Giustizia: la Legge penitenziaria compie 40 anni, i magistrati chiedono "strumenti nuovi" Ansa, 24 luglio 2015 Giudici sorveglianza "ci confronteremo con detenuti e operatori". Domenica prossima, 26 luglio, ricorre il quarantennale della legge penitenziaria, che nel 1975 ha ridisegnato l'esecuzione penale ponendone al centro la persona detenuta, come portatrice di diritti. I giudici di sorveglianza - fa sapere il loro Coordinamento - trascorreranno la giornata negli istituti penitenziari, anche per confrontarsi con detenuti e operatori sulla reale attuazione dei principi cardini della riforma, dopo "decenni di sopravvenute scelte legislative non sempre omogenee rispetto agli obiettivi della riforma", e sulla "necessità di elaborare strumenti nuovi" per aumentarne l'efficacia. Un dibattito ancora più significativo visto che si inserisce nell'ampia riflessione aperta con gli Stati Generali dell'esecuzione penale. La riforma ha reso più conforme il trattamento penitenziario "al senso di umanità" e "al rispetto della dignità della persona", facendo nascere un "rapporto nuovo tra l'amministrazione penitenziaria e i ristretti" e dando "spazio pieno" alla figura del magistrato di sorveglianza, come garante dei diritti dei detenuti e dell'attuazione del trattamento rieducativo, ricorda una nota a firma del Coordinatore nazionale Nicola Mazzamuto e del Segretario del Comitato esecutivo Fabio Gianfilippi E ha dato "nuova pregnanza" al ruolo della polizia penitenziaria, degli operatori giuridico - pedagogici, degli assistenti sociali e dei soggetti esterni che, mediante il volontariato, "consentono alla società civile di rendersi presente entro le mura e di prefigurare la necessaria osmosi tra territorio e carcere, al fine di garantire un efficace reinserimento al termine della pena". Comunicato del Coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza (conams.it) 40 anni di ordinamento penitenziario. Il 26 luglio 2015 i Magistrati di Sorveglianza trascorrono la giornata negli Istituti di Pena. Il Coordinamento dei Magistrati di sorveglianza, nel quadro di approfondimenti sull'ordinamento penitenziario e l'esecuzione penale che sta promuovendo nel corso dell'anno 2015 mediante convegni e seminari di studio, sottolinea la rilevanza peculiare della data del 26 luglio 2015, in cui ricorre il quarantennale della legge penitenziaria. La riforma del 75, sulla scorta dell'insegnamento contenuto nella Carta Costituzionale, ridisegnava l'esecuzione penale ponendone al centro la persona detenuta, in quanto portatrice di diritti, ed imprimendo al trattamento penitenziario le caratteristiche positive della conformità al senso di umanità e, con espressione ancor più densa di conseguenze applicative, al rispetto della dignità della persona. Intorno a tale nucleo si generava un rapporto nuovo tra l'amministrazione penitenziaria e i ristretti, trovava spazio pieno la figura del magistrato di sorveglianza garante di tali diritti e dell'attuazione del trattamento rieducativo, nuova pregnanza il ruolo della polizia penitenziaria, delle figure degli operatori giuridico - pedagogici, degli assistenti sociali e dei soggetti esterni che, mediante il volontariato, consentono alla società civile di rendersi presente entro le mura e di prefigurare la necessaria osmosi tra territorio e carcere, al fine di garantire un efficace reinserimento al termine della pena, vissuta anche nelle forme delle misure alternative alla detenzione, a completamento di un percorso individualizzante di crescita e di revisione critica da parte del reo. In questo contesto, i magistrati di sorveglianza intendono trascorrere la giornata di domenica 26 luglio 2015 all'interno degli istituti penitenziari, nell'esercizio ordinario delle proprie funzioni istituzionali di vigilanza e per favorire momenti di confronto con gli operatori e le persone detenute circa l'importante anniversario, l'effettiva odierna attuazione dei principi cardine dell'ordinamento penitenziario, dopo alcuni decenni di sopravvenute scelte legislative non sempre omogenee rispetto agli obiettivi della riforma, e la necessità di elaborare strumenti nuovi per implementarne l'efficacia, anche nel quadro di una più ampia riflessione che in questi mesi si svolge nel contesto degli Stati Generali dell'esecuzione penale. Il Coordinatore Nazionale, Nicola Mazzamuto Il Segretario del Comitato esecutivo, Fabio Gianfilippi Giustizia: Orlando "troppe recidive, sistema penitenziario così rischia di risultare inutile" Askanews, 24 luglio 2015 Il sistema penitenziario non restituisce nulla a vittime crimine. Il nostro sistema penitenziario così com'è rischia di risultare inutile "perché non facilita la riabilitazione e non restituisce nulla a chi ha subito un crimine" ed è per questo che va riformato. Ne è testimonianza l'alto numero di recidività di quanti hanno commesso atti criminali, che pone il nostro paese ai primi posti in Europa. A ribadirlo è stato oggi il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando dai microfoni di Radio Anch'io. "Sento spesso pronunciare la vecchia battuta "buttiamo via la chiave", ma questo rischia di diventare solo un vuoto slogan con il tasso di insicurezza che poi, di fatto, non cala e la frustrazione di quanti vedono entrare ed uscire le persone dal carcere più volte". Il Guardasigilli ha poi ricordato i circa 3 miliardi spesi per l'esecuzione della pena di fronte, appunto, ad alti tassi di recidività che stanno lì a dimostrare che "occorre promuovere percorsi virtuosi per superare la passività della detenzione ed arrivare a creare possibilità per una reale ripartenza e non solo un periodo di pausa tra un reato ed un altro". Suicidi dicono che restano luoghi disperazione Gli ultimi suicidi in carcere dimostrano che questo "resta per definizione un luogo di disperazione e che dovrebbe essere l'ultima ratio" in un moderno sistema di pena. A definire l'esperienza in cella "una realtà particolarmente a rischio" è stato il ministro della Giustizia, Andrea orlando parlando stamane nel corso della trasmissione Radio Anch'io. "Occorre ripensare alle modalità di esecuzione della pena - ha detto il Guardasigilli - e come ristrutturare le carceri. Non basta una nuova edilizia ma occorre trovare un modo nuovo di concepire la pena". Scopo pena sia senso umanità e riabilitazione "È compito delle istituzioni sostenere i progetti che sono in grado di favorire delle forme alternative di detenzione e di promuovere concretamente la riabilitazione e il recupero dei detenuti, con percorsi che favoriscano il reinserimento nella società". Lo ha sottolineato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervenendo alla Camera al convegno "Quarant'anni dall'approvazione della legge di riforma penitenziaria". "Il progetto di arte-terapia in carcere", sperimentato nel penitenziario di Bollate (Milano), "può essere un esempio importante anche per altri istituti di pena. È giusto ragionare concretamente sulla possibilità di estendere negli istituti penitenziari progetti come questo. Ci sono risultati significativi", ha continuato Orlando, per il quale "l'obiettivo deve essere una pena che corrisponda al senso di umanità e che sia finalizzata alla riabilitazione. C'è soprattutto da lavorare sul fronte della ricaduta organizzativa", ma "questo obiettivo non basta: chi ha seguito la discussione parlamentare si è reso conto che spesso si è partiti con ambizioni ardite, ma ci si è poi spesso arrestati o contenuti perché spesso si scatenano delle campagne di stampa che, facendo leva su una paura nella società, enfatizzano il tema del dato del rischio per la sicurezza e fanno sì che il Parlamento arretri". "Il dato incontrovertibile - ha ricordato il Guardasigilli - è che noi siamo tra i paesi che spendono di più in Europa per l'esecuzione della pena, 2 miliardi di euro, e tra i paesi che hanno il tasso di recidiva più alto: questa promessa di sicurezza con l'utilizzo prevalente ed esclusivo del carcere ha prodotto il contrario dei risultati promessi. Il carcere così come si è strutturato nel tempo non produce sicurezza, ma potenziale aggressione al bene comune sicurezza. Gli Stati generali devono consentire una riflessione anche su quanto il carcere sia uno strumento di repressione e sanzione e quanto rischi di essere uno strumento che impropriamente affronta dei fenomeni di carattere sociale che si scaricano sulla dimensione penitenziaria". Fatti passi importanti su sovraffollamento "In questi anni, abbiamo fatto un'azione importante sul fronte del carcere che oggi ci consente di rispondere con argomenti concreti alla corte di giustizia europea". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervenendo al convegno "Quarant'anni dall'approvazione della legge di riforma penitenziaria" che si è svolto oggi a Montecitorio, nel corso del quale è stato presentato il volume "I colori della libertà", edito dalla Camera. Spiegando i passi compiuti, il ministro ha detto: "In due anni e mezzo si è passati dai 66mila detenuti in carcere al momento della sentenza agli attuali 52mila, mentre i posti in istituti penitenziari sono aumentati da 45mila a 49mila". "Il sovraffollamento delle carceri era una condizione di emergenza che impediva di riflettere sulle modalità trattamentali. Adesso l'alibi non c'è più, quindi dobbiamo cominciare a lavorare sul trattamento". Parlando del trattamento dei tossicodipendenti Orlando ha detto: "In questi mesi abbiamo lavorato affinché si vada effettivamente a un'esecuzione della pena dei tossicodipendenti all'interno delle comunità, cosa che la legge prevede ma che non si può realizzare perché le Regioni non hanno gli spazi all'interno delle comunità". A chi accusa il governo di svuotare le carceri con l'amnistia, Orlando risponde: "Gli interventi che abbiamo fatto non hanno mai cancellato la pena ma l'hanno rimodulata". Obiettivo del governo rispetto al sistema carcerario, ha spiegato il ministro, "è scritto nell'articolo 27 della nostra Costituzione e parla di umanità e una pena finalizzata alla riabilitazione". "Questo obiettivo - ha detto - si raggiunge attraverso una pluralità di strumenti e collaborazioni di vari soggetti. La formula del coinvolgimento dei soggetti del mondo penitenziario è fondamentale". "Il carcere così come strutturato nel corso del tempo - ha concluso il ministro - non produce sicurezza, serve un ripensamento". Ferranti (Pd): fatto molto, ma percorso da completare "Sulle carceri, questo governo in forte sinergia con il Parlamento, ha fatto molto. Ma si tratta di un processo che non è ancora completato". Lo ha sottolineato la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, al convegno "Quarant'anni dall'approvazione della legge di riforma penitenziaria" organizzato a Montecitorio in occasione della presentazione del libro "I colori della libertà", edito dalla Camera. All'incontro, che cade a 40 anni dall'approvazione della legge sull'ordinamento penitenziario, erano presenti anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, al capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il deputato Stefano Dambruoso, questore della Camera. Ricordando la conversione in legge di cinque decreti e due leggi di iniziativa parlamentare che hanno previsto misure per il settore carceri, Ferranti ha sottolineato "l'impegno per una risposta normativa strutturale e non di emergenza" ai problemi carcerari, emersi nella loro gravità soprattutto dopo la sentenza della Corte di Strasburgo del 2013 sul sovraffollamento carcerario. Da allora i provvedimenti introdotti hanno prodotto un calo dei detenuti. Ora un altro passaggio importante si avrà "lunedì - ha sottolineato Ferranti - quando andrà in aula il ddl sul processo penale, che contiene misure soprattutto sui tempi processuali, ma anche una delega al governo sull'ordinamento penitenziario. E nella delega il governo terrà conto dei frutti che arriveranno dagli Stati generali dell'esecuzione penale", una fase di confronto tra tutti gli addetti ai lavori avviata dal ministro Orlando, per individuare interventi ad hoc e mettere insieme, in un quadro organico, le varie misure fin qui adottate Giustizia: caro Orlando, il sovraffollamento non è finito, lottiamo per amnistia e indulto di Rita Bernardini (Segretaria di Radicali Italiani) Il Garantista, 24 luglio 2015 Mi dispiace davvero dover contraddire il ministro della Giustizia Andrea Orlando (che per molti versi apprezzo fortemente) che oggi ha affermato che l'emergenza sovraffollamento in Italia è finita. Lo sfido a visitare con me alcuni reparti di Sollicciano o di Regina Coeli, solo per citare istituti che ho visitato recentemente. Purtroppo, l'elenco è ancora lungo e riguarda decine di istituti penitenziari italiani. Ma, soprattutto, occorrerebbe superare immediatamente lo stato di illegalità che è pressoché comune a tutte le carceri per il mancato rispetto dell'Ordinamento penitenziario, del suo regolamento di attuazione e delle leggi fondamentali italiane, europee e transnazionali: in questa estate arroventata, in molte carceri manca persino l'acqua (vedi Santa Maria Capua Vetere) per lavarsi e bere. A Sollicciano due giorni fa un detenuto è morto per un colpo di calore. Quando poi mi tocca leggere le dichiarazioni di una ex pm secondo la quale noi, come Paese, saremmo addirittura un modello, mi chiedo se abbia mai messo piede - visitandole adeguatamente - nelle celle di reclusione. Quando la presidente della Commissione giustizia della Camera, Donatella Ferranti, arriva ad affermare che la condanna della Corte Edu è stato un "input" per varare i provvedimenti, mi corre l'obbligo di ricordarle che quelle denunce che hanno dato luogo alla sentenza Torreggiani le abbiamo presentate in parte noi radicali (tre dei sette casi li avevamo presentati proprio noi) in anni in cui lei e le maggioranze di governo sonnecchiavano o giravano la testa dall'altra parte. È fuorilegge o no il fatto che i Tribunali di Sorveglianza siano così sotto organico, soprattutto di personale di cancelleria, da essere costretti ad affrontare solo le emergenze anziché la maggior parte delle istanze presentate dai detenuti secondo quanto previsto dall'ordinamento penitenziario? Ricordo che nella settima sezione di Regina Coeli (dove la scorsa settimana si sono suicidati due detenuti), a Pasquetta quando l'ho visitata assieme a Marco Pannella, gli agenti che ci accompagnavano abbassavano gli occhi per la vergogna di ciò che dovevamo vedere ed ascoltare passando in rassegna le celle. La situazione diviene troppo spesso umiliante anche per i servitori dello Stato, costretti a tollerare situazioni inumane e degradanti. Per uno Stato democratico è fatto obbligo di rimuovere immediatamente le situazioni in violazione dei diritti umani fondamentali: è questo il motivo di fondo per il quale continuiamo a volere e a lottare per un provvedimento di amnistia e di indulto. Giustizia: "mai più bimbi in cella", era ora di Francesco Lai (Componente della Giunta dell'Unione delle Camere penali) Il Garantista, 24 luglio 2015 Mai più bambini in carcere. Potrebbe essere così riassunto il senso dell'intervento del ministro della Giustizia Orlando che, alla presenza del presidente della commissione Diritti umani al Senato, Luigi Manconi e della senatrice Anna Finocchiaro, nel corso di un incontro tenutosi presso la sezione femminile del carcere di Rebibbia, ha affrontato il delicato tema dei bimbi che trascorrono i primi anni della propria esistenza all'interno degli istituti di pena insieme alle loro mamme. Mamme detenute, che spesso portano a compimento la gestazione all'interno delle mura carcerarie, e, una volta dati alla luce i loro piccoli, li tengono con sé fino all'età di tre anni. E talvolta anche oltre. Sulla base dei dati forniti dal Guardasigilli, ad oggi nelle carceri italiane sono presenti 34 bambini, figli di 33 donne recluse. Bimbi che, viene spontaneo dire, scontano una pena loro malgrado. Piccoli costretti all' espiazione senza aver commesso alcun reato, la cui unica disavventura è quella di essere venuti al mondo al momento sbagliato. Evidentemente non è una colpa, e neppure lo è essere figli di una madre sventurata, e non si può per questo essere condannati a una infanzia da reclusi. Se è vero che la nascita di un bambino deve essere sempre salutata con grande gioia, la presenza anche di uno solo di essi all'interno di una struttura carceraria rappresenta un'autentica sconfitta e una vergogna per uno Stato democratico che voglia fare della tutela dei diritti civili ed umani il proprio fondamento. La protezione dell'infanzia e della maternità rappresentano, è bene ricordarlo, principi di rango costituzionale (articolo 31 Costituzione). Norma e principi fondamentali hanno come corollario il diritto dell'infante a crescere non separato dalla madre e in un ambiente il più possibile favorevole al suo corretto sviluppo. Inutile, inoltre, osservare che la responsabilità penale è personale, per cui ogni sanzione e/o cautela può essere applicata esclusivamente nei confronti di chi abbia commesso reati. Consentire che un bimbo possa trascorrere parte dei suoi giorni recluso in un istituto carcerario insieme alla madre, anche se ritenuta responsabile di gravi reati, è inaccettabile. Il legislatore, negli ultimi anni, è intervenuto con l'obiettivo di disciplinare la materia in aderenza con la normativa nazionale ed europea. Possono richiamarsi la legge numero 40/2001 che, intervenendo sull'articolo 47 quinquies dell'Ordinamento penitenziario, riguardante il regime di custodia delle madri con prole di età non superiore a dieci anni, ha previsto che le detenute possano espiare la pena presso la loro abitazione o in altro luogo di privata dimora (si pensi alle comunità o alle case famiglia), qualora sia assente il concreto pericolo di commissione di ulteriori reati e sia possibile il ripristino della convivenza con i figli. Di seguito, in tema di misure cautelari coercitive, la legge 62/2011 ha parzialmente modificato l'articolo 275 del Codice di Procedura penale, stabilendo che la custodia in carcere non possa essere applicata né mantenuta nei riguardi di una madre con prole non superiore ai sei anni, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Un chiaro esempio di come la politica abbia avvertito la necessità che la questione debba essere affrontata e risolta. Tali interventi legislativi hanno dimostrato sensibilità al problema, ma non hanno purtroppo determinato la sua completa soluzione, se ancora oggi si contano la presenza di ben 34 bimbi neonati (da zero a tre anni) all'interno delle nostre carceri. Va dunque accolto con favore l'impegno assunto dal ministro Orlando, che ha indicato la fine del 2015 quale termine ultimo entro cui nessun bambino dovrà essere più tenuto in carcere. In quest'ottica, ben venga la firma del protocollo di intesa con l'associazione "Bambini senza sbarre" e con il Garante per l'infanzia, che mira a ridefinire i criteri dell'accoglienza in carcere. E ben venga l'istituzione, si spera in tempi brevi, delle case famiglia nelle quali dovranno essere ospitate le madri detenute insieme ai loro piccoli. Queste strutture dovrebbero rappresentare il tentativo di trovare un giusto equilibrio tra due esigenze: quella di consentire alle donne condannate di espiare la pena e quella di permettere ai bambini di vivere e crescere accanto alle proprie mamme in un ambiente adeguato. L'Unione delle Camere Penali sostiene, dunque, l'iniziativa del ministro Orlando, affinché si ponga una volta per tutte fine a quella che è una vergogna contraria ad ogni senso di umanità. Perché i bambini, nell'immaginario collettivo, sono la manifestazione massima e più pura della vita e dell'innocenza, che devono poter esprimere in piena libertà e circondati dal calore dei loro affetti. E non reclusi all'interno di un carcere. Giustizia: l'impossibilità di avere una buona legge contro la tortura di Luigi Manconi Il Manifesto, 24 luglio 2015 Penso da sempre che l'attività parlamentare non debba essere un esercizio di testimonianza e nemmeno una prestazione meramente simbolica. Al contrario, ritengo che possa e debba essere la conquista del conquistabile, fino al ruvidissimo pragmatismo del "pochi maledetti e subito". In altre parole, se penso alla mia attività parlamentare di due anni e mezzo (sono tornato in Senato nel 2013), ciò che ritengo di poter ascrivere a bilancio positivo sono piccoli e circoscritti risultati: la liberazioni di alcuni detenuti italiani da orribili carceri straniere, l'accoglienza in Italia per una giovanissima siriana affetta da una grave patologia, la riduzione del tempo di trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione da 18 a 3 mesi, l'abolizione degli "ergastoli bianchi" (la detenzione a vita degli autori di reato con patologie psichiche) e - se Dio vuole - il contributo all'uscita dal carcere degli "innocenti assoluti", ovvero i bambini detenuti con le madri, e all'istituzione della Commissione di inchiesta sulla Moby Prince; e altri esiti altrettanto modesti. Nessuna grande opera e, tantomeno, nessuna riforma radicale. Questo per argomentare quale sia il mio atteggiamento, come dire, filosofico sulla attività parlamentare possibile. Ed è stato questo atteggiamento che, per lungo tempo, ha orientato la mia posizione a proposito del disegno di legge sulla tortura. Il primo giorno della presente legislatura, presentai un disegno di legge in cui la tortura veniva considerata come un reato proprio. Ovvero un delitto fondato sull'abuso di potere e di autorità e, di conseguenza, imputabile a pubblici ufficiali e a chi esercita pubbliche funzioni; per l'intima connessione - storica e simbolica, strutturale e funzionale - che lega tortura e potere pubblico. L'introduzione del reato di tortura è, infatti, la prima e minimale forma di tutela che lo Stato deve assicurare alla persona soggetta al suo potere, per impedire quella terribile violazione della dignità che passa, in primo luogo, attraverso l'umiliazione della persona stessa e lo strazio del suo corpo. La genesi della tortura si inquadra infatti nel rapporto tra suddito e Stato, evolvendosi poi nella relazione tra il cittadino privato della libertà e lo Stato di diritto. Dunque, connotato essenziale della tortura è l'abuso del potere, che consente a chi eserciti pubbliche funzioni di violare, nella persona affidata alla sua custodia, insieme con la dignità, la stessa umanità. Questa impostazione - coerente con le convenzioni internazionali e con le normative di paesi simili al nostro - venne sconfitta e il Senato approvò un disegno di legge decisamente mediocre, che votai proprio in base a considerazioni quali quelle prima esposte, così sintetizzabili: meglio una legge mediocre che nessuna legge. Da allora (marzo 2014) è accaduto che quel testo sia passato alla Camera, qui abbia subito modifiche, per poi tornare al Senato e venire ulteriormente emendato dalla commissione Giustizia. Il testo si differenzia in molti rilevanti aspetti da quello votato in prima lettura dallo stesso ramo del Parlamento. In particolare: A. Per integrare gli estremi della tortura, le violenze o minacce inferte devono essere, oltre che, più di una e gravi, anche "reiterate". Questa modifica, oltre a rendere ulteriormente difficile la prova della sussistenza del reato, ha un significato simbolico inaccettabile: la dignità può dirsi violata solo se lo sia ripetutamente; per quanto feroce, inumana e degradante, la violenza dell'uomo sull'uomo non è tortura se non è reiterata. B. Per la realizzazione del reato, in alternativa alle violenze o minacce reiterate, non è più sufficiente il trattamento inumano o degradante, ma sarà necessario provare che l'autore abbia agito "con crudeltà". È facile immaginare quanto potrà essere arduo, se non impossibile, dimostrare il movente psicologico (appunto, la crudeltà) che abbia spinto l'autore a tanto. C. Perché il delitto sussista, esso dovrebbe produrre, se non "acute sofferenze fisiche" un "verificabile trauma psichico". Quest'ultimo elemento, aggiunto adesso, rappresenterà un ostacolo spesso insormontabile per dimostrare la sussistenza del reato. I traumi psichici, come si sa, non sempre sono così facilmente, immediatamente e univocamente diagnosticabili come, che so, un trauma cranico. D. Tra le possibili relazioni di soggezione che devono caratterizzare il rapporto tra vittima e autore scompare l'affidamento all'altrui "autorità", sostituito dall'affidamento all'altrui vigilanza o controllo. Anche questa modifica finisce con il restringere l'ambito di applicazione del reato, escludendolo per quelle situazioni (proprio le più problematiche) in cui la vittima non è stata ancora sottoposta a un provvedimento formale di custodia, come nel caso delle violenze commesse nella scuola Diaz (nel corso del G8 di Genova del 2001), o, peggio, nei suoi confronti sia stato adottato un atto illecito. La modifica rischia, insomma, di lasciare fuori proprio le situazioni nelle quali la vittima è soggetta a un potere tanto più suscettibile di abusi quanto più informale o, peggio, esercitato solo "di fatto". La figura, ampia quanto duttile, della soggezione all'altrui autorità è infatti quella che, meglio di ogni altra, avrebbe potuto coprire ipotesi di confine quali quelle di violenze commesse nei confronti di persone illegalmente arrestate o, comunque, non ancora sottoposte a provvedimenti restrittivi ma certamente soggetti all'altrui autorità. Si capirà bene che - in presenza di simili modifiche - il testo non è più definibile "mediocre", bensì schiettamente pessimo perché di applicazione, più che difficile, impossibile. Lo stesso giudizio sembrano orientati a formulare Amnesty International e Antigone, che pure avevano mostrato in precedenza un atteggiamento estremamente pragmatico. Quindi, piuttosto che illuderci di aver ottemperato, con una norma meramente simbolica, all'unico obbligo di tutela penale imposto dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, sarà meglio impegnarci per approvare una legge - quando possibile - che possa realmente prevenire e condannare la forma più grave di degenerazione dell'autorità in violenza, del potere in arbitrio, del diritto in forza. Giustizia: strage di Brescia, la sentenza chiude il cerchio e aiuta la ricostruzione storica di Federico Sinicato* Il Manifesto, 24 luglio 2015 Il 30 giugno 2001, in un'assolata giornata estiva Carlo Maria Maggi, medico veneziano e importante esponente di Ordine Nuovo, veniva condannato all'ergastolo (insieme a Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni) per la strage di Piazza Fontana. Sappiamo che la Corte di Assise d'Appello prima e la Cassazione poi annulleranno quella condanna attraverso la sistematica svalutazione delle dichiarazioni di Carlo Digilio, esperto di armi ed esplosivi del gruppo, rintracciato dal giudice Salvini a Santo Domingo, estradato e progressivamente convinto a raccontare "dal di dentro" il ribollire della compagnia superomistica delle frange oltranziste del nazi-fascismo veneto degli anni 70. Perfino la definitiva sentenza su Piazza Fontana portava con sé, peraltro, la ribadita certezza della responsabilità nella strage di Franco Freda, Giovanni Ventura e delle cellule ordinoviste venete. Anche il processo per la strage di Via Fatebenefratelli dell'aprile del 1973, quando il falso anarchico Bertoli uccise cinque persone sul portone della Questura di Milano nel dichiarato tentativo di attentare a Rumor (reo di non aver proclamato lo stato d'emergenza dopo Piazza Fontana), indicò proprio il gruppo ordinovista di Maggi come mandante della strage ma non ritenne di avere sufficienti prove certe e specifiche nei confronti di quest'ultimo. Erano i tempi delle eterne "trame golpiste", pericolosamente in bilico tra le marionette del doppio petto e degli alamari e il relativismo morale degli idealisti armati: delle vittime straziate dalle bombe non si occupava nessuno. Sembrava che il "santuario veneto" del terrorismo nero fosse inviolabile e che i giudici soffrissero di "miopia" giudiziaria, incapaci di cogliere nel loro insieme le centinaia di prove ed indizi accumulati nei processi, che impediva di mettere insieme tutti i tasselli di quelle storie che portavano immancabilmente dalle parti dell'isola della Giudecca, dove abitava il Dott. Maggi. Ebbene, dopo due gradi di giudizio, duecento testimoni e più di un milione di documenti e verbali, proprio gli ermellini della Suprema Corte, il 21 febbraio dello scorso anno, annullando le tanto contestate assoluzioni di Maggi e Maurizio Tramonte per la strage di Piazza della Loggia, dettero per la prima volta un fondamentale scossone all'incerto e timoroso atteggiamento giudiziario nei confronti dello stragismo fascista. Quella sentenza bacchettò i giudici "affetti da iper-garantismo distorsivo della logica e del senso comune" e li invitò a non seguire "semplici congetture alternative insufficienti a scalfire un complesso di prove di rilevante gravità". Da queste premesse nasceva il nuovo processo davanti alla Corte milanese designata dalla Cassazione. Gli imputati: Carlo Maria Maggi, nel suo ruolo di capo indiscusso del gruppo terroristico e depositario dell'esplosivo utilizzato in Piazza della Loggia il 28 maggio del 1978 e Maurizio Tramonte, infido e reticente informatore stipendiato del Sid, doppiogiochista e opportunista. Astuto tanto da inventarsi la figura di inesistenti funzionari di polizia per coprire la sua reticenza ed evitare di autoaccusarsi di aver partecipato alle riunioni preparatorie della strage e cinico al punto da recarsi in piazza per controllare quanto sarebbe successo (come qualche testimonianza lascerebbe intendere). Quando martedì sera, dopo un'altra giornata estiva afosissima, la Presidente della Corte di Assise d'Appello ha pronunciato la condanna all'ergastolo per entrambi gli imputati la commozione è salita silenziosa e fortissima nel cuore e nella testa dei familiari delle vittime presenti in aula: ferme, come ha detto Manlio Milani, a quella indimenticabile mattina del 28 maggio di 41 anni fa. Questa sentenza, se la Cassazione la confermerà, chiude il cerchio aperto 14 anni fa proprio a Milano ritrovando finalmente il filo delle responsabilità che si era andato perdendo nei meandri degli archivi giudiziari. Manlio Milani che, come Presidente della Casa della Memoria di Brescia, ha sempre svolto una straordinaria opera di serena ricerca del senso profondo di quei dannati anni di stragi chiede a tutti di ripartire da qui, da questa certificata colpevolezza processuale, per iniziare un percorso di più chiara consapevolezza che consenta un giorno di chiudere quelle ferite. Ho già avuto occasione di scrivere che l'accertamento giudiziario delle responsabilità per le stragi fasciste degli anni 70 avrebbe, probabilmente, una decisiva influenza sulla necessaria condivisione della recente storia nazionale. La generazione dei ragazzi che dal ‘69 si schierò pro o contro Valpreda, scelse la ribellione democratica alla cappa dei governi democristiani o, al contrario, si rintanò a meditare vendette nel mito delle armi e della purezza della razza, è oggi la generazione del potere nei media, in politica e all'università. Il mancato riconoscimento di quelle colpe pesa ancora oggi, legittimamente, su tutti coloro che a vario titolo hanno scelto di stare dalla parte sbagliata, impedendo sia una ricostruzione condivisa della storia italiana che un confronto politico sereno scevro da sovrastrutture pregiudiziali. Non escludo che tra le pieghe di questa sentenza si possa trovare anche qualche ulteriore stimolo per riaccendere un faro anche sul 12 dicembre del 1969 strage per la quale la Procura di Milano ha smesso ormai da anni di indagare. Eppure, proprio la pazienza e la pervicacia dei magistrati bresciani ha consentito di riannodare le tante tracce che hanno portato alla verità: è scandaloso accettare che Piazza Fontana rimanga un buco nero come nella fotografia del salone della Banca che tutti gli anni i giornali ripropongono a commemorazione. Auguriamoci, dunque, che questa sentenza avvii un percorso virtuoso liberando tutti dai sempre oscuri riferimenti ad un passato innominabile o misconosciuto e ridando alle vittime di quelle inutili trame il diritto di sentirsi cittadini a tutti gli effetti. * avvocato dei familiari delle vittime delle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia Giustizia: Manlio Milani "una sentenza giusta, ci rende la verità su quegli anni terribili" di Raphael Zanotti La Stampa, 24 luglio 2015 Quarantuno anni distante dalla verità. E ancora c'è molto da trovare. "Sa cosa vuol dire? Ti cambia il calendario, la geografia. I miei mesi non hanno i giorni dal 22 al 30, c'è solo il 28. Piazza della Loggia non è l'incontro, il mercato, il concerto: è sempre e solo la bomba". Manlio Milani è il presidente dei familiari dei caduti di piazza della Loggia. "Caduti, non erano vittime casuali, c'era una manifestazione antifascista. Sono caduti consapevoli. Erano avversari da uccidere". Presidente, ora una sentenza è arrivata, dopo tre filoni di indagine e molte assoluzioni. Cosa ci dice? "Tre cose. Primo: che dietro quella strage c'era Ordine Nuovo e la destra. Secondo: che ci sono state coperture. Terzo: che Carlo Digilio (condannato, defunto, ndr) controllò l'esplosivo sia di piazza Fontana che di piazza della Loggia. Significa che c'è un'unica strategia che va dal 69 al 74, quel periodo va letto nel suo insieme". Una verità però già stata tratteggiata in alcuni libri… "Con una differenza. L'avvocato Mauro Ronco che difendeva Carlo Maria Maggi a un certo punto della sua arringa ha detto: "I familiari delle vittime si devono accontentare della verità storica emersa anche in questo processo, ma quella giuridica non è provata". Non mi sarei accontentato. La verità storica è importante, ma è quella giuridica che restituisce il senso della comunità". Lei quella mattina di 41 anni fa perse sua moglie Livia Bottardi. Chi erano Manlio e Livia? "Avevo 36 anni, ero iscritto al Pci, ero dipendente della municipalizzata di Brescia e attivo nel sindacato. Livia aveva 32 anni, era insegnante di lettere, si occupava dell'Aied. Eravamo sposati da 9 anni. Ci impegnavamo. La sera prima eravamo a cena da amici, i Trebeschi, anche loro uccisi dalla bomba". Poi un secondo ha cambiato la sua vita. Ce lo racconta? Siamo in piazza. Vediamo i Trebeschi vicino al palo con il cestino. Piove a dirotto. Ci dirigiamo verso di loro. Un amico mi ferma, resto indietro cinque o sei metri. Mi giro e vedo in diretta la bomba scoppiare. Si crea il vuoto. Mi c'infilo dentro. C'è Livia a terra". Quarantuno anni dopo siamo ancora a quel secondo. "No, l'ho capito quel pomeriggio. Dopo aver lasciato l'obitorio, sono tornato in piazza. Appena mi hanno riconosciuto, la piazza si è aperta e mi hanno accolto. Tutti eravamo stati colpiti. Sono diventato testimone di un momento pubblico". E il momento privato? "Io e Livia avevamo deciso che il 10° anno di matrimonio l'avremmo trascorso a Cuba. Ci sono andato da solo. È stato importante. È lì che ho elaborato la perdita". Maurizio Tramonte, abita a Brescia. L'ha mai incontrato? "Sì, ci incrociamo ma non ci siamo mai parlati". Si può vivere nella stessa città con l'uomo condannato per aver messo una bomba che ha ucciso tua moglie? "L'ultima sentenza mi ha restituito un volto. Un volto da leggere. Io conosco tutto quello che è venuto dopo quel secondo, lui sa tutto quello che è venuto prima. Vorrei me lo raccontasse". Ergastolo per Tramonte e per Carlo Maria Maggi. Bastano? "La pena non è una cosa che mi riguarda. Le dirò di più: Maggi è un uomo malato. Sarò il primo a battermi perché non vada in carcere, perché la pena non deve mai ledere la dignità dell'uomo". Quarantuno anni, mai pensato: "Se non fossimo andati in piazza"? "La mia vita è stata stravolta, ma in quei termini sarei rimasto in un mondo di sogni. Un mondo immaginario è fatto di solitudine, la vita va vissuta". Giustizia: Piazza della Loggia, dopo 41 anni non si può parlare di "giusto processo" di Vincenzo Vitale Il Garantista, 24 luglio 2015 E così, dopo appena 41 anni, la Corte d'Assise d'Appello di Milano sembra aver trovato i responsabili della strage di Piazza della Loggia di Brescia, condannando Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte all'ergastolo. Occorre limitarsi a dire "sembra" perché ancora ovviamente il giudizio è lungi dall'essere concluso, potendosi ipotizzare come certissimo il ricorso per cassazione dei due imputati ritenuti colpevoli e poi eventuali altri gradi di possibili rinvii: insomma forse ancora diversi anni di attesa per dire la parola fine. Tuttavia, in questo caso, ciò che suscita molto disappunto non è certo la condanna di questi due imputati che potranno far valere le loro ragioni in Cassazione, ma il fatto che per quattro decenni si sia andati a caccia del nulla, rincorrendo fantasmi e nuvole. Insomma, non mi stancherò mai di ripetere che occorre prima di tutto fare bene le indagini, cercare con le necessarie sagacia e capacità investigativa le tracce oggettive del colpevole, senza cedere alle lusinghe dell'opinione pubblica che esige la testa del mostro sulla pubblica piazza in tempi brevissimi. Non solo. Bisogna anche interrogarsi seriamente su che senso abbia mai emettere sentenze di questo genere - che irrogano cioè la pena massima prevista dal nostro ordinamento - a distanza di oltre quattro decenni dai tragici fatti, ma sempre sapendo bene che ancora sarà necessario attendere ancora. Il problema si pone sia dal punto di vista degli imputati, sia da quello dell'amministrazione della giustizia in se. Dal primo punto di vista, è assurdo che un essere umano sia chiamato in causa per difendersi da delitti di simile gravità dopo un lasso di tempo così lungo. Ad essere qui avvilita e resa quasi impossibile è infatti la difesa: come difendersi dopo decenni dai fatti? Dove trovare le prove necessarie a discolpa? E i testimoni, probabilmente morti o irreperibili? E la memoria degli imputati, i loro ricordi? Personalmente, resterei senza parole se mi chiedessero cosa ho fatto la sera di giovedì scorso: figurarsi se dovessi cercare di rammentare cose accadute trenta o trentacinque anni or sono, circostanze evaporate col tempo, volti confusi nella nebbia dell'oblio. Insomma, una autentica impossibilità di difendersi, per il semplice motivo che colui che non è in grado di ricordare con sufficiente chiarezza fatti e circostanze necessarie non potrà mai difendere la propria innocenza con la dovuta attenzione. Dal secondo punto di vista, le cose stanno, se possibile, ancora peggio. Infatti, cosa pensare di un'amministrazione della giustizia, cioè della possibilità di dire il diritto, di ripartire le ragioni dai torti, esercitata in queste condizioni? Anche da questo versante nascono gravi perplessità, per il semplice motivo che nessuno, neppure Salomone - il più giusto dei giudici - sarebbe in grado a distanza di tanto tempo di comprendere fino in fondo la situazione da giudicare, emettendo un verdetto giuridicamente fondato. La cosa è impossibile perché le prove sulle quali una simile sentenza dovrebbe fondarsi sono o costituite - cioè processualmente acquisite - decenni or sono: ed allora, hanno perduto, in forza della ineliminabile patina del tempo, la loro valenza strettamente processuale, legata alla immediatezza del riscontro, non potendo più essere sottoposte a verifica; oppure, sono state acquisite da poco tempo, nel corso dell'ultima fase di giudizio, e allora pagheranno inevitabilmente l'abisso temporale quale pena della loro scarsa attendibilità. Per capirci: se un testimone è stato sentito quaranta anni or sono, il verbale che consacra le sue dichiarazioni rimane agli atti, ma nessuno potrà più verificarne la fondatezza contestandogli circostanze diverse e con esse incompatibili; se invece è stato sentito due anni fa, è ovvio che ipotizzare che egli possa ricordare con sufficiente nettezza fatti e circostanze di quattro decenni or sono è null'altro che un'illusione. Ma due ergastoli non possono irrogarsi sulla base di un'illusione: ci vuole altro. Ma questo altro che ci vuole, forse non c'è, perché Cronos, dopo averli generati, divora i suoi figli: e ciò vale anche per Tribunali e Corti d'Assise. Giustizia: disastro Ilva, 47 rinviati a giudizio di Gianmario Leone Il Manifesto, 24 luglio 2015 Per la Procura, un'associazione a delinquere: la famiglia Riva, i dirigenti dell'impianto, l'ex prefetto Ferrante. Ma in aula ad ottobre imputati anche politici e amministratori. È giunta ad un punto di svolta l'inchiesta "Ambiente Svenduto" sull'Ilva di Taranto: ieri il giudice per le udienze preliminari, Vilma Gilli, ha accolto tutte le 47 richieste di rinvio a giudizio presentate dalla Procura sul presunto disastro ambientale provocato dallo stabilimento siderurgico, con annessa omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e avvelenamento delle acque e di sostanze alimentari. Questi i reati più gravi che sono contestati a Nicola e Fabio Riva, figli dell'ex patron Emilio Riva (deceduto lo scorso aprile), all'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, all'ex responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, all'avvocato del Gruppo Riva Franco Perli, all'ex presidente del cda dell'Ilva ed ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, e ai cinque fiduciari che per la Procura costituivano il "governo ombra" del siderurgico: Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino ed Enrico Bessone. Per tutti l'accusa, gravissima, è di associazione a delinquere: per la Procura avrebbero agito per controllare "l'emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti dello stabilimento Ilva" e "consentire al predetto stabilimento la prosecuzione dell'attività produttiva". Secondo le perizie redatte dagli esperti chimici (che quantificarono in 688 tonnellate l'anno di polveri immesse in atmosfera senza il rispetto di alcun limite di legge) ed epidemiologi nominati dal tribunale di Taranto, hanno causato dal 1998 al 2010 ben 368 decessi. La continua emissione di sostanze nocive per la Procura è avvenuta con "piena consapevolezza", determinando un "gravissimo pericolo per la salute pubblica" causando "eventi di malattia e morte nella popolazione", mettendo a rischio la salute di lavoratori e cittadini, ed avvelenando i terreni su cui pascolavano greggi di pecore e le acque in cui si allevavano le cozze di Taranto. Nelle fascicolo dell'inchiesta figurano anche le riprese video effettuate dai carabinieri del Noe di Lecce nel periodo maggio-giugno 2011 che consigliarono alla Procura di arrestare la marcia degli impianti già all'epoca. Dei 47 rinvii a giudizio, tre riguardano le società Ilva Spa (in amministrazione straordinaria dopo due anni di commissariamento), la Riva Fire (l'ex holding di famiglia mandata in liquidazione a febbraio) e la Riva Forni Elettrici (società nata nel gennaio 2013). Gli altri sono tutti esponenti istituzionali: secondo la Procura avrebbero consentito all'Ilva di causare il disastro ambientale, non intervenendo a dovere e per tempo, ed addirittura risultando complici del sistema clientelare e di potere messo in piedi dall'azienda. A cominciare dall'ex governatore Nichi Vendola: secondo l'accusa, avrebbe esercitato pressioni sul direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato (a sua volta rinviato a giudizio per favoreggiamento personale), per "ammorbidire" la posizione dell'Agenzia regionale nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. In questo modo, sostiene la Procura, Vendola avrebbe consentito all'azienda di continuare a produrre senza ridurre le emissioni inquinanti, come invece suggerito dall'Arpa nella nota del 21 giugno 2010 stilata dopo la campionatura che aveva rilevato i picchi di inquinamento prodotti dalle cokeria Ilva. Sempre secondo l'accusa, Vendola avrebbe "minacciato" la non riconferma di Assennato, il cui mandato scadeva nel febbraio 2011. I fatti contestati sono risalgono al periodo dal 22 giugno 2010 al 28 marzo 2011. Rinviato a giudizio anche l'attuale sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, accusato di abuso d'ufficio: i pm contestano al sindaco "di aver omesso di fare delle ordinanze contingibili ed urgenti" a tutela dell'ambiente e della salute pubblica. È invece accusato di concussione l'ex presidente della Provincia, Gianni Florido, anch'egli rinviato a giudizio: secondo l'accusa avrebbe fatto pressioni sui dirigenti del settore Ambiente dell'ente per concedere l'autorizzazione alla costruzione e all'utilizzo di discariche all'interno dell'Ilva (stesso reato contestato all'ex assessore Michele Conserva). Rinviati a giudizio, tra gli altri, anche il parlamentare di Sel Nicola Fratoianni (all'epoca assessore regionale) e il consigliere regionale del Pd Donato Pontassuglia. Tre gli assolti: l'ex assessore regionale all'Ambiente Lorenzo Nicastro, il carabiniere in servizio alla sezione di polizia giudiziaria della Procura Giovanni Bardaro e l'avvocato Donato Perrini. Condannati il sacerdote don Marco Gerardo e Roberto Primerano, già consulente della procura. Al sacerdote, accusato di favoreggiamento personale, inflitti 10 mesi di reclusione (stessa richiesta della Procura); Primerano, invece, è stato condannato a 3 anni e 4 mesi per falso ideologico. Ad ottobre partirà il processo vero e proprio. E in sede di dibattimento ci sarà una battaglia ancora più dura tra le parti. La giustizia - prima o poi - si spera arriverà. Giustizia: Ilva; hanno colpito Vendola per colpire chi non è allineato di Astolfo Di Amato Il Garantista, 24 luglio 2015 I rinvii a giudizio sono 47. Ma quello più pesante ha come destinatario l'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Anche lui comparirà come imputato al processo per il presunto disastro ambientale provocato dall'Ilva di Taranto. E nel caso del leader di Sel l'accusa è di concussione aggravata in concorso: secondo la tesi della Procura, che ieri il Gup del Tribunale di Taranto Vilma Gilli ha accolto quasi integralmente. Vendola avrebbe esercitato pressioni sul direttore generale di Arpa Puglia affinché ammorbidisse le sue posizioni sulle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Il Gup di Taranto ha rinviato a giudizio 47 persone. Tra queste anche Vendola, ex governatore della Regione Puglia. L'accusa nei suoi confronti è tra le più pesanti: concussione aggravata per aver fatto pressioni sul direttore generale di Arpa Puglia, affinché assumesse un atteggiamento meno severo nei confronti dello stabilimento dell'Ilva. Il cuore dell'accusa riguarda, perciò, l'uso fatto da Vendola dei suoi poteri di Governatore e, in questo senso, il tipo di bilanciamento che ha ritenuto di dover scegliere tra i vari interessi coinvolti. In questo senso, l'accusa appare della stessa natura di quella rivolta a De Luca. In discussione è l'esercizio della loro azione amministrativa, pur essendo pacifico che sia l'uno che l'altro non hanno perseguito né interessi personali, né tantomeno arricchimenti personali. Si sono mossi, tutti e due, secondo una visione dell'interesse pubblico. Nel caso di Vendola quello di salvaguardare l'occupazione e di evitare che una applicazione talebana e burocratica di alcune norme potesse gettare sul lastrico migliaia di lavoratori con le loro famiglie. Non è un mistero, del resto, che lo stesso legislatore nazionale ha ritenuto, più volte, di dover intervenire, in materia, con delle leggi apposite. L'ex governatore è stato colpito con il rinvio a giudizio. Nei confronti del Governo è in corso un braccio di ferro, segnato dal rinvio dei decreti alla Corte Costituzionale e dalla sospensione della loro applicazione nell'attesa. Il dato di fondo, dunque, è che, quando vi è la necessità di individuare dei punti di equilibrio tra una pluralità di interessi pubblici coinvolti, la magistratura penale rivendica a sé il ruolo di unico decisore. Qualsiasi diversa condotta è suscettibile di incriminazione. Le sedi amministrative e politiche sono svuotate di reale potere decisorio, spettando alla istanza giudiziaria il potere di stabilire cosa fare. Per chi non si allinea vi sono le incriminazioni. Si è parlato, al riguardo, di repubblica giudiziaria. Non è così. In questi termini è una vera e propria dittatura giudiziaria, nel cui ambito si spiega la vigliaccheria che è all'origine della cd. Legge Severino, e che spinge molti a chiamare nelle loro amministrazioni, con ruoli di rilievo, i magistrati per coprirsi le spalle. Nel caso di Vendola, tuttavia, c'è qualcosa di più. Non solo è pacifico che l'ex Governatore non è un corrotto, sotto nessun aspetto, ma va anche registrato che è uno di quei leader della sinistra che non si è distinto nel cavalcare l'onda giustizialista. Il suo rinvio a giudizio, perciò, al di là delle tecnicalità che possono contraddistinguerlo, significa che l'azzoppamento di chi non si allinea può colpire tutti. È ovvio che tutto questo altera profondamente le regole della democrazia. Anzi, le calpesta. Il tema, perciò, non è affatto meramente giudiziario. Chiama ancora una volta in ballo la responsabilità della politica. Che, da un lato, spesso fa di tutto per perdere credibilità e, dall'altro, cerca di recuperarla e di proteggersi accettando di mettersi al traino della giustizia. È una situazione evidentemente malata e che non può proseguire a lungo. Le forze autenticamente democratiche di questo paese devono darsene carico. A cominciare dalla stampa. Il rischio è che il malessere, molto più diffuso di quanto il vociare giustizialista può far immaginare, degeneri. Giustizia: Mirabelli "tra governo e magistrati scontro di potere che non fa bene a nessuno" di Antonio Galdo Il Messaggero, 24 luglio 2015 "La prima parola che mi viene in mente è questa: equilibrio. Ovvero una dote fondamentale nell'attività di un magistrato anche quando il suo lavoro ha un impatto molto forte sull'opinione pubblica". Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, parte da qui per commentare, nel suo complesso, il caso Ilva nel giorno dei 47 rinvii a giudizio per disastro ambientale. L'impressione è che il futuro dell'Ilva sia sempre più nelle mani della magistratura. "Dobbiamo distinguere. La decisione del rinvio a giudizio mi sembra inevitabile rispetto a vecchi episodi e responsabilità che sono state individuate. Il punto è come assicurare la continuità della produzione di un'industria essenziale per il Paese nel rispetto della tutela primaria della salute e dell'ambiente". Per questo il governo ha dovuto fare finora sette decreti, dei quali l'ultimo è finito davanti alla Corte Costituzionale. "Uno scontro di potere che non fa bene a nessuno. Domandiamoci, innanzitutto, come siamo arrivati a questo punto: sicuramente si parte dalle colpe di imprenditori che non hanno osservato alcune norme e dunque hanno commesso dei reati". Ma i sequestri degli impianti, che mettono a rischio migliaia di posti di lavoro, erano sempre indispensabili? "La Corte Costituzionale ha già dato un parere che mi sento di condividere in pieno. Ci vuole un ragionevole bilanciamento degli interessi, cioè da una parte il diritto al lavoro e dall'altra le condizioni di sicurezza per la salute e per l'ambiente. Ciò significa, per esempio, non eccedere nell'uso dello strumento del sequestro preventivo degli impianti". Il contrario, però, di quello che siamo vedendo a Taranto. "Vede, è lo stesso discorso che si può applicare rispetto alla custodia cautelare. Bisogna farne un uso sobrio. E la Corte Costituzionale con la sua sentenza non tira la palla in corner, non si chiama fuori, ma scandisce bene il metodo per arrivare a una soluzione nell'interesse di tutti e per evitare un conflitto istituzionale, un vero braccio di ferro, tra potere politico e giudiziario". Per lei il Csm condivide questa impostazione visto che non interviene quasi mai nei confronti di magistrati che eccedono? "Il Csm non ha alcuna possibilità di intervenire nel merito di una singola decisione, se lo facesse metterebbe in discussione l'indipendenza del magistrato. Però ne può valutare la professionalità, a partire dall'equilibrio, e in base a questa fare le necessarie verifiche e decidere avanzamenti di carriera. E può lavorare su un punto che è stato piuttosto trascurato negli ultimi anni: la formazione dei magistrati". A questo proposito lei ha detto che la professionalità delle toghe è messa a rischio dall'attrazione delle sirene della notorietà. In Puglia stiamo vedendo qualcosa del genere? "Non posso dirlo con certezza. Però confermo le mie parole, e purtroppo una certa pressione dell'opinione pubblica, anche attraverso gli organi di informazione, e una certa politica che ha arruolato con disinvoltura titolari di inchieste poi finite nel nulla, inducono alcuni magistrati a prendere posizioni eclatanti. A sentirsi i campioni di un caso giudiziario. E questo di fatto è il contrario dell'equilibrio e della proporzionalità delle misure adottate". Tornando a Taranto, intanto ci sono tre commissari che la bonifica la stanno facendo. "Già, è vero. Un motivo in più perché la magistratura agisca con il necessario equilibrio. Lo dico con una battuta: i magistrati non devono mai chiudere gli occhi, ma neanche guardare sempre i fatti con il microscopio". Complessivamente il risanamento di Taranto costerà non meno di 1 miliardo e mezzo di euro. Quale imprenditore metterà mai questi soldi sul tavolo in un clima di tale incertezza e di perenne scontro tra il governo e la magistratura? "Lei ha ragione, però potrei ribaltare la domanda. Quale profitto è stato realizzato in questi anni a Taranto, da imprenditori privati, scaricando i costi di mancate bonifiche sulla collettività?". I Riva sostengono di avere investito 4 miliardi per la sicurezza. "Ammesso che sia vero, però è legittimo domandarsi: bastavano questi soldi? La sicurezza e la bonifica, mi rendo conto, rappresentano un costo che incide sul conto economico. Ma non pagarlo in modo equo, significa fare un danno alla collettività e concorrenza sleale con le altre imprese che invece questi soldi li tirano fuori". Giustizia: giudici e imprese, un conflitto che è durato troppo di Dario Di Vico Corriere della Sera, 24 luglio 2015 Quello che partirà in ottobre a Taranto sarà di fatto un maxiprocesso allo stabilimento siderurgico più grande d'Europa e che in passato è stato il vanto della città e dell'intero Sud. Accettando nella sostanza l'impianto accusatorio del procuratore Franco Sebastio il giudice dell'udienza preliminare Vilma Gilli ha ieri deciso il rinvio a giudizio di 44 persone e 3 società con l'accusa di disastro ambientale. Nel mazzo c'è di tutto: proprietari, dirigenti, amministratori pubblici, politici, funzionari e persino un sacerdote. Non è stata risparmiata nemmeno una figura come Nichi Vendola, segretario di un partito, Sel, che ha la parola ecologia nella ragione sociale. È giusto che i fatti vengano dibattuti in piena libertà e del resto lo stesso Sebastio ha dichiarato che non essendoci precedenti a cui far riferimento il processo servirà a "interpretare il diritto in itinere". È però evidente che in questo modo Taranto diventa il laboratorio dei rapporti futuri tra magistratura e imprese, almeno per ciò che concerne i reati ambientali. Si capisce così lo sconcerto della Confindustria che poche ore dopo il pronunciamento del Gup Gilli ha fatto sapere che terrà il suo prossimo consiglio generale di settembre a Taranto, proprio per sottolineare come il caso Ilva contenga in sé un paradigma. Gli industriali hanno sostenuto nei giorni scorsi che nel riposizionamento qualitativo post-Crisi delle nostre imprese è intrinseca una maggiore attenzione all'ambiente e al capitale umano. Per usare un termine che pure non amo, il sistema delle imprese italiane non intende "cinesizzarsi", anzi progetta fabbriche intelligenti, sistemi avanzati di logistica e maggior attenzione alla formazione del personale. C'è da crederci, caso mai l'unico dubbio è sul versante occupazionale: come faremo a conciliare un movimento verso una maggiore specializzazione con il mantenimento di robusti livelli di occupazione in settori come l'auto, gli elettrodomestici e la siderurgia? Non possiamo pensare che le uniche attività labour intensive siano i supermercati, il facchinaggio e la ristorazione. Quello che a questo punto si chiede alla magistratura non è certo il venir meno ai propri doveri e alle proprie prerogative, bensì di farsi raccontare le cose che stanno avvenendo nel sistema delle imprese dalle voci più autorevoli dell'accademia e della ricerca e non, come pure accade, da formazioni sindacali estremiste o da qualche consulente inacidito. E se vogliamo proprio dalle convulse vicende di Taranto di questi giorni un piccolo segna comunque registrato. Il confronto tra magistratura e Ilva che si è messo in moto dopo la tragica morte di un operaio, l'ordinanza di sequestro, il decreto governativo e la critica di incostituzionalità dei giudici, qualche spiraglio lo ha aperto e sta comunque consentendo in queste ore la continuità produttiva dello stabilimento. Uscendo però dalla cronaca più immediata e sperando fortemente che si riesca ad evitare di spegnere il terzo altoforno, la discussione che va istruita, magari in parallelo al maxi-processo, è squisitamente di politica industriale. Un'Ilva progressivamente risanata e capace di confermarsi eccellenza in Europa va preservata o sacrificata per i peccati commessi in passato? Tutti coloro che giustamente lamentano come il Sud sia stato sostanzialmente lasciato a se stesso, e osservano che i migliori talenti se ne stiano andando dalle regioni meridionali, dovrebbero impegnarsi a rispondere a un quesito: come è potuto succedere che difendere i presidi industriali del Mezzogiorno sia diventato politicamente scorretto? Illegittima la recidiva obbligatoria per i reati gravi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2015 Corte costituzionale - Sentenza 23 luglio 2015 n. 185. La Consulta boccia la recidiva obbligatoria introdotta nel 2005 per una serie di reati di particolare "allarme sociale" come per esempio: strage, terrorismo, associazione mafiosa, riduzione in schiavitù ecc. Con la sentenza 185/2015, infatti il giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 99, quinto comma, del codice penale limitatamente alle parole "è obbligatorio e". L'articolo 4 della legge n. 251 del 2005 aveva sostituito l'articolo 99 introducendo nel quinto comma un'ipotesi di recidiva obbligatoria, che ricorre "Se si tratta di uno dei delitti indicati all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale". Delitti, fra l'altro, del tutto eterogenei tra loro, tenuti insieme soltanto perché ricompresi nello stesso articolo che regolamenta la durata massima delle indagini preliminari. Nel ricostruire i lineamenti della ‘nuovà recidiva, la giurisprudenza costituzionale in questi anni ha messo a fuoco l'istituto, individuando il suo fondamento "nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo". Orientamento recepito anche dalla Cassazione secondo cui quando la contestazione concerne i primi quattro commi dell'art. 99 "è compito del giudice verificare se la reiterazione è effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistenti fra loro". All'esito di tale verifica, poi, il giudice "può anche negare la rilevanza aggravatrice della recidiva". Nel caso del quinto comma, invece, questa verifica è preclusa. "L'aumento della pena consegue automaticamente" senza che il giudice sia tenuto ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, "il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo". Così, per i giudici costituzionali, tale rigido automatismo sanzionatorio "è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice". Imponendo l'aumento della pena "anche nell'ipotesi in cui esiste un solo precedente, lontano nel tempo, di poca gravità e assolutamente privo di significato ai fini della recidiva". In conclusione, la previsione della recidiva obbligatoria contrasta con il principio di ragionevolezza e "parifica nel trattamento obbligatorio situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell'articolo 3 Costituzione". Mentre l'assenza di alcun "accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso" viola anche l'art. 27, terzo comma, Costituzione, che implica un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra, "rendendo la pena palesemente sproporzionata". Eccessiva durata del processo retrodatata alla conoscenza formale del procedimento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2015 Corte costituzionale - Sentenza 23 luglio 2015 n. 184. Il computo per determinare l'eccessiva durata del processo va retrodatato al momento in cui la parte ha avuto formale conoscenza del procedimento a suo carico. Lo ha stabilito la Consulta, sentenza 184/2015, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), "nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l'assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l'indagato, in seguito a un atto dell'autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico". Il quesito di Firenze - In particolare, la Corte di appello di Firenze nel proporre la questione aveva sottolineato come la domanda di equa riparazione era stata rigettata in quanto la durata complessiva era stata determinata in otto anni e sei mesi escludendo dal calcolo le indagini preliminari durate oltre sei anni e mezzo. Le motivazione della Consulta - Una pronuncia obbligata, spiega la Consulta, in quanto "non vi è dubbio che la Corte europea dei diritti dell'uomo, attraverso reiterate pronunce, abbia dedotto dall'articolo 6 della Cedu la regola che impone, ai fini dell'indennizzo conseguente all'inosservanza del termine di ragionevole durata del processo penale, di tenere conto del periodo che segue la comunicazione ufficiale, proveniente dall'autorità competente, dell'accusa di avere commesso un reato". Per cui, una volta penetrato nel nostro ordinamento, per effetto della giurisprudenza europea e con valore di fonte sovra-legislativa, tale principio "viene da sé che l'equa riparazione avrà ad oggetto non soltanto la fase che la normativa nazionale qualifica "processo", ma anche le attività procedimentali che la precedono, ove idonee a determinare il danno al cui ristoro è preposta l'azione". A questo proposito, però, la Corte ricorda che Strasburgo ha specificamente affermato che l'articolo 6 della Cedu non impone di assumere in considerazione l'intera fase delle indagini, "se esse non hanno comportato la comunicazione formale dell'accusa penale, o comunque il compimento di atti, da parte dell'autorità a ciò competente, che si siano ripercossi sulla sfera giuridica della persona". Così stando le cose, prosegue la sentenza, "una pronuncia che prescrivesse l'obbligo di computare l'intera durata delle indagini preliminari finirebbe perciò per eccedere quanto necessario sul piano della legittimità costituzionale, includendo arbitrariamente fasi durante le quali l'indagato, ignaro dell'iniziativa dell'autorità giudiziaria, non ha subito alcun patimento, e che quindi il legislatore ben può escludere dal periodo rilevante ai fini della riparazione". Va da sé, aggiunge la Consulta, che comunque "persiste la discrezionalità giudiziaria nel verificare, alla luce dei fattori indicati dalla Corte Edu e dal legislatore, se l'eventuale inosservanza dei termini di legge comporti o meno violazione del diritto alla ragionevole durata del processo". Mentre i giudici hanno dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2-quater, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui sottrae al computo della durata del processo i periodi di sospensione che non siano riconducibili alle parti, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, Costituzione. Legge Pinto a maglie troppo strette, di Alessandro Galimberti La Corte costituzionale (184/15, depositata ieri) boccia le legge Pinto sull'equa riparazione per l'eccessiva durata del procedimento. Sotto la lente del giudice costituzionale è finito il principio con cui la legge 89 del 2001 fissa il decorso del termine d'inizio nel processo penale, individuato nell'assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l'indagato "ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari". Questo modo di declinare nella procedura nazionale il principio fissato dall'articolo 6 della Cedu, oltre a essere eccessivamente formale - scrive la Corte - pecca in realtà di coerenza, soprassedendo sugli effetti negativi che possono investire l'indagato (soggetto della tutela della Convenzione) ben prima dei due step indicati dalla legge italiana. In particolare la sentenza pone l'accento sui provvedimenti invasivi della libertà e dei diritti personali, a cominciare dall'adozione di una misura cautelare. Questa, nonostante il carattere destabilizzante per chi la riceve - insieme alla piena consapevolezza di essere al centro di un'inchiesta penale - fino a oggi non incideva ai fini del calcolo della ragionevole durata. La Consulta, investita del quesito dalla Corte d'Appello di Firenze, amplia ulteriormente il raggio, includendo tra i momenti di inizio del decorso temporale qualsiasi atto dell'autorità giudiziaria che, in definitiva, si ripercuota significativamente sulla vita dell'indagato. Respinto invece, per inammissibilità, un secondo quesito sui periodi di interruzione del calcolo collegati alla sospensione del processo. La Corte fiorentina suggeriva una distinzione in base al cui prodest della sospensione, riconoscendone gli effetti solo se posta nell'interesse dell'indagato/imputato. Per la Consulta però la formulazione troppo ampia del quesito, con proposta di declaratoria in senso indeterminato e inadeguato, rende la domanda - che forse ha un fondamento - inammissibile. Conferma di legittimità per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Stefano Cecconi stopopg.it, 24 luglio 2015 La Corte Costituzionale ha respinto il ricorso promosso dal Tribunale di sorveglianza di Messina contro la legge 81/2014 sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, giudicando non fondata la questione di legittimità costituzionale. Il ricorso contestava la legge 81/2014 nelle parti in cui stabilisce che l'accertamento della pericolosità sociale "è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni (cosiddette ambientali) di cui all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale" e che "non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali". La Consulta conferma la piena legittimità costituzionale della legge 81, laddove in sostanza ci dice che un malato povero, emarginato, senza casa o abbandonato dai servizi non può diventare, per questa ragione, socialmente pericoloso e finire in Opg. Come troppo spesso sinora è accaduto. Si conferma e si rafforza così l'orientamento di quella che abbiamo definito una buona legge. Il tratto più interessante della nuova norma è aver spostato il baricentro dai binomi manicomiali "malattia mentale/pericolosità sociale e cura/custodia" ai progetti di cura e riabilitazione individuali e al territorio. In particolare essa stabilisce che la regola deve essere una misura di sicurezza diversa dalla detenzione in Opg e in Rems, salvo situazioni determinate che devono diventare l'eccezione. In questo senso la sentenza della Consulta è illuminante e conferma precedenti atti. La mobilitazione di Stop Opg così prosegue con più forza e la prima richiesta al Governo è il commissariamento delle regioni che non hanno ancora accolto i propri pazienti e che impediscono la chiusura degli Opg a quasi quattro mesi dalla scadenza del 31 marzo 2015. Rimessione del processo solo in presenza di eventi estremamente gravi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2015 Processo penale - Rimessione del processo - Deroga alla competenza del giudice naturale predeterminato dalla legge processuale - Istanza formulata ex art. 45 cod. proc. pen. - valutazione compiuta dalla Corte di Cassazione ai fini del riconoscimento dei presupposti legittimanti la translatio iudicii. La Corte di cassazione interviene quale giudice del fatto in materia di rimessione del processo, ai fini dell'istanza di rimessione proposta ai sensi dell'articolo 45 c.p.p., lo valuta sotto il profilo della sussistenza dei presupposti, storici e fattuali, che possono legittimare la translatio iudicii e la deroga alla competenza del giudice naturale predeterminato dalla legge processuale. In questo caso, l'area di conoscenza della Corte è ampliata attraverso l'acquisizione di dati conoscitivi ed evenienze preesistenti e concomitanti al suo giudizio, che mantengono una natura prevalentemente cartolare. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 dicembre 2014 n. 53524. Processo penale - Rimessione del processo - Presupposti - Fenomeno esterno alla dialettica processuale - Caratteristiche - Idoneità a porre in pericolo le persone che partecipano al processo - Comportamenti del giudice e provvedimenti dallo stesso adottati - Rilevanza - Limiti - Caso di specie - Presupposti per l'istanza formulata ex art. 45 c.p.p. L'istituto della rimessione, tende a evitare l'insorgenza di particolari situazioni o di altri fattori esterni, idonei a interferire nel processo penale, incidendo "sulla obiettività del giudizio e sulla retta applicazione della legge, che si ricollegano a una suprema garanzia di giustizia, donde non soltanto l'opportunità, ma la necessità che, del processo, conosca un giudice diverso da quello originariamente stabilito dalla legge. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 dicembre 2014 n. 53524. Processo penale - Rimessione del processo - Presupposti - Nozione di grave situazione locale legittimante la rimessione del processo. La grave situazione locale che caratterizza la rimessione del processo è necessariamente costituita da un fenomeno esterno alla dialettica processuale, con caratteristiche tali da porre in concreto pericolo la libertà di giudizio delle persone che partecipano al processo, mentre i comportamenti del giudice ed i provvedimenti da questo assunti rilevano solo in quanto dipendano dalla situazione esterna ed assumano valore sintomatico di una mancanza di imparzialità dell'intero ufficio giudiziario. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 dicembre 2014 n. 53524. Competenza - Rimessione del processo - Casi - Libertà di determinazione - Competenza - Rimessione del processo - Casi - Libertà di determinazione del giudice - Nozione. L'istituto della rimessione del processo, costituendo deroga alla competenza per territorio determinata dal sospetto di condizionamenti del giudice in ordine alla sua imparzialità, pregiudicata da situazioni locali gravi, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, è regolato da norme che postulano una interpretazione rigorosa e restrittiva, per i chiari riflessi di ordine costituzionale attinenti al giudice naturale precostituito per legge, per cui Il pregiudizio effettivo, che si vuole evitare, richiesto dal primo comma dell'art. 45 cod. proc. pen., esclude che la turbativa possa essere solo potenzialmente idonea a produrlo, onde si richiede, rigorosamente, un'incidenza negativa di tal concreta portata, da diventare un dato effettivamente inquinante. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 21 gennaio 2015 n. 2565. Competenza - Rimessione del processo - Presupposti - Prospettazione del rischio di turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice - Rilevanza - Esclusione. Non ricorrono gli estremi per la rimessione del processo quando l'istante si limiti a prospettare soltanto il probabile rischio di turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice, fondato su illazioni o sull'adduzione di timori o sospetti, non espressi da fatti oggettivi né muniti di intrinseca capacità dimostrativa, senza indicare alcuna situazione locale di una tale gravità e dotata di una oggettiva rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale dell'ufficio giudiziario di cui sia espressione il giudice procedente. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 23 maggio 2013 n. 22113. Competenza - Rimessione del processo - Nozione - Comportamenti del giudice - Rilevanza ai fini della rimessione - Condizioni. La grave situazione locale che può determinare la rimessione del processo è costituita da un fenomeno esterno alla dialettica processuale, e riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge, connotato da tale abnormità e consistenza da dover essere ritenuto concreto pericolo per la imparzialità del giudice e come possibile pregiudizio alla libertà delle persone che partecipano al processo: in tal senso i comportamenti del giudice ed i provvedimenti da questo assunti rilevano solo in quanto dipendano dalla situazione esterna ed assumano valore sintomatico di una mancanza di imparzialità dell'intero ufficio giudiziario. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 28 gennaio 2008 n. 4170. Furto per l'avvocato che si appropria di fascicoli condivisi con gli associati di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2015 Corte di cassazione - sezione V penale - sentenza 23 luglio 2015 n. 32383. Due sentenze della Cassazione con un unico comune denominatore: l'attività del legale. Nel primo caso (sentenza n. 32383/2015 ) con furto di documenti dall'associazione professionale di appartenenza; nel secondo con la difesa prestata in Cassazione nonostante la sospensione dall'albo professionale (sentenza n. 32534/2015 ). La prima decisione della Corte si è rilevata decisamente complessa. Questo perché la Corte di appello di Torino aveva riscontrato nell'operato del legale che apparteneva a un'associazione professionale il semplice reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (ex articolo 392 del codice penale). Contro questa sentenza ha proposto ricorso la Procura. I motivi di ricorso - Secondo quest'ultima, infatti, il comportamento del professionista e, consistito nello specifico, nell'asportazione di fascicoli nonché nell'appropriazione di files registrati sui computer integrava a tutti gli effetti il reato di furto. Il legale aveva asportato dei fascicoli che riguardavano clienti che a quella data non avevano rilasciato al professionista alcuna nomina in via esclusiva, e che avevano sottoscritto una liberatoria in tale senso solo in data successiva. Questo comportamento - si legge nella sentenza - era stato male interpretato dalla Corte torinese visto che il reato di furto, così come delineato dall'articolo 624 del codice penale, ha natura istantanea e, quindi, per la sua integrazione occorre verificare la titolarità del bene al momento della sua apprensione. Il reato di minore gravità individuato dai giudici di merito era da ricondurre ad altre ipotesi. Come ad esempio il caso in cui il legale avesse asportato i cartelli posti da altri in un'area del soggetto attivo: quest'ultimo così intendeva soltanto eliminare i cartelli che reputava essere stati abusivamente esposti, escludendosi, invece, un fine di profitto che avrebbe presupposto un proposito di utilizzo da parte dell'imputato (Cassazione, sentenza n. 4975/2006). Elemento del profitto che nella fattispecie sottoposta ai giudici sussisteva in quanto la sottrazione di interi fascicoli e la cancellazione di files dai computer faceva sì che gli altri componenti dell'associazione non ne potessero disporre come sarebbe stato nelle loro legittime facoltà. Lo studio associato - Decisamente significative peraltro le considerazione fatte dalla Cassazione sullo studio associato. Quest'ultimo - è scritto nella sentenza - si considera come unico centro di imputazione di interessi, in quanto il contratto d'opera intellettuale presenta, quali parti, da un lato il cliente e dall'altro i professionisti riuniti nell'associazione. E, quindi, sottolineano gli Ermellini non è un caso che l'unità sia da riscontrare anche da un punto di vista fiscale. L'articolo 5 del Dpr 917/1986 (Tuir) prevede espressamente l'ipotesi di redditi prodotti in forma associata considerando unitariamente l'associazione tra soggetti come soggetto passivo anche ai fini dell'accertamento del reddito. Quando la sospensione dall'albo non incide sul giudizio - Rimanendo sempre in materia di contenzioso, è significativa la sentenza n. 32534/2015 secondo cui l'imputato assistito in Cassazione da un avvocato sospeso non può invocare la mancata assistenza legale. La Cassazione spiega che tenuto conto che "nella fattispecie non era necessaria la presenza di un difensore nella fase dell'udienza e quindi di un contraddittorio orale davanti alla Cassazione, la mera affermazione della sospensione del difensore risultava al momento solo assertiva, non avendo dedotto nulla l'avvocato sulla sua sospensione dall'albo professionale anteriormente alla comunicazione dell'avviso dell'udienza e per ciò stesso sulla ipotizzata irritualità della relativa notifica e sulle determinazioni dell'avvocato da lui assistito e reso edotto dell'evento sospensivo professionale". Ancona: chiedeva di essere scarcerato per salute, muore in cella detenuto di 34 anni Stefano Pagliarini anconatoday.it, 24 luglio 2015 L'ultima volta in cui l'avvocato aveva fatto richiesta di scarcerazione per Daniele Zoppi risale a poche settimane fa, quando si fece presente come l'anconetano fosse obeso patologico e necessitasse di cure specifiche per le sue condizioni. Aveva chiesto più volte al Tribunale di Sorveglianza di poter scontare in modo alternativo la sua pena per motivi di salute, ma gli era sempre stato negato. Ieri è morto in carcere Daniele Zoppi, anconetano di 34 anni, stroncato da un malore nella sua cella della casa circondariale di Montacuto, dove stava scontando un cumulo di pene per reati che andavano dal traffico di sostanze stupefacenti alla truffa aggravata. Adesso si apre una nuova battaglia per l’avvocato Luca Bartolini che ha già annunciato di voler andare a fondo di questa storia: "Sto preparando un esposto alla Procura della Repubblica e, se ci sono, mi auguro che vengano accertate eventuali responsabilità". L’ultima volta in cui il legale anconetano aveva fatto richiesta di scarcerazione risale a poche settimane fa, facendo presente le condizioni di salute del detenuto: era obeso patologico, aveva problemi di anca per cui era anche stato costretto ad operarsi lo scorso novembre, aveva diverse ernie e avrebbe dovuto fare anche un’altra operazione allo stomaco. Insomma non si reggeva più in piedi, al punto da essere stato autorizzato ad usare un montacarichi e tenere una sedia nella cella con cui si vestiva e si faceva la doccia. Impossibile per lui usare le docce turche o arrivare fino al cortile per l'ora d'aria. Insomma una situazione di vera invalidità che il carcere non ha certo aiutato. Per questo l’anconetano ha più volte chiesto di sospendere la pena giusto il tempo delle cure, pur sapendo di dover scontare ancora diversi anni. Ma per i giudici le sue condizioni di salute erano comunque compatibili con il regime carcerario per cui è stato espresso parere negativo all’istanza del 34enne. Le motivazioni? "Secondo quanto certificato dai referti medici, le condizioni dello Zoppi non sono particolarmente gravi, tuttavia per necessitando di contatti costanti con presidi sanitari locali a causa delle condizioni di difficoltà lamentate dal soggetto". Ecco perché l’avvocato Bartolini aveva fatto richiesta di trasferimento in un centro clinico carcerario e della sospensione della pena per motivi di salute, in alternativa anche la misura dei domiciliari. Niente da fare. Alla fine ieri il tragico epilogo quando i compagni di cella lo hanno visto bianco a terra in una condizione di semi incoscienza. La Polizia Penitenziaria ha dato subito l’allarme ma ormai era troppo tardi, inutili i soccorsi degli operatori sanitari perché Daniele Zoppi era orami deceduto a causa di un arresto cardiocircolatorio provocato forse da un infarto. Aldo Di Giacomo (Spp): decessi in carcere 7 volte più di fuori (Ansa) Un detenuto del carcere di Montacuto ad Ancona è morto ieri in carcere, per cause presumibilmente naturali: si pensa ad un infarto. È stata comunque disposta l'autopsia per accertare le cause del decesso. L'uomo aveva 33 anni, era italiano. Secondo il Dap Marche non aveva avuto problemi di salute in precedenza, a parte un intervento chirurgico ortopedico tempo fa. Secondo altre fonti, negli ultimi giorni il trentatreenne avrebbe accusato invece gonfiori alle pani e ai piedi. "La situazione del carcere di Ancona - osserva Aldo Di Giacomo del Sindacato di polizia penitenziaria Spp - è stata sempre molto complessa e anche questa morte, apparentemente per cause naturali, conferma una condizione di difficoltà". Secondo Di Giacomo i decessi per cause naturali in carcere sono "sette volte superiori a quelli che avvengono fuori. Un dato che fa pensare". Milano: Fp-Cgil; 17enne tenta suicidio nel carcere minorile Beccaria, salvato in extremis milanotoday.it, 24 luglio 2015 "Nella serata di martedì 21 luglio, all'Istituto penale per minorenni Beccaria di Milano, un giovane detenuto italiano di 17 anni, con problemi di tossicodipendenza, ha tentato il suicidio, che è stato sventato dal tempestivo intervento dei lavoratori penitenziari". È quanto viene divulgato da una nota della Fp Cgil Milano e Lombardia. Il sindacato spiega che "al turno notturno sono solo tre gli agenti a disposizione, a fronte di una presenza media di circa 50 detenuti. Alcuni sono soggetti estremamente fragili, anche con problemi di natura psichiatrica". "Da tempo come Fp Cgil Lombardia stigmatizziamo le condizioni di lavoro cui i poliziotti penitenziari sono oggi costretti a operare, con una grande responsabilità anche di vite umane. Ma l'amministrazione continua a fare orecchie da mercante - dichiara il coordinatore regionale Calogero Lo Presti. C'è una cronica carenza di personale, specie del ruolo agenti-assistenti. Si lavora in condizioni precarie e con turni estremamente faticosi. Mentre si attende l'apertura di un ulteriore padiglione detentivo". "In questo difficile contesto, ripetutamente denunciato dal sindacato, gli agenti - ha detto Giuseppe Merola, Fp Cgil Polizia Penitenziaria Milano - sono riusciti ad assicurare il proprio mandato istituzionale, evitando l'ennesimo suicidio nelle carceri italiane". Sassari: Cisl; detenuto tenta suicidio, salvato da agenti, allarme su sicurezza e organici Ansa, 24 luglio 2015 Un detenuto della Casa circondariale di Massama (Oristano) ha tentato il suicidio stamattina stringendosi attorno al collo le lenzuola che aveva legato alle inferriate della finestra. Il fatto è successo alle 7.15 e solo il tempestivo intervento di alcuni agenti della Polizia penitenziaria ha permesso di salvare la vita all'uomo, subito soccorso dal medico del carcere. Lo ha reso noto il segretario regionale della Federazione nazionale sicurezza Cisl Giovanni Villa denunciando ancora una volta le difficili condizioni in cui opera il personale della Polizia penitenziaria in Sardegna. Nel mirino del sindacato, la cronica carenza di direttori, solo sei - compresi quelli in ferie - per dieci istituti penitenziari, aggiunta a quella dei sottufficiali e degli agenti assistenti. "Nonostante questo - sottolinea Villa - il personale, come dimostra l'episodio di stamattina e altri simili avvenuti nei giorni scorsi in altri istituti, continua con spirito di abnegazione e sacrificio a svolgere il proprio compito in modo impeccabile". S. Maria Capua Vetere: carcere senz'acqua, quei 6 km di condotte che significano civiltà di Antonio Mattone Il Mattino, 24 luglio 2015 Deve essere stata davvero un'amara beffa per le persone arrestate nell'ambito dell'inchiesta sugli appalti dell'acquedotto campano finire nel carcere di Santa Maria Capita Vetere, dove manca l'allaccio alla rete dell'acquedotto comunale. Può sembrare incredibile che in un Paese dell'Europa occidentale possa esistere un penitenziario privo del collegamento idrico. Si tratta di circa 6 chilometri di condutture che dovrebbero collegare l'impianto del carcere conia rete pubblica. Costruito appena negli anni 90, il complesso di Santa Maria Capua Vetere ospita circa 1.000 detenuti tra comuni e alta sicurezza, di cui una ottantina sono donne. E pensare che proprio alcuni mesi fa con la costruzione del nuovo padiglione Nilo, la capienza regolamentare è aumentata da 550 a 833 posti. Attualmente l'acqua che i detenuti possono utilizzare viene prelevata da un pozzo artesiano e viene filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione. Tuttavia, in questa calda e secca estate, l'erogazione idrica si è ridotta ai minimi termini perla minore quantità presente nella falda, causando enormi disagi ai detenuti, che rimangono per la maggior parte delle ore senza acqua, come scrive Salvatore in una accorata lettera. I più danneggiati sono quelli che risiedono ai piani alti, per lo scarso afflusso dovuto alla pressione insufficiente di impianti logori e sovrautilizzati. Alcuni carcerati esasperati hanno chiesto il trasferimento e sembra che per un centinaio di questi siano stati predisposti degli spostamenti in altri istituti della Campania. La direzione sta cercando di ridurre i disagi con l'acquisto di bottiglie d'acqua per i detenuti e di due cisterne che servono le cucine. Ma anche di frigoriferi per mantenere fresche le bevande che di solito i carcerati raffreddano facendo scorrere l'acqua corrente, con un evidente spreco che in questa situazione non ci si può proprio permettere. Inoltre sono stati organizzati dei turni tra i vari padiglioni per razionalizzare l'utilizzo di acqua. Ma, ovviamente tutto questo non basta. Se poi pensiamo ai soldi spesi per la manutenzione e le riparazioni dell'impianto di pompaggio, vediamo quanti soldi vengono sprecati che invece potrebbero essere utilizzati per costruire l'allaccio alla rete dell'acquedotto. Nei mesi scorsi erano stati elaborati alcuni progetti che dovevano esse finanziati dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, ed era stato siglato un protocollo tra Dap e Regione Campania che prevedeva l'utilizzo di fondi europei. Fino a scoprire che l'amministrazione penitenziaria non può erogare soldi che devono essere spesi per lavori aldi fuori dall'area demaniale, mentre i finanziamenti della Ue dovrebbero essere erogati entro il 31 dicembre prossimo. Ma non essendo stata avviata ancora alcuna gara, sembra impossibile concludere i progetti entro la fine dell'anno. A questo punto per risolvere questa annosa e incredibile emergenza potrebbero intervenire solo il Ministero delle Infrastrutture o la Regione Campania utilizzando la spesa ordinaria. C'è da augurarsi che lì pragmatismo del presidente De Luca possa aiutare a sbloccare la situazione e ridare dignità e vivibilità a questo luogo che dovrebbe sostenere il reinserimento e la rieducazione dei detenuti. Ci vuole molto? In fondo bastano solo sei chilometri di tubi. Roma: a Regina Coeli dopo suicidi, deputati del Pd Gea Schirò e Khalid Chaouki in visita Dire, 24 luglio 2015 Gea Schirò e Khalid Chaouki, deputati del Pd, in visita a Regina Coeli, il carcere dove sono avvenuti due suicidi nell'ultima settimana. Caiazza, il rapinatore che ha ucciso un gioielliere a via dei Gracchi "si trovava nell'area accoglienza perché appena arrivato, ed essendo coinvolto in un omicidio a sfondo sessuale particolarmente efferato, era stato oggetto di minacce e aveva richiesto la cosiddetta sorveglianza giudiziaria ma non poteva stare nell'apposita ottava sezione per non essere a contatto con il suo complice. Aveva quindi avuto - racconta Schirò - una cella singola nella settima sezione. Al momento entrambe le celle sono sigillate dall'autorità giudiziaria e non visitabili ma abbiamo potuto vedere quelle vicine con analoga struttura, arredamento ed esposizione e ci è stata illustrata la dinamica dei fatti. Domanderemo un ampliamento del servizio psicologico così da offrire un supporto costante ai detenuti, esigenza segnalata uniformemente dalla Direttora, dalla Sovrintendente dal comandante della Polizia penitenziaria e dall'Ispettore capo consapevoli che la vocazione penitenziaria non è quella punitiva bensì quella del recupero della persona". Schirò spiega: "Siamo consapevoli della solidarietà che il personale carcerario condivide con i detenuti nella quotidianità. Sarebbe opportuno un aumento dei numeri del personale di polizia penitenziaria che per ora è di 400 unità suddivisa in tre turni che costringono molti agenti a continui straordinari. Che il Ministero continui, e perfezioni, il programma avviato dall'approvazione degli ultimi Dl in materia di Giustizia, di inclusione nelle strutture carcerarie del mondo del volontariato e delle comunità straniere presenti in città che potrebbero essere un forte sostegno per i tanti stranieri (il 60%) che compongono la popolazione carceraria di Regina Coeli. Incrementare l'erogazione delle borse lavoro in grado di aiutare la formazione lavorativa dei detenuti". Autopsia Ludovico Caiazza, conferma suicidio Pochi dubbi sulla morte di Ludovico Caiazza, il giovane arrestato per l'omicidio del gioielliere Giancarlo Nocchia. I risultati dell'autopsia eseguita all'istituto di medicina legale della Sapienza trasmessi agli inquirenti di piazzale Clodio indicano chiaramente che il decesso avvenuto nel carcere di Regina Coeli è stato dovuto ad una azione di "auto-soppressione con soffocamento". Inoltre non sarebbero state riscontrate ferite o lesioni da difesa, che possano far pensare ad una imposizione esterna. Il pm Sergio Colaiocco attende entro i prossimi sessanta giorni i risultati delle analisi tossicologiche per definire, quasi certamente con una richiesta di archiviazione, il fascicolo d'inchiesta. Anche perché quasi certamente, vista la conclamata tossicodipendenza pregressa di Caiazza, arriveranno risultati degli accertamenti clinici non troppo lontani dalla sicura presenza di sostanze "esogene", assunte dal pregiudicato di 32 anni d'origine napoletane quando era in vita. Il quadro descritto dagli investigatori del Ris dei carabinieri conferma poi che Caiazza si è suicidato nella cella d'isolamento dove era detenuto, nella VII sezione del penitenziario di via della Lungara. Caiazza è stato trovato impiccato con un lenzuolo nella tarda serata dagli agenti della polizia penitenziaria durante un controllo. Coloro che sono stati sentiti in queste ore da chi indaga, a cominciare dagli agenti di servizio e arrivando al psicologo, ribadiscono che Caiazza era apparso "agitato e preoccupato". "Non volevo ucciderlo, non pensavo che quella coltellata avesse potuto ammazzarlo", avrebbe ripetuto disperato. Torino: Sappe; detenuto marocchino dà in escandescenza e aggredisce un agente torinotoday.it, 24 luglio 2015 La situazione nelle carceri regionali resta sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato, in Piemonte, di oltre cinquecento venti unità: dai 4.155 del 30 aprile 2014 si è infatti passati agli attuali 3.631. Violenta aggressione, questa mattina, nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Un detenuto marocchino, ristretto nella sesta sezione del padiglione B per reati di rapina, ha prima molestato e poi aggredito un poliziotto penitenziario. Secondo le ricostruzioni, il detenuto, improvvisamente e per futili motivi, ha spinto un agente giù dalle scale del secondo piano, rompendo, inoltre, a calci scrivania e sedie. Il poliziotto è dovuto ricorrere alle cure del sanitario per le innumerevoli escoriazioni a tutte due le braccia, guaribili in sette giorni. "Non si capiscono i motivi e le ragioni di questa violenza - spiega il Segretario Regionale del Sappe Vicente Santilli - ma certo il Sappe non intende restare con le mani in mano a fronte delle continue criticità delle carceri del Piemonte". I numeri, bisogna ammetterlo, sono alti e la situazione nelle carceri regionali resta sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato, in Piemonte, di oltre cinquecento venti unità: dai 4.155 del 30 aprile 2014 si è infatti passati agli attuali 3.631. Nel 2014 ci sono state aggressioni, ferimenti e colluttazioni ovunque: 17 colluttazioni ad Asti, 43 a Ivrea, 34 a Vercelli, 2 a Verbania, 5 a Torino, 25 a Saluzzo, 17 a Novara, 4 a Fossano, 20 a Biella, 6 ad Alessandria S. Michele, 5 ad Alba e a Cuneo. Anche i ferimenti sono stati significativi: 4 ad Asti, 8 a Torino, 2 a Saluzzo, 2 a Fossano, 3 a Biella, 2 ad Alessandria S. Michele e 3 ad Alessandria Cantiello e Gaeta, 6 ad Alba ed 1 a Cuneo. Genova: progetto "Mura Amiche - Accogliere e includere", 11 posti letto per i detenuti genova24.it, 24 luglio 2015 Ieri mattina la Giunta comunale, su proposta dell'assessore alle politiche socio sanitarie e della casa, Emanuela Fracassi, e dell'assessore alla legalità e diritti, Elena Fiorini, ha deliberato di rinnovare la partecipazione del Comune al progetto "Mura Amiche - Accogliere e includere" che verrà presentato alla Cassa delle Ammende del dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria per richiederne il finanziamento. Il Comune di Genova, da tempo attivo nei percorsi di inclusione sociale delle persone detenute ed ex detenute, cofinanzierà l'iniziativa continuando a mettere a disposizione i due alloggi di piazza Bignami già utilizzati per lo stesso progetto, ma amplierà l'offerta dei posti letto da 4 a 11 per ciascuna delle due annualità previste. Il progetto è rivolto a detenuti degli istituti penitenziari di Marassi, Pontedecimo e Chiavari, di età compresa tra i 18 e i 29 anni, in carico all'ufficio Esecuzione Penale Esterna, privi di riferimenti abitativi esterni indispensabili all'accesso a misure alternative alla detenzione. Il programma prevede anche supporti per facilitare l'uscita dal carcere e la fruizione di misure alternative alla detenzione, favorire percorsi individuali di inclusione sociale propedeutici al raggiungimento di una autonomia economica e abitativa al termine della pena, la creazione e il consolidamento di legami sociali attraverso iniziative di sostegno educativo e aiuti nelle relazioni interpersonali. Oltre al Comune di Genova, il progetto "Mura Amiche" comprende una rete composta da Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per la Liguria, Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Genova Savona Imperia, Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, fondazione Auxilium, Veneranda Compagnia di Misericordia, congregazione Figlie della Carità San Vincenzo De Paoli, associazione La Dimora Accogliente Onlus, cooperativa il Melograno, consorzio sociale Agorà, cooperativa sociale Il Biscione. Vigevano (Pv): lavori socialmente utili per i detenuti, accordo tra Comune e carcere La Provincia Pavese, 24 luglio 2015 Detenuti che tagliano l'erba e raccolgono le foglie, svuotano i cestini dei rifiuti e tinteggiano. Tutto su base volontaria. Il Comune, l'Agenzia provinciale per l'orientamento, il lavoro, la formazione (Apolf) e la casa di reclusione di Vigevano hanno firmato un protocollo triennale. "Si tratta - spiega Davide Pisapia, direttore della casa di reclusione - di una convenzione che è l'applicazione del protocollo siglato tra Anci e Ministero della giustizia per sostenere le iniziative che permettono ai detenuti, su base volontaria, di fare lavori all'esterno del carcere. Si tratta di lavori di pubblica utilità, come la pulizia del verde o delle strade. A seconda delle iniziative che il Comune ci comunicherà, vedremo se, quali e quanti detenuti coinvolgere. È un primo passo, l'idea è quella di arrivare ad una collaborazione sempre più stretta per reinserire nella società queste persone, soprattutto se residenti a Vigevano. Ci si aspetta un riconoscimento, che potrà essere formale, o magari con l'offerta futura di un posto di lavoro. Per queste persone significherebbe riconquistare la dignità di cittadino". Nella casa di reclusione di Vigevano risiedono oggi 370 detenuti, compresa l'area femminile. Si tratta di persone che hanno già superato tutti e tre i gradi di giudizio e che devono, quindi, solo scontare la pena. "I nostri detenuti - conclude Pisapia - per lo più hanno commesso reati legati alla droga, rapine e furti. Sono pochissimi quelli che hanno commesso un omicidio e non ci sono più detenuti per reati associativi". Livorno: appello della Lav "non facciamo morire Gorgona e i suoi animali" Agi, 24 luglio 2015 Un appello pubblico per salvare gli animali dell'isola di Gorgona. Arriva dalla Lav, che rende noti i primi importanti sottoscrittori che appoggiano l'iniziativa finalizzata a tutelare l'esperienza di Gorgona e gli ospiti non umani dell'isola. Migliaia di cittadini, molti personaggi pubblici e numerosi esperti di settori collegati, chiedono di sospendere le uccisioni di animali sull'isola e ispirarsi ai principi di una rieducazione nonviolenta. Dopo la petizione firmata da migliaia di cittadine/i e la recente mozione approvata in Senato (che impegna il governo a "valorizzare e promuovere buone pratiche come l'esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell'isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici"), ora è la volta di importanti persone del mondo giuridico, della cultura e dello spettacolo che, indirizzando l'appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando e alle altre massime cariche dello Stato - presidente della Repubblica, presidente del Consiglio e presidente della Regione Toscana - hanno firmato un documento dal titolo "Appello per Gorgona: l'isola delle buone pratiche nella relazione umano-animale". L'appello ripercorre alcune delle tappe fondamentali che hanno caratterizzato il percorso di tutela degli animali presenti sull'isola, sottraendoli ai meccanismi di sfruttamento zootecnico e, quindi, alla morte; chiede, per tutti gli animali presenti sull'isola, che tale percorso, iniziato con la stesura della "Carta dei diritti degli animali di Gorgona" e proseguito con l'emanazione di "Decreti di Grazia" per alcuni animali dell'isola, giunga al proprio definitivo compimento. In uno dei principali punti dell'appello si legge infatti "Vi chiediamo di tutelare la vita di tutti gli animali presenti sull'isola, riconoscendo la loro soggettività e il loro status di ‘esseri senzientì (cosi come affermato nell'articolo 13 del Trattato di Lisbona) e sottraendoli da ogni forma di vendita o sfruttamento per finalità produttive nonché dalla morte per macellazione. Lo sfruttamento e l'uccisione degli animali sono, infatti, incompatibili con la missione istituzionale del carcere". Dello stesso avviso è anche la prof.ssa Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario e procedura penale europea e sovranazionale presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, che nel suo contributo al documento "Carceri: materiali per la riforma" richiama esplicitamente l'esperienza di Gorgona come inedita e innovativa nell'ambito della rieducazione delle persone detenute e ispirata alla relazione nonviolenta tra umano e altri animali. Il prossimo 14 settembre una delegazione di parlamentari visiterà l'isola di Gorgona per conoscere sul campo questa innovativa realtà. In previsione di tale visita è in corso uno scambio epistolare tra la direzione del carcere di Gorgona e le principali associazioni impegnate nella salvaguardia degli animali dell'isola, che si sono rese disponibili a partecipare a un tavolo di confronto per contribuire alla definitiva e sostenibile tutela di tutti gli animali dell'isola (e non solo quelli oggetto dei decreti di grazia). Immigrazione: io, prigioniero di miliziani e trafficanti, patto segreto tra scafisti e autorità di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 24 luglio 2015 Pensava di avercela fatta nel settembre del 2013 l'allora diciannovenne Mohammed Baah a raggiungere finalmente il suo sogno: un posto sui barconi di migranti illegali verso l'Italia e il mercato del lavoro europeo. "Avevo impiegato quasi un anno da casa mia nel Gambia per giungere sulla costa libica vicino a Tripoli. Qui c'erano amici sicuri, conoscevano il mercato degli scafisti locali, potevo procurarmi i mille euro necessari per la traversata in mare. Credevo di essere davvero a posto!", ricordava ieri pomeriggio raccontando la sua storia in una breve pausa dal lavoro di facchino al mercato ortofrutticolo di Hailislam, nei quartieri occidentali della capitale libica. "Ma era solo un'illusione, una beffa crudele. Circa tre mesi dopo il mio arrivo, una notte mi sono imbarcato con un altro centinaio di africani. Tutto è andato bene le prime cinque o sei ore. Però ad un certo punto sono apparse le motovedette della guardia costiera libica. Ci hanno fermato in mare e riportati tutti indietro", aggiunge. È allora che inizia il calvario suo e dei suoi compagni di viaggio. I supposti militari libici si rivelano anche peggiori degli scafisti, gli "muharrebin", come qui sono chiamati i responsabili delle barche della speranza. Prendono tutti gli oggetti di valore, sequestrano le sim e le batterie dei cellulari. Mohammed e gli altri sventurati come lui vengono chiusi in un centro di detenzione. Sbarre a porte e finestre, cibo cattivo, caldo torrido d'estate, umido l'inverno. Lavori inutili, tipo scavare con vanga e piccone profonde buche da riempire di macerie, pagati somme ridicole. Imperano arbitrarietà, corruzione e spesso soltanto il caso. Il fine non è prevenire le partenze, tutt'altro, semplicemente stillare nuovo denaro. I miliziani offrono di liberare chiunque abbia amici o famigliari disposti a pagare somme comprese tra 200 e 400 euro a testa. Chi riesce a procurarsele può tornare libero e riprendere a lavorare per raggranellare di nuovo il piccolo gruzzolo che permette di ritentare il viaggio verso l'Italia. Coloro che invece non ce la fanno devono attendere in cella. Cosa? Non è chiaro. Nei centri di detenzione s'incontrano personaggi chiusi da dieci mesi e altri arrivati da una settimana già in procinto di uscire. In quello di Abu Selim, nei quartieri meridionali della capitale, ieri abbiamo incontrato il 39enne Ben Ewure, un ingegnere nigeriano, che in perfetto inglese sosteneva di essere stato arrestato sei settimane fa perché ricacciato in Libia dai doganieri turchi atterrando a Istanbul. "Non conosco il motivo della mia presenza qui. Da 13 anni lavoro con due società straniere che operano in Libia. Ho visto la caduta di Gheddafi, sono rimasto. Adesso però mi hanno preso il passaporto. Ho moglie e cinque figli che non riesco a contattare in Niger. Chi mi può aiutare?", quasi piangeva. Alcuni ragazzi del Burkina Faso giocano a carte sui materassi stesi a terra. Non vogliono parlare, lanciano occhiate cariche di paura verso i miliziani. Ogni volta che uno di loro si avvicina, gli africani ripetono quasi meccanicamente: "Noi andare in Italia? Non ci pensiamo neppure. In Libia stiamo bene". Inutile insistere. Certo non in presenza delle guardie. Raccontano invece senza problemi quelli incontrati sui luoghi di lavoro fuori dai centri di detenzione. I loro sguardi si accendono non appena sentono parlare di "muharrebin" e "Italia". Sanno che l'unica via per risolvere il loro status di paria passa per il contante in euro o dollari. "Io ho pagato. Ma ben presto ho capito che scafisti e uomini delle milizie legate al governo locale di Tripoli sono profondamente collusi. Si sono messi assieme per sfruttare sino all'osso noi migranti neri che arriviamo da sud del Sahara. Ognuno ha la sua fetta di bottino. E siamo prigionieri, non possiamo fare assolutamente nulla", spiega ancora Mohammed. Lui per ben quattro volte ha provato a reimbarcarsi. "L'ultima è stata la notte dello scorso 11 aprile. Eravamo in 180 su due grandi gommoni: eritrei, sudanesi, nigeriani, ghanesi, giovani del Mali. Sembrava che fosse finalmente la volta buona. Siamo partiti all'una di notte, il mare calmo, la luna chiara e netta in cielo. Verso le 10 di mattina col satellitare abbiamo raggiunto le corvette italiane. Ci hanno comunicato che se avessimo viaggiato per un'altra mezzoretta ci avrebbero presi a bordo. Per noi sarebbe stata la salvezza. Ma dieci minuti dopo ecco apparire la maledetta marina libica. Due battelli veloci. Noi abbiamo provato a deviare. Loro si sono messi in mezzo, con le eliche hanno tentato di farci rovesciare. Due soldati hanno anche sparato con i mitra nel mare a pochi metri da noi. Cinque del Ghana sono caduti in acqua. Tre li abbiamo salvati. Gli altri due sono annegati". La sua è solo una delle tante storie per lo più sconosciute, ignote, consumate nelle celle povere e puzzolenti dei centri di detenzione sulla costa libica, nei cantieri dove si fanno i lavori più umili per tre euro l'ora, dove l'assistenza medica è praticamente sconosciuta, oppure tra le mura impenetrabili delle caserme delle milizie, sulle spiagge, nel mare che alla fine tutto nasconde e sommerge. Per raccoglierle è però sufficiente cercarle tra i cascami di questa umanità disperata. Raccontano di ingiustizie medievali, del razzismo arabo locale che considera i neri specie di sub-umani una volta legati a filo doppio alla dittatura di Gheddafi e oggi da sfruttare sino all'osso. Se chiedi a responsabili e uomini armati delle milizie la risposta inevitabile è che loro fanno del loro meglio per bloccare i traffici degli scafisti, "come chiedete voi europei". Ma la realtà è allo stesso tempo più variegata e molto più semplice. Il traffico dei disperati che cercano di raggiungere l'Europa è troppo lucroso per non cercare di approfittarne. Conferma per telefono da Zuwhara (l'area dove lunedì scorso sono stati rapiti i quattro italiani) Mohammad Muktar, uno scafista che a 28 anni è già noto anche a Tripoli: "Noi disponiamo di capitali in contanti. Siamo tra i pochi ormai in Libia. A notte possiamo guadagnare oltre 300 mila euro. Non chiediamo l'aiuto delle milizie o del governo di Tripoli. Possiamo pagare bene all'occorrenza per garantire che le nostre barche passino indisturbate". Immigrazione: non rottamiamo anche i Prefetti, sono il simbolo dello Stato di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 24 luglio 2015 Già il fatto, di cui siamo venuti a conoscenza in questi giorni, che esista un'associazione parasindacale dei prefetti non mi sembra proprio un segnale di ottima salute per lo Stato italiano. Almeno per chi come a me - e forse a qualche altro in questo Paese - piace immaginarlo. E cioè uno Stato dove, se mai è previsto che ci siano funzionari usi a obbedir tacendo e basta, questi debbano essere, per l'appunto, i prefetti. Per la semplice ragione che i prefetti sono emanazione diretta del governo nelle periferie, sono il governo, ed è ovviamente inconcepibile che il governo disobbedisca a se stesso. Così come appare inconcepibile - e invece è accaduto l'altro ieri, a proposito dei provvedimenti per la sistemazione sul territorio degli immigrati - che il capo della suddetta associazione si metta a criticare pubblicamente il ministro degli Interni, e ancor più che questi gli risponda per le rime in un alterco da puro teatrino politico nazionale. Alterco che, insieme ad altri episodi più o meno recenti, obbliga inevitabilmente a chiedersi: ma che cosa è accaduto del corpo dei prefetti nell'ultimo ventennio? Come sono stati e sono reclutati? Che senso delle istituzioni e del proprio ruolo hanno? Ci sono tuttavia, come si sa, rimedi peggiori del male. Se la questione di come sistemare nelle varie regioni gli immigrati e i rifugiati è stata all'origine dello scontro tra prefetti e ministro degli Interni, il rimedio che in proposito Renzi sembra voler adottare - dare poteri molto maggiori ai sindaci - appartiene sicuramente alla categoria di tali rimedi. Innanzi tutto perché così si moltiplicherebbero potenzialmente per quanti sono i comuni italiani i criteri e le volontà chiamati d'ora in poi a decidere in qual modo sistemare coloro che giungono a vario titolo in Italia (se criteri e volontà saranno invece decisi a Roma, che razza di poteri, infatti, saranno quelli dei sindaci?). Dunque un comune sarà super accogliente e ospitale, un altro per nulla; in un comune si requisiranno appartamenti sfitti, in un altro garage, in un altro si tireranno su dei prefabbricati: così, come capita. Anzi non come capita. Fatalmente, in realtà, a seconda del colore politico dei vari comuni. Il comune leghista si comporterà in una certa maniera, quello Pd in un'altra, quello Cinque stelle in un'altra ancora. Ma può un governo essere indifferente alla distribuzione geografica degli immigrati sul territorio nazionale? Che in Puglia, mettiamo, se ne addensi il 70 per cento e in Umbria solo il 2? E si è mai visto, mi chiedo, un governo che su una questione così delicata rinuncia ad esprimere una linea sua, valida per tutto l'ambito nazionale, e addirittura lascia scegliere nel merito anche i rappresentanti dei partiti d'opposizione? Tanto più poi quando, come in questo caso, si tratta di una questione che vede il Paese nella sua interezza essere interlocutore dell'Unione Europea: la quale fino a prova contraria, non ha rapporti né con la giunta comunale di Abbiategrasso né con il sindaco di Mazara del Vallo, bensì esclusivamente con il governo di una certa Repubblica italiana che a quel che dicono siede a Roma. Non è un sarcasmo fuori posto. Ormai molte regioni della Penisola stanno sempre più abituandosi a considerarsi "cosa loro"; sempre più tutto si va facendo "autonomo", "locale": dalla sanità ai trasporti ferroviari; mentre sempre più si sfilacciano e perdono consistenza gli ambiti e le istituzioni - come la scuola, il patrimonio artistico-culturale, il paesaggio - i quali un tempo tenevano insieme il Paese rappresentandone l'identità unitaria, e per questo erano unitariamente regolati e difesi. Oggi veniamo a sapere che anche l'amministrazione centrale dello Stato con quel suo simbolo che fin qui erano i prefetti, pure lei è sul punto di mollare. Brasile: estradizione sospesa per Henrique Pizzolato, è imputato in un tribunale italiano Ansa, 24 luglio 2015 Con la fissazione dell'udienza preliminare per il reato di falso, l'ex dirigente di banca italo-brasiliano Henrique Pizzolato, detenuto a Modena, diventa imputato in un tribunale italiano e dovrà quindi essere sospeso il procedimento per estradarlo in Brasile: sono queste le importanti novità sul caso del detenuto italo-brasiliano, attualmente in carcere al Sant'Anna di Modena, riportate dai senatori Pd Maria Cecilia Guerra e Luigi Manconi che stanno seguendo la sua vicenda. "Una importante notizia a proposito del futuro di Pizzolato - scrivono i parlamentari - Å stata disposta per il 14 dicembre 2015 l'udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio presentata dal Pubblico Ministero, nell'ambito del procedimento pendente a carico di Henrique Pizzolato per il reato di falso. Ora, di conseguenza, Pizzolato è imputato di un reato del quale dovrà rispondere in un tribunale italiano. La qual cosa avrà come conseguenza la sospensione del procedimento di estradizione, per consentire a Pizzolato di esercitare pienamente il proprio irrinunciabile diritto alla difesa". "Pizzolato - ricorda una nota del Pd - chiede di poter scontare la pena in Italia vista la pericolosità delle carceri brasiliane, confermata dalle organizzazioni internazionali, per il mancato rispetto dei basilari diritti umani dei detenuti". "Comunichiamo inoltre che, a seguito della sospensione della procedura di estradizione, il Ministero della giustizia ha trasmesso alle autorità brasiliane l'elenco delle assicurazioni e delle garanzie supplementari richieste dal Consiglio di Stato per valutare la legittimità dell'estradizione e il pieno rispetto dei diritti fondamentali di Pizzolato. Le autorità brasiliane dovranno fornire ogni ragguaglio utile sul penitenziario dove sarebbe destinato e su quelli dove potrebbe richiedere di essere trasferito; dovranno autorizzare una visita diplomatica preventiva in quegli istituti; dovranno esplicitare l'impegno a non trasferire Pizzolato in altre strutture penitenziarie, se non per cause di forza maggiore e dopo averne informato le autorità italiane, e comunque dovranno impegnarsi a fornire loro informazioni e aggiornamenti su problemi emersi durante la detenzione in Brasile". Stati Uniti: il mistero di Sandra Bland, morta in galera per non avere messo la freccia di Federica Seneghini Corriere della Sera, 24 luglio 2015 In un nuovo video le minacce dell'agente alla donna - afroamericana, 28 anni -arrestata con violenza e minacciata con il taser per una banale infrazione stradale. È morta in carcere tre giorni dopo. Secondo le autorità si sarebbe suicidata, ma la famiglia non ci crede e chiede chiarezza. Fermata da un agente a bordo della sua auto per non avere messo la freccia prima di cambiare corsia. Ammanettata, sbattuta a terra e minacciata con il taser, per motivi misteriosi. Arrestata e portata in galera. Dove è morta, in una piccola cella del carcere della Contea di Waller, Texas, tre giorni dopo. La versione ufficiale, dice che Sandra Bland - afroamericana, 28 anni, attivista del movimento "Black Lives Matter", neoassunta alla Prairie View A&M University - si è suicidata. Ma la famiglia non ci crede e chiede giustizia. In forza anche di un nuovo video di 45 minuti, rilasciato dalle autorità mercoledì, che mostra tutta la violenza, apparentemente ingiustificata, con cui la giovane Sandra è stata trattata dai poliziotti per una banale infrazione stradale. La storia inizia venerdì 10 luglio. Il video registrato da una telecamera di sorveglianza piazzata su una volante, rilasciato dalle autorità di Hempstead, mostra un'auto di colore bianco accostare ai lati di una superstrada della piccola cittadina del Texas. Un agente - Brian T. Encinia - si avvicina al finestrino. Chiede alla donna al volante di dargli i documenti. Il dialogo tra i due a quel punto precipita. Encinia ordina a Bland di scendere dall'auto. Lei si rifiuta. "Ti faccio scendere con la forza, allora", risponde lui, chiedendo rinforzi e strattonando la donna. Poi tira il fuori il taser, la pistola stordente, e lo punta contro Bland: "Ti faccio accendere", le dice riferendosi alla sigaretta della ragazza. A quel punto lei scende dal veicolo. I due escono dall'inquadratura, ma la telecamera resta accesa. E registra i dialoghi. "Mi fai male", si lamenta la donna, mentre lui la ammanetta e la sbatte a terra, aiutato da un'altra agente. "Mi spacchi i polsi", urla Bland. Grazie a un altro video, registrato da un passante e messo online nei giorni successivi, abbiamo altre immagini, oltre a quelle ufficiali. Che mostrano la violenza dietro quelle parole. Con la ragazza distesa a terra, pancia sotto, e l'agente sopra di lei, mentre la ammanetta. "Mi hai fatto sbattere la testa, non te ne frega niente?", dice lei. Per poi aggiungere: "Sono epilettica". "Bene", risponde lui. La violenza è confermata anche dalla sorella di Bland, Shante Needham, secondo cui la donna le avrebbe riferito come Encinia le sarebbe salito sulla schiena con le ginocchia, spezzandole un braccio. Il capo del Dipartimento della sicurezza del Texas, Steven MacCraw, che ha fatto diffondere il filmato, ha dichiarato che il comportamento dell'agente costituisce una violazione delle procedure di arresto. Alle 6,30 di lunedì 13 luglio, Sandra Bland, rinchiusa nella cella numero 95 del carcere della Contea di Waller - 20 metri quadrati - si rifiuta di mangiare. Poco dopo le 7 risponde "sto bene", a una guardia, e chiede di fare una telefonata. Due ore e mezza dopo, alle 9, viene trovata impiccata, in una posizione "semi eretta", con il laccio di un sacchetto di plastica intorno al collo (che, dicono gli inquirenti, avrebbe recuperato da un bidone della spazzatura della sua cella). Soccorsa, viene dichiarata morta alle 9,16. Secondo l'autopsia, effettuata dai medici della Contea di Harris, Bland sarebbe morta per asfissia, che si sarebbe provocata volontariamente. Tradotto: si sarebbe suicidata. Ma il procuratore distrettuale della Contea di Waller, Elton Mathis, ha detto che "l'indagine per omicidio" continua. "Ci sono troppe cose poco chiare", ha aggiunto. Anche l'Fbi sta indagando sul caso. La famiglia della donna vuole chiarezza ("Per la Sandy che conoscevo io", ha detto un'altra sorella di Bland, "è impossibile che si sia ammazzata"), e chiede di potere avere un'autopsia autonoma. Perché è troppo strano essere arrestati per una banale infrazione stradale e morire in galera 72 ore dopo. Gran Bretagna: troppi detenuti morti in circostanze "non chiare", polizia sotto inchiesta Ansa, 24 luglio 2015 Torna a crescere in Inghilterra e Galles il numero di detenuti morti in circostanze non chiare mentre erano sottoposti a fermi di polizia. Lo denuncia un rapporto illustrato oggi a Londra alla presenza del ministro dell'Interno britannico, Theresa May, la quale a sua volta annuncia l'avvio di un'inchiesta per fare luce sul dossier. Secondo i dati, nell'ultimo anno i casi registrati sono stati 17 contro gli 11 dell'anno precedente. Un segnale negativo, è stato detto, anche se non si è al picco di 36 morti del 2004/2005. Fra le vittime se ne contano almeno otto che erano afflitte da problemi psichici, quattro delle quali - stando alla versione ufficiale - si sarebbero alla fine suicidate. May ha detto di essere vicina "al dolore e alle sofferenze" delle famiglie, riconoscendo che le risposte delle autorità di fronte alle denunce sono state spesso evasive o anche "ostruttive". Marcia Rigg-Samuel, una donna di colore divenuta attivista dopo la morte nel 2008 del fratello, Sean Rigg, nella mani della polizia, ha preso atto degli impegni del governo, ma ha invocato "un vero cambiamento" di mentalità. Cina: la grande retata degli avvocati, dai primi di luglio 238 legali sono stati arrestati di Giampaolo Visetti La Repubblica, 24 luglio 2015 La Cina è scossa dalla più violenta repressione contro gli avvocati degli ultimi vent'anni. Dai primi di luglio 238 legali sono stati arrestati e la retata non risparmia i loro familiari, decine di attivisti per i diritti civili ed esponenti religiosi. Alcuni tra i più prestigiosi studi legali del Paese sono stati definiti "bande di criminali colpevoli di interferire nei processi e di fomentare disordini". La propaganda del presidente Xi Jinping accusa gli avvocati di essere "sobillatori in cerca di soldi e di fama". L'offensiva si è scatenata dopo che negli ultimi mesi i legali hanno accettato di difendere cinque femministe arrestate a causa di una campagna anti-molestie, l'assistente di una corrispondente germanica reduce dalla rivolta anti-cinese a Hong Kong, l'archistar Ai Weiwei, presunti "terroristi" picchiati dalla polizia, centinaia di sfrattati dai governi locali e di sostenitori dei diritti umani. La polizia ha fatto irruzione in casa degli avvocati nel cuore della notte e ha perquisito e fatto chiudere i loro uffici. Decine di legali che si occupavano di casi "politicamente sensibili" sono stati invitati a "prendere un tè" dai funzionari del partito, cortesia che spesso prelude al fermo. Amnesty International ha denunciato la scomparsa di 50 familiari di avvocati, sei i legali spariti. Per i media di Stato la stretta "si è resa necessaria Perché i legali operavano contro il sistema, costruendo casi finalizzati a infangare la giustizia cinese". L'accusa di "incitamento alla sovversione" è quella vaga usata per incriminare i dissidenti e può costare 15anni di carcere. Tra gli studi nel mirino, il più famoso è il "Fengrui", condotto nella capitale dall'avvocato Zhou Shifeng, simbolo dei giuristi che hanno il coraggio di difendere chi viene incriminato per reati politici, o connessi con la libertà d'espressione. Oltre a Zhou è finita in carcere l'avvocatessa Wang Yu, scomparsa assieme al marito e al figlio di sedici anni. Gli interrogatori si svolgono in luoghi segreti e in assenza delle minime garanzie giuridiche. La tv di Stato ha trasmesso anche la "confessione" di Zhou Shifeng, affermando che "gli episodi accertati di disordine pubblico sono oltre quaranta". Irriconoscibile e sconvolto, il legale ha ammesso che nel suo studio "gli errori sono stati molto gravi". Il suo collega Teng Biao, esule negli Usa, ha osservato che "quasi tutti gli avvocati fermati avevano tra i propri assistiti attivisti per i diritti civili". L'associazione Human Rights Watch ha lanciato l'allarme sul rischio di torture e di maltrattamenti. "Abbiamo elementi per affermare - ha detto Maya Wang-che la polizia stia ricorrendo alle confessioni forzate con l'uso della violenza". Le autorità respingono le accuse, assicurando che "si tratta di azioni di contrasto dell'illegalità, non di questioni di diritti umani". Dopo la sua ascesa al potere Xi Jinping ha scatenato quella che ha chiamato "guerra per lo Stato di diritto". I primi a finire nel mirino sono stati funzionari pubblici e manager privati, accusati di corruzione. È scoccata poi l'ora delle multinazionali straniere e degli ufficiali dell'esercito, incriminati per lo scambio di tangenti colossali. La repressione contro gli avvocati segue invece quella contro minoranze etniche, giornalisti e fedeli cristiani e musulmani, tacciati di voler "cancellare l'identità cinese e infettare la nazione con i valori occidentali". Tra le teste più importanti saltate dentro la cerchia dei leader rossi, c'è anche quella di Ling Jihua, 58 anni, ex braccio destro del presidente Hu Jintao, predecessore di Xi. L'ex segretario presidenziale, tra i funzionari più potenti della Cina, è stato arrestato dopo due anni e mezzo di indagini, con l'accusa di aver intascato tangenti milionarie, rivelato segreti di Stato e preteso sesso sfruttando il proprio ruolo. La sua spettacolare caduta era iniziata nella primavera 2012, dopo che il figlio era morto al volante di una Ferrari, regalo dell'ex capo del partito di Taiyuan. La pulizia contro i corrotti ha colpito finora gli avversari interni di Xi Jinping, ma continua a riscuotere l'appoggio della gente. La purga contro gli avvocati non gode invece il sostegno popolare: migliaia le critiche sul web, subito censurate, preoccupate del via "ad una nuova stagione di terrore e di repressione maoista". Per "Xi il Grande" il ricorso all'intimidazione dei legali è il primo cedimento a nervosismo e insicurezza interna. Segnale che il rinnovato controllo ideologico del Paese incontra più resistenze del previsto. Iran: Amnesty International; eseguite quasi 700 condanne a morte da inizio anno Aki, 24 luglio 2015 Circa 700 condanne a morte sono state eseguite in Iran da inizio anno, quasi tre volte la cifra ammessa dalle autorità della Repubblica islamica. È quanto denuncia Amnesty International, che parla di un "picco senza precedenti" nel numero di esecuzioni nel paese. Le autorità iraniane hanno finora riconosciuto ufficialmente 246 esecuzioni quest'anno, ma Amnesty International ha precisato di aver ricevuto segnalazioni di altre 448 esecuzioni. Secondo il gruppo per i diritti umani con sede a Londra, 694 persone sono state giustiziate tra il primo gennaio e il 15 luglio, mentre lo scorso anno sono state in totale 743. Amnesty sottolinea che l'aumento è "inquietante" e che le condanne a morte sono state comminate da tribunali "completamente privi di indipendenza ed imparzialità". L'organizzazione evidenza quindi come i processi che si svolgono in Iran sono "profondamente imparziali, ai detenuti viene spesso negato di avvalersi di avvocati e ci sono procedure inadeguate per quanto riguarda l'appello, il perdono e la commutazione" della pena. "Lo sconcertante numero di esecuzioni in Iran nel primo semestre dipinge un quadro sinistro che conferma un piano premeditato di uccisioni di massa da parte dello Stato", ha affermato Said Boumedouha, vice direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. "L'uso della pena di morte - ha aggiunto - è sempre orribile, ma preoccupa di più in un Paese come l'Iran dove i processi sono chiaramente irregolari". Secondo Amnesty, la maggior parti dei detenuti giustiziati è stata condannata a morte per traffico di droga. La legge iraniana prevede la pena capitale per il traffico di più di 5 chilogrammi di sostanze stupefacenti derivate da oppio e di più di 30 grammi di eroina, morfina, cocaina o loro derivati chimici. "Per anni, le autorità iraniane hanno usato la pena di morte per diffondere un clima di paura in un maldestro tentativo di combattere il traffico di droga, ma non c'è uno straccio di prova che dimostri che si tratta di un metodo efficace per combattere questo reato", ha concluso Boumedouha. Gambia: presidente Jammeh concede amnistia a decine di detenuti accusati di tradimento Nova, 24 luglio 2015 Il presidente del Gambia, Yahya Jammeh, ha concesso l'amnistia a tutti i detenuti accusati di tradimento tra il 1994 e il 2013. Lo riferisce l'emittente britannica "Bbc". Ad annunciarlo è stato lo stesso capo dello Stato nel corso di un discorso televisivo in occasione del 21esimo anniversario della sua ascesa al potere. Jammeh non ha precisato quante persone beneficeranno dell'amnistia, ma ha affermato che potrebbero uscire di prigione decine di persone coinvolte in una serie di tentativi di colpo di Stato tra il 2006 e il 2009.