Giustizia: Rita Bernardini "le carceri italiane? Strutture illegali" di Antonella Giannattasio Cronache di Napoli, 25 luglio 2015 "Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione". Voltaire lo diceva a metà del 700 della Bastiglia. A distanza di secoli, se fosse usato come metro di giudizio quanto accade all'interno delle strutture penitenziarie italiane, il Belpaese somiglierebbe di più a una tribù germanica che non ad uno Stato moderno. E in strutture in cui si passa da un'emergenza all'altra, l'arrivo dell'estate non è certo occasione per tirare un sospiro di sollievo. Temperature altissime in spazi ristretti in cui sono costrette a vivere più persone, per di più, spesso, con l'acqua razionata. A sottolineare quanto ancora ci sia da fare per restituire dignità ai detenuti è l'ex parlamentare, segretario dei Radicali italiani, Rita Bernardini. A lei, sempre in prima linea per i diritti dei carcerati, è stato affidato il coordinamento del tavolo sul "Mondo degli affetti e territorializzazione della pena" nell'ambito degli Stati Generali sull'esecuzione penale. Il segretario nazionale dei Radicali Italiani, Rita Bernardini, interviene su Cronache sullo stato di sofferenza dei carcerati italiani. L'ex parlamentare giovedì ha invitato il ministro della Giustizia Andrea Orlando a visitare con lei alcuni reparti di Sollicciano o di Regina Coeli per toccare con mano la difficile situazione che vivono i detenuti. Bernardini ha sottolineato che occorrerebbe superare immediatamente lo stato di illegalità che è comune a tutte le carceri, contestando le dichiarazioni della presidente della Commissione giustizia della Camera. Donatella Ferranti. che ha affermato che la condanna della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è stato un "input" per varare i provvedimenti, dimenticando che quelle denunce che hanno dato luogo alla sentenza Torreggiani le hanno presentate i Radicali. "Quando mi tocca leggere le dichiarazioni di una ex pm secondo la quale noi, come Paese, saremmo addirittura un modello, mi chiedo se abbia mai messo piede - visitandole adeguatamente - nelle celle di reclusione" - ha commentato. Bernardini ha ricordato, inoltre, che nella settima sezione di Regina Coeli (dove la scorsa settimana si sono suicidati due detenuti), a Pasquetta quando l'ha visitata assieme a Marco Pannella, gli agenti abbassavano gli occhi per la vergogna di ciò che si vedeva e ascoltava passando in rassegna le celle. La situazione diviene troppo spesso umiliante anche per i servitori dello Stato. costretti a tollerare situazioni inumane e degradanti, I Radicali hanno ribadito clic per uno Stato democratico e fatto obbligo di rimuovere immediatamente le situazioni in violazione dei diritti umani fondamentali: è questo il motivo di fondo per il quale continuano a volere e a lottare per un provvedimento di amnistia e di indulto. Da anni nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si fanno i conti con una situazione paradossale: la struttura non e collegata alla rete idrica comunale e l'acqua d'estate arriva nelle celle col contagocce. Prevede un suo intervento in proposito? "È imminente una mia visita a Santa Maria Capua l'etere insieme alla garante dei detenuti della Campania Adriana Tocco poiché coordino il tavolo sugli Stati generali sulla territorializzazione della pena e sull'affettività in carcere. Voglio ascoltare i detenuti, sarò a Santa Maria entro il mese di agosto. Le nostre carceri, anche quelle dove non c'è sovraffollamento, sono strutture illegali. In merito ho trovato un certo accordo con il ministro della giustizia Andrea Orlando quando ha definito gli istituti penitenziari come criminogeni perché non corrispondenti a ciò che prescrive nostra Costituzione. Occorrerebbe superare immediatamente lo stato di illegalità che è pressoché comune a tulle le carceri per il mancato rispetto dell'Ordinamento penitenziario, del suo regolamento di attuazione e delle leggi fondamentali italiane. europee e transnazionali". Quali sono le principali problematiche che lei ha riscontrato all'interno delle carceri nel corso delle tante visite che ha fatto ai detenuti in questi anni? "Quasi tutti gli istituti sono in una situazione di illegalità per come si sconta la pena. Basii pensare alla salute, in carcere non solo ci si ammala ma non si viene neanche curati adeguatamente. Ci sono persone gravemente malate che sono in carcere anche se è stata dichiarala l'incompatibilità con il regime carcerario. Non ci sono poi attività trattamentali: solo il 20 per cento dei detenuti lavora e di questi solo il 5 per cento fa lavori qualificanti e spendibili all'esterno. Sono pochissimi i casi di percorsi formativi. Se andiamo a vedere tutte queste questioni ci rendiamo conto che è lo Stato a gestire gli istituti penitenziari in modo illegale". La penuria di acqua in un carcere, soprattutto d'estate e con le temperature delle ultime settimane, può avere gravissime conseguenze, per i detenuti ma anche per il personale delle strutture... "La mancanza di acqua può essere pericolosa per la trasmissione di malattie e, inoltre, è produce il trattamento disumano di chi è rinchiuso fra quattro mura. Chi è in carcere è in una situazione di sottomissione ma in questi casi si configura anche una condizione di pericolosità perché se si verifica un'epidemia di chi è la responsabilità? Sono venuta a sapere che il problema dell'acqua nel carcere di S. Maria non si è superato per problemi burocratici. Se le amministrazioni pubbliche non riescono a superare questi problemi dopo più di un anno evidentemente devono andare a casa. Mettono a rischio anche chi ci lavora nel carcere. Non è possibile che non ci si assuma la responsabilità di un ritardo che nei tempo è divenuto incomprensibile". La Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiane ha condannato l'Italia per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Quanto sta accadendo in molte carceri campane non rappresenta esattamente quanto censurato dalla Corte e quanto il nostro Stato dovrebbe sanare per evitare di incorrere in ulteriori sanzioni? "La sentenza Torreggiani non parlava solo di sovraffollamento delle carceri e di metri quadri delle celle ma anche di accesso all'acqua, anche a quella calda per potersi lavare, e di accesso alla luce in relazione alla dimensione delle finestre. I detenuti nelle celle ci vivono, non ci vanno solo a dormire". Il sistema carcerario italiano non deve fare i conti sono con problemi strutturali ma anche con quelli legati all'organizzazione della Giustizia nel nostro Paese. E si torna a parlare di carenza di organico nella magistratura... "In tutta la Campania si registra il mancato funzionamento della magistratura di sorveglianza. L'organico delle cancellerie è insufficiente e i magistrati si dedicano solo alle emergenze. Mi piacerebbe sapere quanti permessi premio vengono dati in Campania ai detenuti che si comportano bene in carcere. Si tratta di istanze molto importanti per i detenuti. Viste le emergenze questi permessi passano in secondo piano e il fatto che non si risponda alle istanze dei detenuti fa verificare una serie di illegalità. Il magistrato deve dare risposte, accogliendo o respingendo le richieste, ma deve rispondere ai detenuti". Quali provvedimenti potrebbero essere adottati in merito per cercare di risolvere la situazione? "Il mancato funzionamento della magistratura è una questione che è stata posta un mese fa al Ministro della Giustizia partendo dalla situazione assurda che si è verificata in Emilia Romagna dove un giudice di sorveglianza deve da sola rispondere alle istanze di 1.200 detenuti. Cosa impossibile. Abbiamo chiesto al Ministro notizie anche sugli altri tribunali di sorveglianza dove crediamo la situazione non sia molto diversa". È evidente che serve un cambio di prospettiva, che la questione carceri deve essere affrontata in un modo diverso... "Uno stato democratico non può tollerare situazioni di illegalità tanto più che si tratta di persone che sono state private della libertà personale. La pena prevista è appunto la limitazione delia libertà non certo quella suppletiva rappresentata dalla violazione dei loro diritti. Per uno Stato democratico è fatto obbligo di rimuovere immediatamente le situazioni in violazione dei diritti umani fondamentali". Giustizia: Luigi Manconi "basta bimbi in cella... ed è solo l'inizio, le idee radicali vincono" di Errico Novi Il Garantista, 25 luglio 2015 E sì, in effetti Luigi Manconi ce l'ha fatta. Grazie a lui aprirà la prima Casa famiglia protetta per madri detenute. Una struttura destinata a ospitare le recluse che hanno figli piccolissimi, bambini con meno di 3 anni condannati a loro volta a restare dietro le sbarre. Ce l'ha fatta, il presidente della commissione Diritti umani del Senato, anche nel senso che è riuscito a incrociare una particolare svolta di Poste italiane, e cioè la nascita della fondazione "Poste Insieme Onlus". Proprio ieri la presidente Luisa Todini ha presentato il progetto: due palazzine a Roma, all'Eur, altri 150mila euro per sostenere l'attività. Si può dire che è una sua vittoria senatore Manconi? "Non spetta a me dirlo: un minimo di eleganza vogliamo conservarlo? Ma in effetti tutti hanno attribuito il merito di questa realizzazione al sottoscritto, dal ministro Orlando all'assessore al Comune di Roma Francesca Danese alla presidente Todini. Da anni mi batto per portar via dalle carceri quelli che definisco gli innocenti assoluti, quattro mesi fa ho presentato un progetto a Poste italiane. È successo che la nostra proposta è arrivata proprio mentre Poste stava valutando quali fossero le iniziative più adatte all'avvio della Fondazione. Nel cui comitato scientifico siedono persone come Anna Maria Tarantola e Sabino Cassese. Ci siamo incontrati al momento giusto". I progetti al via sono due: la casa famiglia per le detenute e quello contro la Dispersione scolastica. "Ecco, il comitato di Poste avrebbe potuto fare altre cento scelte diverse, tutte avvedute. Nel caso dei bimbi in cella si è imposta l'importanza pratica e simbolica di un'iniziativa dai costi non molto alti, ma anche il progetto sulla dispersione scolastica è importantissimo". Basta neonati in cella: l'iniziativa ha un valore che va anche oltre questo specifico intervento? "Assolutamente sì. E l'ho spiegato tre giorni fa nella conferenza stampa a Rebibbia: sotto il profilo filosofico, Chiunque stia in carcere può affermare, rivendicare, urlare un pezzo di innocenza, non in senso giudiziario ma filosofico. Ciascun recluso pensa sempre che la colpevolezza non sia frutto solo del proprio cattivo comportamento. Poi ci sono gli innocenti assoluti, che individuo in due categorie: i bambini e gli internati negli Ospedali psichiatrici giudiziari. In entrambi i casi si è reclusi senza che vi sia mai stata una condanna. Se si riesce a rendere giustizia agli innocenti assoluti, si apre uno spiraglio. Si introduce il principio che a tutti deve essere filosoficamente riconosciuta una parte di innocenza". Questa è l'idea di fondo del suo saggio "Abolire il carcere". "Proprio così. Si parte da una proposta radicale, espressa proprio in modo limpido e trasparente nella sua radicalità, e si possono raggiungere degli obiettivi. Ecco perché "abolire il carcere" è un'affermazione riformista oltre che filosofica. Nel saggio c'è un capitolo con 10 misure, tutte realizzabili, alcune già tradotte in legge ma mai applicate". Il ministro Orlando ha appena dichiarato che il carcere "deve essere solo l'extrema ratio". Forse è la prima volta, per un guardasigilli. "Presentando il nostro libro, il ministro Orlando ha detto: grazie a una proposta così radicale possiamo compiere piccoli ma effettivi passi in avanti. Penso che gli ultimi due ministri della Giustizia, Cancellieri e Orlando, abbiano fatto per il carcere più di tutti i loro predecessori messi insieme". Com'è che con l'aria forcaiola che tira si riesce a far passare misure come la casa famiglia per madri detenute? "Ci piaccia o no conta molto, moltissimo la figura del decisore, in questo caso il ministro. E poi c'è una cosa di cui sono convinto: più torva è l'atmosfera, più è diffusa la richiesta di più carcere per tutti, e più c'è una parte che di fronte a una proposta radicale, limpida, capace di mettere in discussione il senso comune, vi si riconosce senza esitazioni. Tutto sta a fare in modo che la presunta maggioranza vociferante e tonitruante non sia la sola ad avere diritto di parola". Giustizia: giro di vite su furti e rapine, fino a sei anni di carcere per chi ruba nelle case di Simona D'Alessio Italia Oggi, 25 luglio 2015 Giro di vite per chi commette furti nelle abitazioni: si rischiano non più 3, ma fino a 6 anni di reclusione, mentre se il reato è aggravato si passa dai 2 ai 6. Maglie (ancora più) strette pure per rapina semplice e aggravata, per la quale la pena arriverà fi no ai 10 anni. E nel mirino finiscono le conversazioni "carpite in modo fraudolento, con registrazioni, o riprese" video, per le quali si potrebbero aprire le porte del carcere fi no a 4 anni, misura che verrà modificata per "non mettere il bavaglio alla libera informazione". Sono le novità emerse dai lavori in commissione giustizia alla camera sul Disegno di legge delega al governo per rivedere il codice penale e il codice di procedura penale, rafforzando, fra l'altro, le garanzie difensive e intervenendo sulla durata ragionevole dei processi (2798 e abb.); il testo approderà in Aula la prossima settimana per la votazione, dopo che è stato dato il mandato alla relatrice Donatella Ferranti (Pd). Fra le misure orientate ad ampliare i diritti della parte offesa, c'è quello della persona, a 6 mesi dalla denuncia presentata, a poter conoscere lo stato del proprio procedimento, attribuendole così potere di controllo e stimolo all'attività del pubblico ministero; inoltre, le si dà più tempo per opporsi alla richiesta d'archiviazione che, nel caso di un reato assai comune come il furto in casa, dovrà (contrariamente a quanto accade adesso) in ogni caso esserle comunicata. A seguire, saranno velocizzati i passaggi delle indagini, visto che il testo uscito dall'organismo parlamentare ha stabilito che il rinvio a giudizio, o la richiesta di archiviazione dovranno essere presentati entro 3 mesi dalla scadenza del termine, o dalla conclusione delle indagini, mentre è stato fissato uno specifico "potere di vigilanza" del procuratore generale sulla tempestiva e la regolare iscrizione nel registro degli indagati. Come già messo in risalto, è stato approvato l'inasprimento delle pene per reati di allarme sociale, quali le rapine, così come maggiore severità avverrà in caso di condanna per il voto di scambio politico-mafioso che dagli attuali minimi e massimi di 4 e 10 anni salirà a 6 e 12. Il governo, inoltre, secondo quanto si legge in un emendamento della relatrice, dovrà rivedere le norme per l'accesso ai benefici penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo e quelle per l'accesso alle misure alternative alla permanenza dietro le sbarre, tranne che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e, in particolare, per i condannati per mafia e terrorismo; i pentiti per tali crimini, però, è stato deciso, potranno sempre partecipare a distanza ai processi in cui sono imputati, attraverso video collegamenti. Quanto alle polemiche per la norma, primo firmatario Alessandro Pagano (Ap), che sanziona le registrazioni "rubate", osteggiata dal M5s, David Ermini, responsabile giustizia del Pd, ha fatto sapere che verrà corretta nell'Assemblea di Montecitorio, escludendo "esplicitamente l'esercizio legittimo di attività professionali". E tutelando così i giornalisti. Giustizia: riforma delle intercettazioni, scoppia il caso del carcere per i colloqui "rubati" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 25 luglio 2015 Emendamento notturno di Ncd alla legge che riforma le intercettazioni. A rischio anche programmi come "Le Iene". Protesta in commissione dei 5 Stelle che parlano di "bavaglio". Ma Orlando frena e il Pd annuncia correzioni. Mai più microfoni o telecamere nascoste. Tutti gli audio o i video rubati non potranno essere trasmessi se non si vorrà rischiare fino a 4 anni di carcere. Lo prevede il testo del disegno di legge di riforma del processo penale, licenziato ieri dalla commissione giustizia alla Camera. Ma forse già vecchio. Perché dopo le proteste, durissime, dei 5 Stelle, che hanno manifestato in 50 in Commissione, contro quella che definiscono la "porcata due", è arrivata una parziale retromarcia da parte del Partito democratico. Il responsabile Giustizia dem, David Ermini, ha spiegato: "Vogliamo solo mettere un freno a questo stato di terrore. Nessuno vuole fermare i giornalisti". E ha annunciato un emendamento che dovrebbe escludere i "professionisti" da questa norma, subito ribattezzata "salva-Iene". Anche se la sua collega di partito e relatrice Donatella Ferranti, sembra frenare. Lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha manifestato dubbi: "Ho riserve di carattere generale, sulle sanzioni. C'è una riflessione da fare. Non è l'orientamento del governo prevedere la galera per i giornalisti. C'è ancora il bicameralismo, vedremo alla fine". Anche se, fa notare il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, "il diritto di cronaca è salvo perché se registri e pubblichi una notizia non finalizzata a screditare la condotta non rientri nella punibilità". La norma contro i fuori-onda è contenuta nel disegno di legge di riforma del processo penale che la prossima settimana approderà in aula. Nel testo è stata inserita ieri mattina alle otto, con un emendamento presentato da Alessandro Pagano (Ncd) che adesso parla di "polemiche pretestuose". "Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione, o all'immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni", si legge nel testo. Immediata, dopo il sì della maggioranza, è stata l'irruzione in massa dei 5 Stelle nella commissione e poi ci sono state le manovre di ostruzionismo nella sala del mappamondo. "Quello che Silvio Berlusconi non è riuscito a fare lo volete fare voi" ha accusato Vittorio Ferraresi (M5S), mentre i colleghi gridavano: "Vergogna". Poi le reazioni negative. Inclusa quella della Associazione nazionale magistrati che, con il presidente Rodolfo Sabelli, avverte: "Siamo fermamente contrari a qualunque intervento che possa comprimere o mettere a rischio il diritto di cronaca e a qualunque ipotesi di carcere (per di più a pene elevate come in questo caso), per attività che abbiano in generale un carattere informativo". La relatrice Donatella Ferranti rivendica la bontà della norma e precisa: "Specifichiamo: non si tratta delle intercettazioni giudiziarie, ma di conversazioni tra privati rubate". Ma perché vietarle? Una svista? "No. Né una svista, né una novità. Lo abbiamo riformulato assieme al governo, lo abbiamo depositato da venti giorni e nessuno ha avuto a che dire fino alla strumentalizzazione dei 5 Stelle". Secondo la deputata del Pd la norma va bene così: "Si tratta di tutelare la privacy. E abbiamo aggiunto che verrà punito chi lo fa al fine di danneggiare. Questo già esclude il giornalista. Del resto non vedo perché se per registrare i colloqui tra due persone il magistrato ha bisogno di un'autorizzazione e un'altra persona no". Alla fine però non è categorica nell'escludere ritocchi: "Se arriverà un emendamento lo valuteremo". Più duro l'ex ministro Maurizio Lupi (Ncd): "È un principio di civiltà giuridica". Lunedì se ne riparlerà in Aula. Giustizia: intercettazioni, un'idea di pena intimidatoria su cui era facile non scivolare di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 luglio 2015 Quando si discute di intercettazioni, c'è sempre il sospetto che alla fine il vero intento sia la censura. E così capita che anche quando il Parlamento è chiamato a discutere di materia analoga, ma molto diversa da quella degli ascolti effettuati per ordine dei giudici, si crei confusione, rischiando di combinare pasticci. Proprio come è accaduto due giorni fa, al momento di approvare in commissione alla Camera l'intero pacchetto di riforma del processo penale. Il nuovo reato di "registrazione fraudolenta" è stato infatti licenziato, ma è già stato annunciato che dovrà essere cambiato in due punti nell'Aula di Montecitorio. Evidentemente qualcosa non va. La materia è complessa, sempre foriera di scontri. Perché quando si discute di intercettazioni il dibattito diventa rovente, c'è sempre il sospetto che alla fine il vero intento sia la censura. E così capita che anche quando il Parlamento è chiamato a discutere di materia analoga, ma molto diversa da quella degli ascolti effettuati per ordine dei giudici, si crei confusione, rischiando di combinare pasticci. Proprio come accaduto due giorni fa, al momento di approvare in commissione alla Camera l'intero pacchetto di riforma del processo penale. Può darsi che sia giusto, oltre che lecito, prevedere il nuovo reato di "registrazione fraudolenta". E ovviamente il Parlamento ne ha tutto il diritto. Ma se nel giro di un giorno per un emendamento presentato da qualche settimana, licenziato e dunque evidentemente ritenuto giusto, viene poi specificato che dovrà essere cambiato in due punti al momento della discussione nell'Aula di Montecitorio, evidentemente qualcosa non va. E forse quelle "migliorie" che rendono più chiara la norma potevano essere introdotte prima. Evitando polemiche e confusioni che non fanno bene al dibattito parlamentare e nemmeno a quello pubblico. Tanto più in un settore che - grazie a trasmissioni televisive, radiofoniche e online di grande successo - ha ormai a che fare con il diritto di cronaca e di essere informati. Specificare che dalla punibilità potranno essere esclusi i giornalisti e tutti gli altri professionisti può aiutare a chiarire gli intenti del legislatore; così come l'aggiunta che saranno colpiti i comportamenti tesi "soltanto" a danneggiare la reputazione o l'immagine altri. Ma suona comunque stonata una previsione di pena fino a 4 anni di carcere. Addirittura intimidatoria, dopo che - al momento di discutere sulla pubblicazione delle intercettazioni - la maggioranza dei politici si era detta contraria a una misura così drastica e aveva promesso una "battaglia di libertà". Non servono eroismi per affrontare materie tanto spinose, basterebbe la coerenza. Giustizia: intercettazioni sotto tiro, le modifiche in commissione al ddl delega penale di Andrea Colombo Il Manifesto, 25 luglio 2015 Camera. Emendamento Ncd lo prevede per chi diffonde video registrati senza consenso. Polemiche per il "bavaglio" all'informazione. Retromarcia Pd: giornalisti esclusi. Il governo impone le tappe forzate alla riforma del processo penale. Vuole carta bianca sulle intercettazioni. L'emendamento che scatena la rissa a Montecitorio parla chiaro: diffondere registrazioni o intercettazioni "rubate", cioè registrate di nascosto, costerà pene severe. Da sei mesi a quattro anni di galera. Lo presenta il deputato di Ap, componente Ncd, Alessandro Pagano. Lo approva la commissione giustizia della camera, impegnata in una incomprensibile corso contro il tempo per approvare prima della pausa estiva il ddl sul processo penale. All'interno del quale governo ha deciso di attribuirsi la delega sulle intercettazioni. Significa che su uno degli argomenti più complessi che ci siano, Renzi e i suoi ministri potranno decidere da soli, senza passare per il vaglio del parlamento. La ciliegina sulla torta è l'emendamento Pagano. Non che il problema non esista: le registrazioni rubate sono una barbarie, e negli ultimi anni in Italia si sono diffuse a macchia d'olio, sono diventate un genere giornalistico in sé. Non il più specchiato e neppure il più encomiabile. Metterle in discussione è giusto. Risolvere l'aggrovigliato nodo con un colpo di manette invece non lo è affatto. L'emendamento Ncd ha una componente palesemente intimidatoria, resa ancora più odiosa dal fatto che arriva da quello stesso centrodestra che, quando alla sbarra ci sono i potenti, si sbraccia per garantirli quanto più possibile. La reazione del M5S e di Sel è immediata ma diversificata. I pentastellati, che quanto a giustizialismo non sono secondi a nessuno, si sgolano. Sel protesta ma con maggior cautela. I deputati di Grillo invadono l'aula della commissione chiedendo in massa, come è loro pieno di diritto, di assistere. La presidente di commissione, Donatella Ferranti, Pd, quella che su disposizione del governo preme materialmente il piede sull'acceleratore, è costretta a spostare la riunione nella più capiente sala del Mappamondo. Volano urla e denunce, per lo più rivolti alla conduzione spiccia della frettolosa presidente. Gli immancabili cartelli dicono "No al bavaglio". Ma qualche dubbio circola anche nel governo e nel Pd. "Ho perplessità e riserve di carattere generale", confessa pensoso il ministro Orlando. "In linea di massima - prosegue - sono contrario al carcere per violazione di informazioni. Vedremo il testo finale". "Nessuno vuole mettere il bavaglio ai giornalisti", duetta la presidente Ferranti, che sarà relatrice quando la legge arriverà in aula, lunedì prossimo. Tant'è vero che si dice persino disposta "a riflettere su piccoli aggiustamenti che possano servire a chiarire". Il piccolo aggiustamento in questione lo annuncia, poche ore dopo, David Ermini, responsabile giustizia del Pd: "La norma tanto chiacchierata è chiara e di garanzia: si vuole impedire l'uso fraudolento delle registrazioni private. Presenteremo un emendamento per escludere esplicitamente dalla norma l'esercizio legittimo dell'attività professionale". L'assicurazione dovrebbe garantire una specie di salvacondotto per le tre trasmissioni che maggiormente adoperano a man bassa le registrazione rubate: Striscia la notizia, Le Iene e Report, anche se la formulazione è in realtà abbastanza tortuosa da lasciarsi aperta ogni strada. Tanto più che Ncd, determinante per la sopravvivenza del governo, non sembra avere alcuna intenzione di lasciar perdere: "Si può discutere sulle sanzioni, ma che non si possano intercettare fraudolentemente e poi diffondere conversazioni tra privati è sacrosanto". La questione è delicata, troppo per risolverla lasciando alle testate il diritto, discutibilissimo, di registrare e mandare in onda all'insaputa dell'interessato, e vietando le registrazioni negli altri casi. Non è affatto detto che la messa in onda sia di per sé più accettabile rispetto ad altre modalità d'uso. Occorrerebbe individuare altri e più complessi criteri: cosa impossibile data la fretta del governo. In realtà, la correzione di rotta annunciata, sia pur fumosamente, da Ermini combacia con l'impostazione generale adottata dal governo: evitare che il parlamento affronti con la dovuta attenzione e con la necessaria profondità un tema così importante. "È assurdo e molto grave - afferma il presidente dei deputati Sel Arturo Scotto - che su un tema così delicato e così divisivo, il parlamento non sia messo in condizione di discutere, tanto più che si tratta di un ddl e non di un decreto e che la fretta è assolutamente ingiustificata". Giustizia: processo Eternit-bis, sospensione e atti inviati alla Consulta di Mauro Ravarino Il Manifesto, 25 luglio 2015 Imputato il magnate svizzero Schmidheiny per i 258 morti a causa dell'amianto. È un altro duro colpo, per quanto parziale, per il movimento contro l'amianto. "Questo processo non può essere impedito, se la Consulta desse ragione alle difese sarebbe una sorta di colpo di Stato. Sarebbe come se ogni cittadino avesse una franchigia sugli omicidi". Parole dure, pronunciate da Bruno Pesce di Casale Monferrato, storico coordinatore della vertenza amianto, dopo la decisione del Gup di Torino Federica Bompieri di sospendere il procedimento "Eternit bis", inviando gli atti alla Corte costituzionale che dovrà esprimersi su una questione di legittimità. Il processo, che vede imputato il magnate svizzero Stephan Schmidheiny per l'omicidio volontario di 258 persone morte a causa dell'Eternit, viene dunque interrotto in attesa di una pronuncia della Consulta. La Corte si esprimerà sulla legittimità dell'articolo 649 del codice di procedura penale e sulla conformità alle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo per quanto riguarda il principio "ne bis in idem" (letteralmente non due volte per la medesima cosa). È il divieto di processare la stessa persona per la stessa fattispecie di reato. Nel primo processo all'imputato era stato contestato il disastro ambientale, ora l'omicidio volontario. "Riteniamo che non ci sia un contrasto con la convenzione europea", ha affermato il pm Raffaele Guariniello, che guida l'accusa insieme al collega Gianfranco Colace. La Procura approfitterà dell'allungamento dei tempi per contestare all'imprenditore svizzero altri 94 casi di morti legate all'amianto. Che si aggiungeranno agli attuali 258 deceduti - tra il 1989 e il 2014 - in maggioranza a Casale Monferrato (Alessandria), ma anche a Cavagnolo (Torino) e, in parte, a Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). Solo 68 sono ex lavoratori, gli altri sono residenti vicino ai quattro stabilimenti. Soddisfatta del provvedimento del gup la difesa. "Il tema del ne bis in idem lo avevamo sollevato noi", ha sottolineato l'avvocato Astolfo Di Amato, uno dei difensori Schmidheiny. Stupore, invece, da parte dei familiari delle vittime. "Essere così delusi dalla Cassazione è dura da digerire e anche la decisione di oggi fa male perché a Casale la gente continua a morire", ha detto Romana Blasotti, presidente dell'associazione familiari vittime amianto, Afeva. "La storia di Casale - ha aggiunto - è arrivata in tutto il mondo, ma la giustizia non è ancora arrivata ai responsabili". E a proposito di "ne bis in idem", Bruno Pesce ha spiegato: "Credo che per un cittadino sia incomprensibile il fatto che si possa escludere un processo per omicidio dopo uno per disastro. Sicuramente si allungano i tempi e la sofferenza, ma ci siamo abituati". Per Cgil, Cisl e Uil di Casale e per l'Afeva è una decisione che "non corrisponde alla realtà tanto storica quanto processuale" della vicenda dell'Eternit, sostenendo come, se il disastro nella realtà continui (50 casi di mesotelioma all'anno nella città piemontese), i reati contemplati nelle aule di tribunale siano diversi. "Vale la pena ricordare che la stessa Cassazione, all'indomani della sentenza aveva precisato che quel procedimento non riguardava i decessi delle persone ma solo il disastro ambientale, non giungendo quindi ad un giudizio assolutorio". Nella delusione, provano a leggere lo stop in chiave positiva: "Come dice il proverbio, a volte, non tutti i mali vengono per nuocere. L'accoglimento della questione di legittimità costituzionale in questa fase evita che sia riproposta nelle fasi successive del procedimento. In altre parole si può sperare che una volta risolta il procedimento possa proseguire spedito senza interruzioni fino alla conclusione". Afeva e sindacati concordano: "Da parte nostra continueremo ad avere piena fiducia nella giustizia e nella lotta fino all'affermazione della verità attraverso una giusta sentenza". Il sindaco di Casale Monferrato, la città più martoriata dalla fibra killer con i suoi duemila morti, commenta così la scelta del gup: "La strada è ancora in salita, ma continueremo a perseverare per avere giustizia. La città ha dimostrato più volte una ferma determinazione. Continueremo, tutti uniti e a fianco dei cittadini, a cercare giustizia". Giustizia: processo Eternit; nuovo rinvio degli atti alla Consulta, ma il Gup ha ragione di Vincenzo Vitale Il Garantista, 25 luglio 2015 Le parti civili del processo Eternit hanno ragione ad essere contrariate, dopo l'ordinanza con cui il Gup ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, procurando perciò la sospensione del processo per almeno due anni. Aspettare per altro tempo che si faccia giustizia di tanti morti è davvero defatigante, e soprattutto sfiduciante per le aspettative dei parenti. Tuttavia, le ragioni che stanno alla base dell'ordinanza di rimessione alla Consulta possono essere comprese. La triste verità è che questo processo è nato male fin dall'inizio, allorché una persona di sicuro esperta e molto preparata come il Procuratore Guari-niello scelse, anni or sono, di imbastire il processo a carico dello svizzero Stephan Shmidheiny, proprietario della Eternit, con l'imputazione di disastro doloso: il risultato fu negativo in quanto la Cassazione dichiarò il resto contestato prescritto da anni e perciò l'imputato la fece franca. Molti osservarono l'anno scorso, all'epoca della sentenza della Cassazione, che se invece che per disastro doloso il processo avesse mosso l'accusa di omicidio volontario plurimo, la cosa sarebbe andata diversamente. La Procura è corsa ai ripari imbastendo appunto un nuovo processo con l'accusa di omicidio volontario plurimo, ma i nodi son venuti al pettine subito, alla prima udienza davanti al Gup. Infatti, le difese hanno immediatamente fatto rilevare come anche se diversamente qualificati (prima disastro doloso e poi omicidio volontario plurimo), i fatti commessi rimangano sostanzialmente identici e come perciò chiamare l'imputato a risponderne di nuovo davanti ai giudici costituirebbe una lesione di un principio cardine dello Stato di diritto, in virtù del quale nessuno può essere giudicato due volte per il medesimo fatto e che di solito si esprime con il brocardo "ne bis in idem". In effetti, da un certo punto di vista la cosa è proprio così, anche se rimangono seri dubbi. La condotta punibile è infatti consistita nella omissione di tutte quelle salvaguardie previste dalla legge per impedire effetti gravemente nocivi sulla salute dei lavoratori, come appunto è accusato di aver fatto - meglio, di non aver non fatto - il responsabile Eternit. Si tratterebbe insomma di una condotta omissiva che sarebbe identica se invece di essere considerata quale causa di un disastro - come è stata precedentemente - venisse considerata condotta causativa di omicidio plurimo. L'obiezione però è dietro l'angolo. Infatti, va notato come, nonostante le apparenze, le due condotte non siano del tutto identiche: da un lato, il reato è infatti dato dalla pura omissione di cautele e si tratta perciò di reato di puro pericolo (al modo che è reato non abbassare le sbarre prima del passaggio del treno, indipendentemente dal danno che ciò possa produrre o non produrre); dall'altro lato, invece, il reato è dato dalla morte dei lavoratori, quale effetto causato dalla mancanza di quelle cautele e si tratta perciò di reato di produttivo di un evento (appunto la morte delle vittime): una differenza perciò ci sarebbe e potrebbe giustificare un nuovo processo per gli stessi fatti, che in realtà non sarebbero proprio gli stessi. Ma, il problema si complica se prendiamo in esame - come è necessario fare - la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Alla Corte europea infatti non interessa per nulla la configurazione giuridica che la legge dei vari paesi membri possa fornire dei fatti considerati e puniti quali reato: interessa soltanto sapere - ai fini di dichiarare illegittimo un nuovo processo - se la condotta tenuta presente dalla legge sia o no identica nei due processi. Orbene, va riconosciuto che la condotta strettamente considerata - vale a dire in senso ontologico-naturalistico - è identica: sia nel primo processo che in questo, viene infatti rimproverata la mancanza delle cautele necessarie ad evitare effetti nocivi o la morte dei lavoratori, nulla di più o di diverso. Ora, per la Corte Europea questo basta e avanza per impedire un nuovo processo che violerebbe il divieto del "ne bis in idem"; non così per la giurisdizione italiana che invece da sempre coltiva una prospettazione delle condotte di reato non naturalistica, ma "giuridicamente qualificata": in altre parole, per la legge italiana il reato non è dato solo dalla condotta oggettivamente intesa, ma anche da come la legge la qualifica e la considera rilevante e ciò consentirebbe di giudicarla da due punti di vista diversi e indipendenti. Da qui, il dubbio giustificato del Gup che chiede alla Consulta di sciogliere questo enigma: cosa dobbiamo reputare che sia reato ai fini del divieto del "ne bis in idem", per non collidere con le garanzie costituzionali? La condotta pura e semplice - come pretende la Corte Europea - o quella giuridicamente qualificata - come sembra chiedere la legge italiana? Qui il giudice ha ragione a rinviare glia atti alla Consulta. L'errore - dal punto di vista delle vittime è stato commesso prima. Ma forse non tutto il male vien per nuocere: forse da questa vicenda potremo salire un gradino della lunga e faticosa scala della civiltà giuridica. Dopo tanti averne discesi. Giustizia: Dirindin (Pd): chiusura Opg, commissariare le Regioni che non attuano la legge ilfarmacistaonline.it, 25 luglio 2015 Per la senatrice anche dopo la sentenza della Consulta "la legge va applicata nella sua interezza su tutto il territorio nazionale. Non sono più tollerabili i ritardi delle Regioni che ancora non hanno trovato soluzioni alternative all'internamento in Opg. Valutare seriamene il commissariamento". "A più di un anno dall'entrata in vigore della Legge 81/2014 per il superamento degli Opg va valutato seriamente il commissariamento delle Regioni che non stanno assicurando la piena attuazione della legge". Lo afferma la senatrice Nerina Dirindin, capogruppo Pd in commissione Sanità. "Una decisione che si impone - sottolinea Dirindin - vista anche la sentenza di ieri della Corte Costituzionale che ha respinto il ricorso contro la legge promosso dal Tribunale di sorveglianza di Messina, giudicando infondata la questione di legittimità costituzionale. La legge quindi c'è e va applicata nella sua interezza su tutto il territorio nazionale. Non sono più tollerabili i ritardi delle Regioni che ancora non hanno trovato soluzioni alternative all'internamento in Opg e delle Asl che non danno concreta attuazione ai progetti individuali di cura, riabilitazione e reinserimento sociale. Un percorso difficile, ne siamo pienamente consapevoli, ma che non può essere ritardato, a maggior ragione dopo la sentenza della Consulta. Le nuove strutture regionali (Rems), infatti, non devono diventare il rifugio per soggetti malati poveri, emarginati, senza casa che abbandonati dai servizi territoriali possono diventare, anche per questa ragione, socialmente pericolosi". "Sappiamo - conclude Dirindin - che sulla necessità di un commissariamento in grado di accompagnare il processo sui territori si è espresso favorevolmente anche il governo. A questo punto tutte le parti devono agire per non far passare altro tempo che potrebbe compromettere la buona riuscita della legge e lasciare inalterate gravi situazioni di degrado che aspettano da tempo di essere sanate". Giustizia: processo a Bossetti "è un detenuto a rischio, deve essere trasferito in comunità" di Gabriele Moroni Il Giorno, 25 luglio 2015 La richiesta dei suoi avvocati basata sulla consulenza psichiatrica. Lo psichiatra: "È una persona provatissima, in gravissima sofferenza psichica. L'ho visto affranto". "Massimo Bossetti è un detenuto a rischio. Deve lasciare il carcere ed essere trasferito in una comunità terapeutica". È l'istanza che Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori dell'uomo processato per l'omicidio di Yara Gambirasio, rivolgono alla Corte d'Assise di Bergamo. La richiesta è che il muratore di Mapello vada agli arresti domiciliari in una comunità della Bergamasca che ha già dato la sua disponibilità ad accoglierlo. La Corte deciderà dopo avere ascoltato il parere del pm Letizia Ruggeri. "Vogliamo - dice Salvagni - essere tranquilli con la nostra coscienza, viste la delicatezza del momento che sta vivendo Bossetti e la fragilità del suo attuale stato psicologico". L'istanza è fondata su una relazione dello psichiatra Alessandro Meluzzi, consulente della difesa. Meluzzi aveva raggiunto in tutta fretta Bergamo da Ascoli Piceno, dove si trovava. Nella giornata di mercoledì aveva avuto un colloquio di circa un'ora con Bossetti. "È una persona - ha dichiarato subito dopo a "Il Giorno" - in gravissima sofferenza psichica. L'ho visto provatissimo, affranto. C'è il rischio che reiteri il suo gesto. Mi ha raccontato che già dall'inizio della detenzione si era munito di lacci e altro". Un tentato suicidio di Bossetti, compiuto stringendosi al collo una cintura, è stato smentito dalla procura di Bergamo e dal Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria. Viene escluso anche dalla relazione che il direttore del carcere, Antonino Porcino, ha tramesso al Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Quello che appare chiaro, però, è che l'uomo che nel pomeriggio del 17 luglio rientrato in cella dopo l'udienza in Assise, si mostri molto scosso. Ha sentito il pubblico ministero richiedere sia le ricevute del motel di Stezzano che ha ospitato gli incontri della moglie con un uomo sia la testimonianza di due presunti amanti di Marita Comi. Un clima di preoccupazione traspare dagli atti del carcere, allegati alla relazione del direttore al Dap. Il commissario che ha seguito l'udienza riferisce al comandante di reparto l'episodio della moglie. Il comandante di reparto Giuseppe Randazzo firma un ordine di servizio dove "si dispone con effetto immediato che il personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso la sezione Protetti (dove si trova Bossetti - ndr) effettui frequenti controlli sul predetto detenuto, al fine di prevenire e/o impedire qualsiasi gesto inconsulto. Per qualsiasi comportamento anomalo del detenuto Bossetti, o che desti sospetto, il personale di Polizia Penitenziaria dovrà tempestivamente avvisare i diretti superiori". La mattina dopo, sabato, il comandante di reparto Antonio Ricciardelli ha un colloquio con Bossetti: "in quella occasione lo stesso mi riferiva di essere deluso per i comportamenti tenuti dalla moglie, di cui aveva avuto conoscenza nel corso dell'udienza. In quella sede ho raccolto lo sfogo del detenuto che peraltro non ha mai paventato intenti anticonservativi". Lettere: la politica assente e il treno giudiziario dei diritti di Michele Ainis Corriere della Sera, 25 luglio 2015 Sul divorzio breve l'ha spuntata: dal maggio scorso è legge. Anche se i primi a usarla sono stati Civati e Fassina, rompendo il matrimonio col Pd. Viceversa sugli altri temi etici Renzi arranca, temporeggia, svicola. Il suo governo corre come un treno, ma sul binario dei diritti la locomotiva è ferma in galleria. Tuttavia i passeggeri non rimangono appiedati, perché montano a bordo di un treno giudiziario. Stazione d'arrivo: Strasburgo, dove ha sede la Corte europea dei diritti dell'uomo. La sentenza che ci impone il riconoscimento delle unioni gay è solo l'ultima d'una lunga filastrocca. In precedenza siamo finiti in castigo o per eccesso di diritto (con le due pronunzie del 2011 e del 2013, contro il reato di clandestinità e contro il sovraffollamento carcerario) o per difetto (da qui la sentenza del 2014 sul diritto d'attribuire ai figli il cognome della madre, nonché la condanna del 2015 perché l'Italia non punisce il reato di tortura). Ma i viaggiatori partono da Roma, dove c'è un doppia stazione ferroviaria. Alla Cassazione, che ha appena sancito il diritto di cambiare sesso senza subire mutilazioni genitali. E alla Consulta, che l'anno scorso demolì la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, mentre dal 2010 denuncia anch'essa la mancanza di ogni disciplina sulle coppie omosessuali. E la politica? Continua a contemplare il vuoto. Quello sul diritto d'asilo, per esempio: la Costituzione evoca una legge, dopo 68 anni stiamo ancora ad aspettarla. Lo ius soli, per fare un altro esempio: ovvero la cittadinanza ai figli degli immigrati regolari, un'altra promessa fin qui disattesa dal governo. Il testamento biologico: regolato negli Usa non meno che in Europa, mentre in Italia l'idea di regolarlo è deceduta insieme a Eluana Englaro. Né più né meno della legge sull'omofobia: approvata dalla Camera nel settembre 2013, desaparecida al Senato. Sarà per questo che la riforma costituzionale, nella sua ultima versione, amputa le competenze legislative del Senato sui temi etici. In queste faccende, la regola parlamentare è l'incompetenza. Tanto c'è sempre la competenza giudiziaria, che in 11 anni ha macinato 33 sentenze sulla fecondazione assistita, riscrivendo l'intera normativa. Domanda: perché? Da cosa dipende il protagonismo della magistratura? Potremmo rispondere che succede dappertutto: così, a giugno la Corte suprema degli Stati Uniti ha decretato il matrimonio gay, mentre in Olanda un giudice ha condannato lo Stato per l'immobilismo nelle attività di mitigazione del clima. Tuttavia sono eccezioni, non la regola. La regola eccezionale funziona solo qui, e funziona puntuale come un orologio. Potremmo osservare allora che la tutela dei diritti costituisce lo specifico mestiere di ogni magistrato; però altro è tutelarli, altro è crearli dal nulla come Giove. No, l'interventismo dei giudici italiani deriva dall'assenteismo dei politici italiani, dall'horror vacui che regola la vita delle istituzioni. E in Italia il vuoto normativo deriva a sua volta dal potere interdittivo d'un alleato di governo o una corrente del partito di governo che sposa posizioni integraliste. Alle nostre latitudini, trovi sempre qualcuno più papalino del Papa. I giudici, viceversa, non se lo possono permettere. Dinanzi ai loro occhi sfilano uomini e donne in carne e ossa, con le loro sofferenze. Persone, non elettori. E la società italiana soffre d'una mancanza di tutele sui temi della vita e della morte, della sessualità, della protezione dei più deboli. I giudici lo sanno, i politici evidentemente no. Lettere: il conto troppo salato delle leggi fatte male di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 luglio 2015 "E adesso chi paga?" - versione retorica del grossolano ritornello "chi sbaglia paga" solitamente brandito da certa politica contro la magistratura - andrebbe oggi chiesto ai legislatori e ai governi degli ultimi 10 anni: quelli che, a partire dalla berlusconiana legge ex Cirielli del 2005, hanno introdotto o conservato tutta una serie di automatismi sanzionatori, fondati su arbitrarie e irrazionali presunzioni assolute di maggiore pericolosità sociale o di più accentuata colpevolezza secondo tipi d'autore. L'ultimo di questi automatismi a essere l'altro ieri dichiarato incostituzionale dalla Consulta è (su questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione) quello che obbligava i giudici ad aumentare di almeno un terzo la pena nel caso di recidiva. È stata forse la misura che in questi anni più ha riempito le carceri: sia a causa dell'entità delle maxi-pene che i giudici erano obbligati a infliggere senza poter valutare caso per caso tra il minimo e il massimo, sia a causa dell'ulteriore effetto ostativo all'accesso poi di questi condannati agli ordinari benefici penitenziari in sede di esecuzione delle pena. Adesso è facile prevedere che (come già accaduto per l'incostituzionalità dei 6 anni di pena minima per le droghe leggere) saranno migliaia i condannati che torneranno a intasare gli uffici giudiziari per farsi scomputare, attraverso altrettanti "incidenti di esecuzione", le quote di pena dipendenti dalla norma incostituzionale. E questo non solo nei processi ancora pendenti in Appello e Cassazione, ma anche in quelli ormai definitivi, visto ormai l'affermarsi dell'orientamento secondo il quale gli effetti retroattivi dell'illegittimità costituzionale non trovano il limite del giudicato, ma solo quello della totale espiazione della pena, e finché la pena è in corso di esecuzione devono essere rimosse tutte le conseguenze derivanti dall'applicazione della norma incostituzionale. Bilancio di 10 anni: pene più alte errate, carceri inutilmente sovraffollate, costi inutili sia nelle celle sia nei tribunali che hanno girato e dovranno rigirare a vuoto. "E adesso chi paga?". Lettere: quando il diritto si fa così aleatorio da apparire come una divinità capricciosa di Guido Vitiello Il Tempo, 25 luglio 2015 Alcuni casi recenti e disparati (il garbuglio dell'Ilva, le nebbie dell'affaire Crocetta, i pasticci nell'applicazione della Severino, il "grande scaricabarile istituzionale" - formula di Oscar Giannino - di qualche vicenda prefettizia, il quarantennale ritardo della giustizia per la strage di Brescia), casi che si aggiungono a una lunga sequela di altri più antichi o meno visibili, sembrano indicare che l'incertezza del diritto è ormai alle nostre spalle, e siamo entrati nel regno onirico e fiabesco della pura aleatorietà. Regno onirico, perché in esso diventa sempre più difficile connettere secondo logica le cause e gli effetti, i delitti e le pene; e regno fiabesco, perché la sottomissione della giustizia ai capricci del caso suscita nobili reminiscenze letterarie, da Rabelais a Borges. Ad aggravare le cose, in Italia, c'è che tutto questo risuona con un modo di pensare e di sentire radicato, e aiuta a radicarlo ancora più a fondo: alludo a un'idea fatalistica della giustizia (e ancor più dell'ingiustizia) assimilata al destino, alla buona o alla cattiva sorte. Ma anche per questo è possibile evocare qualche memoria romanzesca, e cogliere l'occasione per un invito alla lettura, o alla rilettura. "Figurati che lui credeva di prendere il sopravvento su di me, battendo il pugno su un libretto che aveva sempre tra le mani. "Cosa ci avete in quel libro così importante", gli domandai, "i numeri del lotto?". "Qui ci sono gli articoli e i paragrafi", egli mi spiegò". Così Luca Sabatini rievoca l'incontro con il suo giudice accusatore ne "Il segreto di Luca", romanzo che Ignazio Silone pubblicò nel 1956. I numeri del lotto non saranno i dadi del giudice rabelaisiano, ma anche qui giustizia e fortuna fanno una cosa sola. "Il segreto di Luca" è un romanzo su un errore giudiziario, genere poco frequentato malgrado il molto lodato e poco imitato modello manzoniano. Luca ritorna al suo paese, Cisterna dei Marsi, dopo quarant'anni di carcere: in punto di morte il colpevole ha confessato, e per lui è arrivata la grazia. Un politico, Andrea Cipriani, s'interessa del caso e interroga la gente del luogo. "Se Luca è innocente", domandai a Teresa, "perché l'hanno condannato?". "Non gli è riuscito di sfuggire al suo destino", ella mi rispose. Quella parola di destino dava all'ingiustizia un senso tremendo: essa diventava in un certo senso naturale. Poiché non potevo ammettere la malvagità e neanche la malafede di mia madre, del parroco, del maestro di scuola, cominciai a pensare che l'ingiustizia potesse non dipendere affatto dalle buone o cattive disposizioni degli uomini. La crudeltà era come il cattivo tempo". Ma qualcosa di più crudele attende chi, pur scagionato, torna tra i suoi. Dove l'ingiustizia è una variante della malasorte, l'uomo che ne è colpito finisce per confondersi con lo jettatore, che occorre evitare con ogni scongiuro. La vecchia domestica del prete dove Luca si è stabilito fugge via: "Anche lei… Cos'ha da rimproverargli?". "Evidentemente, d'aver passato la vita all'ergastolo". La zia di Andrea non vuole che il graziato metta piede in casa: "Zia", cercò di spiegare Andrea "tu forse non lo sai, ma il pover'uomo era innocente". "Innocente o meno, egli è stato all'ergastolo. Andrea, tu vorresti che un tale individuo". Peggio del processo all'untore, è il processo stesso che trasforma in untore chi lo subisce. Questo può accadere quando il diritto si fa così aleatorio da apparire come una divinità capricciosa. Ne avvertiamo un'eco, sbadatamente, tutte le volte che qualcuno ripete quella formula agghiacciante: la giustizia deve fare il suo corso. Campania: la politica si occupi del dramma carceri di Samuele Ciambriello e Dario Stefano dell'Aquila (Associazione Antigone) La Repubblica, 25 luglio 2015 Nonostante un progressivo calo della popolazione detenuta, che ha segnato una positiva inversione di tendenza in materia di misure alternative, i numeri della detenzione continuano a dire che non bisogna abbassare l'attenzione sull'universo penitenziario. Sono oltre 7 mi la i detenuti (quasi 900 stranieri) nelle 17 carceri della Campania, mille oltre la capienza ufficiale fissata in 6 mila posti. Circa milleottocento sono in attesa di giudizio definitivo. Trecento ventinove sono le donne, larga parte delle quali ristretta nel più grande carcere femminile d'Italia, quello di Pozzuoli (cento cinquantasei donne presenti su una capienza di cento posti). Ben tre le carceri con oltre mille detenuti (1.867 a Poggioreale, 1.349 a Secondigliano e 1.025 Santa Maria Capua Vetere) tutte ampiamente sopra la capienza ufficiale e, ancora, centotrentotto internati rinchiusi negli Opg di Aversa e Napoli. A questi dati, dobbiamo aggiungere due suicidi sui cinque decessi di cui si è avuto notizia. Sono queste le cifre che offrono una fotografia in bianco e nero della realtà penitenziaria campana. Naturalmente, i numeri da soli non sono sufficienti a raccontare la difficoltà del sistema penitenziario, per chi vi è recluso e per chi lavora sul versante sociale. Da un lato, si sconta ancora la mancanza di significative risorse destinate agli interventi sociali, di politiche strutturate in tema di mediazione culturale (eppure nel carcere i migranti sono un terzo della popolazione complessiva), di misure che tengano conto delle differenze di genere e di strutture alternative che consentano ai bambini piccoli di non varcare, con effetti traumatici, le soglie del carcere per seguire le loro madri. In alcuni casi addirittura, d'estate, si registra una carenza di acqua potabile, cosi come molti istituti non sono adeguati al regolamento penitenziario e non vi è la possibilità di fare la doccia in cella (ma si fa solo tre volte a settimana). L'estate rende ancora più difficili le cose. Questo clima torrido e questo caldo eccezionale che fanno roventi le nostre giornate, rendono ancora più incandescenti e difficili le condizioni delle persone ristrette e internate. Purtroppo, nonostante vi siano delle eccezioni, sono ancora pochi i parlamentari e i consiglieri regionali che, come consente il loro mandato, entrano nelle carceri per verificare le condizioni detentive. Spesso la politica, pur evocando sempre il carcere, ignora cosa sia davvero una prigione, quale forma di mortificazione assuma, pensando che la condizione per contrastare la criminalità organizzata sia un carcere buio e dimenticato. Noi pensiamo l'esatto contrario, che solo un diffuso rispetto dei diritti fondamentali, dell'indirizzo costituzionale che vuole che la pena non sia contraria al senso di umanità, sia antidoto verso ogni forma di prevaricazione e violenza. Per questo ci auguriamo, specie ora che si dà il via ad una nuova consiliatura regionale, che si mantenga alta l'attenzione sul tema, non solo attraverso il potere di visita dei singoli rappresentanti istituzionali, ma anche con interventi programmati e mirati in materia di politiche di inclusione sociale, senza bisogno di stipulare nuovi protocolli di intesa, ma semplicemente mettendo in atto quello che sin qui è rimasto scritto solo su carta. Non abbiamo bisogno di politiche caritatevoli ma di interventi fondati sul principio che non debbano esistere luoghi in cui la vita umana è costretta a condizioni inumane e degradanti. Toscana: sanità penitenziaria, stanziati 300mila € per l'assistenza psicologica ai detenuti Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2015 Assegnato alle Asl un finanziamento di 300mila euro per il 2015-2016. Prosegue anche per il 2015 e 2016 il sostegno della Regione Toscana per l'assistenza psicologica in carcere. In una delle ultime sedute della precedente giunta regionale è stato deliberato, per il biennio 2015-2016, un finanziamento di 300 mila euro, che verranno distribuiti tra tutte le aziende sanitarie toscane in cui sono presenti istituti di detenzione (tutte le Aziende sanitarie locali, tranne la 12 di Viareggio): in Toscana ci sono 18 istituti per adulti e 2 per minori. Ogni Azienda sanitaria sede di istituto penitenziario dovrà presentare un progetto specifico per aumentare le ore complessive di assistenza psicologica assicurate nell'istituto penitenziario di competenza, per contrastare, con azioni mirate anche in relazione alla tipologia di detenuti presenti, il disagio psicologico indotto dalla detenzione. La decisione arriva dopo aver considerato la vulnerabilità psicologica della popolazione ristretta e le presenze effettivamente registrate, il processo di superamento dell'ospedale psichiatrico giudiziario e le richieste di implementazione presentate dalle Asl durante le sedute dell'Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria. Sia nel biennio 2011-2012 che nel 2013-2014 sono stati finanziati progetti di assistenza psicologica in carcere, che hanno avuto ricadute positive sullo stato di salute della popolazione detenuta. Per questo la Regione ha deciso di continuare a sostenere progetti specifici di assistenza psicologica. Abruzzo: Uil-Pa Penitenziari; aumentano i rapporti disciplinari, il personale è demotivato sipress.it, 25 luglio 2015 I vertici della Uil-Pa Penitenziari Abruzzo si sono riuniti nella sala conferenze del provveditorato dell'Amministrazione penitenziaria a Pescara. Nel corso dell'incontro, voluto dalla componente regionale, con il segretario regionale Giuseppe Giancola e i vice Mauro Nardella e Paolo Lezzi, sono stati evidenziate le problematiche che investono il mondo carcerario abruzzese ed in particolare quello riferibile alle condizioni dei baschi blu della Polizia Penitenziaria. Alla questione del deficit di organico in tutti gli istituti di pena della Regione, si sono aggiunti quelli legati ai rapporti informativi degli Agenti e l'aumentato numero di procedimenti disciplinari a carico di altrettanti agenti. "I rapporti informativi - spiega Nardella - i quali altro non sono che le pagelle di fine anno, contrariamente alle indicazioni dettate dalle circolari dipartimentali, hanno visto drasticamente ribassati i loro giudizi annuali portando demotivazione e rabbia deleterie per chi svolge un lavoro così difficile ed usurante. A tal proposito, in occasione degli eventi nefasti che hanno caratterizzato il corpo di polizia penitenziaria nelle occasioni che li hanno visti al centro della cronaca nera (vedasi suicidi di molti ed esperti assistenti capo) i vertici del Dap emanarono delle circolari attraverso le quali venivano invitati i funzionari, deputati alla compilazione dei rapporti informativi appunto, ad essere molto oculati nella loro predisposizione stando molto attenti a non travalicarne i limiti". "Il numero di rapporti disciplinari - continua Nardella - hanno visto invece un'impennata le cui motivazioni saranno oggetto di studio e di contestuali osservazioni da parte della Uil". Una nota positiva comunque è emersa nella riunione: "La diminuzione del numero dei detenuti e la trasformazione dei circuiti penitenziari stanno rendendo più sopportabile il lavoro della polizia penitenziaria". Questo "ad eccezione della Casa circondariale di Lanciano, ove esistono problematiche e non ultima "l'aggressione di due baschi blu da parte di un detenuto da poco salvato da un tentativo di impiccagione e a Sulmona dove il caldo di questi giorni ha prodotto due risse tra detenuti nel reparto di alta sicurezza". A Teramo, Avezzano, Vasto e Chieti, grazie anche all'ottimo lavoro svolto dai direttori e da tutto il personale e alla vigilanza dinamica, le situazioni si sono capovolte. Qui non si hanno notizie di eventi critici gravi e rispetto al passato". Sul tema delle pari opportunità Pescara, così come Sulmona, lamentano la presenza di eccessivo personale femminile che di fatto sposta sugli organici maschili l'ago della inadeguatezza delle condizioni di pari opportunità. In questi due istituti infatti la presenza di numerose donne blocca di fatto quella mobilità tra i reparti, essenziale per un respiro psico-fisico. Situazione paradossalmente opposta a Teramo e Chieti dove pur essendoci reparti detentivi femminili di donne ve ne sono pochissime. Queste condizioni, tra l'altro pretese dagli ultimi contratti e dalle normative in tema di benessere del personale, stanno azzerando tutti gli accordi precedentemente stipulati in sede di contrattazione locale e che avrebbero dovuto consentire una mobilità tra i reparti vitale per chi vive il lavoro quotidiano a diretto contatto con i detenuti". Per normativa, infatti, nelle sezioni detentive non possono svolgere le loro mansioni di operatori della sicurezza persone di sesso opposto ai detenuti presenti. "In tal caso le persone escluse vengono utilizzate in quei posti dove il contatto con i detenuti non vi può essere e cioè centralino, sala regia, portinerie etc. Il risultato che ne consegue è che se non si farà qualcosa per rivedere questa assegnazione di personale avremo gente che in 40 anni respirerà solo aria da reparto detentivo ed altri invece che il detenuto neanche sapranno com'è fatto". Ancona: l'avvocato del detenuto morto in cella "la detenzione non può togliere la dignità" di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 25 luglio 2015 L'avvocato ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica per chiarire eventuali responsabilità, mentre il pm ha aperto un fascicolo e ha disposto l'autopsia sul corpo del giovane detenuto che si terrà domani mattina. Presentato un esposto per fare luce sulla morte di Daniele Zoppi, il 34enne anconetano stroncato da un malore nella sua cella del carcere di Montacuto. Lo ha fatto stamattina l'avvocato Luca Bartolini che ha presentato tutti i documenti e ha parlato di dignità: quel diritto inalienabile che, indipendentemente da eventuali responsabilità ancora tutte da accertare, non ci sarebbe più stata per il detenuto. Sì, perché Zoppi era obeso, con un femore devastato da un incidente stradale, senza parziale sensibilità alle gambe. Per questo aveva chiesto più volte al Tribunale di Sorveglianza di poter scontare in modo alternativo la sua pena, ma gli era sempre stato negato. "Il magistrato di sorveglianza - ha spiegato il legale in riferimento ai rigetti delle istanze - si è sempre trincerato dietro i pareri del dirigente medico che, nonostante la gravità della situazione, ha sempre dichiarato che le condizioni di Daniele fossero compatibili con la detenzione in carcere. Il mio cliente chiedeva solo di vivere la detenzione in maniera dignitosa perché si può stare in carcere per qualsiasi accusa, ma la detenzione non può togliere la dignità umana". Quella dignità che, secondo l'avvocato Bartolini, non c'era più da quando era costretto ad usare una sedia per farsi la doccia, da quando non riusciva più ad arrivare al cortile del carcere per fare l'ora d'aria, da quando aveva iniziato a perdere la sensibilità alle gambe per colpa di stenosi. Solo per questo il difensore aveva più volte chiesto il trasferimento del proprio assistito in un centro carcerario clinico, il rinvio dell'esecuzione della pena o la concessione dei domiciliari per permettere a Zoppi di curarsi. L'ultima risale al 7 luglio. Anche in quel caso l'istanza era stata respinta. Poi ieri il malore in cella, l'arrivo dell'ambulanza, ma per Daniele non c'è stato nulla da fare. Il pm Paolo Gubinelli ha aperto un fascicolo di indagine e disposto anche l'autopsia sul corpo del giovane detenuto, che si terrà sabato mattina all'ospedale di Torrette. Parma: i Garanti "stop a invio di detenuti, si rischiano trattamenti inumani e degradanti" Gazzetta di Parma, 25 luglio 2015 Solo quattro ore di aria al giorno, nessuna attività durante i mesi estivi, "ambienti detentivi caldi oltre ogni ragionevole grado di sopportazione" e celle doppie che "hanno uno spazio a disposizione calpestabile ai limiti dei 3 metri quadrati a persona, se non inferiore, parametro al di sotto del quale la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito la configurazione, di per sé, di trattamenti inumani e degradanti": sono queste le condizioni della sezione detentiva Alta sicurezza 1 del carcere di Parma, che la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha visitato ieri insieme al Garante dei detenuti del Comune di Parma, Roberto Cavalieri. "Il Dipartimento, stanti gli attuali numeri e le attuali condizioni detentive, dovrebbe cessare di inviare nella sezione di alta sicurezza del carcere di Parma detenuti provenienti da altre carceri - auspicano i due Garanti -, riteniamo in ogni caso di interrogare l'autorità sanitarie competenti circa la sussistenza dei requisiti minimi di vivibilità all'interno degli spazi detentivi occupati da due detenuti, richiedendo un'ispezione urgente". Erano stati gli stessi ristretti, 31 in totale in quel circuito differenziato, a sollevare l'attenzione sulle loro condizioni, con una lettera collettiva in cui denunciavano l'incongruità delle proprie condizioni di detenzione: come sottolinea Desi Bruno, "sono condannati per lo più a pene particolarmente lunghe, molti dei quali all'ergastolo, anche ostativo, e sono sottoposti a un regime detentivo, di fatto, improntato ad una assoluta rigidità". Secondo i due Garanti, è evidente la "perdurante inadeguatezza dell'offerta trattamentale predisposta nei loro confronti, anche se l'attuale Direzione sta portando avanti la progettazione di una serie di attività che potrebbe vederli coinvolti: i detenuti in questione si trovano, per lo più, a restare chiusi in cella 20 ore su 24, salvo le quattro ore d'aria previste nelle fasce orarie che vanno dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15 - spiegano - e in questo contesto, durante i tre mesi della stagione estiva, anche le limitate attività trattamentali, culturali e sportive sono, di fatto, sospese". Inoltre, continuano i garanti, "gli ambienti detentivi sono risultati caldi oltre ogni ragionevole grado di sopportazione". A preoccupare Desi Bruno sono in particolare "quattro celle doppie, in cui i detenuti che vi sono collocati hanno uno spazio a disposizione calpestabile ai limiti dei 3 metri quadrati a persona, parametro al di sotto del quale la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito la configurazione, di per sé, di trattamenti inumani e degradanti". Come se non bastasse, rimarca la Garante, "la Corte di Strasburgo ha ritenuto la configurazione di trattamenti inumani e degradanti anche quando lo spazio a disposizione dei detenuti è stato fra i 3 e i 4 metri quadrati, ma le condizioni di vita detentiva non erano congrue in relazione ad altri fattori relativi, per esempio, alla mancanza di ventilazione, di un adeguato numero di ore d'aria disponibili o di ore di socialità, all'apertura delle porte della cella, alla quantità di luce e aria dalle finestre, all'offerta trattamentale effettivamente praticata negli istituti". Trieste: il Garante; nel carcere ci sono 40 gradi, è un inferno per i reclusi e le guardie di Marco Bisiach Il Piccolo, 25 luglio 2015 La denuncia del garante dei detenuti don Alberto De Nadai: "La situazione è drammatica, è invivibile. Ancora più pesante per gli agenti in divisa". Un inferno. Un luogo dalle condizioni di vita assolutamente inaccettabili. Tante volte questi concetti sono stati accostati a un carcere, e moltissime, nello specifico, a quello di via Barzellini, a Gorizia. Ma in questi giorni le definizioni sono ancor più del solito drammaticamente vicine alla realtà, per i detenuti quanto per gli agenti che fanno loro la guardia. E il motivo è presto detto, oltre che facile da immaginare. Il caldo. Perché se le temperature africane di questi giorni stanno facendo letteralmente tribolare tutti, a Gorizia, nelle case o negli uffici, la situazione nelle celle, nei corridoi e negli spazi comuni della vecchia struttura di via Barzellini, dove i lavori di ristrutturazione sono ancora in bilico, fermi a metà, è ancor più terribile. A raccontarlo, lanciando allo stesso tempo l'allarme, è il garante per i diritti dei detenuti don Alberto De Nadai. "Sono stato in carcere proprio questa mattina (ieri ndr) per sincerarmi una volta di più di quale fosse la situazione, e posso assicurare che è davvero drammatica - dice il sacerdote -. Se nelle nostre case, in questi giorni, il caldo è pazzesco e ci fa soffrire tutti, dentro alla struttura di via Barzellini le cose vanno molto peggio ancora. Non c'è ovviamente l'impianto di condizionamento, e gli spazi a disposizione sono quasi tutti orientati in battuta di sole dalla mattina alla sera. E la sola aria che entra, e circola, è quella che viene dalle finestre: ma come si può facilmente intuire in queste settimane quell'aria è incandescente, e rende ancor più insopportabili le temperature". Secondo la testimonianza di don Alberto nelle celle e nei corridoi si può arrivare anche sopra i 40°, con la sensazione di caldo opprimente aumentata dall'umidità molto elevata. Non solo. I circa trenta detenuti devono incontrare i loro cari, negli orari di visita, in una sala a sua volta invivibile per il caldo, dove "lo stare insieme anziché essere occasione di pace e intimità, in queste condizioni, diventa invece motivo di violenza e tensione. C'è qualcuno che a queste temperature esce letteralmente di testa". Ma don Alberto non parla solo dei detenuti. Anzi, pone l'accento soprattutto sulle condizioni in cui si trovano coloro che lavorano nel carcere. "Peggio di tutti stanno le guardie - dice. Se i carcerati, per lo meno, possono stare scalzi, in pantaloncini corti o a petto nudo, e muoversi un pochino, gli agenti sono costretti a portare la divisa, ovviamente, e devono stare per ore e ore durante i turni al loro posto, occupandosi continuamente di aprire e chiudere le porte. Insomma, la situazione è inaccettabile e bisognerebbe fare qualcosa per evitare che possa degenerare". Chiaramente non aiuta un percorso, quello della ristrutturazione, ancora lungi dall'essere concluso. Solo un paio di celle sono state rinnovate, e i lavori sono fermi, per mancanza di risorse. "Ma non sarebbe la messa a norma, il rinnovamento, la soluzione - dice don Alberto. Servirebbe invece un carcere nuovo, moderno e più umano, dove poter organizzare iniziative, far entrare la gente dall'esterno e puntare davvero al recupero dei detenuti". In tal senso, allora, uno spiraglio di luce è rappresentato da iniziative come il corso di teatro andato in scena negli ultimi mesi, che si concluderà oggi con una sorta di "saggio" finale, in cortile. Di scena sarà "Amleto". Santa Maria Capua Vetere: i penalisti "detenuti in cella senza acqua, lo Stato intervenga" di Antonella Giannattasio Cronache di Napoli, 25 luglio 2015 Come si può costruire un carcere senza prevedere l'allaccio alla rete idrica pubblica? Questa la domanda che dovrebbe essere rivolta a chi più di venti anni fa ha progettato e successivamente realizzato l'istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Un interrogativo che. però, rischia di rimanere senza risposta visto che a distanza di venti anni, l'avvicendarsi di diversi governi, ministri della Giustizia, amministrazioni locali, la struttura è ancora, a malapena, collegala ad un pozzo che ovviamente non riesce a soddisfare le necessità di sopravvivenza di 1.050 detenuti. Ogni anno, da maggio a settembre, l'emergenza esplode. Agli ultimi piani del carcere l'acqua arriva col contagocce e in tutta la struttura si deve fare i conti con una penuria insostenibile. La Camera penale di Santa Maria Capua Vetere da anni combatte per indurre le istituzioni a risolvere una questione che non è più. o meglio non lo e mai stata accettabile. Il presidente della commissione per i diritti dei detenuti. Nicola Garofalo, ieri mattina ha lanciato un estremo grido di allarme: "Bisogna intervenire prima possibile - ha detto il penalista - c'è un intero reparto del carcere, il Tamigi, che ospita cinquanta detenuti, dove l'acqua non arriva praticamente mai. Abbiamo invitato anche i consiglieri regionali della provincia di Caserta (erano presenti alla conferenza stampa di ieri mattina Stefano Graziano e Luigi Bosco, ndr) perché nel corso della precedente amministrazione regionale era stato firmato un protocollo d'intesa col Ministero della Giustizia per la costruzione della condotta. Il progetto non è mai stato realizzato. Chiediamo agli attuali amministratori di fare in modo che diventi realtà". L'accordo prevedeva che venissero usati i fondi europei destinati all'edilizia carceraria. La stima dei lavori era di circa un milione di curo. Come purtroppo spesso avviene nel nostro Paese. visto che l'iter per accedere al finanziamento non è stato ultimato e clic il termine ultimo per ottenerlo è il 31 dicembre prossimo, non sarà possibile fare affidamento su quello stanziamento. La Camera penale però non si perde d'animo: "Facciamo appello ai consiglieri regionali - ha dello Garofalo - affinché trovino altre forme di finanziamento". E visto che ormai questa situazione e tale da venti anni e che finora di fatti se ne sono visti ben pochi, i penalisti sfoderano la loro arma: il diritto. Gli avvocati hanno predisposto infatti un fac-simile di reclamo al magistrato di sorveglianza che verrà consegnalo alla direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere e a cinque detenuti che sono stati sorteggiati dalla popolazione carceraria come propri rappresentanti. La legge prevede clic il detenuto che subisce un pregiudizio. anche in base al dettato europeo, possa fare reclamo e chiedere che venga sottratto un giorno di detenzione ogni dieci giorni di pregiudizio e che gli venga riconosciuta una somma di otto euro per ogni giorno in cui ha patito ingiustamente, chiedendo inoltre al magistrato che imponga la cessazione di quello stato di sofferenza. È ovvio che si tratta di una provocazione, i numeri della Giustizia italiana in tal senso. infatti, non sono per niente confortanti. La norma è stata concepita per il pregiudizio del singolo e non quando a soffrire, in questo caso per la mancanza di acqua, è un'intera popolazione carceraria. L'amministrazione penitenziaria sta cercando nel frattempo di alleviare, con rimedi "casalinghi", la sofferenza dei detenuti. Sono state ordinate sci nuove cisterne, quattro delle quali già installate, in cui stipare l'acqua che viene acquistala da privati. Viene inoltre consentito, in deroga al regolamento della struttura, ai carcerali di fare la doccia anche la sera (visto che di mattina spesso l'acqua non arma in alcuni reparti dell'istituto). A ogni detenuto, inoltre. ogni giorno vengono consegnale due bottiglie da un litro di acqua. Rimedi estremi che ovviamente hanno un costo rilevante. Alla conferenza stampa organizzala ieri manina nella sede della Camera penale era presente anche l'ingegnere Roberto Di Tommaso, responsabile dell'ufficio tecnico del Comune di Santa Maria Capua Vetere, alla cui condotta dovrebbe essere allaccialo il carcere. Negli anni sono stati diversi gli incontri con l'amministrazione comunale. nel 2013 venne addirittura annunciato che era stata trovata la soluzione al problema e che prima possibile sarebbero partiti i lavori. È evidente che non e stato così. Di Tommaso ha così spiegato questo immobilismo: "Il Ministero doveva trasferire i fondi per i lavori e il Comune si doveva fare carico della progettazione. Noi il progetto lo abbiamo redatto ma i fondi non sono mai arrivati". Oltre mille detenuti stanno patendo le pene dell'inferno per un problema tecnico: il Ministero può spendere quei soldi solo per opere da realizzare all'interno del carcere. La condotta deve arrivare fuori dal perimetro dell'istituto per congiungersi a quella pubblica. La soluzione, così come proposto ieri, potrebbe essere quella di trasferire quei fondi dal Ministero della Giustizia a quello delle Infrastrutture. Sembrerebbe facile. Eppure il carcere di Santa Maria Capua Vetere è senza collegamento alla rete idrica da venti anni. Pozzuoli: denuncia di Antigone "nel carcere sovraffollamento e cattiva qualità della vita" di Gaia Bozza fanpage.it, 25 luglio 2015 Un carcere (ancora) sovraffollato, una struttura vetusta con cronici problemi di infiltrazioni d'acqua, fino a 13 detenute per stanza (e un solo bagno), zero mediatori culturali nonostante la significativa presenza di detenute straniere e una sezione psichiatrica dove "il contenimento chimico la fa da padrone": l'associazione Antigone è stata dentro il carcere di Pozzuoli e descrive uno scenario poco rassicurante, nonostante le meritorie attività (che coinvolgono però solo una parte della giornata e una parte delle detenute). Estate, una delle più torride degli ultimi anni. Le temperature raggiungono e spesso superano i 40 gradi. Nel carcere di Pozzuoli, in provincia di Napoli, ci sono 152 detenute, obbligate in stanze che ospitano fino a 13 persone, che si trovano a dover condividere un solo bagno. Il carcere di Pozzuoli non è sempre stato tale: originariamente era un convento, poi adattato a carcere solo negli anni Ottanta. È un edificio vecchio e cronicamente soggetto a infiltrazioni d'acqua. Ancora, nel carcere di Pozzuoli c'è il 27 per cento di detenute straniere. Il problema è che non c'è nemmeno un mediatore culturale. Nelle settimane scorse, diversi soggetti che si occupano di condizioni dei detenuti - tra i quali l'associazione Antigone Campania e il comitato "Parenti e amici delle detenute di Pozzuoli" - hanno ricevuto una lettera anonima di denuncia, che Fanpage.it ha deciso di pubblicare. La direzione del carcere ha scritto una dura replica sottolineando - tra altre cose - la presenza di attività e corsi per le detenute, ma l'associazione Antigone Campania ha deciso di effettuare una visita all'interno della casa circondariale: "Il carcere di Pozzuoli non è solo produzione di caffè e sfilate di moda, è anche cattiva qualità della vita detentiva", spiega Mario Barone, presidente dell'associazione campana e membro dell'Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Quali sono le condizioni strutturali di questo carcere? "L'impianto originario dell'istituto risale al XV secolo: il complesso era destinato originariamente a convento, solo negli anni 80 è divenuto carcere. È un carcere strutturalmente inadeguato sia per l'originaria vocazione conventuale sia per la vetustà dell'edificio, cronicamente affetto da problemi di infiltrazioni d'acqua: in questo senso, appare più che plausibile che le detenute lamentino un'insopportabile umidità". Qual è la situazione in termini di numero delle detenute? "Abbiamo registrato 152 detenute presenti". Pozzuoli è ancora un carcere sovraffollato? Come vivono le detenute all'interno delle celle? "Pozzuoli è un carcere indubbiamente sovraffollato: la capienza regolamentare ammonta a 100 unità. Questo significa che ogni 10 posti regolamentari ci sono 15 detenute effettive. Le detenute sono allocate in cameroni con letti a castello: proviamo ad immaginare cosa possa significare che dieci e più donne al mattino debbano condividere un solo bagno, anche in considerazione del fatto che la donna ha esigenze fisiologiche particolarmente delicate. Tutto questo è semplicemente indecente". Questa casa circondariale sperimenta da un po' di tempo il regime delle celle aperte: è sufficiente questo a garantire una buona qualità della vita alle detenute? "Il regime delle celle aperte ha indubbiamente migliorato la condizione detentiva; a Pozzuoli, come altrove, tuttavia non mancano momenti di ozio forzato "fuori dalla cella", anziché in cella. Il carcere, rispetto ad altri istituti, ha una variegata offerta di attività per le detenute, che - tuttavia - copre solo una minima parte della giornata". Quali sono le attività che vengono proposte nel carcere di Pozzuoli? "Sono attivi corsi di formazione finanziati dalla Regione Campania (fotografia, decoupage, flower designer, ricostruzione unghie, sarta per bambini, canto, manutenzione area verde); sono poi presenti laboratori di scrittura e lettura. Non manca l'attività fisica con un corso di attività motorie". A Pozzuoli esiste una sezione psichiatrica. Cosa succede dentro una sezione psichiatrica? "Facciamo un passo indietro: la riforma che ha portato alla chiusura degli Opg ha determinato la distribuzione della popolazione un tempo internata lì in diversi contenitori: Opg (ancora aperti) Rems e sezioni psichiatriche interne al carcere, destinate ad ospitare detenuti con un'infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione o da sottoporre ad osservazione. Il carcere femminile di Pozzuoli è stato individuato come istituto destinato ad ospitare le detenute campane portatrici di disagio psichiatrico. Come in tutte le sezioni psichiatriche, il contenimento chimico (psicofarmaci, ndr) la fa da padrone". In conclusione: come giudicherebbe le criticità emerse durante la visita? Quali sono i dati più allarmanti? "In estrema sintesi, Pozzuoli non è solo produzione di caffè e sfilate di moda, è anche cattiva qualità della vita detentiva; mi permetta di aggiungere un solo dato: il 27% della popolazione detenuta a Pozzuoli è straniera, con presenze di diverse nazionalità (tra le altre: Romania, Kyrgyzstan, Nigeria, Bulgaria, Ghana). Ebbene a Pozzuoli non ci sono mediatori culturali. Vorrei lasciare il lettore italiano con un dubbio: come si sentirebbe in un carcere bulgaro senza capire né la lingua locale né i meccanismi di internamento che lo sovrastano?". Reggio Emilia: nell'Opg ancora 77 gli internati presenti, di cui 41 non residenti in Regione Redattore Sociale, 25 luglio 2015 A 4 mesi dalla chiusura prevista dalla legge, la struttura reggiana non si è ancora svuotata. A oggi, accoglie 34 detenuti (che resteranno quindi nella struttura) e 41 non residenti in Regione, soprattutto veneti, 2 gli ex internati in licenza finale. Sono 77 le persone ancora presenti nell'Opg di Reggio Emilia. Al 18 marzo, una manciata di giorni prima della chiusura obbligatoria (il 31 marzo), erano 135. "Tutto sommato, direi non male", commenta Desi Bruno, Garante regionale dei detenuti. Dei 135 di marzo, 42 non erano internati ma detenuti a tutti gli effetti (con infermità psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena o minorati psichici, obbligati perciò a stare in una struttura di tipo penitenziario). Dei 77 ancora nell'Opg oggi (più correttamente 75, perché 2 di essi sono in licenza finale), 34 sono i detenuti (che resteranno quindi nella struttura), mentre il resto (41 persone) non sono emiliano-romagnoli. "Da marzo a oggi, a 35 ex internati è stata concessa la libertà vigilata e 25 sono stati accolti nelle due Rems della Regione, a Parma e Bologna. Cosa significa? Che al momento nell'Opg di Reggio Emilia non c'è più nessun internato residente in Regione. L'Emilia-Romagna ha fatto il suo dovere. Gli internati ancora presenti nella struttura reggiana sono in attesa che le Regioni di residenza si mettano a norma", spiega Bruno. La maggior parte di essi viene dal Veneto, ma c'è anche qualche lombardo: "Lombardia e Veneto - anticipa la Garante - starebbero pensando a una soluzione condivisa. Quello che è certo, è che sono obbligate dalla legge a trovare una soluzione, non possono certamente sottrarsi ai loro doveri". Parma: con Fondazione Cariparma promozione rapporti affettivi e corsi cuoco in carcere La Repubblica, 25 luglio 2015 Iniziative promosse dagli Istituti penitenziari di Parma e sostenute da Fondazione Cariparma. Nuovi spazi all'aperto per i colloqui dei detenuti con i famigliari e la realizzazione di una cucina per la formazione di futuri cuochi: queste le due iniziative promosse dagli Istituti penitenziari di Parma e sostenute da Fondazione Cariparma. Due progetti strettamente legati all'attenzione per il benessere detentivo, in particolare per quanto attiene la promozione dei rapporti affettivi con la famiglia e l'offerta di momenti formativi per l'acquisizione di competenze spendibili anche fuori dall'ambito penitenziario. Nel primo caso - come spiega una nota - si tratta di un progetto mirato alla creazione di nuovi spazi all'aperto che consentiranno ai detenuti di migliorare i delicati momenti di colloquio con i propri familiari, in particolare con i minori, al fine di attenuare l'impatto traumatico col contesto detentivo. Con tali realizzazioni, nel quadro del progetto "Sapori di libertà: colloqui all'aperto per detenuti genitori con figli minori", gli Istituti penitenziari di Parma vogliono dare valore all'apporto della famiglia nell'opera di reinserimento sociale, offrendo e migliorando il sistema di accoglienza nei confronti dei minori e familiari durante il colloquio. Non meno importante sotto i profili dell'inclusione sociale e rieducativo è il progetto di realizzazione di un laboratorio-cucina per offrire ai detenuti una specifica attività di formazione spendibile sia all'interno del carcere (l'Istituto impiega detenuti quali lavoranti nelle tre cucine che preparano i pasti) sia all'esterno del carcere attraverso percorsi di tirocinio messi a disposizione dal Comune di Parma e dalla Regione Emilia Romagna con misure di welfare per l'integrazione delle persone provenienti da circuiti penali. Due iniziative che, nel vivo di una ampia collaborazione avviata da Carlo Berdini, direttore degli Istituti penitenziari di Parma e Fondazione Cariparma (in condivisione con Roberto Cavalieri, Garante delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale del Comune di Parma), hanno l'obiettivo - come anche ha ribadito il sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Cosimo Ferri presente alla conferenza stampa - di migliorare il quotidiano lavoro della realtà penitenziaria, trovando nella sinergia tra gli attori della Comunità parmense validi risorse e volani per il potenziamento della riabilitazione e dell'integrazione dei detenuti. Roma: nasce "Poste Insieme Onlus" e apre la prima Casa famiglia per mamme detenute Redattore Sociale, 25 luglio 2015 Porre fine all'ingiusta reclusione dei 34 bambini che si trovano dietro le sbarre, accanto alle mamme detenute: è la prima azione della neonata Onlus di Poste italiane, che sta ristrutturando una struttura confiscata all'Eur. Secondo obiettivo: contrastare la dispersione scolastica con i "mentori". Il "grazie" del ministro Orlando: colmiamo un vuoto colpevole" Aprirà all'Eur, nei prossimi mesi, la prima casa famiglia protetta per madri detenute e per i loro bambini: è il primo impegno della neonata fondazione "Poste Insieme Onlus", presentata questa mattina ufficialmente a Roma da Poste italiane. Obiettivo: "portare fuori dal carcere innanzitutto i 9 bambini che attualmente sono reclusi a Rebibbia insieme alle loro mamme - ha riferito il ministro della Giustizia Orlando, intervenendo alla conferenza stampa - ma successivamente a tutti i 34 bambini che in questo momento si trovano, ingiustamente, dietro le sbarre dei carceri italiani". Secondo impegno iniziale della onlus sarà il contrasto alla dispersione scolastica, che soprattutto nelle regioni del Meridione toccano "picchi del 18% - ha riferito l'assessora alle Politiche sociali Francesca Danese - quando l'Europa punta ad abbassare il tetto all'8%". Due progetti per i quali la Fondazione investirà, per il primo anno, complessivamente 300 milioni di euro. "Abbiamo individuato queste due aree come prioritarie per la mission di inclusione e solidarietà sociale che la fondazione si pone - ha detto Luisa Todini, presidente di Poste Italiane e della stessa fondazione. Abbiamo pensato di iniziare da interventi relativamente piccoli ma concreti e ben misurabili, di cui verificheremo fattibilità ed efficacia periodicamente - ha detto. Una scelta che deriva dall'analisi dei bisogni e dal confronto con istituzioni e soggetti del no profit. La prima azione - ha specificato - intende dare attuazione alla legge 62/2001, che prevede il trasferimento di mamme detenute con i loro figli in apposite strutture. Ma finora sono mancate le risorse per dare concretezza a questa importanza possibilità". La casa famiglia sorgerà all'Eur, in una struttura confiscata alla criminalità organizzata, in cui sono in corso i lavori di adeguamento e ristrutturazione. "Il secondo progetto invece - ha proseguito Todini - si chiama Mentoring, perché prevede un programma strutturato di interventi di sostegno agli studenti attraverso mentori, nelle regioni più colpite da dispersione e abbandono: Campania, Calabria e Puglia". L'azione fa parte di un progetto internazionale sperimentale, "Mentoring Usa-Italia", sostenuto dal Cnr e operativo dal 1998, che ha coinvolto, finora, circa 10 mila studenti e altrettanti volontari in 8 paesi del mondo (Benin, Francia, Germania, Italia, Lettonia, Marocco, Regno Unito. Spagna, Svizzera, Usa. "Il nostro intervento - ha specificato Todini - interesserà 165 ragazzi e altrettanti mentori volontari". A rendere concretamente possibile la realizzazione dei due progetti sarà l'impegno volontario di dipendenti di Poste Italiane, che saranno opportunamente formati a partire dai prossimi mesi. A vigilare sul lavoro della fondazione, guidando la scelta delle aree d'intervento ma anche verificando il perseguimento degli obiettivi, è stato istituito un apposito Comitato scientifico, composto da Sabino Cassese, Giuseppe Ragusa e Anna Maria Tarantola. "Viviamo un'epoca di vorticosi cambiamenti - ha detto Tarantola - in cui la riduzione drastica dei fondi per il welfare pubblico contrasta con l'aumento esponenziale della domanda di servizi e di assistenza. Per questo, la nascita di soggetti come questa fondazione riveste un'importanza fondamentale nel perseguimento dell'utilità sociale". Per Francesca Danese, assessora alle Politiche sociali, "questa è una bella giornata, perché si posa un mattone importante nella costruzione di quella città a misura di bambino che è la priorità di questa amministrazione - ha detto. Non possiamo più tollerare che i bambini siano reclusi in carcere per mancanza di strutture adeguate - ha aggiunto - Grazie a Poste Insieme Roma, prima in Italia, avrà una casa famiglia pensata per loro: e troveremo il modo per tirarli fuori tutti", ha assicurato. Un "sentito grazie a Poste italiane" è stato pronunciato dal ministro Andrea Orlando, "perché ci aiuta a colmare un vuoto colpevole, compiendo un passo determinante nel raggiungimento di un obiettivo fondamentale: arrivare a fine anno senza bambini dietro le sbarre, perché la reclusione in età infantile rappresenta non solo un trauma, ma la premessa di un pregiudizio. Dirò di più - ha precisato Orlando: il 2015 dovrà essere l'anno in cui non ci sia nessuno, dietro le sbarre, la cui pericolosità sociale non sia specifica e accertata. Oggi quindi assistiamo a un passaggio storico in questo senso: dateci ancora una mano - ha chiesto infine a Poste Insieme - per portare avanti questo percorso". Le attività di Poste Insieme sono svolte con le rendite del fondo di dotazione iniziale, pari a 1 milione di euro, e con il fondo di gestione, pari a 3 milioni di euro per il triennio, conferito da Poste italiane e dalle società del gruppo. Inoltre, la fondazione accederà, a partire dal 2016, al riparto del 5 per mille, per progetti condivisi con il terzo settore. Comunicato dell'Associazione A Roma Insieme "Prendiamo atto con grande soddisfazione dell'annuncio fatto da Poste Italiane questa mattina in una conferenza stampa alla quale ha partecipato anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando della prossima apertura a Roma della prima casa famiglia protetta per le detenute madri e i loro figli". A parlare è la presidente dell'Associazione A Roma Insieme, Leda Colombini che da oltre vent'anni si occupa dei bambini " detenuti" in carcere e delle problematiche delle loro madri. Uno dei due progetti cui darà vita entro la fine di quest'anno - Poste Insieme Onlus secondo quanto ha riferito dalla stessa presidente di Poste, Luisa Todini, è quello di realizzare la prima casa famiglia protetta prevista dalla legge del 2011, rimasta finora tristemente inattuata. La struttura ospiterà a Roma le detenute madri con i loro figli. La " magnifica ossessione" della nostra fondatrice, Leda Colombini, che "nessun bambino varchi più la soglia di un carcere" sembra stia davvero per realizzarsi - continua la Passarelli -grazie anche alla sinergia che è stata costituita dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per i diritti umani del Senato e dall'assessore ai servizi sociali di Roma, Francesca Danese, supportata anche dal presidente del municipio dell'Eur, Andrea Santoro, dove si trova la struttura sottratta alla mafia. La casa verrà ristrutturata grazie ai 150 mila euro messi a disposizione da Poste Onlus. Al finanziamento della gestione dovrà provvedere lo stesso Comune con altre risorse, dopo aver emanato un bando a cui potranno partecipare le Onlus specializzate in questo settore. "Dal canto nostro - ha concluso la presidente Gioia Passarelii mettiamo a disposizione la nostra esperienza sul campo, dopo oltre vent'anni passati a tutelare in prima linea i diritti dei bambini da 0 a 3anni "detenuti" con le loro mamme senza alcuna colpa. Vigileremo perché i tempi annunciati siano effettivamente rispettati e perché la struttura, una volta realizzata, possa realmente funzionare per dare un'opportunità di recupero a chi ha sbagliato". Francesca Cusumano Associazione A Roma Insieme, Leda Colombin Novara: Sappe; rissa tra 2 detenuti in regime di 41bis ferito agente di polizia penitenziaria Adnkronos, 25 luglio 2015 "Nel carcere di Novara due detenuti sottoposti al regime penitenziario del 41 bis se le sono date di santa ragione. E se non fosse stato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari le conseguenze della rissa potevano essere peggiori, anche se per uno degli agenti intervenuti si sospetta la frattura del setto nasale". Lo riferisce una nota il sindacato della polizia penitenziaria (Sappe) che denuncia "come resta sempre alta la tensione nelle carceri italiane". "La rissa tra detenuti ad elevato spessore criminale di Novara - spiega il segretario Sappe Donato Capece - è sintomatico di un'emergenza penitenziaria che permane nonostante tutto, in Piemonte e nell'intero Paese, sedata in tempo dai bravi poliziotti penitenziari in servizio che mi auguro vengano premiati per l'ottimo intervento operativo. Non so dunque - continua - come si possa parlare di emergenza carceri superata visto che a Novara si sono contati, nei dodici mesi del 2014, 17 episodi di autolesionismo, 5 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, e 17 colluttazioni". Per il segretario regionale Sappe del Piemonte Vicente Santilli, "la situazione nelle carceri resta sempre allarmante e a Novara, in un anno, il numero dei detenuti è diminuito di sole 13 unità: dai 171 del 30 giugno 2014 si è infatti passati agli attuali 158, mentre a livello nazionale sono oggi detenute 52.754 persone rispetto alle 58.092 dello scorso anno (circa 6.000 in meno)". Cinema: "Un centimetro alla volta", la squadra di rugby del carcere arriva sugli schermi di Ambra Notari Redattore Sociale, 25 luglio 2015 Sarà distribuito a Natale, per il cinema e per la televisione, in Italia e all'estero: storia - diretta dalla bolognese Enza Negroni - di "Giallo Dozza", il team del penitenziario bolognese. Davanti alle telecamere, 40 detenuti di 13 nazionalità diverse. Si intitolerà "Un centimetro alla volta", in inglese "Inch by inch": già, perché il nuovo documentario della regista bolognese Enza Negroni - che fece il botto già all'esordio con "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" - sarà distribuito anche sul mercato internazionale, che con ogni probabilità conosce poco il soggetto. "Un centimetro alla volta", previsto in uscita a Natale, racconta "Giallo Dozza", la squadra di rugby del carcere di Bologna: 40 detenuti di 13 nazionalità diverse, protagonisti di un'opera fortemente voluta anche dalla direttrice dell'istituto penitenziario Claudia Clementi. "L'idea è venuta a Giovanna Canè, la produttrice - racconta Negroni, che da tempo frequenta l'ambiente del rugby. Ho accettato, ed è cominciata l'avventura". Giallo Dozza, nel corso dell'ultimo campionato, ha militato in serie C2 girone Emilia. In campo, una troupe ridotta all'essenziale: Negroni, Canè e Roberto Cimatti, già direttore della fotografia per film come "Il vento fa il suo giro" e "L'uomo che verrà" di Giorgio Diritti: "All'inizio andavamo agli allenamenti da spettatori. Volevamo farci conoscere, prima di presentarci con le telecamere. Piano piano, il rapporto con atleti, sicurezza, direttrice, è cresciuto e si è consolidato. I ragazzi sono stati molto collaborativi: i primi giorni qualcuno era meno convinto di altri, ma poi ha ceduto. Per questo, ringraziamo di cuore l'allenatore Massimiliano Zancuoghi, che ha fatto di tutto per introdurci nel gruppo, facendo da collante. Ci ha dato fiducia". Il documentario racconta l'arrivo nella squadra di 3 giovani, a metà campionato. I 3 saranno chiamati a inserirsi e a integrarsi, e lo spettatore farà lo stesso: un centimetro alla volta, entrerà nei meccanismi di "Giallo Dozza". 25 le giornate di riprese ("Dagli allenamenti alle partite al terzo tempo", sorride Negroni), in questi giorni il montaggio: un promo del prodotto finale è già stato mostrato ai detenuti-atleti, che un po' emozionati un po' intimiditi hanno raccontato l'enorme soddisfazione. Del documentario saranno realizzate due versioni, una di circa 70 minuti per il grande schermo e una più breve - 50 minuti - per la televisione. Intanto, i ragazzi di "Giallo Dozza" continuano ad allenarsi: "Neppure il gran caldo può fermarci - conferma Lorenzo Piazza, ex giocatore del Bologna Rugby e ora team manager della squadra del carcere -. Pensate che i nostri giocatori non hanno voluto sospendere gli allenamenti nemmeno durante il Ramadan, con le temperature torride che ci sono state. Peraltro, ci alleniamo dalle 16 alle 18, non esattamente con il fresco". La sfida, ora, è ripartire il prossimo campionato, e magari farlo con i bei risultati raggiunti alla fine dello scorso, con le due vittorie completamente inattese ottenute su Misano Rugby e San Marino Rugby. "A parte i risultati sportivi, comunque degni di nota - commenta Piazza, la più grande soddisfazione è stata vedere l'attaccamento alla maglia e ai compagni. I ragazzi ci hanno sempre creduto, e hanno veramente fatto squadra". Libri: "L'istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010", a cura di Franco Rotelli di Sergio M. Germani Il Manifesto, 25 luglio 2015 "L'istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010", a cura di Franco Rotelli, documenta le vicende intorno all'ospedale psichiatrico friulano da cui prese corpo la rivoluzione di Franco Basaglia. Si presenta come un album-strenna, per formato, dimensioni e ricchezza iconografica, ma è un vero libro, la più ampia sintesi e insieme riapertura di quella che è stata a Trieste l'esperienza di distruzione dei manicomi di Franco Basaglia e dei suoi stretti collaboratori (Franca Ongaro Basaglia, Franco Rotelli, Peppe Dell'Acqua, Mario Reali…). Si tratta del volume "L'istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010" curato ora da Franco Rotelli per la collana (che prende il nome dal numero di una decisiva legge) "180. Archivio critico della salute mentale" diretta da Peppe Dell'Acqua per le edizioni Alpha Beta di Merano. La collana, già giustamente apprezzata e premiata, ha pubblicato o riedito in versione ampliata testi fondamentali del gruppo basagliano, nonché volumi con dvd dedicati a opere che documentano quella vicenda, e trova ora nel libro di Rotelli (non solo per le sue dimensioni extra-collana che subito ne segnalano l'importanza) qualcosa che va oltre un "bilancio". Il titolo stesso, che interloquisce con il classico basagliano del 1968 L'istituzione negata, ci conferma quanto da anni ben oltre il Friuli Venezia Giulia è evidente: che Rotelli è tra i pochi a ragionare in termini progettuali di politica culturale, a rilanciare e non a subire il rapporto tra politica e intervento sociale. Lo spostamento dal concetto di istituzione negata a quello di inventata potrebbe apparire una tardiva sottolineatura "riformistica" ma è invece la miglior evidenziazione di come la vicenda basagliana abbia saputo rimescolare e superare i giochi al ribasso della storia politica italiana: dapprima nel rapporto con il ministro socialista Luigi Mariotti (che fu tra quanti all'epoca del centrosinistra, insieme al ministro del lavoro Brodolini, al combattente dei diritti civili Fortuna e qualcun altro, diedero un senso all'impegno di riforme forti); poi, per l'esperienza propriamente triestina, si intercettò l'impegno realmente cristiano della più avanzata Dc morotea, di cui Michele Zanetti, che volle Basaglia a Trieste, è in assoluto il più luminoso esempio; e in parallelo si potè contare su uno psichiatra convintamente comunista come Mario Tommasini. Che oggi i basagliani Rotelli e Reali siano rispettivamente consigliere regionale del Pd e consigliere comunale di SEL, è segno di come anche oggi le sigle politiche vadano forzate verso una capacità di rispondere a esigenze reali. Non si tratta del gatto di cui non importa il colore di Deng Xiao-ping ma di qualcosa di non trasformistico e sostanziale. Il volume di Rotelli si apre appunto, a mò di eletta prefazione, con un testo di Antonin Artaud, e dunque in un rapporto con un'esperienza imprescindibile della follia. E subito ci viene in mente che Artaud fu attore e complice di Dreyer in La passion de Jeanne d'Arc e di come poi il rapporto con la follia, oltre che Artaud, toccò lo stesso Dreyer (ricoverato quasi per beffa in una Clinica Jeanne d'Arc) e più tardi sua figlia: ma negli anni in cui dovette subire questi trattamenti, Dreyer creò l'abissale follia di Vampyr, un film sul cancro, il segreto capolavoro "clinico" Due esseri, il film contro tutte le inquisizioni Dies irae, il film più centrale di tutti Ordet e infine Gertrud che rimane l'atto estetico supremo del Novecento. Non stiamo tirando troppo il volume di Rotelli su sentieri filmici estranei perché il libro già documenta ad abundantiam la sensibilità per il più acuto distornamento (con quello debordiano) del cinema. Si pensi che l'Ospedale Psichiatrico di Trieste realizzò nel 1977 la prima personale italiana di Frederick Wiseman. Si pensi che coinvolse nella documentazione fotografica Raymond Depardon, Gianni Berengo Gardin. E ci piace che Mario Reali, in uno degli scritti più belli in volume, richiami la rivoluzione non del Potemkin di Ejzenstein (come può fare un Greenaway qualsiasi) ma, sfida molto più difficile, dello Sweet Movie di Makavejev. E tra le molte scritte che sui muri dell'ospedale triestino dichiararono slogan sovversivi spicca il richiamo al film lattuadiano di un "Venga a prendere un elettroshock da noi". Inoltre, il luogo oggi trasformato a bar-ristorante autogestito nel comprensorio ex-psichiatrico triestino di San Giovanni, si chiama "Il posto delle fragole", e qui ci soccorre la memoria che a metà anni 60, prima che dal cinema si dedicasse alla politica che gli permise di accogliere Basaglia, Michele Zanetti fu tra gli acuti commentatori cattolici di Bergman (con Luciano Zantedeschi) al Cineforum Triestino: erano cinefili che poi magari si irritavano (sbagliando) per certe riscoperte critiche francesi che fraintendevano per snobistiche, ma quando a qualcosa come Bergman erano interessati lo rendevano vera lezione di vita, non solo estetica ma morale. Una cosa da segnalare (oltre il volume) come pertinente è il fatto che Franco Basaglia, nella sua giovanile formazione neurologica, pubblicò nel 1954 con Giampietro Dalla Barba per la Clinica delle malattie nervose di Padova un aureo saggio in nostro possesso, A proposito della risposta "maschera" nel test di Rorschach, che ben si collega alle macchie di Rorschach e alla clinica psichiatrica di Europa 1951 del Rossellini che arriva poi al coevo (rispetto al testo basagliano) La paura e al conclusivo ma perduto Le psychodrame in un percorso che, come rispetto a Simone Weil e alla storia delle filosofie e delle religioni, anticipa di almeno un decennio le vicende sociali cui appartiene la rivoluzione basagliana. Che fu, diciamolo, l'unica non perdente del Novecento, proprio perché tuttora "permanente" (come testimoniano le lotte di Dell'Acqua col rinato Marco Cavallo), mai illudentesi di vincere in un solo paese (come provano nel volume i molteplici prolungamenti internazionali). Una quindicina d'anni dopo Europa 1951 è nel maggior film degli anni 60 dopo Gertrud, di un regista il cui nome è racchiuso in quello di Roberto Rossellini (Robert Rossen), Lilith, che Rorschach e follia si ripropongono in tutta la loro irrisolvibilità sociale. La vicenda di Marco Cavallo, ricreazione artistica (del cugino Vittorio Basaglia e dell'ancora attivo Giuliano Scabia) insieme a tutta la comunità dei "matti" di un cavallo reale che fu recluso-operaio tra i reclusi del manicomio, diventerà forse l'unico epos postessantottesco di cui si abbia splendida evidenza. Di queste e di molte altre vicende artistiche provenienti dall'azione basagliana reca traccia anche fotografica il volume di Rotelli. Ma le due foto più emblematicamente commoventi rimangono quella di Basaglia chino con amoroso pudore su una ricoverata, e quella di Basaglia sotto un aereo in partenza con tutta la comunità, immagine di volo aereo verso orizzonti infiniti che è il miglior seguito del finale aeroportuale di "Amore mio" di Matarazzo. Il quale, prima di mettere in scena la pazza rigeneratrice di Torna!, fu già autore del maggior film italiano sulla reclusione psichiatrica, addirittura in epoca fascista, L'albergo degli assenti, titolo che rinnega meglio di qualsiasi altro l'apologia della detenzione. Va inoltre segnalato che il volume di Rotelli evidenzia le molteplici imprese economiche post-proudhoniane sorte dall'esperienza che ha ripreso da Basaglia: cooperative come La Collina che oggi reagiscono alle crisi di altre (quale Bonawentura); che sostengono case editrici come "e" diretta da Piero Del Giudice; che forse potrebbero capire meglio delle inerti istituzioni pubbliche "follie" come quella di Diego de Henriquez e del suo Museo di guerra contro la guerra; che appartengono alla costellazione letteraria triestina, quella delle "follie" di Svevo, Saba, Timmel, persino del raggelato Quarantotti Gambini… più che in qualche museo delle cere in cui si vorrebbe racchiuderle. Ci sembra che il libro-summa di Rotelli possa preludere a un rilancio complessivo della programmazione culturale non solo in regione, a cominciare dall'offerta nei giardini dell'ex-comprensorio, che può sorpassare il mainstream nell'avanguardia. Migranti: il rischio è la strage delle coscienze di Don Francesco Soddu (Direttore Caritas Italiana) Il Garantista, 25 luglio 2015 Nuove vite perse nel Mediterraneo. Purtroppo continua ad essere solo la punta di un iceberg, pensando anche a quanti muoiono nella traversata del Sahara, grande quattro volte il Mediterraneo, o ancora a quanti vedono ogni giorno infrangersi le loro speranze e spesso le loro vite davanti alle crescenti barriere a livello mondiale. Ricordiamo il muro Saharawi, conosciuto anche come "il muro della vergogna", che separa il Marocco e la parte dell'ex- Sahara Occidentale, i muri di Ceuta e Melilla, le ultime due enclave sotto la sovranità spagnola in territorio africano, il muro Tijuana, che si estende per oltre 1.000 chilometri sul confine tra il Messico e gli Stati Uniti. E ancora molti altri muri (oltre 50 secondo gli ultimi dati), come il muro israelo-palestinese, il muro tra India e Bangladesh, quello tra Iran e Pakistan e quello annunciato dall'Ungheria al confine con la Serbia. Redistribuzione, reinsediamento e soprattutto canali legali di ingresso, gli strumenti invano invocati per salvare vite umane dal mare, dal deserto, dalla disperazione. Eppure la nostra Europa non sa più mostrare il suo volto solidale e ogni Paese resta arroccato nei propri egoismi. Riconosciuto il giusto bisogno di sicurezza e di legalità (che però è da far valere verso tutti, migranti e non, che non rispettano le leggi, evadono il fisco, organizzano le mafie), una società coesa, solidale, libera, democratica, rispettosa della dignità di ogni persona e gruppo umano non si costruisce sul sospetto ma sul dialogo, attraverso quella che è stata chiamata "convivialità delle differenze" e che oggi invece appare sempre più come una "convivialità delle diffidenze" o, peggio ancora, "dell'indifferenza". Probabilmente abbiamo tutti archiviato troppo in fretta i forti interrogativi che papa Francesco ha sollevato dopo la tragedia di Lampedusa nel 2013, salvando forse meccanicamente solo lo slogan abusato e ripetuto di "globalizzazione dell'indifferenza": "Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno. Tutti noi rispondiamo così: ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l'illusione del futile, del provvisorio". Credo invece che come adulti, come educatori e come cittadini, prima ancora che come cristiani, abbiamo il dovere di evitare il rischio che proprio il ripetersi di tali tragedie e il clima generale, possa portare a un atteggiamento "anestetico" sempre più diffuso, cioè alla tentazione di cancellare dal nostro campo visivo e di interesse i troppi, scomodi esseri umani disperati che si affidano a mercanti brutali su carrette sovraccariche. Il nostro compito ha quindi una duplice valenza. Da un lato ricordare a noi stessi e a tutti che queste persone esistono e che la loro condizione interpella la coscienza di tutti. Dall'altro stimolare ad impegnarsi affinché i loro diritti - che sono i diritti di ogni persona umana - vengano riconosciuti ed affermati in ogni dimensione della vita. Molti di loro sono già tra noi: sono i cittadini che risiedono nel nostro Paese da 30 anni, che attendono la cittadinanza italiana o che hanno la cittadinanza italiana ma ha i lineamenti chiaramente di un paese diverso. Sono i minori senza esperienza migratoria ma nati da cittadini immigrati; sono gli alunni di cittadinanza non italiana che frequentano le nostre scuole. Sono le coppie miste. Sono i migranti ricongiunti. I lavoratori sfruttati nei campi agricoli. Sono le donne che curano le nostre case o a cui affidiamo la cura dei nostri figli, dei nostri anziani. Papa Francesco, in occasione della 101esima giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2015, ha voluto sottolineare ancora una volta che "missione della Chiesa, pellegrina sulla terra e madre di tutti, è di amare Gesù Cristo, adorarlo e amarlo, particolarmente nei più poveri e abbandonati; tra di essi rientrano certamente i migranti ed i rifugiati, i quali cercano di lasciarsi alle spalle dure condizioni di vita e pericoli di ogni sorta". Ricordiamocelo sempre, davanti ad ogni ferito sulla via di Gerico. Accoglienza ai migranti, due pesi e due misure di Mario Morcone (Capo del Dipartimento Immigrazione del ministero dell'Interno) Corriere della Sera, 25 luglio 2015 Ho letto, con l'attenzione che sempre merita, l'articolo del professor Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri, dal titolo "Non rottamiamo anche i Prefetti simbolo dello Stato". Francamente, non mi appassiono né all'enfatizzazione di un disagio di una difficoltà vera, quale quella rappresentata dal collega del Sinpref (associazione sindacale dei funzionari prefettizi, ndr), ma nemmeno al tentativo, in verità dal sapore intimidatorio, di chi minaccia la soppressione delle Prefetture. Voglio soltanto ricordare un punto di verità sui fatti che ci vedono in prima linea già dall'inizio del 2014. Il 10 luglio dello scorso anno, infatti, la Conferenza Unificata, cioè il Tavolo in cui siedono le rappresentanze dello Stato, dei Comuni e delle Regioni, decise con un gesto intelligente e lungimirante l'accoglienza sui territori del Paese in una proporzione determinata da un mix di parametri che furono all'epoca concordati. In sostanza, ogni 10 mila posti che si fossero resi necessari per accogliere le persone che sbarcano sulle nostre coste, ci sarebbe stato una suddivisione secondo una tabellina, che prevede percentuali prefissate per singole Regioni. Tavoli regionali, poi, composti dai Prefetti, dall'Assessore regionale, dai Sindaci, avrebbero assicurato la governance del territorio, distribuendo in maniera condivisa e, soprattutto, scegliendo liberamente le soluzioni più idonee ad attenuare l'impatto sociale dell'arrivo e dell'integrazione dei migranti. Come spesso accade, ad una decisione generosa e intelligente è seguita la presa di distanza di alcune Amministrazioni regionali e locali per evidenti motivi di doppiopesismo: da un lato, la difficoltà di distinguersi dalla maggioranza delle Amministrazioni in sede di Conferenza e, dall'altro, la necessità di cavalcare il dissenso al governo in carica, puntando sul pregiudizio e sulle paure di alcune comunità locali. Insisto sul punto che la decisione della Conferenza Unificata è generosa e intelligente perché è la prima volta che in questo Paese una pressione migratoria così imponente viene affrontata costruendo una stabile infrastruttura dell'accoglienza e coinvolgendo tutti coloro che hanno responsabilità di governo. Non si è infatti chiesto lo stato d'emergenza, non si è ricorso alle ordinanze di protezione civile, non ci sono state semplificazioni amministrative e tutto, anche se con difficoltà, viene gestito in via ordinaria. Di qui, naturalmente nasce, poi, un'ulteriore ambiguità che, mi creda, sto constatando di persona in giro nelle varie province italiane. Da un lato si chiede che i Prefetti rispettino le attese e le istanze di coloro che i cittadini hanno eletto e cioè i sindaci e che spesso sono di traverso, dall'altro, si suggerisce di imporre ai sindaci stessi le soluzioni, così che loro abbiano la possibilità di subire la scelta, ma al tempo stesso di protestare contro il governo tiranno allineandosi al dissenso dei propri elettori. Una storia tutta italiana che, comunque, non ci sposta di un millimetro, non saranno le intimidazioni o le velate minacce e nemmeno una comunicazione spesso distorta o il caldo estivo a spostarci dalle nostre responsabilità. Stiamo parlando di persone e a queste persone noi continueremo a garantire l'accoglienza civile di un Paese come l'Italia che sta portando avanti da oltre un anno la più grande operazione umanitaria che la Repubblica abbia mai messo in campo, che piaccia o no. Gli italiani detenuti all'estero sono 3.309, oltre un terzo in Germania di Andrea Ossino Il Tempo, 25 luglio 2015 Dai Marò reclusi in India ai pescatori arrestati in Gambia. Secondo l'annuario della Farnesina sono 3.309 i connazionali detenuti all'estero. È mattina. Si scende dalla branda. Un secondino intima qualcosa in una lingua di cui si conoscono solo poche parole. Si attende una visita che non arriverà mai perché i propri cari sono tutti lontani. A casa. È la condizione in cui vivono i 3.309 italiani detenuti all'estero. Dai Marò reclusi in India fino ai pescatori arrestati in Gambia per aver violato le leggi sulle maglie delle reti da pesca i casi non mancano. È la Farnesina a diffondere i dati attraverso l'annuario statistico. Certe volte i nostri connazionali sono stati colti con le mani nel sacco. Altre volte sono restati vittime della diplomazia internazionale. In diverse occasioni sono partiti in cerca di un futuro migliore e si trovano reclusi per aver violato leggi di cui non sapevano neanche l'esistenza. Tra loro solo 671 persone stanno scontando una pena già passata in giudicato. Attualmente infatti vi sono 2,602 detenuti che attendono di scoprire se, secondo il paese che li ospita, sono colpevoli o innocenti. Ogni giorno circa due terzi dei carcerati italiani all'estero si svegliano in un paese europeo (2.610 di cui 2.128 in attesa di giudizio). È la Germania a ospitare nelle proprie galere il numero maggiore di italiani. Vi sono infatti 1.229 connazionali che trascorrono le loro giornate cercando di comunicare in tedesco, tra loro 1,087 attendono di essere giudicati. Quelli detenuti in Spagna (444) sono spesso coinvolti nel traffico di sostanze stupefacenti. In Francia invece sono stati incarcerati 317 italiani. 273 in Belgio. Probabilmente le situazioni più difficili sono vissute dagli altri 347 carcerati distribuiti in diversi paesi dell'Unione Europea. Piccole comunità di detenuti che non possono darsi man forte in un mondo, quello interno ai penitenziari, dove il paese d'origine conta parecchio, soprattutto nelle dinamiche che si instaurano tra detenuti. 161 italiani vivono in carceri extraeuropee. Soprattutto in Albania (13) e in Svizzera (118). Uno dei casi più drammatici riguarda, ad esempio, l'unico detenuto italiano in Armenia, o i 2 che vivono in Bosnia-Erzegovina. Andando oltre oceano, tra i 425 cittadini del Belpaese detenuti nelle Americhe, paese noto per la durezza dei regimi penitenziari, 68 sono negli Stati Uniti. Il Brasile ha rinchiuso 75 italiani dietro le sbarre. Il Perù 56 e l'Argentina 50. Il ministero degli Esteri monitora an -che i 67 italiani detenuti in Asia e Oceania. In Cina, dove vige la pena di morte, 15 italiani stanno espiando una con-danna lontano dalle proprie famiglie. Senza nessuno che li possa andare a trovare. Soli. Come i 12 detenuti reclusi in Tailandia o l'unico prigioniero italiano rinchiuso in Pakistan. Nelle galere australiane vi sono 25 detenuti di cui solo tre sono stati condannati definitivamente. La lentezza dei processi ha creato non pochi problemi ai 22 italiani che attendono da anni di essere giudicati. Il caso sicuramente più noto è quello indiano. La corte di New Delhi ha già condannato 4 nostri connazionali mentre Latorre e Girone, i due fuci-lieri accusati di aver ucciso due pescatori credendo fossero pirati, sono in attesa di giudizio. L'attenzione mediatica riservata ai due Marò si spera garantisca loro una condizione carceraria quantomeno decente. Un trattamento che difficilmente avranno le 8 persone detenute in Africa. Non se la passeranno bene i 4 detenuti italiani rinchiusi in Senegal e nemmeno gli altri 4 che trascorrono le loro giornate nei penitenziari in Ghana, a Capo Verde, in Burkina Paso e nella Guinea Equatoriale. Una condizione sicuramente difficile la staranno affrontando anche i 38 italiani reclusi tra Marocco, Tunisia, Emirati Arabi, Egitto, Oman e Giordania. Crimini, errori giudiziari e lunghe reclusioni per piccoli reati. Tutte storie accomunate da un unico denominatore: espiare le proprie colpe lontano da casa e dall'unica cosa che può dare la forza di resistere, l'affetto dei propri cari. Svizzera: detenuto si impicca in cella, era in detenzione preventiva da circa due settimane ticinonews.ch, 25 luglio 2015 Un 35enne si è impiccato nella prigione di Liestal. Al momento escluso il coinvolgimento di terzi. Nella prigione di Liestal (BL), un detenuto di 35 anni in attesa di processo è stato trovato questa mattina impiccato nella sua cella. Non vi sono indicazioni che facciano pensare al coinvolgimento di terzi, ha comunicato il dipartimento della sicurezza cantonale. Il 35enne si trovava in detenzione preventiva in una cella singola da circa due settimane. Durante questo periodo non sono stati rilevati nell'uomo problemi di carattere psichico o intenzioni suicide, precisa il comunicato. La procura chiarirà le esatte circostanze di quanto accaduto. Siria: scambio di prigionieri tra Damasco e il Fronte al Nusra Nova, 25 luglio 2015 Il governo siriano ha rilasciato sette militanti del Fronte al-Nusra detenuti nelle sue carceri, in cambio di un certo numero di soldati governativi. Fonti locali, hanno detto al giornale "al Sharq al Awsat" che lo scambio ha avuto luogo nel quartiere di Qaboun a Damasco. "Il regime ha anche recuperato alcuni cadaveri di soldati uccisi nelle battaglie dei giorni scorsi, in cambio di liberare i prigionieri di al Nusra, tra cui c'è una donna". Il dieci luglio scorso, fazioni dell'opposizione sono riuscite a concludere un accordo di scambio di prigionieri, che ha portato alla liberazione di 40 detenute nelle carceri del regime, in cambio della consegna di 11 cadaveri delle forze regolari. Lo scorso 18 luglio in occasione delle celebrazioni dell'Eid al Fitr, la festa per la fine del Ramadan, il governo siriano di Bashar al Assad rilasciato oltre 200 prigionieri, molti dei quali incarcerati a causa delle leggi contro il terrorismo e oppositori politici che hanno preso parte alle manifestazioni antigovernative iniziate nel marzo 2011. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione con sede nel Regno Unito, sarebbero invece circa 350 i detenuti rilasciati ieri dal carcere di Adra, penitenziario situato nei pressi di Damasco. Fra le persone liberate, vi è Hussein Ghreir, blogger siriano arrestato nel febbraio 2012 insieme agli attivisti Mazen Darwish e Hani Zaitani con l'accusa di promuovere atti terroristici. La notizia della sua liberazione è stata confermata all'Osservatorio siriano per i diritti umani da una persona vicina all'attivista, il quale ha sottolineato che Ghreir è tornato nella sua casa di Damasco e gode di buona salute. L'Osservatorio siriano per i diritti umani stima in almeno 200 mila i prigionieri detenuti nelle prigioni del regime. Fra essi vi sarebbero diverse persone scomparse dopo il loro arresto da parte delle autorità, le cui famiglie non hanno mai ricevuto alcuna informazione o dichiarazione formale da parte delle autorità. Per gli attivisti sarebbero invece circa 13 mila, fra cui decine di bambini, le persone torturate a morte nelle carceri del regime dal marzo 2011. Nel 2014 il governo Assad aveva annunciato un'amnistia per consentire il rilascio di decine di migliaia di persone incarcerate per motivi politici, ma secondo gli attivisti ad oggi solo poche centinaia sono state effettivamente liberate. Stati Uniti: raccolse un manganello della polizia, una homeless rischia l'ergastolo di Luca Celada Il Manifesto, 25 luglio 2015 Una donna psicolabile potrebbe passare il resto della vita in prigione, per aver raccolto da terra un manganello della polizia. Una paradossale condanna che potrebbe di diventare l'ultimo sviluppo di un episodio già emblematico della endemica violenza di polizia in America e la fisiologica ingiustizia che ne caratterizza i rapporti con gli afroamericani. Il 2 marzo scorso la donna, Trishawn Cardessa Carey, di 34 anni, divenne involontaria figurante in un ennesimo video che documentava l'uccisione di un uomo nero, in questo caso un homeless della skid row di Los Angeles, da parte di una pattuglia del Lapd. Il video mostra un gruppo di sei poliziotti che circonda un uomo su una strada della città californiana. Si tratta, si saprà dopo, di Charly Keunang, un immigrante camerunese senza fissa dimora che i poliziotti intendevano sfrattare dall'accampamento di fortuna nel fatiscente quartiere. Nel video, dopo uno scambio di parole con gli agenti, l'agitazione di Keunang aumenta, l'uomo comincia a dimenarsi roteando le braccia. I poliziotti le saltano addosso, un paio di essi lasciano cadere in terra i manganelli che avevano impugnato. C'è una colluttazione e Keunang casca di schiena sul selciato. Volano dei pugni, si sente il ticchettio caratteristico della scarica elettrica dei taser poi d'improvviso un paio di agenti balzano in piedi con pistole puntate in basso e si sentono esplodere 5 colpi. Sopra Keunang, ormai senza vita, sono tre alla fine i poliziotti con le armi puntate. Ma stavolta il caso ha una propaggine che, se possibile, è ancora più efferata dello stesso omicidio impunito. Infatti in quel video appariva anche un'altra figura, una donna minuta e magrissima - Carey - anche lei homeless che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Entra in campo barcollante, durante la rissa, sembra notare uno dei manganelli lasciati cadere dagli agenti che stanno picchiando Keunang. Lo raccoglie e lo osserva in apparente stato confusionale. In quel momento due agenti che la sovrastano fisicamente lasciano la mischia e si lanciano sulla esile donna afro americana, spintonandola a terra e ammanettandola. Quella che sembrava essere una semplice appendice a un tragico fatto di ordinaria ingiustizia, rischia di incarnare ancora più palesemente gli eccessi e gli squilibri congeniti di un sistema penale fuori controllo. La settimana scorsa era stato lo stesso Obama a criticare specificamente le pene eccessive inflitte per reati minori. Primo presidente a visitare un penitenziario federale, Obama aveva denunciato il "giustizialismo punitivo" che in America ha prodotto proporzionalmente la più numerosa popolazione detenuta al mondo (25% dei detenuti mondiali sono americani) e la sproporzione con la quale questi appartengono a minoranze etniche. Pochi giorni dopo un assistente procuratore di Los Angeles ha annunciato che chiederà per Trishawn Cardessa Carey la massima pena prevista per il reato di resistenza a pubblico ufficiale: da 25 anni all'ergastolo. Pur risultando evidente dal video che Carey - dopo aver raccolto il manganello non accenna mai a voler farne uso alcuno - la donna è in carcere da quattro mesi con l'ulteriore accusa di "assalto a mano armata contro un agente di polizia". Carey è apparsa in tribunale per l'udienza istruttoria in lacrime su una sedia a rotelle. Il suo avvocato ha fatto notare che alla donna, costretta alla prostituzione dall'età di 14 anni, sono stati diagnosticati numerosi episodi di "psicosi acuta". A questa condizione sono da ricondurre piccoli precedenti penali (risse e furti) che per le leggi californiane sulla tolleranza zero potrebbero ora giustificare una massima pena. All'udienza hanno presenziato anche una dozzina di militanti del movimento Black lives matter contro gli abusi di polizia. Tunisia: per Festa Repubblica graziati 1.581 detenuti, esclusi reati gravi e terrorismo Ansa, 25 luglio 2015 Festa della Repubblica oggi in Tunisia. Il 25 luglio del 1947 l'Assemblea Costituente tunisina proclamava solennemente la fine della monarchia husseinita durata 252 anni e la nascita della Repubblica di Tunisia. In occasione di questo avvenimento dal forte significato per i tunisini, il presidente della Repubblica Béji Caid Essebsi ha firmato un provvedimento di grazia in favore di 1.581 detenuti. Lo ha reso noto un comunicato della presidenza che precisa che il capo dello Stato insiste sulla necessità di mettere in atto una nuova politica carceraria che miri ad un miglior trattamento dei detenuti nel rispetto dei principi universali dei diritti umani. Il provvedimento di grazia non riguarda ovviamente i responsabili di crimini gravi come terrorismo, traffico d'armi, spaccio di stupefacenti e omicidio volontario. La situazione delle Carceri tunisine è drammatica: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, e spesso è stata oggetto di critiche e rilievi da parte di associazioni umanitarie internazionali. La maggior parte dei detenuti è composta da semplici consumatori di droga, l'uso di stupefacenti in Tunisia è infatti punito con la reclusione. L'art. 4 punisce il consumatore e il detentore anche di modiche quantità, in Italia assimilate all'uso personale, con la reclusione da uno a cinque anni e con pena pecuniaria accessoria da 500 a 1.500 euro circa. Da tempo è in atto nel paese un dibattito sulla riforma del testo sulla legge degli stupefacenti.