problemi di depressione e avesse tentato in passato di suicidarsi, come affermato da alcuni poliziotti. L'agente (bianco) che l'ha fermata è stato sospeso dal servizio. Stati Uniti: "JP5mini", ecco il tablet usato dal 75% dei detenuti americani informatblog.com, 26 luglio 2015 I collegamenti tra i detenuti e il mondo esterno sono stati a lungo relegati a una tecnologia obsoleta: i telefoni di rete fissa. Ma l'azienda JPay ha contribuito a portare le comunicazioni in prigione nel 21° secolo. La società ha recentemente rilasciato un nuovo tablet per la popolazione carceraria, chiamato JP5mini, che permette ai detenuti inviare e-mail, e-cards e video ad amici e parenti. I tablet permettono ai detenuti di divertirsi, istruirsi e mantenere la comunicazione con amici e parenti in modo che possano favorire le relazioni per reinserirsi meglio nella società al momento del rilascio. Circa 60.000 tablet del 2010 del predecessore di JP5mini, il JP4, sono attualmente in uso in 11 stati americani. JPay sostiene che il JP5mini è stato già adottato da strutture di correzione in Idaho e nel New Jersey. Il tablet JP5mini è superiore in termini di grafica, velocità e potenza di calcolo, ed ha quattro volte la capacità di archiviazione del suo predecessore, raggiungendo i 32 gigabyte. I detenuti possono acquistare il tablet per 69,99 dollari nella loro struttura o qualcuno può acquistarlo per loro. Per comunicare con i detenuti, le persone possono accedere alla piattaforma web di JPay o scaricare l'applicazione JPay gratuita su iPhone o Android. JPay ha iniziato come un servizio di pagamento elettronico per le carceri. Poi l'azienda ha fornito servizi con accesso a musica, libri e messaggistica. JPay permette alle strutture di creare le proprie linee guida rigorose per filtrare i messaggi. Attualmente filtra circa 8.000 parole come "fuga", modi di dire, nomi delle gang e molto altro. "Possiamo anche identificare alcuni detenuti in base al loro livello di minaccia", ha detto Schulz: i detenuti ad alto rischio hanno tutti i loro messaggi moderati manualmente. I dispositivi vengono anche contrassegnati elettronicamente con le informazioni dei detenuti in modo che non possano abbandonarli dopo un uso improprio. Avere un tablet non significa che detenuti sono su Facebook e Twitter. Il dispositivo è dotato di un bootloader sicuro su un sistema operativo Android in modo che nessun altro sistema operativo possa essere installato, e non possono manipolare la piattaforma. Non è come Gmail o Yahoo. I membri della famiglia devono ottenere l'accesso alla piattaforma tramite il sito web o l'app per iPhone e Android. Tutto viene eseguito sulla piattaforma JPay. I detenuti non hanno di solito una connessione internet. Il JP5mini dispone di funzionalità wireless se un carcere decide di attivarlo: Schulz stima che circa il 75% dei detenuti usino il JP4. Ha anche aggiunto che i detenuti sono entusiasti del JP5mini. "Ogni volta che c'è qualcosa di nuovo, soprattutto i detenuti a vita, vogliono avere i modelli più recenti. A loro piace avere nuovo materiale. È molto simile al funzionamento della società". Stati Uniti: rilascio spia israeliana Pollard, nella speranza di allentare le tensioni sull'Iran Ansa, 26 luglio 2015 È in carcere da trent'anni Jonathan Pollard, l'ebreo americano arrestato nel 1985 e condannato per spionaggio a favore di Israele. Adesso gli Stati Uniti si preparano al rilascio in coincidenza di una scadenza giudiziaria che cade però in un clima complesso, in cui questa vecchia storia finisce per incrociarsi con un momento tra i più complicati per i rapporti tra Usa e Israele, all'indomani dell'accordo sul nucleare iraniano che l'amministrazione Obama ha voluto con forza, suscitando la manifesta irritazione dell'alleato, ma che il caso Pollard - secondo alcuni - potrebbe contribuire a stemperare. È il Wall Street Journal a rivelare che esistono pressioni a Washington per velocizzare la sua liberazione, anche prima di novembre quando, trent'anni dopo la condanna, Jonathan Pollard (60 anni) potrà chiedere la libertà su parola. Potrebbe però anche uscire prima, secondo quanto riferisce il giornale, proprio nella speranza che la mossa possa allentare le tensioni con Israele. La vicenda di Pollard è stata a lungo al centro di un braccio di ferro tra gli Stati Uniti e Israele, che ha ripetutamente chiesto la sua liberazione, mentre i vari presidenti che si sono alternati alla Casa Bianca, e anche la Cia e l'Fbi, si sono sempre detti contrari. Quando venne arrestato, Pollard lavorava come analista civile per la U.S. Navy, la marina militare americana. Tra il 1984 e il 1985 passò ad Israele un gran numero di informazioni classificate. Al processo, in cui si dichiarò colpevole, disse di averlo fatto per amore verso Israele, che però secondo alcune fonti lo pagò in quei mesi circa 50 mila dollari e nel frattempo gli ha concesso la cittadinanza. La sua liberazione è stata richiesta più volte dal premier Benyamin Netanyahu, praticamente ad ogni incontro ufficiale tra i due Paesi. Da qualche tempo la richiesta viene fatta anche sulla base del fatto che la salute di Pollard si starebbe deteriorando. E proprio i motivi di salute potrebbero permettere di accelerare i tempi, senza aspettare che il caso venga portato davanti a una Commissione federale per la libertà su parola, secondo quanto riferisce il Wsj, aggiungendo che alcune fonti ufficiali Usa hanno peraltro smentito con forza che la liberazione di Pollard possa essere collegata in qualche modo all'accordo con l'Iran. Un portavoce della Casa Bianca, interpellato, ha rimandato al dipartimento di Giustizia che a sua volta non ha commentato. Così come no comment è stata la reazione alla vicenda del portavoce di Netanyahu. Resta il fatto che il rilascio di Pollard - che negli anni ha assunto la fisionomia di un ebreo ortodosso e che in Israele ha assunto gradualmente un alone di eroe nazionale - di certo contribuirebbe ad un miglioramento dell'atmosfera tra il governo israeliano e la Casa Bianca.