La nuova anomalia, un magistrato che accusa i politici di fare uso politico della giustizia di Antonio Polito Corriere della Sera, 23 luglio 2015 Un magistrato che accusa i politici di uso politico della giustizia è un'autentica novità, dopo vent'anni passati a discutere fino allo sfinimento dell'opposto, e cioè dell'invasione di campo dei giudici nella lotta politica. Eppure è proprio ciò che ha detto il procuratore capo di Palermo, Lo Voi, con la coraggiosa intervista rilasciata ieri a Giovanni Bianconi: "È un'anomalia italiana la tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi". Lo Voi si riferisce alla kafkiana vicenda di Palermo, dove il Pd sembra approfittare, per liberarsi del suo presidente di Regione, di una molto presunta intercettazione, che il povero procuratore si affanna a giurare inesistente, ma tutti continuano a far finta che ci sia, pur di costruire un "contesto" sciasciano che condanni Crocetta e promuova Faraone, il sostituto designato. Ma Palermo non è l'unico caso di questa nouvelle vague. Roma è l'altro. Anche lì un'inchiesta, Mafia Capitale, è usata come detonatore di una campagna contro il sindaco Marino, le cui dimissioni meritavano di esser chieste per le buche e la sporcizia della città forse più che per il suo (scarso) ruolo nei fatti penali: politica a orologeria si potrebbe chiamarla, parafrasando la vecchia polemica contro la giustizia a orologeria. E anche lì un procuratore, Pignatone, è stato chiamato a districare nodi politici non suoi, dovendo esprimersi sull'ipotesi di scioglimento del Comune per mafia. Aggiungerei all'elenco anche il giudice di Napoli cui è stato chiesto di risolvere il pasticcio De Luca, creato dal Pd candidandolo nonostante la legge Severino, e che ha rinviato ad altri giudici, stavolta costituzionali, il verdetto finale sull'intricata storia. Sono tutte vicende che segnalano una fase nuova, ma non meno malata, del rapporto giustizia-politica. Stavolta i magistrati ne sono incolpevoli, hanno anzi spesso il merito di tirarsi fuori come Lo Voi e Pignatone, precisando che il loro compito "è fare indagini e processi, senza doppi fini e senza intenti pedagogici". Si vede che non intendono comportarsi, passando direttamente dalle inchieste sui politici allo scranno del politico, come hanno fatto Emiliano in Puglia e de Magistris a Napoli, o come ha provato a fare Ingroia. Ciò che denunciano è il frutto marcio di una lunga stagione in cui una vera e propria dipendenza dalle inchieste è entrata nelle vene della nostra democrazia, assuefacendola. Ora sul palcoscenico ci sono politici più giovani e più smaliziati perché nati nel post-tangentopoli, che hanno imparato a usare questa patologia nazionale, invece che esserne usati. Ma siamo ben lontani dalla guarigione. Anzi. Se proprio le inchieste devono avere un "uso politico", verrebbe da dire, meglio fidarsi della giustizia, che almeno ha tre gradi di giudizio, piuttosto che del giudizio politico, per sua natura interessato, volubile e fazioso. Giustizia: diritti umani in Italia, occorre un'agenzia nazionale autonoma ed indipendente di Barbara Alessandrini L'Opinione, 23 luglio 2015 Una Agenzia nazionale autonoma ed indipendente per tutelare i diritti umani nel nostro Paese. In conformità con la strategia delle Nazioni Unite, che nella protezione dei diritti civili individua uno dei suoi pilastri insieme alla pace ed alla sicurezza. Si tratta di un progetto che in realtà giace in Parlamento da qualche anno e attualmente all'esame come proposta di legge nella Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama e che durante il convegno intitolato "Proteggiamo e promuoviamo i diritti umani. La creazione di un'istituzione nazionale indipendente" tenutosi alla Farnesina, promosso dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani (Cidu) e moderato dall'ambasciatore Gian Ludovico De Martino, è stato rilanciato e discusso da un qualificato gruppo di specialisti italiani ed europei insieme a rappresentanti del mondo dell'associazionismo che da sempre si occupa della tutela delle garanzie. Crisma centrale dell'istituzione, almeno sul piano della progettualità ed emerso da subito dalle parole del ministro Paolo Gentiloni, dovrebbe essere il tratto dell'indipendenza. "È importante che nasca con una fortissima caratteristica di indipendenza un'agenzia per la salvaguardia dei diritti umani: serve anche a noi che stiamo al Governo", ha esordito Gentiloni nella convinzione che "l'equilibrio tra pace, sicurezza e diritti umani è mobile specialmente in questa nostra regione, il Mediterraneo e il Medio Oriente che oggi affronta nuove sfide. E se dobbiamo riconoscere che la politica è fatta di negoziato, realismo e compromesso, non possiamo trattare i diritti umani come un lusso d'altri tempi, le due cose vanno di pari passo". È indubbio che l'Italia, sebbene l'accelerazione sia dovuta alle recenti e ripetute sferzate che ci sono arrivate dalla Cedu, appaia progressivamente più pronta e sensibile ad accogliere le sollecitazioni sul tema dei diritti e delle garanzie. E che sia quantomeno formalmente matura ad accogliere gli imperativi, le norme e i principi giuridici internazionali che il Diritto internazionale ci chiede di rispettare. Come ha puntualizzato il senatore Riccardo Mazzoni, vicepresidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, le misure che ogni singolo Stato deve assumere in termini di istituzioni preposte alla tutela dei diritti, si sono affermati e consolidati lungo un percorso cui hanno partecipato vari organi delle Nazioni Unite e avviato nel 1978, su richiesta dell'Assemblea generale, con un seminario sulle istituzioni nazionali e locali per la protezione dei diritti umani e successivamente quando, nel 1991, furono adottati i cosiddetti Principi di Parigi cui veniva affidato il compito di esporre in modo sistematico i criteri che dovrebbero informare queste istituzioni di tutela. Per giungere infine alla Conferenza di Vienna del 1993, in cui si ribadiva il ruolo giocato dalle istituzioni nazionali per la promozione e la tutela dei diritti umani soprattutto sotto il profilo della loro funzione di consulenza alle autorità competenti, del ruolo nella riparazione delle violazioni e nella diffusione dell'informazione e di educazione sui diritti umani. Insomma, quello che si è giocato a livello internazionale e che ha avuto inevitabili ricadute sul piano nazionale è un vero e proprio cambio di metodo che si sostanzia nel passaggio dalla protezione di diritti umani in termini di garanzie successive alla violazione e affidate alle strutture giurisdizionali preposte ad accertare fatti colpevoli e condanne oltre che all'indennizzo delle vittime, alla sollecitazione degli organismi internazionali di attrezzare i sistemi nazionali e locali con strutture specializzate indirizzate a proteggere i diritti umani in via preventiva. Proprio questo è lo spirito e la direttrice che il segretario generale dell'Ennhri, Debbie Kohner, ci ha sollecitato a prendere ed in cui si muoverebbe l'agenzia italiana. Superfluo ripetere che l'attenzione da parte degli organismi internazionali è già molto alta sul fronte di emergenze come le mutilazioni femminili, la moratoria sulla pena di morte, i matrimoni precoci e la libertà di culto, solo per citarne alcuni, tuttavia nel nostro Paese sia dal punto di vista culturale che di sistema e di azione politica ancora viviamo una pericolosa arretratezza. Dal generale terreno giurisprudenziale, all'immigrazione, dalle discriminazioni generazionali, alle garanzie nelle unioni civili al sistema dell'esecuzione penale. Ad attenderci, dunque, sotto lo sguardo dell'Onu, la vittoria o la perdita di un'altissima posta in palio. Quella, come detto dal presidente del Comitato Permanente sui Diritti Umani della Camera, Mario Marazziti, "di evitare che la tutela dei diritti umani sia ancora un lusso". La sfida non è rinviabile e obiettivamente, come ha giustamente denunciato Emma Bonino su quelli che preferisce definire diritti civili, "in questi anni in Italia non hanno vissuto tempi felici. Ma mi auguro che stia tornando quell'attenzione che ha aperto in Italia una grande stagione di riforme, e che la politica si sbrighi perché non si può sempre aspettare che sia la società civile ad esercitare pressione senza mai ottenere nulla". Apparentemente non resterebbe che stabilire, ci si augura con la maggior velocità possibile, se a correttivo delle infinite smagliature presentate dal nostro sistema, questa nuova istituzione richiestaci dall'Europa debba essere un organo monocratico identificabile con quello del Garante (ed è bene ricordare che quello dei detenuti ancora non è stato creato) oppure un organo collegiale. Purché in entrambi i casi siano rispettati i requisiti di indipendenza del garante stesso e dei commissari dallo Stato e dal Governo. Per quanto la nuova attenzione politica sembri certificare l'archiviazione di quella svogliatezza parlamentare che troppo spesso in passato ha puntato sulla mancanza di fondi per crearsi un alibi all'immobilismo, e nonostante la certezza, come ha spiegato Marazziti, che "tutti i ddl in materia al momento in Parlamento si muovono aderendo al testo di Parigi", la partita si fa tuttavia insidiosa e complicata. La volontà di operare verso un'istituzione affrancata dalla politica e dai giochi di potere e che coinvolga la società civile - ha spiegato con la consueta stringatezza il radicale Marco Perduca che del precedente ddl sui diritti umani in altra legislatura ha visto e curato genesi e percorso - non potrà mai avere esito virtuoso "se prima non si mette mano ad un processo di selezione, che tuttora non esiste, dei candidati, siano essi giudici della Corte Costituzionale, del Csm, o i commissari chiamati ad occuparsi dell'agenzia nazionale per i diritti umani. Ecco semplicemente perché fallì e il rischio vero è che ci si trovi di fronte al solito problema all'italiana senza contare che andrebbe previsto e istituito un vero procedimento di consegna delle relazioni alle commissioni competenti al fine di garantire un effettivo controllo dei casi di violazione effettiva dei diritti". Sarebbe auspicabile il ricorso ad un minimo di ragionevolezza che detti la tabella di marcia su un'iniziativa così fondamentale. L'esigenza di chiarire e stabilire specchiati criteri di selezione va affrontata prima del pur necessario coinvolgimento della società civile nella costituzione di quello che sarà il futuro, indipendente ed autonomo organo di tutela dei diritti e della garanzie individuali nel nostro Paese. Di quest'organismo l'Italia ha bisogno estremo, purché non si risolva nel consueto carrozzone su cui si riversano gli appetiti di troppi, alla stessa stregua delle mille e inutili Authority esposte alle solite lottizzazioni. Giustizia: meno processi pendenti e detenuti in calo, è bastato depenalizzare alcuni reati di Claudio Martelli (già ministro della Giustizia negli anni 1991-1993) Panorama, 23 luglio 2015 Meno processi pendenti, detenuti in calo. Miracolo? No. È bastato introdurre la depenalizzazione di alcuni reati. Il 14 luglio il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha presentato un rendiconto di poco più di un anno di attività. Il discorso, sobrio, quasi dimesso, è stato accompagnato (è lo stile di casa Renzi) da slide e grafici a go-go. In grande evidenza gli annunci di innovazioni tecnologiche e di riforme in corso d'opera, ma anche di risultati che come si dice "cantano". Tra questi la riduzione dell'arretrato, cioè dei processi civili pendenti, sceso da 5,2 a 4,5 milioni. Anche il numero dei detenuti e, conseguentemente l'affollamento delle carceri, sono diminuiti sensibilmente; un anno e mezzo fa erano 62 mila, oggi sono 52 mila. Poiché amnistie e indulti, cioè provvedimenti capaci di smaltire arretrati e ridurre il numero dei carcerati non ce ne sono stati, sorge l'interrogativo: come è stato possibile? Ebbene, quei risultati sono frutto dell'azione non del governo e del ministro della Giustizia in carica, ma dei loro predecessori; il governo Letta e la ministra Annamaria Cancellieri, entrambi, come si sa, dimissionati da Matteo Renzi. A svuotare le carceri è stato il decreto che dì fatto ha depenalizzato il piccolo spaccio, e a ridurre il contenzioso il disegno di legge sulla semplificazione del processo civile, iniziative fortemente volute da Cancellieri. Vero è che Orlando ha seguito quell'esempio, anzi, spinto da Renzi contrario a amnistia e indulto, ne ha fatto sistema con la disciplina penale della "particolare tenuità del fatto". Un decreto che contrariamente al titolo è tutt'altro che tenue, se si pensa che con esso potrebbero cessare, con poche eccezioni imposte dal Parlamento, gli effetti penali di 112 specie dì reati punibili fino a cinque anni; praticamente quasi tutti i reati più comuni. Starà al giudice valutare la tenuità (leggerezza, lievità) di fatti come corruzione, frode, furti, truffe, crimini in strada, atti persecutori-stalking, commercio di prodotti falsi, percosse e lesioni personali, mancata esecuzione dolosa di un provvedimento, millantato credito, minacce, adulterazione e commercio di prodotti e farmaci in danno della pubblica salute, mancata notificazione di un reato da parte di pubblici ufficiali, abbandono di persone minori o incapaci, accesso abusivo a un sistema informatico, cancellazione delle denominazioni di origine dei prodotti, appropriazione indebita, arresto illegale da parte di pubblico ufficiale, corruzione di minorenni, invasioni di terreni e uffici, omicidio colposo, omissione di soccorso, patrocinio o consulenza infedele, fabbricazione di documenti falsi, procurata evasione, rialzo o ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato, violazione di domicilio, manipolazioni di atti ufficiali anche se commesse da pubblici ufficiali. E potremmo continuare. Altro che amnistia e indulto! Siamo all'indulgenza plenaria, al giubileo che tutti assolve. Tutta questa indulgenza, ci ha tenuto a spiegare il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa, capo tuttora attivissimo della corrente di Magistratura indipendente (a proposito di separazione dei poteri) non comporta l'abrogazione di nessun reato, ma "soltanto" (sic!) la depenalizzazione in caso di colpa tenue e non reiterata. Eppure un'altra, diversa, strada per ridurre il carico dei processi pendenti che ingorga e paralizza il corso della giustizia c'era, c'è, e dovrebbe essere assunta a modello. È l'esempio virtuoso del Tribunale di Torino che adottando criteri amministrativi corretti, organizzando aziendalmente il lavoro, è riuscito ad azzerare le pratiche pendenti e a rendere efficiente e rapido il servizio giustizia. Senza depenalizzazioni di massa. O davvero si pensa che in un Paese in cui più dell'80 per cento dei reati resta impunito, in cui magistrati e politici lamentano l'illegalità diffusa e i cittadini vivono l'allarme e l'ansia per il dilagare della microcriminalità, l'inosservanza delle norme e gli abusi d'ufficio da parte dei pubblici ufficiali, la proliferazione delle frodi e dei furti (quelli in appartamento sono cresciuti del 200 per cento in un anno) la cura migliore sia la tolleranza di una modica quantità - o tenuità - di questi reati che sono di gran lunga non solo i più frequenti, ma anche quelli che più minacciano la convivenza civile? E che cosa dobbiamo pensare se il ministro della Giustizia da una parte annuncia iperbolicamente che "la prescrizione per la corruzione diventerà impossibile" e dall'altra mette la corruzione purché "tenue" nell'elenco dei reati depenalizzati? Che dire se annuncia una legge contro le intercettazioni e nello stesso tempo depenalizza la rivelazione dei segreti d'ufficio e delle rivelazioni inerenti a un procedimento penale e persino la diffamazione? Come commentare l'introduzione di una disciplina severissima per i cosiddetti eco-reati e, contemporaneamente l'obbligo di archiviare reati "tenui" come "la deviazione delle acque e le modifiche dello stato dei luoghi; i danneggiamenti a seguito di incendi e quelli che causano inondazioni, frane e valanghe nonché il crollo di costruzioni o altri disastri dolosi"? Eppure l'Associazione nazionale magistrati ha mostrato di gradire molto le nuove norme. Sì, si tratta della stessa Anm organizzata in correnti politiche che regola l'elezione del Consiglio superiore della magistratura disponendo di fatto della vita professionale dei magistrati; che esercita in loro nome una rappresentanza politica che non ha alcuna legittimazione costituzionale; che protesta, si mobilita e sciopera contro le leggi sgradite. Sì. La stessa Anm che attribuisce ai magistrati non quel che loro compete, cioè la repressione dell'illegalità, ma il "controllo di legalità" (un inesistente diritto/dovere di controllare la legalità dei comportamenti di tutti) ha mostrato entusiasmo e rivendicato la paternità di un provvedimento che introduce il principio della "modica quantità di reato". Come se il codice penale già non prevedesse diverse gradazioni di pena e attenuanti o aggravanti a secondo della gravità dei fatti. Il vero effetto della nuova legge sarà di dilatare il potere e la facoltà discrezionale del pubblico ministero e del giudice di pace di archiviare o di procedere nelle indagini e nel dibattimento. Perciò l'Anm canta vittoria. Esattamente come la partitocrazia sequestra la democrazia, così nel nostro dissestato stato di diritto la magistocrazia sequestra la giustizia. In una memorabile intervista Indro Montanelli, dopo aver sferzato la partitocrazia, dedicò parole di fuoco alla magistratura politicizzata bollandola come un male molto, molto peggiore. Giustizia: quel testo segreto del Csm che potrebbe cambiare le correnti della magistratura Alessandro Da Rold Il Foglio, 23 luglio 2015 Mentre continua la polemica tra governo e magistratura, tra ipotesi di nuove leggi sulle intercettazioni e proroghe del decreto Madia, sulle scrivanie di palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio Superiore della Magistratura, giace da qualche mese un provvedimento che se venisse approvato in consiglio rivoluzionerebbe le modalità di selezione dei vertici della magistratura italiana, dalle nomine dei procuratori capo delle procure più piccole fino alla Corte Suprema di Cassazione. Si tratta del "Testo Unico sulla Dirigenza": è un documento custodito in gran segreto che ha ricevuto appoggi trasversali dalle varie correnti delle toghe all'interno del consiglio, da Area fino a Magistratura Indipendente, ma che viene criticato all'esterno del Palazzo, in particolare da quelle antiche e conservatrici lobby di togati che in questi anni hanno voluto avere mani libere nella spartizione degli incarichi "direttivi e semi-direttivi". Per questo motivo se ne parla poco, anche perché se entrasse in vigore imporrebbe dei parametri molto più stringenti nelle nomine di capi e capetti. Chi ha redatto la proposta ha inserito le competenze, l'esperienza e persino i settori di specializzazione dei singoli magistrati che possono fare domanda per diventare, ad esempio, numeri uno di una procura. Sono in pratica degli indicatori oggettivi, che permetterebbero una selezione più "virtuosa" della classe dirigente della nostra magistratura. Non solo. C'è anche una parte dedicata alla valorizzazione delle donne magistrato. Ma sono "riforme" che cozzano con una magistratura che in questi anni si è distinta tra vecchi e nuovi conservatori, più che mai legata alle logiche correntizie, in guerra ormai da quasi vent'anni, sia all'interno sia all'esterno. Dai tempi di Tangentopoli fino all'eterna battaglia, ancora in corso, con l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Si tratta di una riforma interna di non poco conto, insomma, perché potrebbe modificare per sempre gli equilibri di selezioni di chi guiderà la magistratura italiana nei prossimi anni. Ma oltre a una certa diffidenza da parte delle toghe più conservatrici, c'è un problema di tempi. Se il documento non venisse approvato entro il 31 luglio, le prossime nomine si faranno ancora come una volta, con l'assegnazione talvolta chirurgica dei posti in base all'appartenenza alle varie correnti. I tempi sono importanti. È questo il vero nodo da risolvere. Perché tocca da vicino quella sfida sotterranea in corso da mesi nella magistratura dopo la riforma della pubblica amministrazione voluta dal governo di Matteo Renzi lo scorso anno. Quel decreto Madia che con un semplice articolo ("Disposizioni per il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni") ha portato al prepensionamento di quasi 400 magistrati solo nel 2015. E che dovrebbe rottamarne altri 900 entro il 2018. L'ultimo in ordine di tempo ad andarsene è stato Edmondo Bruti Liberati, storico esponente di Magistratura Democratica, che abbandonerà la procura di Milano il 16 novembre di quest'anno, dopo due anni di polemiche e contrasti con l'aggiunto Alfredo Robledo. Milano è sempre stata una fotografia perfetta per spiegare la spartizione delle correnti, dal momento che il Palazzaccio è dai tempi di Mani Pulite un avamposto delle toghe rosse. Nella procura milanese è in arrivo però il nuovo procuratore generale Roberto Alfonso, di Mi, la stessa di Robledo. Siciliano, ha lasciato Bologna non senza polemiche, denunciando l'omertà con un certo "sistema" politico e amministrativo, che si sarebbe autoprotetto in Emilia Romagna in questi anni. "Ho la sensazione" ha spiegato "che non ci sia stata collaborazione. Non abbiamo mai avuto una persona che sia venuta in Procura a raccontare, diversamente da quanto avvenuto in altri uffici del Paese. Sarebbe stato utile avere qualcuno che, ad un certo punto, parlasse e raccontasse se c'è un sistema che non funziona, corruttivo". Alfonso arriva in una procura di Milano dilaniata dalle guerre intestine e soprattutto dalle pesanti accuse che furono mosse a Bruti Liberati per aver privilegiato alcune inchieste invece di altre. Ora il procuratore capo dovrà essere sostituito. E il tribunale di Milano fa gola a molti, soprattutto alle vecchie correnti e alle vecchie logiche di una magistratura che troppo spesso non ha voluto cambiare. Giustizia: il Csm "promuove" il nuovo Codice antimafia di Nino Amadore Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2015 Il disegno di legge 1686 che reca "misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti" puntando a eliminare elementi di criticità del cosiddetto Codice antimafia ha molti aspetti positivi anche se necessita di alcune integrazioni. Si può riassumere così il parere votato all'unanimità dalla Sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura presieduta da Piergiorgio Morosini e proposto al plenum del Consiglio. La VI commissione del Csm (che ha competenze su dell'ordinamento giudiziario e dei rapporti istituzionali nazionali e internazionali), su richiesta del ministero della Giustizia, ha tenuto conto anche delle proposte formulate dalla commissione parlamentare Antimafia in particolare per i risvolti organizzativi e ordinamentali per la magistratura ma anche i tanti contributi provenienti dalle associazioni e dal mondo sindacale. Sul piano strettamente organizzativo, la VI commissione del Csm segnala come positive le novità che riguardano la trattazione prioritaria dei procedimenti relativi alle misure di prevenzione e la cosiddetta "previsione rafforzata" che istituisce sezioni specializzate presso i Tribunali e su questo i componenti del Csm giudicano "più radicale e condivisibile la proposta contenuta nel ddl 2737 proveniente dalla commissione Antimafia sulla creazione di tribunali distrettuali per le misure di prevenzione. Altro punto esaminato è quello che riguarda il ruolo degli amministratori giudiziari. In questo caso, secondo i componenti della VI commissione del Csm, "si registra un indubbio sforzo a definire organicamente il ruolo dell'amministratore giudiziario attraverso interventi sui criteri di nomina che valorizzano la trasparenza e la rotazione". È giudicata interessante l'introduzione del cosiddetto "Controllo giudiziario delle aziende" nei casi di agevolazione incolpevole e occasionale di interessi criminali. "In questa prospettiva - spiega Morosini - si registra un salto di qualità nella promozione del disinquinamento mafioso delle attività economiche, salvaguardando al contempo la continuità produttiva e gestionale delle imprese". Per quanto riguarda i miglioramenti del testo la Commissione segnala che le previsioni del Ddl in esame potrebbero "essere utilmente integrate da disposizioni finalizzate a tutelare i creditori delle aziende sequestrate consentendo all'amministratore di procedere tempestivamente ai pagamenti dei debiti privilegiando i creditori strategici". Altro suggerimento riguarda il tema della liquidazione dei compensi agli amministratori giudiziari: "Occorre distinguere - spiega Morosini - i trattamenti da riservare agli amministratori giudiziari con quelli previsti per i curatori fallimentari, perché si tratta di funzioni assai differenti". Giustizia: strage di Piazza della Loggia, Maggi e Tramonte condannati all'ergastolo di Michele Brambilla La Stampa, 23 luglio 2015 La sentenza d'Appello bis: i due riconosciuti colpevoli dopo 41 anni. I familiari delle vittime in lacrime alla lettura della sentenza. Il 28 maggio 1974 una bomba causò 8 morti e 100 feriti. Perché diciamo che è una sentenza che farà storia, lo vedremo tra poco. Ma intanto, i fatti. La seconda sezione della Corte d'assiste d'appello di Milano ha condannato all'ergastolo due ex militanti di estrema destra: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Il primo come mandante della strage, il secondo per aver ricoperto un duplice ruolo di collaboratore e depistatore. Sono due veneti, insomma due di quella cellula veneta di Ordine Nuovo che è sempre stata al centro delle indagini su quasi tutte le stragi del periodo 1969-1974, e che in un modo o nell'altro l'aveva sempre fatta franca. Lo stesso Maggi era già stato processato anche per la strage di piazza Fontana e assolto. Di quel "giro" di camerati sempre in bilico fra nostalgie naziste e collaborazioni con i servizi segreti delle odiate democrazie occidentali, s'era sempre detto che erano i veri registi ed esecutori delle bombe nel mucchio, cioè quelle messe nelle banche, nelle piazze, sui treni a fare stragi di innocenti per seminare il terrore nel Paese e favorire una svolta autoritaria o peggio ancora un colpo di Stato. Ma mai s'era arrivati a dimostrarne la colpevolezza. Sì, c'erano state varie condanne: ma poi cancellate in appello e in Cassazione. Questa volta, invece, la doppia condanna difficilmente finirà nel nulla come le precedenti. Gli ergastoli di Milano, infatti, sono stati praticamente quasi "ordinati" dalla Cassazione, e quindi ben difficilmente verranno annullati. Anche qui occorre una spiegazione. Per la bomba di piazza della Loggia, scoppiata durante un comizio dei sindacati, erano già stati celebrati talmente tanti processi che se n'era perso il conto: chi dice dodici in tre istruttorie, chi dice quattordici in cinque istruttorie. Tutti, comunque, finiti nel nulla. L'ultimo filone di indagine aveva portato sul banco degli imputati, oltre a Maggi e Tramonte, anche l'ordinovista Delfo Zorzi, il generale dei carabinieri Francesco Delfino e l'ex segretario del Msi Pino Rauti. Tutti e cinque erano stati assolti per insufficienza di prove il 16 novembre del 2010, e poi in appello il 14 aprile del 2012. Questa seconda sentenza, però, il 21 febbraio del 2014 è stata bocciata in parte dalla Cassazione. I giudici della Suprema Corte hanno accettato le assoluzioni di Zorzi, Rauti e Delfino: ma definito "ingiustificabili e superficiali" quelle di Maggi e Tramonte. Così hanno ordinato un nuovo appello, quello che si è appunto concluso a Milano: un appello nel quale i giudici hanno dovuto recepire le indicazioni della Cassazione. Qualcuno dirà che è archeologia giudiziaria, e che una giustizia tardiva non è una giustizia. Carlo Maria Maggi, un medico veneziano, ha oggi 80 anni ed è in gravi condizioni di salute: non andrà mai in carcere. Se è colpevole, in un certo senso finirà la sua vita da impunito. Maurizio Tramonte, "fonte Tritone" dei servizi segreti del Sid, ha invece solo 63 anni e per lui le cose potrebbero mettersi male il giorno in cui la Cassazione, come appare scontato, dovesse confermare l'ergastolo. Ma al di là della sorte e della libertà personale di queste due persone, la sentenza "farà storia", come dicevamo, perché mai si era arrivati a una simile chiarezza - pur al termine di un processo indiziario - nell'indicare le responsabilità di Ordine Nuovo e dei servizi segreti nelle stragi di quegli anni. Molte sentenze erano arrivate a dichiarare colpevoli persone non più processabili perché già assolte con formula definitiva (come Freda e Ventura per piazza Fontana) o addirittura già morte come Ermanno Buzzi, Marcello Soffiati e Carlo Digilio per piazza della Loggia. Ma mai dei vivi, per giunta ancora processabili. La lettura della sentenza è stata accolta senza applausi da un gruppo di avvocati e parenti ormai invecchiati nell'attesa di una giustizia che sembrava non poter mai arrivare. Manlio Milani, il presidente dell'associazione della vittime di piazza della Loggia, che quella mattina perse la moglie, ha ascoltato a capo chino. "Cosa provo?", mi ha detto pochi attimi dopo: "Non lo so. L'unica cosa che ho rivisto è stata mia moglie. Ho provato nostalgia, ma anche il valore di un segnale che abbiamo dato al Paese non mollando per 41 anni: l'impegno paga". Giustizia: strage Bardo "Touil è detenuto da due mesi senza evidenze di colpevolezza" di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2015 L'avvocato: "Il mio assistito è in carcere solo per una richiesta del governo di Tunisi". Il 22enne marocchino è accusato dal governo tunisino di aver avuto un ruolo nell'attacco del marzo scorso al Museo del Bardo. Ministro Orlando: "Detenuto perché l'autorità giudiziaria sta svolgendo degli accertamenti. Non c'è un automatismo tra richiesta di Tunisi e l'incarcerazione". Venti maggio 2015. Digos e Ros, dopo aver ricevuto un mandato di cattura dal governo tunisino, fanno irruzione nella sua casa di Gaggiano, nel milanese, e lo arrestano per l'attentato al Museo del Bardo del 18 marzo, a Tunisi. Oggi, a più di due mesi di distanza, Abdelmajid Touil, 22enne di origine marocchina, si trova ancora nel carcere di San Vittore in attesa di conoscere il proprio futuro. Le indagini sono andate avanti e sono affiorate le prime incongruenze tra le informazioni diffuse da Tunisi nei giorni seguenti all'arresto e le testimonianze di familiari e insegnanti. "Il mio assistito rischia almeno cinque mesi di carcere senza che vi siano evidenze di colpevolezza, solo per una richiesta del governo di Tunisi", dichiara Silvia Fiorentino, avvocato del giovane. "Non c'è un automatismo tra la richiesta del governo tunisino e l'incarcerazione - risponde il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Si trova in carcere perché l'autorità giudiziaria sta svolgendo degli accertamenti". La vicenda: accusato di aver partecipato all'attentato, ma presto affiorano le incongruenze. A dare il via all'operazione è stato il mandato di cattura internazionale inviato dal governo tunisino alle istituzioni italiane: "Touil ha avuto un ruolo nella pianificazione e nell'esecuzione dell'attentato", è convinta Tunisi, per questo deve essere arrestato. L'intelligence italiana individua il sospettato nell'area di Legnano, poi Digos e Ros stringono il cerchio fino a Gaggiano, dove il 20 maggio il 22enne finisce in manette. Secondo Tunisi, Touil ha avuto legami con gli attentatori che il 18 marzo hanno ucciso 24 persone e ne hanno ferite 45 all'interno e fuori dal museo poco distante dal Parlamento. Il governo del Paese nordafricano sostiene che il 22enne si sarebbe trovato nella capitale il giorno dell'attacco e avrebbe anche incontrato i due terroristi rimasti uccisi. Già da subito, però, la ricostruzione degli spostamenti di Touil presenta dei vuoti. Touil, sostenevano in una prima ricostruzione, sarebbe arrivato in Italia clandestinamente, con altri 90 immigrati, sbarcando vicino a Porto Empedocle. Lì sarebbe stato identificato dalle autorità che gli avrebbero consegnato un foglio di via, intimandolo a lasciare il Paese, lasciandolo però in stato di libertà. Da quel momento, di Touil si sono perse le tracce: il governo tunisino sostiene che il giovane, dopo aver partecipato all'attentato, sarebbe nuovamente partito per l'Italia, ma non ci sono nemmeno le prove che abbia lasciato il Paese. La richiesta dell'esecutivo guidato da Habib Essid è l'estradizione in Tunisia, dove per l'omicidio premeditato è prevista la pena di morte. Il giorno successivo all'arresto, però, i familiari, i compagni e gli insegnanti della scuola per stranieri che il ragazzo frequentava raccontano che il giovane si trovava in Italia nei giorni dell'attacco al Museo del Bardo. "Era in Italia, frequentava la scuola", racconta il fratello mostrando i quaderni con gli appunti di Touil. "Dal 16 al 19 era in classe con noi", dice invece una compagna di scuola. Dai registri di classe si scoprirà, poi, che il marocchino risulta aver preso parte alle lezioni il 16 o il 17 marzo e il 19. Date e luoghi confermati anche dalla procura di Milano. In questo modo, la ricostruzione del governo tunisino - che lo stesso giorno dell'arresto ridimensiona il ruolo del ragazzo parlando di "partecipazione indiretta" all'attentato - verrebbe invalidata: non si può escludere che Touil abbia preso parte all'organizzazione dell'attacco, ma è difficile pensare che possa essersi trovato fisicamente a Tunisi, con un solo giorno a disposizione per andare, compiere l'attentato e tornare in Italia. In carcere da due mesi, "ma ne rischia almeno altri 3". L'autorità giudiziaria ha preferito, però, tenere il 22enne nel carcere di San Vittore. "Sono in corso accertamenti indipendenti da quelli del governo tunisino - spiega Orlando - La decisione dei giudici viene da delle valutazioni che saranno state ponderate". "Il ragazzo è in carcere da due mesi ormai - dice il suo avvocato - e potrebbe rimanerci per almeno altri tre mesi. La Tunisia ha impiegato tutto il tempo a disposizione (massimo 40 giorni dall'arresto, ndr) per inviare la richiesta d'estradizione a Roma. Poi i documenti sono stati trasferiti a Milano e il giudice, che può avvalersi di un arco di tempo massimo di tre mesi per analizzarli e convocare la prima udienza, li ha ricevuti da pochi giorni". Ciò che più colpisce il legale è che Touil venga trattenuto senza che vi siano, al momento, chiari indizi di colpevolezza. "Non è vero che il giovane è in carcere perché ce lo ha chiesto il governo tunisino - ribatte il ministro della Giustizia - L'autorità giudiziaria sta svolgendo le proprie indagini e non esiste un automatismo che porti all'incarcerazione in caso di mandato di cattura internazionale o richiesta d'estradizione". Giustizia: processo Bossetti, il giallo del tentato suicidio "solo una crisi di rabbia in cella" di Gabriele Moroni Il Giorno, 23 luglio 2015 Nel pomeriggio di venerdì Massimo Giuseppe Bossetti, l'uomo processato per l'omicidio di Yara Gambirasio, non ha tentato il suicidio, strangolandosi con una cintura, nella sua cella nel carcere di Bergamo. Massimo Giuseppe Bossetti Il presunto assassino di Yara Gambirasio, in una foto tratta dal suo profilo Facebook Massimo Giuseppe Bossetti Il presunto assassino di Yara Gambirasio, in una foto tratta dal suo profilo Facebook. Nel pomeriggio di venerdì Massimo Giuseppe Bossetti, l'uomo processato per l'omicidio di Yara Gambirasio, non ha tentato il suicidio, strangolandosi con una cintura, nella sua cella nel carcere di Bergamo. È vero però, al di là delle smentite ufficiali, che al rientro dopo l'udienza in Corte d'Assise, prostrato, disperato, è stato colto da una violenta crisi di nervi in cui avrebbe minacciato anche di farla finita. Di qui la decisione di sottoporlo a una sorveglianza strettissima. In una relazione al Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il direttore della struttura di via Gleno, Antonio Porcino, "esclude che il detenuto possa aver messo in atto gesti anticonservativi". Al rientro in carcere, il commissario Daniele Alborghetti, che aveva seguito Bossetti in udienza, aveva però riferito al comandante di reparto "un episodio relativo ai rapporti tra i detenuto e la moglie". Infatti, il pubblico ministero Letizia Ruggeri aveva chiesto che venissero acquisite le nove ricevute di un motel di Stezzano dove Marita Comi, la moglie del muratore di Mapello, si sarebbe incontrata con un uomo e la testimonianza di due presunti amanti. La crisi, violenta. Un uomo sconvolto per quanto aveva appreso sul conto della sua compagna e i suoi presunti tradimenti. Un detenuto a rischio, tanto che il comandante di reparto aveva ritenuto opportuno impartire una disposizione di servizio al personale addetto alla sezione "protetti", dove si trova Bossetti: quella di effettuare "frequenti controlli sul predetto detenuto, al fine di prevenire e/o impedire qualsiasi gesto inconsulto". Nella relazione di servizio allegata alla comunicazione al Dap, il comandante di reparto Antonio Ricciardelli, oltre a smentire il tentato suicidio, riferisce un suo colloquio con il detenuto nella mattinata di sabato: "In quella occasione lo stesso mi riferiva di essere deluso per i comportamenti tenuti dalla moglie, di cui aveva avuto conoscenza nel corso dell'udienza. In quella sede ho raccolto lo sfogo del detenuto che peraltro non ha mai paventato intenti anticonservativi". Ieri Bossetti è stato sottoposto a due visite: lo psicologo che lo segue e lo psichiatra Alessandro Meluzzi, consulente della difesa. "L'ho incontrato - dice Meluzzi - per un'ora. Ha ricostruito l'episodio e il suo dialogo con il comandante. È una persona in gravissima sofferenza psichica. L'ho visto provatissimo, affranto. C'è il rischio che reiteri il suo gesto. Mi ha raccontato che già all'inizio della detenzione si era munito di lacci e altro. Chiederemo che venga affidato a una comunità terapeutica in provincia di Bergamo. Chiederemo una perizia che verifichi la sua compatibilità con la vita carceraria e la capacità di stare in giudizio". Donato Capece, segretario generale del sindacato della polizia penitenziaria Sappe, smentisce l'atto autolesionistico. Smentisce Francesco Dettori, procuratore di Bergamo: "Sono state fatte tutte le verifiche. L'episodio non esiste". Claudio Salvagni, difensore di Bossetti, polemizza a distanza: "Non credo che si debba arrivare alla esegesi dei termini ‘tentativo di suicidio'. Se per tentato suicidio si intende che Bossetti si sia appeso, questo non è avvenuto e spero che non avvenga. Se invece intendiamo qualcosa volto a compiere un gesto autolesionistico, che ha immediatamente richiamato l'attenzione degli agenti della sorveglianza, questo è avvenuto". Giustizia: Stefano Cucchi; accolto ricorso contro le assoluzioni, a dicembre la Cassazione Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2015 La Suprema Corte valuterà la legittimità della sentenza del 31 ottobre 2014 con cui la Corte d'Assise d'appello di Roma ha assolto tutti gli imputati nel processo per la morte del ragazzo arrestato nel 2009. Il 15 dicembre prossimo la Cassazione valuterà la legittimità della sentenza del 31 ottobre 2014 con cui la Corte d'Assise d'appello di Roma ha assolto tutti gli imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi. La Procura generale e i familiari del ragazzo avevano depositato ricorso contro la decisione dei giudici. Ora l'annuncio che ad occuparsi della vicenda sarà la quinta sezione della Suprema Corte. Sulla morte del ragazzo, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell'ospedale ‘Sandro Pertinì, contrastanti gli esiti del giudizio di primo grado rispetto a quello d'appello. Nel giugno 2013 la III Corte d'assise di Roma condannò per omicidio colposo i medici del ‘Pertinì: al primario del reparto protetto per i detenuti, Aldo Fierro, inflisse due anni di reclusione, ai medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo un anno e 4 mesi ciascuno (un ulteriore medico, Rosita Caponetti, fu condannata a otto mesi per il reato di falso ideologico). Furono invece assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. All'udienza di ottobre dello scorso anno i giudici d'appello ribaltarono la sentenza per i medici. La I Corte d'assise d'appello, infatti, mandò assolti tutti gli imputati. Notifiche via Pec a gogò, validi gli invii a non imputati e/o indagati di Dario Ferrara Italia Oggi, 23 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezioni Unite Penali - Sentenza n. 32243/15 Salve le notifiche via Pec alla torinese nel settore penale. Anche dopo il decreto sviluppo bis sono perfettamente valide le comunicazioni inviate da Tribunale e Procura della Repubblica di Torino via posta elettronica certificata a persone diverse da imputati e indagati, e dunque in primis ai difensori. Il tutto a partire dal 1° ottobre 2012, vale a dire dalla data indicata dal decreto ministeriale di autorizzazione. Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza 32243/15, pubblicata il 22 luglio. Strumento idoneo Le notifiche via Pec affondano le radici nel decreto legge 112/08, ma la macchina organizzativa a lungo non è pronta. I primi e soli uffici a risultare in possesso dei requisiti di funzionalità sono il Tribunale e la Procura torinesi che vengono autorizzati a procedere dal dm del 12 settembre 2012. Ma pochi giorni dopo è emanato il decreto legge 179/12, con il nuovo testo normativo che appare sostanzialmente "sovrapponibile" a quello preesistente. E in base a un'interpretazione strettamente letterale delle norme è stato affermato che prima del 15 dicembre 2014, in assenza di un provvedimento espresso, non era possibile effettuare notifiche con l'email dal bollino blu. In realtà l'incombente via Pec nei confronti del difensore e di tutti soggetti diversi dall'indagato/imputato trova fondamento nell'articolo 148 comma 2 bis Cpp, che è stato introdotto nel 2001. E ciò perché in particolare le comunicazioni all'avvocato possono essere effettuate con ogni strumento idoneo fi n dall'avvento della legge 438/01. Ricorso respinto, dunque. Senza convivenza non scattano i maltrattamenti in famiglia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 luglio 2015 n. 32156. L'aggressione fisica e verbale ad una persona cui si è legati sentimentalmente, in mancanza però di una vera e propria convivenza, non fa scattare il reato di maltrattamenti in famiglia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 32156/2015, affermando che l'assenza di una unione stabile non produce neppure quella situazione di "minore reattività delle vittima" all'origine della particolare tutela penale. Il caso - La coppia, infatti, non aveva mai voluto instaurare una convivenza "sussistendo esclusivamente un legame sentimentale, con carattere non continuativo, la cui stabilità era rimessa alla determinazione emozionale dei due nei vari momenti della sua persistenza". Così anche se in alcuni casi, come a seguito di un incidente stradale, la relazione si era fatta più stretta, arrivando a prestarsi "assistenza reciproca", neanche in quel caso però si erano risolti "a condividere l'abitazione, risultando per ciascuno dei due la decisione di fermarsi a casa dell'uno o dell'altro, rimessa alla determinazione del momento". Al contrario, da quando la donna si era offerta come rappresentante legale della società costituta insieme, il legame più saldo sembrava essere quello costituitosi nel campo degli affari. Ed a bene vedere, proprio a questo rapporto andavano ricondotti la maggior parte degli atti aggressivi fisici e verbali "il che ulteriormente non consente di correlarli univocamente a quell'atteggiamento di costante prevaricazione e squalificazione dei componente nel nucleo familiare, che connota di tipicità li reato contestato". La motivazione - Va dunque escluso il reato di maltrattamenti in famiglia "la cui applicazione - spiega la Corte -, per espressa disposizione normativa, è circoscritta ad attività di natura abituale che maturino nell'ambito di una comunità consolidata - famiglia, piccola azienda, contesti nel quali si realizza un affidamento di natura precettiva o di accudimento, anch'essi con carattere di tendenziale stabilità - la cui specifica elencazione, oltre a porre all'interprete rigidi criteri ermeneutici, connessi all'esigenza della necessaria tipicità fattispecie penale, impone di ricercare le caratteristiche tipiche di tali condotte anche nelle situazioni ad esse assimilabili". In questa direzione, prosegue la sentenza, rientra l'allargamento della fattispecie alla cosiddetta "famiglia di fatto", sempre però ricercando in tali formazioni quegli stessi caratteri di "stabilità", "mutua assistenza" e condivisione del progetto di vita idonei ad escluderne la "precarietà e l'occasionalità". Infatti, è stata proprio la consapevolezza di una "facile incubazione" nelle formazioni sociali ristrette di "gravi forme di prevaricazione, correlate alla maggiore difficoltà di reazione della vittima" a condurre il legislatore ad assicurare in questi casi una tutela rafforzata. Nulla di tutto questo però è rintracciabile nel caso in questione dove "neppure in nuce" si sono realizzati gli estremi della famiglia di fatto, "poiché è mancata qualsiasi manifestazione tangibile di stabilità". Costruzione abusiva, no al sequestro preventivo senza periculum in mora di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 22 luglio 2015 n. 31945. Il carattere abusivo di una costruzione non autorizza di per sé l'adozione della misura cautelare del sequestro preventivo, dovendo il tribunale sempre motivare in ordine al periculum. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 31945/2015, accogliendo il ricorso del proprietario dell'immobile. Il caso - La vicenda era venuta alla luce grazie alla denuncia della stessa imputata che venuta a conoscenza della irregolarità commessa dal direttore dei lavori - un ampliamento di circa 25-30 mq a fronte di un edificio di 1.300-1400 mq - aveva spontaneamente sporto la denuncia da cui poi era scaturito il provvedimento di sequestro ex articolo 44 lett. c) del Dpr 380/2001. Nel ricorso la proprietaria aveva lamentato la mancanza di motivazione circa il periculum in mora "avendo il Tribunale affermato che l'ultimazione dei lavori non incide di per sé sul periculum senza spiegare peraltro la componente rivestita dalla libera disponibilità della cosa". La motivazione - La Suprema corte nell'accogliere le doglianze della donna ha ricordato di aver affermato in più occasioni che "non ogni costruzione abusiva ultimata è tale da incidere sull'assetto del territorio, e come pertanto la lesione debba essere di volta in volta dimostrata in rapporto alla fattispecie concreta" (sentenza n. 11146/2002). E in un'altra pronuncia (n. 21931/2012) ha altresì chiarito che "il giudice è tenuto a verificare, nel rispetto del principi di adeguatezza e gradualità della misura insiti nella previsione dell'articolo 321 del codice procedura civile, se l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze del reato possano essere evitati con l'adozione di misure meno invasive". Infatti, conclude la sentenza (rifacendosi questa volta al precedente n. 15717/2009) "il provvedimento di sequestro preventivo non deve essere inutilmente vessatorio, ma deve essere limitato alla cosa o alla parte della cosa effettivamente pertinente al reato ipotizzato e deve essere disposto nei limiti in cui il vincolo imposto serve a garantire la confisca del bene o ad evitare la perpetuazione del reato". Mentre, nel caso affrontato, il Tribunale si era limitato "ad affermare in termini assoluti e senza effettuare il dovuto raffronto con i dati concreti, che l'ultimazione dei lavori non incide di per sé sul periculum in mora". La marcatura CE (China Export) inganna il consumatore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2015 Tribunale di Padova - Sentenza 30 gennaio 2015 n. 263. "La decettività della marcatura CE (China Export), che si distingue da quella europea per la sola, impercettibile, diversa distanza tra le due lettere, è da sola sufficiente ad ingenerare nel consumatore la convinzione che la merce abbia le caratteristiche e gli standard europei". È un passaggio della sentenza del Tribunale di Padova (30 gennaio 2015 n. 263) che ha condannato un commerciante di origine cinese a due mesi di reclusione, ed al pagamento di una multa, per frode nell'esercizio del commercio per aver falsificato il marchio comunitario. Il caso - La vicenda parte da un blitz della Guardia di Finanza per contrastare il fenomeno della vendita di occhiali contraffatti che aveva portato alla scoperta di quasi 5mila occhiali da sole, e 1.700 da vista, con il marchio CE contraffatto all'interno di un box situato in una sorta di centro commerciale e dunque con destinazione alla vendita. La giurisprudenza - Nel confermare l'impianto accusatorio, e partendo dall'assunto che l'interesse tutelato dall'articolo 515 c.p. è quello del "leale e scrupoloso comportamento nell'esercizio dell'attività commerciale", la sentenza ripercorre alcune recenti pronunce della Cassazione che hanno meglio definito la fattispecie di reato. La sentenza n. 9310/2013 ha riconosciuto che "l'apposizione della marcatura CE contraffatta è astrattamente riconducibile alla fattispecie contemplata dall'art. 515 cod. pen.". Infatti, la funzione della marcatura CE "è la tutela degli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatori dei prodotti mediante la attestazione della rispondenza alle disposizioni comunitarie che ne prevedono l'utilizzo". E la stessa, "pur non fungendo da marchio di qualità o di origine, costituisce comunque un marchio amministrativo, che evidenzia la possibilità di libera circolazione del prodotto nel mercato comunitario" (Cassazione 36228/2009). Dunque, "la marcatura CE attesta la conformità del prodotto a standard minimi di qualità e costituisce, pertanto, una garanzia della qualità e della sicurezza della merce che si acquista" (n. 23819/2009). La motivazione - Per cui, osserva il tribunale, è evidente che la consegna di merce recante una marcatura contraffatta, attestante la rispondenza a specifiche costruttive che assicurano la sussistenza dei requisiti di sicurezza e qualità richiesti dalla normativa comunitaria, determina senz'altro quella divergenza qualitativa necessaria per configurare l'illecito penale. E, prosegue la sentenza, se "la consumazione del reato coincide con la consegna materiale della merce all'acquirente … per la configurabilità del tentativo, non è affatto necessaria la sussistenza di una qualche forma di contrattazione finalizzata alla vendita", essendo sufficiente "l'accertamento della destinazione alla vendita di un prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite" (n. 9310/2013). Infine, configura il tentativo, anche la "mera detenzione in magazzino di merce non rispondente per origine, provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o pattuita, trattandosi di dato pacificamente indicativo della successiva immissione nella rete distributiva di tali prodotti (n. 3479/2009). Non c'è danno biologico se la morte è istantanea di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2015 Nel caso di morte istantanea in un incidente stradale agli eredi non deve essere liquidato il danno biologico. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 15350/15, depositata ieri) intervengono per sanare un conflitto giurisprudenziale sorto "consapevolmente" lo scorso anno (sentenza 1361/14) quando una sezione ravvisò l'incoerenza sistematica di una morte "priva di conseguenze risarcitorie", fatto "non accettabile dalla coscienza sociale". Il caso su cui ieri si sono pronunciate le Sezioni unite riguardava un tragico incidente stradale avvenuto in Piemonte e in cui un giovane automobilista (corresponsabile al 20% per eccesso di velocità) aveva perso la vita a causa di una manovra improvvisa di un altro veicolo che gli aveva tagliato la strada. Nell'impatto, avvenuto a 103 km/h, l'uomo era deceduto istantaneamente. Nei 90 anni di repertori precedenti, visto che il punto di riferimento è la decisione 3475 del 1925, non era mai stato messo in discussione il principio secondo cui il diritto risarcibile sia solo quello alla salute, poiché "pretendere che la tutela risarcitoria sia data "anche" al defunto (per il "bene vita", e come tale poi trasmessa agli eredi, ndr) corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti". Obiezione immediata, stando al precedente contrario, sarebbe quindi di lasciare privi di tutela - risarcitoria - gli eredi, validando la sintesi "meglio uccidere che ferire"? Sul punto le Sezioni unite ricordano invece che per l'omicidio colposo è prevista la sanzione penale "la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività, senza escludere il diritto ex articolo 185, 2° comma del codice penale al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato". La sentenza "contraria" del 2014 pecca, secondo l'estensore, anche sotto un altro profilo: "L'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il "bene salute" e il "bene vita" sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità". In sostanza, si tratterebbe di una duplicazione formale di tutela a fini meramente risarcitori, come già argomentato. Secondo la corte, ancora, "una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio" mentre "nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio sia acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo". Fissati i limiti del patrocinio con la Pa l'avvocato va retribuito per il lavoro svolto di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 22 luglio 2015 n. 15454. All'avvocato che abbia prestato patrocinio per un ente pubblico non può essere disconosciuto il pagamento per le prestazioni professionali effettuate, solo perché queste ultime non erano state determinate contrattualmente. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza 15454/2015. La Corte si è trovata alle prese con un avvocato che aveva chiesto il riconoscimento della propria parcella per il patrocinio svolto a favore della Camera di commercio di Frosinone. Il giudice di pace aveva riconosciuto le ragioni del professionista, mentre il Tribunale si era schierato per l'accoglimento dell'opposizione proposta dall'Ente pubblico. Di qui il ricorso per Cassazione dell'avvocato. I limiti di operatività - La Corte ha precisato che il contratto di patrocinio è operativo con il rilascio al difensore della procura così come previsto dall'articolo 83 del Cpc, visto che l'esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, mediante l'incontro della volontà delle parti, l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo possibile l'identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell'Autorità tutoria. Nel caso concreto la procura generale rilasciata all'avvocato tramite atto notarile del novembre 1998 non individuava con esattezza l'oggetto del contratto, perché si riferiva genericamente a tutte le cause di recupero crediti, difettando così del necessario collegamento con l'atto difensivo poi sottoscritto dal difensore. Quest'ultimo, tuttavia, nel ricorso per Cassazione ha criticato l'operato del giudice di merito secondo cui la procura non individuava con esattezza l'oggetto del contratto, essendo genericamente riferita a tutte le cause di recupero crediti. E così argomentando il Tribunale sarebbe incappato nel macroscopico errore di non considerare che l'oggetto era invece ben determinato. Il professionista aveva ricevuto, infatti, l'incarico di agire in relazione ai soggetti contro i quali agire (i creditori della Camera di commercio) e l'oggetto del mandato (i creditori della stessi). Riteneva l'appellante, inoltre che lo ius postulandi era stato espressamente conferito anche per intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso. In ogni caso - si legge nel ricorso del professionista - l'idoneità o meno della procura andava verificata in concreto e cioè in relazione all'attività professionale da lui espletata e della quale lo stesso ne chiedeva la remunerazione. Posizione della Corte - La richiesta del legale ha trovato pieno accoglimento da parte della Corte che ha ritenuto illegittima ogni forma di censura aprioristica di pagamenti richiesti dal professionista che abbia agito per l'ente pubblico. Di qui il principio di diritto secondo cui "in tema di contratti della pubblica amministrazione che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ex articolo 83 del cpc, qualora sia puntualmente fissato l'ambito delle controversie per le quali opera la procura stessa". Nel caso specifico pertanto vanno riconsiderate tutte le cause attive e passive promosse o da promuoversi innanzi a qualsiasi autorità giudiziaria (esclusa la Corte di cassazione) aventi a oggetto il solo recupero dei crediti della stessa Camera di commercio mandante, con espressa autorizzazione a tal fine di intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziative e dare loro impulso. Conclusioni - Il Tribunale di Cassino dovrà quindi effettuare una comparazione tra l'operato del legale e quanto previsto dal contratto e in base a questo remunerare il legale. Lettere: una giustizia sommaria fondata sulle intercettazioni di Andrea Marcenaro Panorama, 23 luglio 2015 Noi italiani, punto primo, siamo una massa di deficienti. Sappiamo da 30 anni di essere intercettati, eppure da 30 anni raccontiamo ai telefono come ammazzeremmo la moglie che ha bruciato le polpette, o il capoufficio perché ha promosso un altro. Quella poi scivola sulla cera, quello inciampa per le scale, e ti danno l'ergastolo, Punto due. Non c'è più la privacy, dice. È da mo' che non c'è. Avete fatto un monumento di Antonio Di Pietro? Bene, le intercettazioni a tappeto (a tappeto: quelle mirate sono cosa diversa) da lì nascono. Da lì e dalla smania antimafia fasulla per cui, se un poliziotto bazzica un mafioso che gli fa da spia, mafioso diventa il poliziotto. Quello tra intercettazioni penalmente rilevanti e penalmente irrilevanti, punto tre, è un distinguo che vale e non vale: nella giungla in cui siamo, la penalmente irrilevante ammazza l'avversario (vedi Rosario Crocetta) come l'altra. Brevi manu, sui giornali. E chi prima aveva protestato per l'intercettazione vergognosa che aveva incastrato l'amico, poi applaudirà quella altrettanto vergognosa che sega il nemico. È il punto quattro. Il punto quinto è il più semplice e riguarda soldi e carriere dei magistrati (trovatene uno, colpevole di aver passato alla stampa una notizia da non dare) e dei giornalisti. Perché non esiste direttore che si rifiuti di pubblicare spazzatura e che prenda a calci il cronista che gliel'ha portata, E perché appena qualcuno (l'ultimo è Matteo Renzi) accenna a regolare la situazione indecente, la stampa che ci marcia grida al bavaglio sull'informazione. E il magistrato, insieme a qualche Rodotà, applaude. Laddove, altro che bavaglio: un lenzuolo matrimoniale arrotolato ci vorrebbe. Lettere: vittime dello stupro e del pregiudizio, la difficile impresa di essere credute di Elvira Serra Corriere della Sera, 23 luglio 2015 Perché è così difficile credere alla vittima di uno stupro? Perché, di fronte a una donna che sporge denuncia, ci si concentra anzitutto sul suo contegno, sul suo abbigliamento, sulle sue frequentazioni? Se succede in una galleria buia, allora è lei che se l'è cercata. Se succede con un gruppo di amici, allora è lei che c'è stata. Sembra quasi che per essere credibile, una donna debba aver avuto un'arma puntata contro. Della sentenza di assoluzione in Appello per i sei imputati accusati di aver violentato sette anni fa in un'auto a Firenze una ragazza di 23 anni, loro amica, colpiscono le motivazioni, quel dito puntato contro il comportamento ambiguo della vittima e la sua "condotta tale da far presupporre che, se anche non sobria, era tuttavia presente a se stessa..." e pertanto "i ragazzi possono aver male interpretato la sua disponibilità". Ecco quella che Emer O Toole, studiosa della School of Canadian Irish Studies alla Concordia University, ha definito qualche giorno fa sul Guardian l'apologia dello stupro. La docente ne ha scritto a proposito di Magnus Meyer Hustveit, condannato a sette anni per aver abusato almeno una decina di volte della sua fidanzata mentre dormiva. Il giudice irlandese Patrick McCarthy gli ha sospeso la pena perché ha apprezzato la sincerità del giovane, il fatto che senza la sua piena collaborazione il processo non si sarebbe potuto svolgere: chi altro, se non lui, avrebbe potuto confermare la versione della compagna? Non c'è qualche analogia, fa notare O Toole, con quanto è successo a Bill Cosby? Eravamo tutti scettici sull'autenticità delle accuse mosse da 42 donne e abbiamo cominciato a prenderle sul serio soltanto dopo che l'attore ha ammesso di averle drogate prima di abusarne. Dobbiamo forse ringraziare Bill Cosby o Magnus Meyer Hustveit e tutti gli stupratori che rendono credibili le loro vittime? E a loro, invece, cosa dobbiamo dire? Soltanto: "scusa". Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere senz'acqua, docce razionate e problemi igienici di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 23 luglio 2015 Nella Casa circondariale, in cui ci sono 1.100 detenuti, l'impianto idrico non è collegato alla rete dell'acquedotto comunale. Santa Maria Capua Vetere, carcere senz'acqua. Docce razionate e problemi igienici nella struttura, con grave disagio anche per il personale in servizio. Il Garante dei detenuti della Campania Adriana Tocco ha lanciato l'allarme dopo un sopralluogo con la consigliera regionale Pd Enza Amato. Nel carcere, in cui ci sono 1.100 detenuti e 1.300 agenti, l'impianto idrico non è collegato alla rete dell'acquedotto comunale. "L'acqua erogata viene quindi prelevata da un pozzo semiartesiano e filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione - hanno spiegato il garante e la consigliera. È una soluzione insufficiente, in particolar modo nel periodo estivo e per i piani più elevati dei reparti detentivi dove l'acqua praticamente c'è solo nelle prime ore del mattino. C'è una situazione tesa e difficile. Circa 200 detenuti hanno chiesto il trasferimento. Alcuni ci hanno raccontato che non possono lavarsi tutti i giorni, che l'acqua è razionata e che c'è un problema igienico per le cucine. Questo nonostante gli sforzi della Direzione per alleviare i disagi". Si tratta di una situazione "paradossale" per Giuseppe Moretti, presidente dell'Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria (già Uglpp), che ha rivolto un appello al provveditore. "Ingenti fondi sono bloccati per questioni burocratiche - ha protestato Moretti - ed è ancora più assurdo che questa situazione si verifichi in una struttura che recentemente ha visto incrementare il numero dei detenuti a seguito dell'apertura di un padiglione all'avanguardia. Siamo certi che a livello regionale il provveditore abbia attivato tutte le necessarie cautele per risolvere questi annosi problemi. Tuttavia non è più tollerabile che l'efficienza di una struttura così imponente si perda, lasciateci la battuta, in un bicchier d'acqua vuoto". La direzione sta facendo il possibile per andare incontro alle esigenze dei detenuti e ridurre al massimo i disagi, fornendo ai reclusi due litri di acqua potabile al giorno. Acqua che si aggiunge a quella acquistata dai detenuti per le proprie esigenze. Napoli: Giulio Murolo ha tentato il suicidio, "l'infermiere killer" è detenuto a Poggioreale Askanews, 23 luglio 2015 Le condizioni psichiche e fisiche di Giulio Murolo, l'infermiere killer che, lo scorso 15 maggio a Napoli, uccise quattro persone e ferite altre sei, una delle quali è deceduta la scorsa settimana, sono sempre più "disperate". A raccontarlo è l'avvocato Carlo Bianco, legale dell'omicida rinchiuso nel carcere napoletano Poggioreale. Il penalista ha spiegato di aver incontrato il suo assistito la settimana scorsa e di considerare la sua condizione "non migliorata, ma peggiorata". Murolo "è sempre più abbattuto, disperato e in preda a violente crisi di pianto". Un racconto che giunge a poche ore dalla notizia del suo tentativo di suicidio avvenuto all'interno di una cella del Padiglione Firenze della casa circondariale partenopea. Il pluriomicida ha assunto una dose massiccia di farmaci ed è stato trasferito momentaneamente presso l'ospedale Cardarelli dove gli è stata praticata una lavanda gastrica e un ricovero in osservazione. L'estremo gesto nella giornata di lunedì ma poi il 48enne, che sparò prima al fratello e alla cognata e, all'impazzata, soccorritori e passanti dal balcone del suo appartamento del quartiere Miano, è stato riportato nell'istituto penitenziario. "Anche in presenza dei suoi familiari - ha aggiunto l'avvocato Bianco - Murolo è spesso preda di attacchi di pianto nonostante stia costantemente sotto l'effetto di tranquillanti e psicofarmaci. Adesso, dopo due mesi, ha iniziato a realizzare ciò che ha commesso e non si dà pace. In più di un'occasione mi ha rivelato di volerla fare finita. Non riesce a perdonarsi tutto il male che ha commesso e la sua condizione psicologica è sempre più critica". Il legale ha poi ribadito: "Sin dal primo momento ho palesato la mia preoccupazione circa l'incolumità del mio assistito. Adesso più che mai inizia a essere consapevole di avere dei disturbi, ha realizzato quello che ha fatto e delle cinque persone morte". Murolo, dopo essere stato in isolamento per alcune settimane dopo l'arresto e monitorato 24 ore su 24, era stato trasferito in una cella insieme ad altri quattro-cinque detenuti. Lunedì il tentativo di compiere l'estremo gesto. È probabile che, anche alla luce della sua esperienza ospedaliera, abbia conservato un congruo numero di pasticche da assumere tutte insieme per uccidersi. I suoi compagni di cella l'hanno, però, salvato chiedendo aiuto alle guardie carcerarie. Modena: Sappe; due detenuti tentano il suicidio, scoppia il caos al carcere di Sant'Anna modenatoday.it, 23 luglio 2015 Grave un carcerato che ha tentato di togliersi la vita sieri nel penitenziario di Modena. Un altro salvato dagli agenti. Approfittando della confusione due detenuti stranieri hanno aggredito due uomini della Polizia penitenziaria, spedendoli all'ospedale. Non si placa l'ondata di violenza che investe il carcere di Modena, teatro anche ieri di gravissimi episodi. Tutto è nato dal gesto estremo di due detenuti italiani, uno di circa 55 anni e l'altro molto più giovane, noti per soffrire di problemi psichiatrici. I due hanno tentato il suicidio nelle proprie celle, ma fortunatamente il gesto è stato notato in tempo dagli agenti della Polizia Penitenziaria. Il più giovane dei due è stato tratto in salvo immediatamente, mentre per il secondo la situazione è apparsa subito drammatica. Dopo un primo tentativo di rianimazione effettuato dal personale medico giunto sul posto con un'ambulanza, il carcerato è stato ricoverato in ospedale. Attualmente si trova in rianimazione e le sue condizioni sono molto gravi. Durante le fasi dei soccorsi, due ispettori e quattro agenti si sono dovuti dare da fare per riportare alla calma due detenuti stranieri, un senegalese è un albanese. Uno di loro si era infatti barricato nella guardiola degli agenti approfittando della confusione per poi aggredirli. Due agenti sono rimasti feriti nella violenta colluttazione e hanno dovuto fare ricorso alle cure ospedaliere. Si tratta di fatti gravi, ma purtroppo ormai abituali, che si aggiungono a quelli dei giorni e dei mesi scorsi e che sono stati resi noti da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale. "Chiediamo che a Modena, dove ormai la situazione sarebbe sfuggita di mano se non fosse per la professionalità della polizia penitenziaria, venga fatta un'ispezione urgente per verificare la corretta organizzazione dell'istituto - attaccano i sindacalisti - e chiediamo altresì che venga ripristinato il regime chiuso per tutti i detenuti che non rispettano le regole. Ci riferiscono infatti i colleghi che uno dei due si era già reso responsabile di fatti gravi, ma nonostante ciò continua a permanere nel regime aperto. A Modena si verificano dai cinque ai dieci eventi criteri al giorno. I due detenuti sono stati arrestati e denunciati all'autorità giudiziaria e domani saranno giudicati per direttissima". Cagliari: Uil-Pa; dopo una rissa detenuto si procura ferite e sputa sangue ad un agente Ansa, 23 luglio 2015 Dopo una lite tra reclusi nel cortile passeggi, un detenuto del carcere di Uta si è rifiutato di rientrare in cella aggredendo un agente penitenziario. Si è quindi procurato una ferita in bocca ed ha sputato il sangue in faccia ad un altro agente che era intervenuto per riportare la calma all'interno della sezione di media sicurezza. A denunciare il fatto è la Uil penitenziari con il coordinatore regionale e provinciale, Michele Cireddu e Raffaele Murtas. In stato di choc l'agente colpito dal sangue è stato trasportato in infermeria quindi trasferito al pronto soccorso dell'ospedale cittadino. "È l'ennesimo episodio critico nell'istituto di Uta - sottolinea il sindacalista. La Uil continua a denunciare la scellerata decisione dei vertici dell'Amministrazione di ammassare i detenuti nelle sezioni senza averli selezionati almeno nelle prime fasi iniziali. Per contro nell'ultima mobilità del personale sono stati trasferiti solamente 5 poliziotti e 4 poliziotte a fronte di una carenza organica di 130 agenti e nonostante centinaia di sardi abbiano presentato richiesta di trasferimento a Uta". "Le condizioni di questo istituto non sembrano interessare ai vertici regionali - attacca Cireddu - il personale di Polizia penitenziaria si sta sobbarcando le problematiche che era facile prevedere ma che non sono state pianificate con la giusta attenzione. Ci batteremo con tutte le forze - promette - perché gli agenti hanno il diritto di lavorare con dignità e con la dovuta sicurezza". Cagliari: "Letture caldissime" in carcere con "Fuori dalla Gabbia" di Cristiano Scardella Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2015 Secondo appuntamento domani mattina nella Biblioteca della Casa Circondariale di Cagliari-Uta con "Letture caldissime" la rassegna promossa dall'associazione "Socialismo Diritti Riforme", in collaborazione con l'Area Educativa dell'Istituto. Si tratta del secondo dibattito dopo quello di giovedì scorso nato intorno al libro "Mai" di Annino Mele, con i contributi, tra gli altri, di Claudio Massa, responsabile dell'area educativa, di Giampaolo Cassitta, in rappresentanza del Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, dei giornalisti Flavia Corda, Giommaria Bellu, Vito Biolchini, dell'avvocato e consigliere regionale Anna Maria Busia, oltre a quelli dell'autore, di alcuni cittadini privati della libertà e volontari. L'incontro partirà dal volume "Fuori dalla Gabbia" di Cristiano Scardella, il libro che rievoca la tragica vicenda del fratello dell'autore Aldo trovato morto impiccato nella cella d'isolamento del carcere di Buoncammino il 2 luglio 1986, dopo 185 giorni di detenzione da innocente. Aveva 24 anni. Un evento che ha segnato non solo i familiari ma l'intera comunità cagliaritana favorendo la modifica del Codice di Procedura Penale. Oggi le norme sono profondamente cambiate offrendo decisamente maggiori garanzie tuttavia l'utilizzo della carcerazione preventiva continua, in alcuni casi, a destare perplessità. "Letture caldissime" intende avviare un dibattito su passato e presente del sistema penitenziario ma anche offrire un'occasione per riflettere sul tema della giustizia e della detenzione. Il progetto proseguirà giovedì 30 luglio con "Carezze di sangue" di Maria Francesca Chiappe e si concluderà il 6 agosto con "La verità imperfetta" di Giorgio Pisano. Bari: accordo Comune-Tribunale, condannati ai lavori di pubblica utilità per cura verde La Gazzetta del Mezzogiorno, 23 luglio 2015 Cinque condannati ai lavori di pubblica utilità o imputati con sospensione del procedimento penale per "messa alla prova" lavoreranno gratuitamente alla pulizia e al ripristino del decoro urbano in piazza Umberto e piazza Cesare Battisti, a Bari. È quanto stabilito dalla convenzione sottoscritta oggi dal sindaco di Bari Antonio Decaro, dal presidente del prima sezione penale del Tribunale di Bari Giovanni Mattencini e dal presidente Amiu Puglia Gianfranco Grandaliano. La convenzione, della durata di tre anni, prevede lo svolgimento di lavori di pubblica utilità come pena alternativa alla detenzione. "La sperimentazione dell'istituto della messa alla prova, già ampiamente adottato nei paesi anglosassoni e nella giustizia minorile - ha commentato il sindaco - è un passo molto importante per la nostra città che si pone così all'avanguardia dal punto di vista delle pratiche sociali nel reinserimento di chi ha sbagliato. Speriamo in questo modo di essere di esempio ad altre città e, perché no, anche ai Comuni della nostra area metropolitana che potranno accogliere e impiegare persone che non sono detenute, ma che in fase di indagine o in fase processuale, in concordato con il giudice, possono decidere di convertire la propria pena in ore di lavoro utili alla collettività". I cinque lavoratori presteranno la propria attività per sei giorni alla settimana, nella fascia oraria fra le 5 e le 18 in due piazze simbolo della città, "luoghi che per tanto tempo - ha detto Decaro - sono stati scenario proprio di reati legati alla microcriminalità, e che in collaborazione con le Forze dell'ordine e con la magistratura stiamo cercando di liberare. Per questo crediamo sia una sorta di risarcimento alla città da parte di chi in passato ha sbagliato commettendo reati di questo genere e che ora ha la possibilità di rimediare". Nuoro: la prima guerra mondiale raccontata dai detenuti, un permesso per dieci reclusi di Francesco Pirisi La Nuova Sardegna, 23 luglio 2015 Permesso speciale per dieci reclusi di Badu e Carros e Mamone: lezione sulla tragedia del 15-18. La guerra di ieri e il percorso nei conflitti sociali di oggi, dai fatti di violenza e criminalità a quelli ordinari e quasi normali. Il tema è stato al centro di un incontro culturale che ha visto protagonisti 10 detenuti in permesso premio, rinchiusi nel carcere di Badu e Carros e nella colonia penale di Mamone. Carcerati di origine italiana (anche della provincia) e insieme di Egitto, Nigeria, Colombia e Romania. L'iniziativa è stata nella parrocchia Beata Maria Gabriella, dove da alcuni anni opera il centro per l'accoglienza di detenuti in permesso o dei loro familiari che arrivano in città per fare i colloqui in carcere. Insieme ai reclusi si sono confrontati i volontari dell'associazione Ut unum sint, creata intorno alla chiesa del quartiere di Badu e Carros, governata dal parroco don Pietro Borrotzu. Tre giorni di confronto e vita comunitaria conclusi con la visita al museo della cultura contadina "S'abba frisca", vicino al litorale di Cala Gonone. Il motivo trainante la guerra 15-18, vissuta dai padri e dai nonni, rivisitata a cento anni dal suo inizio, sempre con l'obiettivo di non dimenticare orrori e insegnamenti. Riflessione in questo caso con i segni e le parole dei carcerati: Angelo, Bruno, Flavio, Mohamed, Marcello, Paolo, Marcel, Dickson, Daniele, Mario Franco. Le prime impressioni di don Borrotzu: "Lo scambio culturale e umano è riuscito forse oltre le stesse previsioni. Ce l'hanno confermato le notizie arrivate dai due istituti di pena, che parlano dell'entusiasmo suscitato dall'esperienza. I carcerati hanno condiviso le proprie idee sulla guerra, sulle motivazioni e soprattutto le conseguenze. Ma ancora più significativo è stato il parallelo con la contrapposizione che segna la società, e nella quale i detenuti sono stati coinvolti, in maniera certe volte pesante". Tra gli elementi per l'atto di analisi la proiezione delle scene del film sul primo conflitto mondiale, "Torneranno i prati", di Ermanno Olmi, guidata dal giornalista Franco Colomo e dalla docente Teresa Mattu, dell'Associazione 16670 San Massimiliano Colbe. Scene da una trincea sulla linea di conflitto con l'esercito austro-ungarico, dove emergono dei flash di vita mentre la normalità è quella dell'annientamento. Naturale e conseguente il collegamento con i dieci carcerati, che un'esistenza civile vorrebbero riacchiapparla. Ancora Pietro Borrotzu: "L'aspetto che viene subito in evidenza è proprio il fatto che dei condannati, con alle spalle e davanti anni di carcere, possano ancora credere in un proprio protagonismo. Una possibilità che l'incontro ha per certi confermato, considerato che hanno preso parte alla discussione in maniera aperta e senza riserve, con il racconto del loro passato, il cammino di recupero e la convinzione di voler scegliere un futuro diverso. Ma non dimenticherei il fatto che la stessa riflessione l'abbiamo fatta noi volontari, per i conflitti per così dire normali, anche in questo caso con qualche elemento in più per andare oltre, per superarli". Salvatore Carotti e Giovanna Deluigi, coordinatori del sodalizio Famiglie numerose, hanno aggiunto proprio le mura domestiche come palestra per l'educazione alla convivenza serena e alla riflessione su ciò che causa il conflitto e qual è l'atteggiamento che lo può contrastare. Dunque, un viaggio nel mondo interiore per capire il rapporto con la società, aiutato anche dall'analisi della psicoterapeuta Daniza Ruiu. Tra le metodologie la scelta di chiedere a ogni detenuto di identificare anima e soprattutto azioni pregresse in una parte del corpo tra cervello, cuore e mano. E proprio quest'ultima, la "mano che uccide", è stata l'immagine che alcuni hanno rilanciato di loro stessi, nel tempo della vita fuori dalle regole. Per l'oggi i più potrebbero indicare il cervello (la mente), che li ha portati a mutare aspetto. Cambio testato a lungo dal servizio Area trattamentale di Badu e Carros e Mamone e comprovato dal permesso premio assegnato dalle direttrici alla testa di ognuna delle due carceri, Chiara Ciavarella e Patrizia Incollu. Napoli: la festa dell'Aid el Fitr con Sant'Egidio nel carcere di Poggioreale Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2015 Un incontro gioioso e commovente la festa dell'Aid el Fitr per la fine del Ramadan nella Casa Circondariale "Giuseppe Salvia Poggioreale". La Comunità di Sant'Egidio ha organizzato questo evento con 25 detenuti musulmani. È intervento l'imam Nasser Hidouri della moschea di San Marcellino, in provincia di Caserta, che dopo aver salutato uno per uno i partecipanti, li ha incoraggiati ad essere pazienti e a cercare di essere dei buoni credenti. Quindi in un clima raccolto e sereno si è svolta la preghiera guidata dall'imam. All'incontro erano presenti il direttore del carcere Antonio Fullone e una delegazione della Scuola di Lingua e Cultura italiana della Comunità di Sant'Egidio con alcuni studenti cristiani e musulmani e buddisti. La scuola è un esempio di amicizia e collaborazione tra credenti di fedi diverse. I detenuti erano commossi, qualcuno ha detto che mentre i cristiani celebrano tutte le feste religiose, per loro è la prima volta che hanno avuto in carcere la possibilità di festeggiare una ricorrenza della loro fede: "adesso ci sentiamo uguali agli altri" - hanno affermato. Molti detenuti hanno ringraziato ed hanno avuto parole di gratitudine per la direzione, l'imam Hidouri e la Comunità di Sant'Egidio per questa festa inaspettata. Qualcuno ha chiesto di avere un Corano per pregare, altri sapone indumenti e generi di prima necessità. Infatti tra i detenuti più poveri ci sono proprio gli stranieri. Ma la meraviglia più grande è stata alla fine, quando è stato offerto un buffet tradizionale a base di datteri, latte e dolci arabi: molti non credevano ai loro occhi. "Questo è un frutto sacro che non vedevo da anni" ha detto Mohammed indicando un dattero che ha poi mangiato con gusto. La festa dell'Aid el Fitr viene celebrata al termine del Ramadan, come segno di gioia per la fine di un lungo periodo penitenziale. Letteralmente il significato dell'espressione araba è "festa della interruzione". Informazioni: Antonio Mattone 334.6640586 santegidio.segreterianapoli@gmail.com. Immigrazione: investire sui migranti come risorsa per il nostro futuro di Alessandro Pansa Corriere della Sera, 23 luglio 2015 Con la medesima lungimiranza con cui si è occupata della Grecia, l'Europa ritorna sul tema migranti. E su base volontaria - se qualcuno pensava fossimo un'Unione sovranazionale si era confuso - alcuni Paesi hanno graziosamente accettato di accogliere ben 32.000 dei quasi 200.000 profughi che si prevede sbarcheranno nel 2015. D'altra parte, se fosse adagiata sul Mare del Nord anziché protesa nel Mediterraneo, anche l'Italia tenterebbe di allontanare l'amaro calice al grido di "ben altre sono le nostre priorità". Comportamento comprensibile ma sbagliato. L'Europa, fingendo di dimenticarsi che ci sono voluti tre secoli e qualche guerra per costruire un sistema di diritti, ha appoggiato - per interessi non confessabili - movimenti politici arabi cosiddetti "democratici". Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il problema, dunque, è nostro e l'indifferenza dell'Unione non ferma gli arrivi: dobbiamo cavarcela da soli. In gioco c'è la struttura sociale del Paese e, come ha ricordato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 24 giugno, la sua identità. Forse l'unico modo è provare a trasformare questa tragedia in un'opportunità. Non per buonismo o solidarietà cristiana, che pure di questi tempi non guasta. Ma per sano e costruttivo interesse. La popolazione italiana non cresce: il saldo demografico - la differenza tra nati e morti - del 2014 è stato peggiore di quello del 1917, quando gli uomini erano al fronte. Negli ultimi cinque anni, ricorda il Centro Studi Impresa Lavoro, sono emigrati 555.000 italiani, oltre il 40% dei quali al di sotto dei 34 anni. Un Paese anziano non lavora, non si paga il welfare, non investe, consuma male. Non ha futuro. Facciamo un grande investimento su questo futuro, allora. Proviamo a far diventare veri cittadini gli immigrati. Secondo alcuni calcoli, per dare una prospettiva a queste persone - insegnare loro l'italiano, cos'è la legge e come si vive in un Paese occidentale, provvedere ad un tetto ed a un'assistenza sanitaria - occorrono mediamente poco più di 30 mila euro a testa. Se li avessimo spesi per gli arrivi degli ultimi tre anni l'investimento sarebbe stato circa di 15 miliardi, per avere cinquecentomila italiani - ed europei - in più. E avremmo dato un senso al sacrificio di risorse che impegniamo - con l'aiuto in mare e l'accoglienza a terra - in attività valorose ma, ahimè, sterili, perché manca un seguito all'altezza. Le obiezioni sono numerose. La prima: non ha senso. Ne siamo certi? Negli Stati Uniti vi sono 84 milioni di immigrati, quattro dei quali "residenti irregolari" che generano duecento miliardi di dollari di reddito nazionale. Il 57% delle nuove imprese ed il 49% di quelle della Silicon Valley hanno tra i fondatori un immigrato. Non penso che laggiù arrivino solamente degli Enrico Fermi mentre da noi sbarchino tutti analfabeti: ci sono medici, tecnici, insegnanti, e se uno sopravvive ad un viaggio clandestino dal Bangladesh alla Libia, forse di intraprendenza e voglia di rischiare ne ha abbastanza. Le sprechiamo, o scegliamo di far qualcosa per il suo futuro ed il nostro sviluppo? Seconda obiezione: non ci sono i soldi. Non dobbiamo pagare tutto noi. L'Europa ci lascia soli? Aiuti a finanziare un investimento del quale beneficerà la sicurezza complessiva dell'Unione. Esistono molti modi: innanzitutto scorporando il suo costo dai parametri di finanza pubblica previsti dal patto di Stabilità, aspetto fondamentale perché definisce un principio. E poi, magari, ridenominando e rimettendo a disposizione i fondi europei per la coesione e lo sviluppo regionale non utilizzati; ovvero - più complesso, forse - lasciandoci trattenere una parte dell'Iva versata ogni anno al bilancio comunitario. Solamente la Gran Bretagna ha diritto a rinegoziare? Noi faremmo qualcosa per l'Europa, non per ridurre il suo ruolo. Terza critica: ci vorrebbero delle regole. Certo, "il pranzo non è gratis". Costruiamo una "cittadinanza a tutele crescenti": l'investimento sugli immigrati, cui si potranno concedere via via più diritti, andrà di pari passo con la verifica del loro impegno nell'apprendere, trovare lavoro, rispettare le leggi, diventare italiani ed europei. Stimoliamo l'integrazione, non la multiculturalità. Purtroppo, il pranzo non può nemmeno essere per tutti. Una soglia andrà stabilita e a questo potrà servire l'annunciata - da tempo - apertura degli uffici italiani all'estero. L'impegno costante nel far rispettare questo numero con un rigore anche doloroso disincentiverà gli sbarchi indiscriminati. Quarta rampogna: sono soldi buttati. No. Basta vedere l'indotto che la creazione di questi servizi porterebbe con sé. Un'ipotesi velleitaria? L'alternativa - abbandonate le fantasie di mandare i soldati o bombardare i barconi - è un'emergenza incontrollabile e pericolosa. Certo, ci vuole coraggio: ma forse è il modo per mostrare al mondo che le società liberali - e pure l'Europa, forse - non sono complicati ed inutili anacronismi da rottamare ma hanno ancora molto da dire e da insegnare a coloro che le danno per spacciate. Immigrazione: "We are not going back", il canto libero dei migranti di Ventimiglia di Luca Fazio e Nicola Bertasi Il Manifesto, 23 luglio 2015 Immigrazione. Prosegue nell'indifferenza generale la clamorosa protesta dei profughi africani che dal 9 giugno sono accampati davanti agli scogli sul confine tra Italia e Francia. L'altra sera, con Vauro e la band Tetes de Bois, festa in musica con un ritornello inventato da un profugo di sedici anni. Da domani a domenica tre giorni di iniziative organizzate dai ragazze e dai ragazzi del presidio permanente No Border I migranti sugli scogli sono abbandonati ma non sono soli. Meriterebbero molto di più. Ventimiglia potrebbe diventare la capitale vetrina di questa Europa che non funziona, respinge e uccide. Lo è già ma solo per quei pochi che se ne sono accorti. Quei cinquanta metri di lungomare, tra gli scogli dei Balzi rossi e il confine francese, sarebbero lo scenario perfetto per guardare in faccia quella realtà che la sinistra si limita ad analizzare nei meeting e nelle raffinate analisi del giorno dopo, quando i fatti e le tragedie lasciano sgomenti. La situazione sta precipitando e l'accademia dell'antirazzismo non funziona più, è troppo distante dai luoghi dove le cose accadono con tutte le loro contraddizioni. In una periferia romana o in un quartiere di Treviso, quando si mostrano, si mostrano sempre con gli stessi volti, sono razzisti, sono fascisti, è "gente esasperata". Sembra che non ci sia altro da dire e da fare. Ecco perché Ventimiglia è una eccezione clamorosa che dopo più di cinquanta giorni è già un'occasione persa, per tutti. Se in Italia esistesse ancora un movimento organizzato sinceramente antirazzista, ma anche pezzi disarticolati capaci di mettere a fuoco la situazione, quell'ultimo tratto di via Aurelia diventerebbe il posto dove essere presenti, ogni giorno, per mettere seriamente in difficoltà i governi d'Europa. Gli unici ad averlo capito, testardi, determinati, a modo loro anche ben organizzati, sono quei cinquanta migranti africani che dal 9 giugno si danno il cambio sugli scogli per chiedere al mondo di poter oltrepassare il confine e dirigersi verso nord. Di poter vivere. La Francia li rispedisce indietro e l'Italia continua a comportarsi come se non esistessero, ma loro ogni giorno provano a varcare il confine. Per il governo sono fantasmi, molto meno di una seccatura. Il via vai tra il centro di accoglienza della stazione e la pineta di fronte al mare è continuo. I migranti, profughi sudanesi ed eritrei, mostrano una pazienza infinita. Quasi ogni giorno accade qualcosa a tenere viva la speranza. Può essere una partita a calcio, una pastasciutta, le chiacchiere con i ragazzi del Presidio permanente No Borders, una presenza fondamentale e discreta. Con fatica stanno cercando di fare rete con altre realtà organizzate: "Vorremmo che l'esistenza di questo luogo, oltre che essere uno strumento di supporto per gestire il flusso dei migranti, potesse servire anche per creare un movimento diffuso capace di battersi contro la logica dei confini e per la libera circolazione delle persone", spiega Lorenzo. Dall'inizio è accampato in pineta, ci sono da organizzare lunghe giornate dove non accade quasi niente e non è facile abbozzare un programma. Sono i migranti a decidere cosa fare. E sarà così anche per le tre giornate di mobilitazione che cominceranno domani. "Ci aspettiamo un contributo da chi si occupa di immigrazione in varie parti d'Italia - spiega - parleremo di legislazione europea e assistenza legale. Poi dovremo attrezzarci per continuare, non ce ne andremo fino a quando i migranti decideranno di stare qui, Ventimiglia resterà sempre un punto di passaggio". La sera, promette, ci sarà anche da divertirsi. Come l'altro ieri, anche se quella è stata una serata speciale. La comunità di San Benedetto del Porto (quella di don Gallo) martedì è andata a trovarli e insieme ai volontari si sono presentati anche Vauro e la band dei Tetes de Bois. I migranti hanno improvvisato un ritmo irresistibile percuotendo pentole e bastoni su un ritornello "scritto" da Ibrahim, 16 anni. Quel canto di libertà è stato inciso dal gruppo e adesso vogliono farne una canzone. Gli arrangiamenti verranno, ma il testo si può già canticchiare: We are not going back (non torneremo indietro). Andrea Satta, il cantante, ha spiegato che l'avevano pensata solo "come una suonata per voce e fisarmonica da tenere sugli scogli per accompagnare la spedizione di derrate alimentari". Poi l'intuizione: "È un messaggio di speranza e battaglia che abbiamo voluto riprendere perché come artisti abbiamo il dovere di farlo conoscere e portare in giro per il mondo. Ne faremo una canzone, una storia da raccontare che quest'estate porterà Ventimiglia in tournée". A Ventimiglia le diverse decine di migranti accampati sugli scogli, a pochi metri dalla frontiera francese, sono arrivati dal Sudan, dall'Eritrea e da altri paesi africani fuggendo guerre, conflitti e fame. Gli scogli sono diventati un rifugio. Inizialmente, dai primi di giugno, per scappare le cariche della polizia, quando ci si spinge dove si può, per evitare un manganello. Negli ultimi 50 giorni in attesa di l'Europa apra le porte, i migranti hanno deciso di non spostarsi da lì. Hanno costruito le tende, recuperato le coperte e i materassi. Hanno preso possesso di quegli scogli affacciati sul Mediterraneo, dove volendo tirar dritto si arriva fino in Africa. Dagli scogli si vede Mentone e non si vede già più Ventimiglia (ma siamo ancora in Italia). Tutto scorre lentamente. Un poliziotto guarda severo da dietro la transenna che significa che lì comincia la Francia. Il malmesso "duty free" conta il solito via-vai di turisti francesi che si accaparrano le bottiglie d'olio d'oliva a buon mercato. La frontiera è chiusa, impenetrabile, rafforzata e severa. Bisogna esibire i documenti. Schengen? Non importa. I migranti celebrano il ramadan. Nessuno tocca cibo duranti gli interminabili digiuni pomeridiani con il sole a quaranta gradi. Dignità è una cosa che non si può raccontare (come diceva Bob Dylan). Dignità però è proprio Ventimiglia. La dignità è continuare la propria vita a testa alta come niente fosse del male. La presenza dei migranti diventa una silenziosissima protesta di dignità. Diverse associazioni politiche e Ong assicurano una mensa quotidiana. Acqua, cibo e assistenza sono garantiti. Il tempo passa, la frontiera non si apre. L'Europa non esiste. Immigrazione: l'idea di Renzi sui migranti, dare più poteri ai primi cittadini di Francesco Verderami Corriere della Sera, 23 luglio 2015 "Bisogna togliere un po' di potere ai prefetti e darne di più ai sindaci". A Renzi non interessa se la sua sortita "alimenterà polemiche" tra i funzionari dello Stato. A preoccuparlo semmai sono le immagini che quotidianamente i telegiornali trasmettono sulla gestione degli immigrati, l'esasperazione dei cittadini su cui "si innestano le strumentalizzazioni politiche", che finiscono per incidere sull'umore profondo del Paese, oltre che sugli indici dei sondaggi. E se è vero che considera "l'accoglienza un dovere morale", è altrettanto convinto che "certe scene nelle città italiane non sono più accettabili". "Bisogna cambiare modello sui migranti", dice il premier, che la scorsa settimana aveva affrontato l'argomento con il ministro dell'Interno, prima di farne cenno all'Assemblea nazionale del Pd: "Dobbiamo fare di più e meglio. Occorre un meccanismo diverso nella gestione dell'accoglienza". Era un messaggio che preannunciava la prossima mossa del governo, deciso a superare il corto-circuito politico e istituzionale che si è innescato sull'emergenza: l'atteggiamento di alcuni governatori del Nord - contrari ad ospitare altri immigrati sul proprio territorio - ha amplificato le difficoltà dei prefetti, che in certi casi hanno mostrato imperizia. I fatti di Quinto di Treviso e la decisione dell'esecutivo di rimuovere la funzionaria, ne sono la prova. Dinanzi a una situazione di impasse che rischia di mandare in tilt il rapporto tra lo Stato e i cittadini, Alfano stava già predisponendo una soluzione con i tecnici del Viminale, che si muove proprio sulla linea enunciata da Renzi: "Togliere un po' di potere ai prefetti e darne di più ai sindaci". Nell'ambito del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e per i rifugiati (lo Sprar) verrà indetto un bando per diecimila posti che sarà rivolto ai Comuni: per assicurarsi una forte adesione dei sindaci, oltre allo stanziamento di fondi, si sta studiando anche un possibile allentamento del patto di Stabilità interna. Insomma, tramite gli "incentivi" il governo confida di ottenere la disponibilità di molti primi cittadini. E avrebbe con loro un rapporto diretto, che verrebbe gestito dal dipartimento Immigrazione del ministero dell'Interno. In un colpo solo, si scavalcherebbero così i veti dei governatori - additati da Alfano - e la mediazione dei prefetti, contro i quali il premier punta il dito, e non da oggi. Quel Renzi che appena entrato al Nazareno aveva detto "bisogna chiudere le prefetture", e che appena entrato a Palazzo Chigi aveva detto "bisogna dimezzare le prefetture", si era infine fatto convincere dal titolare del Viminale a non affondare il colpo. Ma le parole pronunciate l'altro ieri dal prefetto di Lecce Palomba, che è a capo del maggior sindacato di rappresentanza, quell'attacco al governo "che ci ha lasciati soli e fa di noi i capri espiatori" dell'emergenza, hanno rinsaldato il premier nei suoi convincimenti, a proposito di una struttura "corporativa e superata": "Avevo ragione sui prefetti". L'offensiva del funzionario sindacalista ha colpito il ministro dell'Interno, e la sua meraviglia è stata pari al disappunto, non solo per l'assenza di tatto istituzionale del prefetto ma anche per la sua avventatezza: in un colpo solo ha fornito un assist a Renzi e ha commesso un autogol per la sua categoria, rischiando di mandare in fumo un anno di trattative con il presidente del Consiglio. Perché non c'è dubbio che Renzi veda nei prefetti uno dei punti di falla dell'attuale sistema di accoglienza, ed è per questo che ha più volte sottolineato la necessità di "cambiare modello", togliendo loro - in questo contesto - una parte dei poteri. Ecco cosa ha spinto ieri Alfano a reagire duramente. A parte il commento tranciante rivolto a chi "se non ce la fa può andar via o lo sostituiamo" e a parte i complimenti misti a censura sul "compito difficile che hanno e che non contempla i party in prefettura", vale il messaggio lanciato sul ruolo e sul destino dei funzionari di Stato: "Come governo e come maggioranza abbiamo dato loro una grande prova di fiducia, garantendo una carriera speciale e confermandoli a presidio del territorio, mentre altri partiti vorrebbero abolirli. Devono però scegliere: o si rendono conto di far parte dell'eccellenza dello Stato, e si comportano di conseguenza, o dicano se vogliono sindacalizzarsi". È evidente a cosa si riferisse il ministro dell'Interno, perché la riforma che riguarda (anche) i prefetti - quella sulla Pubblica amministrazione - è ancora all'esame della Camera e dovrà poi passare al vaglio del Senato: è stato complicato assicurare l'appartenenza dei funzionari all'albo speciale come gli ambasciatori, ed è stato complesso evitare un taglio radicale delle prefetture. Ma in Parlamento gli equilibri potrebbero mutare sotto i colpi di una polemica così virulenta. Il modo in cui sono intervenuti i prefetti di Roma, di Milano, di Palermo, di Bologna - cioè delle città sentinella sul fronte dell'immigrazione - evidenzia la presa di distanza dal collega, che ieri sera al Tg5 ha corretto (in parte) il tiro. Nel bel mezzo di un (legittimo) scontro politico che fa da contesto a un'emergenza senza precedenti, è inammissibile un conflitto aperto da apparati dello Stato contro il governo. "È istituzionalmente poco serio che un prefetto commenti le parole di un ministro", ha commentato infatti Gabrielli. Mondo: sono 3.309 gli italiani richiusi in carcere all'estero di Domenico Giovinazzo eunews.it, 23 luglio 2015 Il numero di connazionali detenuti nei Paesi Ue è il più alto in assoluto rispetto a quelli nel resto del mondo. Il dato emerge dall'annuario statistico della Farnesina che riporta anche i contenziosi con l'Ue e le cifre del semestre di presidenza italiano. Abbiamo 3.309 connazionali rinchiusi in carceri sparse per il mondo. Di questi, quasi 4/5 (2.610) si trova in Paesi dell'Unione europea. Il dato emerge dall'Annuario statistico 2015 pubblicato dal ministero degli Esteri, che tra i vari dati sulla diplomazia italiana riporta anche questo. L'incidenza non sembra legata alla maggior presenza di cittadini italiani nell'Ue (Italia esclusa, ovviamente), che in effetti è più folta rispetto ad altri territori. Prendendo a riferimento il numero di iscritti all'anagrafe consolare, sugli oltre 5 milioni di registrati, la comunità più numerosa risulta infatti quella delle Americhe (2,1 milioni di italiani). Lì, nonostante la presenza superiore a quella registrata nei Paesi Ue (2 milioni), il numero di detenuti italiani è di appena 425. Può consolare il fatto che tra i 2.610 finiti in carcere nell'Ue, ben 2.128 sono in attesa di giudizio e dunque presumibilmente innocenti fino a definitiva sentenza contraria. Ma i 463 condannati sono circa tre volte di più rispetto ai 154 che si trovano nelle Americhe, mentre sono 19 contro 9 i detenuti in attesa di estradizione. Tra le statistiche presentate nel rapporto ci sono anche i dati relativi ai contenziosi presso la Corte di giustizia dell'Ue. Lo scorso anno, i ricorsi per infrazione contro l'Italia sono stati 3 su un totale di 58 in tutta l'Unione, mentre i rinvii pregiudiziali originati nel nostro Paese ammontano a 52 a fronte di 454 complessivi. Le richieste di annullamento italiane sono state 8 contro le 879 totali. Un'appendice dell'annuario è dedicata alle cifre del semestre italiano di presidenza dell'Ue, per il quale sono stati organizzati 2.303 incontri con 184 eventi che hanno visto la partecipazione di capi di Stato o di governo, ministri, presidenti e commissari delle Istituzioni europee e responsabili di altre organizzazioni Internazionali. Per preparare al meglio i funzionari al semestre, sono stati organizzati 12 seminari di formazione presso la Scuola nazionale dell'Amministrazione pubblica, per un totale di 4.607 ore di formazione. Libia: gli operai italiani rapiti per chiedere il rilascio di sette "scafisti" detenuti in Italia today.it, 23 luglio 2015 Secondo fonti dell'esercito libico, l'azione sarebbe opera di una milizia islamista di Zuara, con l'obbiettivo di ricattare l'Italia al fine di ottenere il rilascio di sette trafficanti di migranti di nazionalità libica detenuti in carceri italiane. Possibile svolta sul movente del rapimento di quattro dipendenti italiani della ditta Bonatti di Parma avvenuto la sera del 20 luglio in Libia: secondo fonti dell'esercito libico, l'azione sarebbe opera di una milizia islamista di Zuara, con l'obbiettivo di ricattare l'Italia al fine di ottenere il rilascio di sette trafficanti di migranti di nazionalità libica detenuti in carceri italiane. Non credo che possiamo escludere una pista, ma facciamo lavorare chi ha titolo a farlo e a farlo nel silenzio": lo ha detto Angelino Alfano a Skytg24. È quanto dà come "notizia certa" l'esercito libico guidato dal generale Khalifah Haftar, fedele al governo laico di Tobruk, l'unico riconosciuto dalla comunità internazionale. In un commento postato sulla propria pagina Facebook ufficiale, il "Comando generale dell'Esercito libico - Operazioni dell'Esercito Nazionale" si legge: "Fonti sicure hanno confermato che le cosiddette milizie Fajr Libia (leali al governo islamista di Tripoli) di Zuara è responsabile del sequestro dei quattro italiani per ricattare l'Italia e far rilasciare sette cittadini libici detenuti (nelle carceri italiane, ndr) con l'accusa di traffico di uomini attraverso il Mediterraneo e verso l'Europa". Insomma, si tratterebbe di un'azione di "ricatto" messa in atto da milizie islamiste locali per difendere gli interessi economici che deriverebbero loro dal traffico di migranti verso le coste dell'Europa. Sono stati i loro colleghi a fornire i nomi (di battesimo) dei quattro italiani italiani rapiti nei pressi del compound dell'Eni nella zona di Mellitah. Si tratta di tecnici che lavorano presso alcuni impianti petroliferi nord-africani, per attività di sviluppo, trasporto e manutenzione per la società Bonatti di Parma, general contractor nel settore oil and gas. Si tratta di Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla, come riporta un'agenzia Ansa specificando che, secondo indiscrezioni ancora non confermate, due sarebbero residenti in Sicilia, uno nel Lazio e uno in Sardegna. Libia: italiani rapiti. Il ministro dell'Interno Alfano "l'Italia non tratta con gli scafisti" Il Messaggero, 23 luglio 2015 Il rapimento degli italiani in Libia può essere una richiesta di scambio con degli scafisti detenuti? "Non credo che possiamo escludere una pista, ma facciamo lavorare chi ha titolo a farlo e a farlo nel silenzio": lo ha detto Angelino Alfano. "Nessuno può dire se il rapimento possa essere attribuito" alla lotta agli scafisti. Il ministro quindi non ha escluso alcuna pista ma poi il Viminale ha precisato: "L'unica cosa esclusa è che si tratti con gli scafisti". Il ministro Alfano non ha accreditato alcuna ipotesi di scambi con scafisti. Si è limitato a non escludere nessuna pista, invitando anzi a lasciare lavorare in silenzio chi di competenza. Si ribadisce e si puntualizza dunque: nessuna pista esclusa, l'unica cosa esclusa è che si tratti con gli scafisti". Il quotidiano online libico Akhbar Libia24, citando fonti di Sabrata, città sulla costa nord-occidentale del Paese, ha scritto che "i 4 italiani rapiti sarebbero stati portati in una zona desertica dove è facile trovare nascondigli". Secondo le fonti, "i rapitori hanno fatto scendere gli italiani dalla loro macchina, e li hanno fatti salire in un'auto obbligandoli a lasciare i loro telefoni cellulari". Il sito aggiunge che "l'autista dell'auto degli italiani è stato legato e abbandonato nel deserto". Il portavoce di Fajr Libya - la milizia islamista che ha imposto un governo parallelo a Tripoli - ha affermato all'Ansa che il suo gruppo "non è dietro il rapimento degli italiani". "Non sappiamo chi li ha rapiti", ha detto Alaa Al Queck, "ma sappiamo che gli italiani si trovano nel sud-ovest e che entro 10 giorni saranno liberi". Alla domanda se il rapimento ha delle motivazioni politiche, o legate al pagamento di un riscatto, Al Queek ha aggiunto: "Ignoriamo i rapitori e dunque non ne conosciamo il motivo del gesto, ma quando lo sapremo lo riveleremo". La stessa fonte ha detto che Fajr Libya "sta cooperando con il ministero dell'Interno libico sulla vicenda". "È evidente che faremo di tutto per liberare" i quattro italiani, ha aggiunto il ministro dell'Interno. Parlando dei luoghi più o meno sicuri nel mondo e di chi li raggiunge per lavoro, Alfano ha aggiunto: "Non possiamo imprigionare" gli italiani che si trovano all'estero, "c'è un'assunzione di responsabilità quando decidi di spostarti da un luogo protetto in cui ti trovi in un altro, attraversando zone pericolosissime. È un'assunzione di responsabilità che attiene alla libertà individuale". "L'Italia sta pagando un conto molto salato all'instabilità della Libia. Gheddafi comunque dava una stabilità, non voglio dare giudizi ma era così. Poi quel regime è stato destabilizzato, e noi non vogliamo continuare a pagare il conto all'inerzia della comunità internazionale. Non si riesce a risolvere il problema e quel lavoro lasciato a metà porta l'Italia a pagare un secondo costo". "Tutti sono nel mirino: è nel mirino qualunque paese che si batta per la tolleranza, la civiltà e il rispetto delle vite umane", ha spiegato il presidente Sergio Mattarella ai giornalisti che a Malta gli chiedevano se ci fosse un'offensiva fondamentalista in particolare contro l'Italia. Il rapimento dei quattro italiani in Libia rappresenta "una ferita aperta che speriamo si possa risolvere nel più breve tempo possibile", ha detto Mattarella a Malta spiegando che l'impegno dell'Italia per la soluzione della vicenda è "molto forte". Stati Uniti: chiusura di Guantánamo, l'obiettivo che Obama potrebbe fallire Askanews, 23 luglio 2015 Prima ancora di arrivare alla Casa Bianca, il presidente Barack Obama aveva promesso: "Chiuderò Guantánamo". Sono passati sei anni e mezzo dal suo insediamento, ma il centro di detenzione voluto da George W. Bush dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 è ancora lì, sull'isola di Cuba, con 116 detenuti. Da tempo, Obama ha fissato un nuovo obiettivo: chiudere Guantánamo prima di lasciare la Casa Bianca. In questi giorni, il presidente ha ottenuto importanti successi politici, dalla sentenza della Corte Suprema che salvaguardia la riforma sanitaria all'accordo sul programma nucleare iraniano, ma quello relativo a Guantánamo potrebbe continuare a sfuggirgli. Ashton Carter, nei primi sei mesi da segretario alla Giustizia, non ha preso alcuna decisione sul trasferimento dei detenuti che hanno ottenuto il via libera. Il suo ritardo nell'affrontare il problema, come successo con il suo predecessore, Chuck Hagel, sta provocando preoccupazione e irritazione alla Casa Bianca e al dipartimento di Stato, secondo le fonti del New York Times. La scorsa settimana si è tenuto un incontro, convocato da Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, per affrontare il tema della chiusura della prigione prima che Obama lasci la Casa Bianca, tra 18 mesi. L'incontro non è stato molto fruttuoso, secondo il Times, e Carter non si è impegnato a prendere decisioni sulle proposte di trasferimento in sospeso entro una certa data, nemmeno per il rimpatrio di un cittadino mauritano e di uno marocchino. Il processo di approvazione è reso più complicato dalle regole per il trasferimento dei detenuti, come per esempio quella che vieta la loro detenzione in un carcere negli Stati Uniti. "Le possibilità di raggiungere l'obiettivo sotto Obama si stanno sempre più assottigliando" ha detto Robert Chesney, professore dell'Università del Texas che ha lavorato per l'amministrazione, nel 2009, sulle politiche relative ai detenuti. Al momento, a Guantánamo ci sono 52 prigionieri di basso livello che potrebbero lasciare il carcere, in gran parte yemeniti, che Obama vorrebbe affidare a Paesi terzi, vista la guerra in corso in Yemen, e 64, invece, considerati troppo pericolosi per essere rilasciati. Per Obama, la chiusura di Guantánamo è un "imperativo nazionale". Lee Wolosky, il nuovo inviato del dipartimento di Stato che si occupa dei negoziati per il trasferimento dei prigionieri, ha detto che il governo sta parlando con diversi Paesi per il "trasferimento di un ampio numero di detenuti. Questo processo avrà un'accelerazione nelle prossime settimane, perché la riduzione della popolazione carceraria con il trasferimento a Paesi terzi è una componente fondamentale del nostro sforzo per chiudere il centro di detenzione". Spetterà però a Carter approvare questi accordi. L'amministrazione presenterà un piano al Congresso che, in caso di approvazione da parte delle due Camere, farebbe cadere il divieto di portare negli Stati Uniti i detenuti di Guantánamo. Molti repubblicani in Congresso sono però contrari al trasferimento dei detenuti e alla chiusura di Guantánamo, dove invece vorrebbero portare anche le altre persone imprigionate e accusate di terrorismo. Regno Unito: il Ministero della Giustizia vieta il fumo in carcere, si temono sommosse tio.ch, 23 luglio 2015 Presto i detenuti delle carceri inglesi e gallesi non avranno più nemmeno le sigarette per far passare le lunghe giornate dietro le sbarre. Come anticipato dall'Observer, infatti, il Ministero della giustizia di Londra sta elaborando un piano per introdurre progressivamente il divieto di fumo nelle celle. Si temono disordini - Il progetto desta non poche preoccupazioni fra chi si occupa di prigioni. Con una popolazione carceraria composta per l'80% da fumatori, in effetti, la paura di disordini e sommosse è altissima. Andrea Albutt, neo presidente dell'Associazione dei direttori carcerari, accoglie "cautamente" il piano, sottolineando come debba essere introdotto in maniera "sicura e graduale": "Fare smettere i detenuti di fumare potrebbe causare problemi", dichiara alla Bbc la presidente. Il ministero andrà coi piedi di piombo: "Vogliamo ridurre i fumatori, ma la sicurezza rimane la nostra priorità", precisa un portavoce. Il piano fa seguito a una sentenza dell'Alta corte di giustizia che, in marzo, si è pronunciata in favore di due detenuti non fumatori angustiati dal vizio dei compagni di cella. "Proibirlo in Ticino? Un inutile supplizio per i detenuti". "Lei è fumatore? Si rende conto di cosa vorrebbe dire? Una persona privata della libertà già vive uno sconvolgimento totale, toglierle questo vizio costituirebbe un ulteriore inutile supplizio", ci risponde Stefano Laffranchini, direttore delle strutture carcerarie ticinesi, quando gli chiediamo cosa succederebbe se le sigarette venissero vietate alla Stampa & Co. Qui come in Inghilterra, stima, circa l'80% dei detenuti ha il vizio delle bionde e accenderle è possibile solo all'interno delle celle: "Abbiamo la fortuna che siano individuali", spiega Laffranchini. "Spostare i detenuti per farli fumare, del resto, sarebbe complicato", aggiunge. Ai prigionieri fumatori privi di mezzi le carceri forniscono un massimo di dieci sigarette al giorno, "a tutela della salute" e delle casse pubbliche. Chi può permettersele, invece, le compra. Pakistan: speranza per Asia Bibi condannata per blasfemia, la pena di morte viene sospesa di Maura Bertanzon Corriere della Sera, 23 luglio 2015 "Dio sa che è una sentenza ingiusta e che il mio unico delitto, in questo Paese, è essere cattolica". Asia Bibi lo scriveva nel 2012, da una "cella senza finestre", in isolamento nella prigione di Sheikhupura, nel "suo" Pakistan. Nel 2010, è stata la prima donna ad essere condanna a morte per blasfemia. Ieri, l'annuncio della sospensione della pena e del riesame del caso. La Corte suprema del Pakistan, il terzo grado di giudizio, ha accolto il ricorso contro la conferma della pena capitale in secondo grado, nell'ottobre scorso. La data dell'udienza non è ancora stata fissata, ma Saif-ul-Malook, il suo avvocato, è deciso a portare davanti alla corte le prove, dice, costruite ad arte per condannarla. Oltre sei gli anni passati dietro le sbarre da Asia Bibi dal suo arresto il 19 giugno 2009. Se non hanno minato un animo temprato dalla fede, non hanno risparmiato il fisico di questa madre di cinque figli. A giugno, riportava The Global Dispatch, i familiari temevano morisse di stenti. La colpa di Asia Bibi, essere cattolica in un Paese musulmano per oltre il 96%. Le élite religiose conservatrici difendono a spada tratta la legge sulla blasfemia: pena capitale per chiunque insulti Maometto e carcere a vita per chi profana il Corano. Nebulosi, però, i modi per stabilire i colpevoli. Tanto che la legge è spesso un pretesto per regolare rancori e litigi. Si può rischiare di morire anche per un bicchier d'acqua. Così è stato per Asia Bibi, contadina. Si era permessa di bere da un bicchiere riservato alle braccianti musulmane, sotto il sole torrido dell'estate pachistana. Quanto basta per accusarla di blasfemia. Moltissimi gli incarcerati. Numerose le vittime linciate per strada, dalla gente, in nome di reati aleatori, definiti dalla rabbia del momento. Nessuno però, e nessuna donna soprattutto, era mai stato condannato a morte dalla legge. Asia Bibi è diventata il simbolo di una norma controversa, che ha portato su di sé l'attenzione del mondo: papa Francesco l'ha ricordata in appelli e preghiere. Online una petizione con quasi 581 mila firme raccolte. A convertirsi non ci ha mai pensato. Il giudice che l'aveva condannata, un giorno le ha offerto la salvezza, in cambio dell'adesione all'Islam. "Preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana", ha risposto Asia. Ora rinasce la speranza. Forse, però, non è mai morta. Iran: reporter del Washington Post detenuto da un anno, si tenta carta Onu per rilascio Askanews, 23 luglio 2015 A un anno esatto dall'arresto in Iran del giornalista americano-iraniano Jason Rezaian, tutt'oggi detenuto a Teheran e in attesa di giudizio per spionaggio e altri presunti reati, i familiari e il Washington Post (il giornale per il quale lavora) annunciano una petizione alle Nazioni Unite affinché ne chieda il rilascio immediato. Il fascicolo di 38 pagine è stato presentato oggi a Washington alla presenza del fratello del giornalista, Ali Rezaian, a un gruppo di lavoro dell'Onu che si occupa di detenzioni arbitrarie e diritti umani. La petizione porta all'attenzione delle Nazioni Unite un caso che ha finora contrapposto Stati Uniti e Iran senza successo, nonostante un appello del presidente Barack Obama per la liberazione e il recente storico accordo sul nucleare con Teheran. "Siamo delusi che (Jason, ndr) non sia stato rilasciato. Ora che i negoziati sono conclusi, l'Iran ha un'altra opportunità per rilasciarlo", dice Ali Rezaian, incontrato al circolo nazionale della stampa americana. Nella petizione, il Washington Post chiede al gruppo di cinque membri indipendenti nominati dalle Nazioni Unite di sostenere "con urgenza" il rilascio del reporter arrestato il 22 luglio 2014 a casa sua in Iran insieme alla moglie (poi rilasciata su cauzione). La tesi del giornale e dei suoi legali è che l'Iran abbia violato una lunga lista di diritti umani, incluso il diritto alla libertà di espressione e a un giusto e pubblico processo. Rezaian, che ha visto la madre ieri brevemente e ha parlato con il suo avvocato solo una volta prima e alla presenza di funzionari iraniani, attende a breve la probabile ultima udienza di un processo rigorosamente a porte chiuse, spiega il fratello. Le accuse, mai formalizzate secondo la petizione, sono di spionaggio, collaborazione con governi ostili, e propaganda contro l'Iran. Se la carta dell'appello dell'Onu non dovesse funzionare, i familiari e i colleghi di Rezaian non si daranno per vinti. "Sfido a trovare un paese a cui non ci siamo rivolti (direttamente o indirettamente)", dice Ali, aggiungendo che tra questi vi sarebbe anche l'Italia dove i Rezaian hanno legami familiari.