"Le cose vere della vita non si studiano né si imparano, ma si incontrano" (Oscar Wilde) di Ornella Favero (direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 22 luglio 2015 Questi Stati Generali sono davvero una cosa importante, ma anche complicata, vorrei provare allora ad aggiungere qualche riflessione allo scambio tra Carmelo Musumeci, detenuto e redattore di Ristretti Orizzonti, e Mauro Palma, consigliere del Ministro Orlando, Adolfo Ceretti e Marco Ruotolo, membri del Comitato scientifico degli Stati Generali. Ma prima mi preme spiegare come sono andate davvero le cose, perché a volte le cose non sono affatto quello che sembrano. Mi piace prima di tutto dire la mia responsabilità, per sgombrare il campo da equivoci: quel testo di Carmelo che criticava pesantemente gli Stati generali io non l'avevo visto, è arrivato al curatore della nostra Newsletter dal sito carmelomusumeci.com e lui l'ha pubblicato, semplicemente perché Ristretti Orizzonti è una realtà piccola e imperfetta, che fa una Rassegna Stampa quotidiana per cui NESSUNO ci paga, e io non riesco a controllare tutto e fare attenzione a ogni testo. Quel testo era stato scritto PRIMA dell'incontro in redazione con Mauro Palma, Adolfo Ceretti, Marco Ruotolo, e io però non ho controllato e non ho fatto una lettura preventiva della Rassegna. E quando Adolfo Ceretti, che è un amico della nostra redazione, ha mandato la replica chiedendo di pubblicarla, io non volevo passare per una che censura le critiche e non sono stata capace di raffreddare i toni e chiedere di parlarne prima con Carmelo. E così mi sono presa parole anche da lui, in parte, ma solo in parte, giustificate. Però questa polemica la voglio usare, perché a me ha insegnato alcune cose su questi Stati Generali. Ci sono infatti delle questioni che restano aperte, e che vorrei provare a sottolineare: - quando si dice che i detenuti, come tutti i componenti del mondo dell'esecuzione della pena, verranno ascoltati, non si dice però che operatori, poliziotti penitenziari, direttori sono persone libere, con le loro forme di rappresentanza e la capacità di farsi ascoltare, per le persone detenute non è la stessa cosa. Non hanno forme di rappresentanza, se non quella risibile dei detenuti sorteggiati per partecipare alle Commissioni culturali e per il lavoro, e nello stesso tempo hanno più urgenza che mai di farsi sentire e di raccontare che cosa sono diventate le carceri negli ultimi anni. E sottolineo "negli ultimi anni" perché prima, ai tempi della riforma e poi della legge Gozzini, in tanti mi hanno raccontato, e non credo sia una leggenda, che parecchi politici e parlamentari non avevano paura di entrare nelle celle, prendere il caffè con i detenuti o anche pranzare con loro, e li ASCOLTAVANO; - il tavolo degli Stati generali del quale faccio parte si chiama "Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti, sicurezza". Ma io mi chiedo: perché uno come Carmelo Musumeci, e come lui tanti altri detenuti che hanno vissuto sulla propria pelle regimi come il 41 bis, violenze, trasferimenti, perdita degli affetti, dovrebbe avere fiducia in Istituzioni che chiedono ai detenuti di affrontare le proprie responsabilità, che certo ci sono e sono anche pesanti, e da anni però a loro volta non si assumono la responsabilità di aver gestito le carceri in un modo spesso vergognosamente illegale? - questa assicurazione che i tavoli incontreranno "i detenuti", ognuno decidendo come e quali e per chiedere cosa, mi lascia l'amaro in bocca e non mi sembra convincente, come già vi ho detto all'incontro in redazione. Credo che serva davvero una "rivoluzione culturale" che faccia capire che ascoltare le testimonianze dei detenuti non dovrebbe essere un "momento", per quanto significativo, dei lavori, magari alla fine, dovrebbe piuttosto essere il filo conduttore dei lavori stessi. Se qualcuno degli studiosi incaricati di dar vita agli Stati Generali sull'esecuzione della pena fosse stato nella Casa di reclusione di Padova, il 22 maggio, alla Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza", avrebbe potuto farsi un'idea, attraverso le testimonianze profonde e critiche di tante persone detenute e loro famigliari, di cosa diciamo noi di Ristretti Orizzonti quando riteniamo che le persone detenute non debbano essere semplicemente sentite in qualche fase degli Stati generali, ma debbano essere protagoniste di questa consultazione, proprio perché, per dirla con Oscar Wilde, "Le cose vere della vita non si studiano né si imparano ma si incontrano"; - non penso affatto che basti ascoltare i detenuti per fare delle buone leggi, ho grande rispetto dei "professori" e so che sono necessarie la loro competenza e la loro capacità di tradurre le idee in testi coerenti ed efficaci, però, gentili professori, a entrare in carcere ogni giorno, incontrarsi, e scontrarsi anche, con le persone detenute, difendere le istituzioni e contemporaneamente essere consapevoli a volte della pochezza di chi le rappresenta, sentire storie di gente ridotta a zombie in regimi come il 41 bis e nello stesso tempo cercare di non perdere la propria capacità critica è terribilmente difficile. Per questo forse io non mi meraviglio di certi comportamenti delle persone detenute, della loro rabbia e della loro impazienza, e anche del loro "vittimismo", perché sono sempre più consapevole che è il sistema di gestione delle carceri che trasforma chi ci vive dentro ogni giorno in VITTIMA. Spero allora che gli Stati Generali mettano in crisi proprio questo sistema DERESPONSABILIZZANTE, e che alla fine dei lavori nessuno possa più permettersi di evitare di assumersi la propria responsabilità. Ai professori Mauro Palma, Marco Ruotolo e Adolfo Ceretti: diritto di replica tra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 22 luglio 2015 "Il mondo cambia non a poco a poco, ma uno a uno" (Giuseppe Ferraro). Egregi Professori ho letto la Vostra risposta pubblicata sulla "Rassegna Stampa" di "Ristretti Orizzonti" del 18 luglio 2015 sul mio precedente articolo dove, sostanzialmente, lamentavo la mancanza, anche formale, della presenza in questi tavoli di lavoro dei prigionieri (o ex prigionieri) per rappresentare, in modo democratico e simbolico, la popolazione dei detenuti. La mia non voleva essere assolutamente una critica distruttiva, ma piuttosto costruttiva e propositiva per cercare di capire insieme, se e come, era possibile un coinvolgimento più completo e partecipativo di tutti i detenuti per dare entusiasmo e farli sentire per una volta protagonisti del loro destino e non trattarli solo come corpi parlanti. Sono ancora convinto che i motivi da me presentati siano giusti, anche se forse li ho esposti in modo sbagliato. Lo so, sono un sognatore e, per l'appunto, sognavo che in questi Stati Generali dell'Esecuzione della Pena i prigionieri sarebbero stati messi nelle migliori condizioni per esprimersi in prima persona. Sul rimprovero che mi avete sollevato circa il fatto che sul mio articolo non avete trovato nessuna notizia (o parole di ringraziamento) della Vostra visita alla redazione di "Ristretti Orizzonti", non vi nascondo che mi sento colpevole… di essere innocente perché il mio articolo era stato scritto e spedito molto prima di sabato 11 luglio 2015 all'amministratrice che cura il sito che porta il mio nome (lo può testimoniare lei stessa e per amore di verità la inviterò a farlo). Solo in un secondo tempo la "Rassegna Stampa" di "Ristretti Orizzonti" ha avuto il mio articolo (sempre per amore della verità, inviterò la dottoressa Ornella Favero a testimoniarlo. Provo rammarico che non l'abbia fatto prima di pubblicare la vostra lettera). Credo che anche questa tematica potrebbe essere un argomento di discussione presso uno dei tavoli di lavoro per tentare di migliorare la comunicazione tra il dentro e il fuori perché può capitare che una lettera ci metta mesi ad arrivare a destinazione (sicuramente questo può accadere anche nel mondo libero, però la differenza è che i detenuti hanno solo questo mezzo per comunicare). Al di là dell'incomprensione che si è verificata a causa della mancata tempestiva pubblicazione del mio articolo - cosa per la quale chiedo nuovamente venia pur da incolpevole! - sento la necessità di replicare all'accusa di vittimismo da Voi mossami con la lettera pubblicata il 18 luglio. Ritengo corretto precisare che il vittimismo costituisce, come ben sapete, una modalità infantile e regressiva del comportamento umano, l'inclinazione - cito la Treccani - a fare la vittima, cioè a considerarsi sempre oppresso, perseguitato, osteggiato e danneggiato da persone e circostanze, e a lamentarsene (ma a volte anche a compiacersene). Nel mio caso, mi ero semplicemente permesso di segnalare una modalità di gestione nei lavori degli Stati Generali dell'Esecuzione della Pena che non mi è sembrata corretta né rispettosa delle reali esigenze di espressione dei detenuti, specie di coloro che vivono nei "bracci della morte nascosta", cioè gli ergastolani ostativi. Mi permettevo di annotare l'esigenza forte e pressante di poter far udire la propria voce all'interno di un dibattito dal vivo che consentisse ad almeno una nostra seppur ristretta rappresentanza di essere parte attiva e consapevole nel corso di questi lavori. Voi mi insegnate, illustri Professori, che un conto è la lettura di una relazione scritta, forse rimaneggiata e mediata da altre voci, e un conto è la dialettica, il dibattito, il confronto dinamico presso lo stesso tavolo di discussione da parte dei reali interlocutori capaci di intendere, di volere, di esprimersi compiutamente. La prode accusa di vittimismo mi sembra un modo forse elegante, ma poco rispettoso, per mettere il tappo in bocca a chi desidera esprimere la propria opinione e, magari, contestare un percorso che potrebbe tener conto, più apertamente e democraticamente, della voce di chi, in carcere, deve trascorrere ancora i suoi anni di "vita". Come ho già affermato in diverse occasioni, nel percorso di revisione che il detenuto è chiamato a compiere scontando la propria pena, l'assunzione di responsabilità passa anche attraverso il riconoscimento dei propri diritti oltre che dei propri doveri. Questo è un modo per crescere e migliorarsi come cittadini attivi e coscienti. Rivendicare questa consapevolezza mi sembra ben lontano da un atteggiamento vittimistico. Subito dopo il vostro incontro, la direttrice Ornella Favero mi aveva incaricato di coordinare un numero speciale di Ristretti Orizzonti sugli Stati Generali invitandomi a raccogliere le testimonianze dei miei compagni sparsi nei vari carceri per dare loro voce e luce. La provocazione della Vostra lettera mi offre ulteriori motivazioni per impegnarmi in questo incarico, per far risuonare la voce dei miei compagni, per segnalare iniziative importanti e significative che, purtroppo, per molti di noi, sono ancora ideali troppo lontani. Per esempio, in questi giorni, ho sentito la notizia che il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ha commutato la pena a 46 detenuti per reati di droga cominciando, con questo atto di clemenza, la riforma della giustizia. Mi sono domandato - vi assicuro, senza alcun vittimismo! - perché il nostro Ministro della giustizia Andrea Orlando non fa la stessa cosa inaugurando, con un atto di clemenza, i lavori degli Stati Generali dell'Esecuzione Penale. Potrebbe emanare, infatti, una circolare ministeriale esplicativa per ampliare da subito (come sta già facendo l'illuminato direttore del carcere di Padova) il numero delle telefonate, almeno per quei detenuti che scontano la pena in carceri lontani dai luoghi di residenza dei loro familiari. Si tratterebbe semplicemente di un atto di sensibilità sociale in favore dei familiari dei detenuti, vittime incolpevoli - e non vittimisti! - che, con noi detenuti, sono condannate a condividere le conseguenze della nostra pena. Vi chiedo scusa se le parole del mio precedente articolo vi sono sembrate irrispettose e irriguardose. Vi auguro buona vita e buon lavoro. Un sorriso fra le sbarre. Giustizia: 870 suicidi dal 2000, l'appello delle associazioni "stop alla fabbrica della morte" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 22 luglio 2015 La "fabbrica dei suicidi" lavora a ciclo continuo. Di giorno e, soprattutto, di notte. Dentro le celle "lisce", così come in quelle sovraffollate. Colpisce i giovani più dei vecchi, gli italiani, più degli stranieri. Sono le statistiche del carcere a dirlo: i detenuti si tolgono la vita diciannove volte più frequentemente rispetto alle persone libere. E a rischio sono soprattutto i primi giorni che si passano dietro le sbarre, quando lo choc per l'impatto con le mura della prigione è più forte. I due detenuti che si sono uccisi in meno di ventiquattr'ore nel penitenziario romano di Regina Coeli riaccendono i riflettori su un pianeta spesso opaco: quello del carcere. Eppure le morti violente dietro le sbarre sono una vecchia storia, non certo un'emergenza dell'ultima ora. Basta leggere i dati aggiornati del dossier di Ristretti Orizzonti "Morire di carcere": ben 869 suicidi negli ultimi 15 anni, di cui 44 lo scorso anno e 24 dall'inizio del 2015 (si era arrivati a 72 nel 2009). Insomma non si assiste a un boom, ma solo al consolidarsi di un male. Per non parlare di chi tenta, senza riuscirci, di togliersi la vita: 20.164 casi dal 1990 a oggi. Alcuni numeri poi sorprendono: gli italiani, per esempio, si uccidono più degli stranieri. Con una presenza di immigrati del 30 per cento sul totale dei detenuti, i suicidi di stranieri risultano solo il 16 per cento. "Tuttavia questa percentuale potrebbe essere sottostimata - si legge nel dossier - in considerazione della maggiore difficoltà a raccogliere notizie sulle morti dei detenuti stranieri, spesso privi di quella rete di sostegno, come famiglie o avvocati, che in molte circostanze fa da cassa di risonanza all'esterno del carcere". Non solo. Anche il numero complessivo dei suicidi è probabilmente sottostimato: se un detenuto cerca di uccidersi nella propria cella, ma poi muore in ospedale o in ambulanza, "il suo non sempre rientra negli atti suicidari carcerari". E ancora: i tossicodipendenti rappresentano il 31 per cento dei suicidi, a fronte di una presenza sul totale dei detenuti di circa il 30%. Si uccidono con più frequenza da definitivi, spesso in prossimità della scarcerazione. "Questo - sostiene la ricerca- può essere indicativo di particolari angosce legate al ritorno in libertà, all'impatto con l'ambiente sociale di provenienza, al rinnovato confronto con la propria condizione di dipendenza". Solitamente invece avviene il contrario. È l'ingresso in carcere e sono i giorni immediatamente successivi quelli col più elevato "rischio suicidio". Un esempio: i detenuti per omicidio (che sono solo il 2,4 per cento di tutti i detenuti) rappresentano ben il 13 per cento dei casi di suicidio e molti si tolgono la vita nei primi giorni di detenzione. Ci sono poi alcuni eventi della vita detentiva, che sembrano funzionare da innesco rispetto alla decisione di farla finita: "Il trasferimento da un carcere all'altro (a volte anche solo l'annuncio dell'imminente trasferimento), l'esito negativo di un ricorso alla magistratura, la revoca di una misura alternativa". Circa un terzo dei suicidi, infine, ha un'età compresa tra i 20 e i 30 anni e più di un quarto ne ha tra i 30e i 40. I rimedi? Per monitorare e arginare il fenomeno, dal 2000 il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha istituito l'Unità di monitoraggio degli eventi di suicidio. Ma urge fare di più. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, sottolinea come "gli psicologi siano talmente pochi che possono spendere sei minuti all'anno per ogni persona che hanno in carico e che sta male". Per Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, "le due tragedie di Regina Coeli devono indurre a rivedere e se possibile eliminare del tutto la pratica dell'isolamento e a investire energie umane nei reparti dei nuovi giunti, dove a tutti deve essere consentito di vivere in comunità e di avere un sostegno psicosociale adeguato. È questo un compito anche delle Asl. Nel Lazio, la Regione ha approvato un protocollo per la prevenzione dei suicidi in carcere. Va reso operativo". E con più agenti penitenziari si ridurrebbero i casi di suicidio? "La questione dei suicidi in carcere non c'entra con il numero degli agenti di polizia penitenziaria- risponde Gonnella - già oggi tra i più alti di Europa". E aggiunge: "Gli Stati generali dell'esecuzione penale, organizzati dal ministero della Giustizia, sono un'ottima occasione per cambiare in meglio le prassi". Giustizia: Santi Consolo "carenza di organico non c'entra, è solo drammatica coincidenza" di Silvia Barocci Il Messaggero, 22 luglio 2015 Il Capo del Dap: "la mancanza di agenti e reale", ma i due suicidi di lunedì non si sono verificati per questo motivo". "Servirebbe più assistenza a livello psichiatrico, la vera difficoltà è nell'organizzare l'accoglienza". Una "drammatica coincidenza". Due suicidi in 24 ore a Regina Coeli, secondo il capo del Dap Santi Consolo, non possono essere letti "strumentalmente", soprattutto dopo il riconoscimento di Strasburgo sugli enormi progressi compiuti dall'Italia nell'affrontare la questione sovraffollamento. È vero, presidente, i detenuti tre anni fa avevano toccato quota 68mila e oggi sono scesi a 52.700. Tuttavia, due detenuti che si tolgono la vita nella stessa sezione e che vengono soccorsi dal medesimo agente penitenziario non rappresentano un'emergenza? "Più che una situazione di emergenza è una triste coincidenza, peraltro verificatasi nell'ambito di un istituito, qual è Regina Coeli, che ha già avviato moduli detentivi nuovi e che sta dando particolare attenzione all'attività trattamentale". Facciamo un passo indietro: i sindacati lamentano una grave carenza di personale. "I dati dicono che la sezione nuovi giunti ospita 107 detenuti di cui sei in alta sicurezza. Si tratta di 58 camere detentive su tre livelli. Non si può parlare dunque di sovraffollamento ma di difficoltà nell'organizzare l'accoglienza. Si tratta di detenuti spesso accusati di gravi reati e che vivono una situazione di grande disagio. Non tutti sono in regime di grande o grandissima sorveglianza, peraltro non da noi arbitrariamente decisa ma all'esito di valutazioni psicologiche e psichiatriche". Ma quanti erano gli agenti in servizio, per l'esattezza? "Quando si è tolto la vita Ludovico Caiazza erano in due, tre il giorno successivo quando si è suicidato Theodor Eduard Brehuescu". Un numero sufficiente? "È evidente che vi è una situazione di carenza di organico, non solo a Regina Coeli ma in tutta Italia. Abbiamo dovuto far fronte ad altre esigenze, come la sicurezza nei tribunali o le istanze di altri magistrati. È anche vero, però, e questo va ben chiarito, che i suicidi non si sono verificati per carenza di organico. Ridurre il dibattito a questo è inutile e sterile". Cosa intende dire? "Per Caiazza era stata prevista la grande sorveglianza, con controlli ogni quindici minuti, che sono stati rispettati, in esito a una visita psicologica. Avrebbe dovuto incontrare anche uno psichiatra. Brehuescu, invece, dal 14 maggio non era più in regime di sorveglianza ma era stato trasferito, su sua richiesta, in una cella singola: non aveva mai manifestato pensieri suicidi, ma era comunque un ragazzo di 18 anni, straniero e in una situazione di grande disagio". Sta forse dicendo che c'è una carenza di psichiatri e psicologi? "Senza dubbio abbiamo bisogno di una più completa assistenza. La sanità in carcere, un tempo in capo al ministero della Giustizia, è ora affidata alle Regioni e alle Asl. Si tratta di affinare i percorsi di sostegno e di potenziarli". Ma perché non mettere le persone a rischio suicidio in cella con altri detenuti anziché da soli? "L'esperienza purtroppo ci insegna che, in questi casi, la persona che decide di farla finita si apparta in bagno e compie il gesto estremo". Perché, allora, non fornire loro lenzuola di carta? "Si può anche immaginare una cella completamente vuota e il detenuto completamente nudo. Forse, però, c'è da chiedersi se sia un bene: una situazione di questo tipo non rischia alimentare un istinto suicidario? La soluzione passa per la collaborazione di tutti gli operatori nell'offrire la speranza di costruire un progetto di vita futura". I sindacati penitenziari lamentano una carenza del 20% di personale: 39mila a fronte di un organico di circa 45mila. "Purtroppo è un problema che condividiamo con le altre forze di polizia e il ministro Orlando ha fatto propria la mia richiesta di implementazione dell'organico. Già da tempo stiamo analizzando la possibilità di applicare il personale presente al Dap presso gli istituti del Lazio, una volta a settimana. Si potrebbe recuperare un discreto numero di personale". Giustizia: Mauro Palma "gli agenti non facciano solo i guardiani" di Mariolina Issa Corriere della Sera, 22 luglio 2015 Due suicidi a Regina Coeli, in poche ore. Torna l'emergenza nelle carceri italiane. La Polizia penitenziaria denuncia la mancanza di personale e chiede di usare lenzuola di carta. Che cosa si può e si deve fare subito? "Non sono contrario alle lenzuola di carta, possono essere un aiuto in alcuni casi, ma ritenere che questa sia la soluzione è sbagliato. Bisogna fare molto di più". Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale e consigliere del ministro della Giustizia per gli interventi in materia penitenziaria, auspica "un cambiamento di cultura politica, unica strada", dice, "per limitare il disagio nelle carceri, sia per i detenuti, sia per chi ci lavora". Come intervenire in tempi rapidi? "Va potenziato il personale, certamente, ma non solo da un punto di vista quantitativo, anche qualitativo, con corsi di formazione, perché gli agenti di polizia penitenziaria, a cui noi tutti dobbiamo molto, non devono essere considerati guardiani e basta, che chiudono le celle e controllano l'ordine. Molto spesso il personale, non per sua colpa, non è in grado di aiutare persone che non sono, diciamo così, criminali incalliti, ma sono soggetti fragili". Ma sono il degrado delle strutture, il sovraffollamento, la solitudine, a scatenare tragedie come queste? "L'Italia viene da una stagione di grave disagio a causa del sovraffollamento. Nel gennaio 2013 siamo stati sanzionati dal Consiglio europeo. Entro un anno abbiamo dovuto mettere le cose a posto perché pendevano, presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, quasi quattromila procedimenti. L'abbiamo fatto, spostando molte detenzioni verso forme alternative, senza abbassare il livello di sicurezza. Penso ai domiciliari, ai controlli esterni, all'affidamento ai servizi sociali. Al momento della sentenza della Corte, avevamo 45 mila posti per 66 mila detenuti. Adesso abbiamo 52mila detenuti per 49mila posti. Siamo ancora oltre il limite ma vicini ad azzerare il problema". Quali sono allora le altre cause, e quali le soluzioni? "Non siamo ancora riusciti a rendere la vita detentiva significativa in termini di tempo da impiegare per la rieducazione, per il reinserimento nel mondo del lavoro, per corsi di formazione interni. E non riusciamo a dare una mano ai soggetti più deboli. I detenuti, oggi, spesso sono tossicodipendenti, o persone che hanno vissuto storie difficili. Abbandonati a se stessi si sentono perduti". E come si può fare? Servono soldi per questo. "Vero, servono soldi ma soprattutto un cambiamento culturale. Il ministero ha avviato gli Stati generali delle esecuzioni penali, con 18 tavoli di confronto per discutere di ogni aspetto della vita di un detenuto. Il Parlamento sta discutendo la legge delega di revisione della 75 sull'ordinamento penitenziario. Primo punto, le strutture: useremo i fondi per trasformare le carceri esistenti e costruire con modalità diverse quelle nuove. Sono inumani quegli scatoloni di cemento con lunghi corridoi e tante celle con piccole finestre. Ci vogliono spazi per la socialità all'interno delle carceri. A fine anno avremo anche una nuova struttura dipartimentale penitenziaria". Giustizia: Ucpi; "morti annunciate", l'anno scorso 44 suicidi e 7mila atti di autolesionismo Ansa, 22 luglio 2015 Sono "morti annunciate" i suicidi di due detenuti avvenuti in poche ore nel carcere di Regina Coeli: lo sostiene l'Unione delle Camere penali che denuncia, numeri alla mano, "l'assoluta insufficienza del trattamento individuale e le carenze delle sezioni nuovi giunti". "Nel 2014 - riferiscono i penalisti- vi sono stati 44 suicidi, 933 tentativi e 6.919 atti di autolesionismo. Ad oggi, nel 2015 i suicidi sono stati 24, circa quattro ogni mese. Quelli di Roma rappresentano la drammatica situazione che ancora,nonostante la riduzione del sovraffollamento, vivono le nostre carceri. Due uomini, uno detenuto da tempo, l'altro appena rinchiuso, si sono tolti la vita perché lasciati soli, perché nessuno ha saputo cogliere il loro evidente malessere". Se il numero dei detenuti è calato "continuano a diminuire anche le risorse - denuncia l'Ucpi. Lo psicologo, quando c'è, può dedicare solo pochi, spesso inutili, minuti al detenuto, perché quel fugace incontro deve essere assicurato anche ad altri. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma valuterà eventuali responsabilità penali, ma sin da ora è evidente la colpa del mondo politico che da decenni non riesce a dare dignità all'esecuzione penale". In questo "allarmante quadro, che vede tra l'altro i Tribunali di Sorveglianza oberati di lavoro e privi del personale necessario per smaltirlo - conclude la nota - si stanno svolgendo gli Stati Generali, voluti dal Ministro della Giustizia. Un'occasione unica e importante per portare nei nostri istituti di pena la legalità chiesta dall'Europa e sancita dalla Costituzione, ma che dovrà trovare, all'esito dei lavori, un'opinione pubblica e una classe politica pronta a concretizzare quanto elaborato". Psicologi: sostegno poche ore a settimana "Ci sono 1.500 casi di tentato suicidio all'anno all'interno dei penitenziari italiani. Molti finiscono bene, perché si riesce a intervenire in tempo. Altri, come dimostra la cronaca di questi giorni, purtroppo, hanno un tragico epilogo. Non possiamo tacere di fronte a questa situazione perché coinvolge anche noi psicologi". Così il segretario generale di Aupi (Associazione Unitaria Psicologi Italiani), Mario Sellini, sui due suicidi a distanza di poche ore nel carcere romano di Regina Coeli. "Nessuno sa - continua Sellini - che i detenuti hanno mediamente dieci minuti di assistenza psicologica all'anno. Questo perché il Ministero della Giustizia non ha previsto all'interno delle strutture penitenziarie il riconoscimento di questa professione. In pratica, nelle carceri lavorano poche centinaia di cosiddetti esperti, personale esterno che ha un contratto di poche ore mensili e, dunque, non è nelle condizioni di poter fare assistenza psicologica. E oltre il danno la beffa: due anni fa il Ministero ha diramato una circolare dove faceva sapere che non venivano rinnovati gli incarichi dei vecchi esperti, per lasciare entrare nuove professionalità, con pochissima esperienza e impreparati a lavorare in un luogo tanto problematico". Ma c'è un altro dato che fa riflettere e riguarda le condizioni di lavoro degli agenti penitenziari. "Noi vogliamo dare sostegno agli agenti di polizia penitenziaria - conclude Sellini - perché il personale è stato ridotto del 20% e i turni sono massacranti. Oltre al fatto che trovarsi di fronte ad un suicidio mina la stabilità psicologica anche di queste persone che dovrebbero svolgere il proprio lavoro in condizioni appropriate, considerata la delicatezza del settore in cui operano". Giustizia: il ministro Orlando "entro il 2015 nessun bambino sarà più detenuto" di Maria Gabriella Lanza Redattore Sociale, 22 luglio 2015 Il ministro della giustizia promette che entro l'anno 34 bambini chiusi in carcere con le loro mamme saranno trasferiti in strutture alternative. "Fine per questa vergogna". Intanto, a Roma nei prossimi giorni aprirà la prima Casa famiglia protetta per madri detenute in Italia. "Entro il 2015 nessun bambino sarà più detenuto". Ad affermarlo è il ministro della Giustizia Andrea Orlando che oggi, nel penitenziario di Rebibbia, davanti a otto mamme incarcerate con i loro figli ha promesso "la fine di questa vergogna contro il senso di umanità". "Non possiamo privare un bambino della libertà, è innocente ma allo stesso tempo ha diritto di vedere sua madre", ha detto il ministro. "Abbiamo tre obiettivi da realizzare prima possibile: il primo è la fine della detenzione per questi piccoli, il secondo è quello di rivedere le modalità con cui avvengono i colloqui tra genitori e figli. Abbiamo firmato un protocollo d'intesa con l'associazione "Bambini senza sbarre" e con il Garante per l'Infanzia per ridefinire l'accoglienza in carcere". Secondo i dati del ministero della Giustizia, alla data del 15 luglio 2015 nei penitenziari di tutta Italia c'erano 33 donne che stavano scontando una pena con i loro bambini. Quindici sono state accolte negli Icam, istituto a custodia attenuata per detenute madri, aperti a Milano, Torino e Venezia; le altre 19 sono in carceri normali. Gli Icam sono delle strutture detentive più leggere, istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di misure alternative di tenere con sé i figli. "Il nostro terzo obiettivo è quello di avviare una campagna contro le patologie tipiche del carcere per evitare di intervenire dopo", ha continuato Orlando. Presente alla conferenza anche Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, che ha annunciato l'imminente apertura della prima Casa famiglia protetta a Roma. In questa struttura le donne potranno trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Non ci sono sbarre, le madri vivono in appartamenti e i loro piccoli sono inseriti nel tessuto della città. Ma, nonostante la legge sia entrata in vigore il primo gennaio del 2014, fino ad oggi non era stata aperta nessuna Case famiglie protette. "Dobbiamo coinvolgere gli enti locali e i privati cittadini per istituirle in tutta Italia, non solo a Roma. Una recente sentenza della Consulta lo ha affermato chiaramente: la detenzione dei bambini è illegale. Il carcere è un luogo estremo come dimostrano gli ultimi due suicidi avvenuti a Regina Coeli a distanza di 24 ore. In quindici anni 868 detenuti si sono tolti la vita e in dieci anni più di 100 agenti penitenziari si sono suicidati. Questa è una macchina che produce solo morte, malattia, psicosi, disperazione", afferma Manconi. Secondo il senatore: "34 innocenti in carcere sono un oltraggio alla dignità umana" D'accordo anche la presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato Anna Finocchiaro che nel 2001 ha approvato la prima legge che consentiva alle mamme di usufruire di misure alternative al carcere. "Abbiamo rotto un tabù: quello che vedeva il bambino colpevole solo perché figlio di una detenuta. Adesso dobbiamo puntare sulle Case famiglia protette: è l'unica soluzione possibile. È inaccettabile che ancora non si è trovata una soluzione per questi 34 bambini. È un numero talmente basso che non servono neanche molti soldi. Ci sono voluti 14 anni per fare dei passi avanti: in questi anni molti piccoli sono diventati adulti e noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti, siamo colpevoli di non aver fatto di più", ha spiegato Finocchiaro. Iori (Pd): bene Orlando per migliorare qualità colloqui genitori-figli in carcere "Apprezzo e sostengo le parole del ministro Orlando in occasione della sua visita al carcere di Rebibbia: la riforma dei colloqui tra i genitori detenuti e i figli minori è fondamentale per tutelare il diritto all'affettività genitoriale che purtroppo è assente in moltissime situazioni detentive", così in una nota Iori, rappresentante Pd. "Apprezzo e sostengo le parole del ministro Andrea Orlando in occasione della sua visita al carcere di Rebibbia: la riforma dei colloqui tra i genitori detenuti e i figli minori è fondamentale per tutelare il diritto all'affettività genitoriale che purtroppo è assente in moltissime situazioni detentive" riferisce in una nota l'esponente PD Vanna Iori. "Circa 100mila bambini accedono ogni anno al carcere per incontrare un genitore detenuto, il 74% di loro non ha uno spazio idoneo e dedicato all'incontro: è una situazione inaccettabile, che dà vita a un esercito di orfani forzati, costretti a colloqui spesso brevi dopo viaggi di ore per arrivare alla struttura penitenziaria, in stanzoni rumorosi e poco accoglienti, dove il turpiloquio e le urla sono la norma" ricorda il segretario della Commissione Giustizia della Camera. "In una situazione del genere è difficile parlare di rapporti educativi e di affettività: spesso un genitore detenuto si vergogna di dire la verità - si apprende in ultimo -, molti si inventano lavori, altri fantomatici viaggi all'estero, ma per tutti gli altri mantenere il rapporto genitoriale resta molto difficile con un colloquio generalmente mensile e una telefonata a settimana. Ho ritenuto per questo importante e doveroso presentare due proposte di legge sui temi del diritto alla genitorialità e sull'affettività in carcere: non possiamo negare ai minori un diritto prioritario e fondamentale per il loro sviluppo". Giustizia: intervista all'On. Luigi Manconi "nelle carceri italiane 34 bambini detenuti" radiovaticana.va, 22 luglio 2015 "Entro il 2015 arrivare a zero bambini detenuti. È necessario superare questa vergogna". Questa la promessa del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, durante la conferenza stampa "L'innocenza assoluta, la questione dei bambini in carcere", questa mattina nel carcere Rebibbia di Roma. Grazia Serra, ha intervistato Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. R. - È un annuncio importantissimo, perché risolve - ci auguriamo che risolva, quindi contiamo sulla parola data dal ministro, come un giuramento d'onore - un problema in apparenza piccolo - perché riguarda 40, 50 bambini in tutta Italia - ma che costituisce un affronto intollerabile alla civiltà giuridica del nostro Paese. D. - Al momento in carcere ci sono 34 bambini, che lei ha definito "bambini detenuti". È una vergogna, si diceva oggi… R. - Sì, perché sono gli innocenti assoluti. In carcere quasi tutti rivendicano la propria innocenza, non magari al reato di cui sono imputati, ma rispetto ad un'idea di sé, come di non colpevole. Ma se questo è vero, sotto il profilo filosofico, poi ci sono quelli che davvero sono gli innocenti assoluti: i bambini detenuti solo ed esclusivamente perché "figli di". Questo non è tollerabile. D. - Un importante annuncio è stata la realizzazione a breve della prima casa protetta… R. - L'impegno a realizzare a breve la prima casa protetta a Roma, dove sia garantita la sicurezza dei cittadini e, dunque, sia anche sorvegliata la condizione delle responsabili di reato, ma allo stesso tempo nulla che richiami il clima, l'ambiente, il sistema penitenziario che ha compromesso tutti quei bambini che hanno passato gli anni dell'infanzia in una cella chiusa. D. - Vuole aggiungere un commento sui due suicidi che ci sono stati negli ultimi giorni a Roma? Perché lei spesso ha detto che il carcere produce morte… R. - Sì, io penso che il carcere produca malattia, psicosi, depressione, autolesionismo e suicidi. Posso semplicemente confermarlo con dei dati: 868 detenuti che si sono suicidati negli ultimi quindici anni e - attenzione - oltre 100 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in 10 anni. Quindi non è l'essere privato della libertà che produce il suicidio - è anche questo - ma il fatto di vivere in quell'ambiente patogeno, cioè che produce malattia e morte. Giustizia: decreto riforma processo civile, il governo mette la fiducia sui nuovi fallimenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Il Governo metterà la fiducia sulla legge di conversione del decreto legge sulla giustizia civile. A confermarlo è lo stesso relatore, David Ermini, responsabile giustizia del Pd: "scelta opportuna. Il regolamento della Camera non prevede un contingentamento dei tempi per la discussione sui decreti legge. A questo punto, davanti a centinaia di emendamenti presentati, la dilatazione dei tempi di approvazione sarebbe stata eccessiva)". Particolarmente agguerriti i parlamentari del Movimento 5 Stelle che in Aula, nel corso del pomeriggio, hanno iniziato e proseguito con l'ostruzionismo. Al centro della contestazione soprattutto l'inserimento nel testo del decreto della norma salva Ilva, dopo che, anche in questo caso per ragione di tempi, il Governo aveva deciso di spacchettare l'originario decreto sulle imprese di rilevanza nazionale (norma Ilva nel decreto giustizia e norma Fincantieri nel decreto enti locali). Il voto finale della Camera sul testo è atteso tra la serata di domani e venerdì, ma le norme sono di fatto blindate: le uniche due correzioni dell'ultimissima ora, sollecitate dalla commissione Bilancio, hanno riguardato il processo telematico e i suoi costi. Da parte di Ermini non c'è stata disponibilità ad accogliere emendamenti presentati anche da esponenti "di peso" dello stesso Pd. Segnatamente quelli di Yoram Gutgled, consigliere del premier Matteo Renzi, tesi a sopprimere le due modifiche di maggiore spessore introdotte dalla commissione Giustizia sul fronte dei concordati preventivi: il ritorno di una percentuale minima di soddisfazione per i creditori chirografari (20%) nel concordato liquidatorio e la cancellazione della disposizione della Legge fallimentare sul silenzio assenso che consente (consentiva?) di conteggiare tra i favorevoli al piano di concordato quei creditori che non avessero manifestato un dissenso. Alle due misure, al centro delle polemiche di queste ore, dopo la loro approvazione con un blitz notturno, ma a larga maggioranza, in commissione, si attribuisce da settori della magistratura e dalle imprese un valore sia simbolico sia pratico. Sul primo versante, rappresentano il segnale di un riequilibrio della Legge fallimentare che molto (troppo?) ha scommesso in questi anni su un'impostazione mercatista in nome della quale il mercato trova sempre un suo punto di sintesi tra esigenze dei creditori, tra loro, e posizione dell'imprenditore-debitore; sul secondo, viene certo incontro, in una realtà che testimonia di plurimi piani di concordato con pagamenti irrisori dei creditori oltretutto a scadenze bibliche, alle richieste di quelle tante piccole e medie imprese che hanno visto un utilizzo spregiudicato del concordato, anche come strumento di concorrenza sleale. Se però le due norme hanno polarizzato l'attenzione in questi giorni, altre non vanno ignorate e sono anch'esse assai significative, ma solo un pò più note. Vanno annoverate in questo contesto, le disposizioni sulla presentazione di piani concorrenti di concordato, come pure sul via libera offerte in competizione per la cessione di asset aziendali; o ancora sull'accordo di ristrutturazione con controparti intermediari finanziari e sulla convenzione di moratoria. E ancora, per quanto riguarda i curatori, la disposizione introdotta anch'essa in commissione che ancora la nomina del curatore ai rapporti riepilogativi già previsti dalla Legge fallimentare. Ma nel testo sono comprese anche misure per agevolare la fase di esecuzione, rendendo finalmente possibile la ricerca dei beni dei debiti sulle banche dati pubbliche; disposizioni di organizzazione giudiziaria sui giudici di pace e la riqualificazione del personale. Confermate le misure sul trattamento temporale delle esposizioni delle banche. Giustizia: "i miei stupratori assolti dai magistrati, ma il vero processo lo hanno fatto a me" intervista realizzata da Laura Montanari La Repubblica, 22 luglio 2015 "Hanno giudicato me e la mia vita, non quello stupro. A loro interessava che fossi bisessuale o che genere di mutandine indossassi quella notte, non quello che avevo subito". Ha scritto una lettera a un blog "Non ho più niente da perdere". Li hanno assolti in appello, tutti e sei, quelli che erano stati condannati in primo grado a quattro anni e mezzo per violenza sessuale e la procura generale di Firenze non ha presentato ricorso in Cassazione. Ora i termini sono scaduti, lo stupro per la giustizia non c'è stato. "Non mi hanno creduto" dice lei, la "ragazza della Fortezza" che aveva 23 anni quando denunciò, nel 2008, di aver subito una violenza di gruppo alla fine di una festa, da ragazzi fra i 20 e i 25 anni. Adesso parla al telefono da un altro Paese e le parole si muovono ancora fra le ferite: "Ho provato a vivere in un'altra città, poi a tornare a Firenze con risultati pessimi. Ero ossessionata, inseguita dalle ombre di quella notte di luglio o da ciò che la gente poteva pensare di me. Ho vissuto per anni fra terapie e paure, fra gli psicofarmaci e la voglia di dire basta, arrendersi, farla finita. Devo andare avanti, esisto: me lo ripeto tutti i giorni". Il suo primo pensiero quando ha saputo dell'assoluzione degli imputati? "Come possono aver pensato che volessi concedermi a sette ragazzi, non sei, per me sono stati sette (uno è stato però assolto fin dal primo grado ndr) in una notte su un piazzale, dopo una festa, dentro a un'auto parcheggiata? Come possono aver pensato che quella violenza non sia mai esistita se da sette anni vivo di nevrosi, di dottori e di fughe?". Dovesi trova ora? Si è laureata? Lavora? "Sto all'estero, ma per pensare di ricominciare dovevo andare in un posto lontano dove nessuno sapesse la mia storia. Ma anche qui non è facile, se mi spuntano lacrime all'improvviso devo trovare una giustificazione perché il mondo è dei forti, le fragilità non sono comprese. E poi mi pesa essere andata via, mia madre è malata e io non riesco a starle accanto nella mia città. Quanto all'università, sì mi sono laureata, da poco. Il lavoro spero di trovarlo, per anni non sono riuscita a sostenere nemmeno un colloquio, mi prendevano crisi di panico, mi ricordavo gli interrogatori della polizia. Faccio molto volontariato in campo artistico e sociale". Lei ha scritto che la violenza non è stata soltanto quella notte, ma pure quella che una donna deve subire nelle indagini della polizia, "e le 19 ore di processo in cui è stata dissezionata" la sua vita. "Devi convincerli di essere credibile. Se hai girato un film con un amico in cui facevi il personaggio della prostituta vogliono sapere come mai. Così indagano sui tuoi gusti sessuali, con chi sei stata prima, per quanto tempo. Sul fatto che sei femminista, che lotti per le battaglie lgbt o se hai partecipato a una manifestazione. Al processo un avvocato ha tirato fuori una foto postata tre anni dopo su un social in cui sorridevo a un concerto, per dimostrare che non stavo poi così male". I giudici hanno scritto "che ho una condotta sregolata, confusa, che avevo bevuto e che quei ragazzi avrebbero mal interpretato la mia disponibilità. Guardi io non capisco niente di processi e dei cavilli a cui si attaccano, io sento solo il male che ho ancora dentro e che da quel male vorrei guarire, tornare a una vita come le altre. Invece sono piena di ricadute. È come un elastico quella notte, mi riporta ogni volta indietro appena cerco di andare avanti". Cosa prova nei confronti degli imputati, uno lo conosceva, eravate amici... "Non provo odio, non ho mai pensato alla castrazione chimica. Invidio le loro vite composte, i loro buoni avvocati, quello che fa il regista, quello che si è sposato, quelli che si sono laureati e hanno messo ordine nelle loro esistenze che io vedo da così lontano. Cerco ogni giorno di riprendere fiducia nel genere umano, è stato orribile non fidarsi di nessuno, non riuscire ad avere una relazione, fuggire per al contatto fisico perché anche una carezza, una mano che ti sfiora ti riporta al passato. È come avere davanti un muro. Vorrei dire una cosa". Quale? "Vorrei che qualcuno mi aiutasse a non arrendermi e a credere nella giustizia... ma cosa succede se non ci sarà la Cassazione? È finita?". Quattro deputati del Pd hanno annunciato un'interrogazione al ministero di Giustizia "affinché valuti se non sia opportuno chiedere una relazione alla Procura generale di Firenze sul perché non sia stato presentato ricorso contro l'assoluzione" e se "inviare un'ispezione". Qualche giorno fa, Lisa Parrini, legale della giovane, ha definito la motivazione della sentenza di secondo grado "densa di giudizi morali". Il reato di auto-riciclaggio non è retroattivo di Antonio Tomassini e Antonio Carino Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Corte d'appello di Milano, sentenza n. 4920 del 2015. Il reato di auto-riciclaggio non può essere perseguito retroattivamente e il reato presupposto di frode fiscale, sia nell'auto-riciclaggio che nel riciclaggio, va accertato e contestato, non potendosene solo presumere l'integrazione. A chiarirlo la sentenza n. 4920/15 della Corte d'appello di Milano. La vicenda aveva ad oggetto una contestazione di frode fiscale e di un successivo reato di riciclaggio, ben diverso dalla nuova fattispecie di auto-riciclaggio. Le ipotesi accusatorie erano tutte antecedenti al 1 gennaio 2015 e venivano riferite dalla Procura della Repubblica ad un imprenditore che, con una serie di operazioni societarie, avrebbe riciclato i proventi riferibili alla frode fiscale presuntivamente perpetrata dal padre sul finire degli anni 90 con la medesima azienda ora condotta dal figlio. La Corte d'appello statuisce che l'imprenditore, imputato per il reato di riciclaggio, va assolto "per non aver commesso il fatto in quanto autore di auto-riciclaggio, all'epoca non punibile ed oggi non perseguibile ex art. 2 c.p.". Non essendo stata provata la ricorrenza del reato presupposto, solo presuntivamente attribuito al papà, al più quello che si poteva ipotizzare era che il figlio avesse reimpiegato somme frutto di evasione realizzata da esso stesso, ma l'auto-riciclaggio non può certo essere contestato retroattivamente. A ben guardare si tratta di tutti fatti (anche quelli del presunto riciclaggio) antecedenti al 1° gennaio 2015, data di entrata in vigore dell'auto-riciclaggio, prima della quale non è proprio possibile punire condotte di tal specie. La sentenza dei giudici milanesi fa riflettere più in generale sull'interpretazione del nuovo reato. Posto che l'integrazione della fattispecie è correlata alla commissione di un precedente reato ascrivibile al medesimo autore, è lecito domandarsi se all'applicazione pratica da parte dei Tribunali l'auto-riciclaggio sarà configurabile in presenza di reati presupposto (reati tributari, contro il patrimonio, ecc.) commessi in data antecedente al gennaio 2015 o se, invece, solo per i reati presupposto integrati a partire da questa data. Parte della dottrina ritiene applicabile la fattispecie in questione solo ove susseguente alla commissione di reati post 31 gennaio 2014 e, quindi, dopo l'entrata in vigore dell'articolo 648-ter. A sostegno di questa tesi si è argomentato per la non punibilità della condotta di auto-riciclaggio sulla base della considerazione che lo stesso reato da cui proviene il provento sarebbe un elemento integrativo del precetto penale e non un semplice presupposto della condotta. Secondo altra corrente di pensiero, però, andrebbe notato come il richiamo contenuto nell'articolo 648 ter Codice penale all'ultimo comma dell'articolo 648 (che rende punibile il reato anche se quello presupposto sia non punibile, non procedibile o commesso da soggetto non imputabile) possa far propendere per la considerazione del reato che genera il provento quale semplice presupposto della condotta e non come elemento integrativo. A tale conclusione, secondo alcuni autori, si dovrebbe arrivare alla luce del fatto che il tempus commissi delicti dell'auto-riciclaggio si colloca nel momento in cui il soggetto ostacola la ricostruzione della provenienza dei fondi. Pertanto, anche nel caso in cui la violazione tributaria si collocasse temporalmente prima o addirittura si fosse prescritto il termine per accertare e punire il comportamento delittuoso a monte, il reato di auto-riciclaggio potrebbe considerarsi integrato e sarebbe punibile. Certo è, tuttavia, che, come correttamente ricorda la Corte d'Appello di Milano, se il reato presupposto non è stato nemmeno accertato, non dovrebbe mai ipotizzarsi né il riciclaggio né l'auto-riciclaggio. Tra carta e online parificazione assai discutibile di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Con sentenza n. 31022 del 2015, le Sezioni unite penali della cassazione hanno stabilito che le garanzie previste dalla Costituzione a tutela della stampa si applichino anche all'informazione attuata in modo professionale e diffusa in rete. Una simile pronuncia è rivoluzionaria sia per il tenore della decisione, sia per alcuni passaggi della motivazione. Ma mentre l'esito ci pare condivisibile, sul ragionamento che ha condotto a tale risultato nutriamo più di una perplessità. La Corte prende le mosse da un'esigenza comunemente sentita. La diversità di disciplina tra carta stampata e online può urtare contro un certo qual senso di uguaglianza sostanziale che indurrebbe, viceversa, ad applicare ai due fenomeni, obiettivamente molto simili, medesime regole. Per giungere a questo risultato, però, le Sezioni unite forniscono quella che ritengono essere un'interpretazione evolutiva del concetto di stampa, contenuto nell'articolo 21 della Costituzione e nella stessa "legge stampa" del 1948, a cui non si riesce ad aderire. Secondo la Corte, tale nozione va intesa in senso "figurato" e in quest'ottica corrisponderebbe esclusivamente alla stampa periodica, ovvero all'informazione giornalistica professionale, qualunque sia il mezzo con cui viene diffusa. Una simile presa di posizione, quasi del tutto "inedita" nel panorama dell'ordinamento, travolge l'interpretazione tradizionale, che riconduceva alla stampa, seguendo la lettera della definizione normativa, solo le riproduzioni effettuate con mezzi meccanici e fisico chimici destinate alla pubblicazione, senza distinzione di contenuto. A tale definizione appartenevano certamente i giornali, ma anche i volantini, i libri, i manifesti, qualunque fosse l'argomento in essi trattato, mentre ne era escluso qualunque messaggio diffuso in via telematica poiché era assente, se non altro, la moltiplicazione delle copie. L'indirizzo scelto dalla recente sentenza, discutibile di per sé, suggerisce ancora maggior scetticismo se si considerano i corollari che la Corte esplicitamente ne trae. Sono conseguenze che vanno ben al di là della questione di diritto sottoposta dalla sezione rimettente. In sintesi si tratta di questo: tutte le disposizioni previste dall'ordinamento per la "stampa" e in particolare per quella periodica, trovano già oggi applicazione alle manifestazioni del pensiero diffuse in rete, a patto che queste ultime abbiano appunto la "natura" giornalistica. Così, il Collegio sottolinea nella motivazione come sussista fin d'ora un obbligo di registrazione per le testate telematiche presso la cancelleria del tribunale, con la relativa commissione del reato di stampa clandestina per chi non adempie a tale obbligo. Ancora: i giornali online dovrebbero dotarsi di un direttore, a cui sarebbe applicabile l'articolo 57 Codice penale, con la relativa responsabilità colposa per omesso controllo nel caso di reato commesso sul periodico da lui diretto. La giurisprudenza delle Sezioni semplici, finora, aveva escluso simili ipotesi poiché, come accennato, la definizione di stampa non comprendeva la rete, circostanza che escludeva l'applicabilità a quest'ultima delle disposizioni incriminatrici previste per la stampa, in base al divieto di analogia in malam partem. Non nascondiamo un certo scoramento dopo la lettura delle motivazioni e ci permettiamo di sperare che di questo arresto, proveniente da un organo così autorevole, resti nei repertori il dispositivo più che l'apparato di argomenti che lo sostiene. Diffamazione via internet, il luogo dell'upload radica la competenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 21 luglio 2015 n. 31677. Nella diffamazione via internet, quando non sia possibile determinare il luogo di consumazione del reato, la competenza non va individuata con riferimento all'ubicazione dei server che ospitano i contenuti diffamatori bensì guardando al luogo dove i dati sono stati immessi nelle rete. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 31677/2015, chiarendo un altro punto controverso nel perseguimento dei reati commessi tramite il web. Il caso - La vicenda riguardava la condanna, nei due gradi di merito, di un noto giornalista per aver diffamato, screditandone l'immagine pubblica, il segretario dell'Associazione nazionale magistrati accusandolo di non aver preso una posizione chiara sul caso de Magistris per ragioni di interesse personale. Proposto ricorso, il giornalista, tra l'altro, aveva sostenuto la violazione dell'articolo 9 del C.p.p. in relazione alla ritenuta competenza del tribunale di Bari, sezione distaccata di Altamura, in luogo di quella di Torino. Secondo l'imputato, infatti, "non essendo noto il luogo di consumazione del reato, avrebbe dovuto darsi ingresso al primo criterio suppletivo che individua la competenza presso il giudice dell'ultimo luogo in cui si è verificata una parte della condotta criminosa". E così aveva indicato il capoluogo piemontese sede dei server del blog. La motivazione - Sul punto, però, la Cassazione ricorda un recente precedente a Sezioni unite (17325/2015) secondo cui il luogo dell'accesso al sistema informatico deve individuarsi "non nella allocazione fisica del server host, bensì laddove il soggetto, dotato di un hardware in grado di collegarsi con la rete, effettui l'accesso in remoto". E, prosegue la sentenza, tale criterio può essere mutuato anche "per il caso di upload di un articolo a contenuto diffamatorio, che pertanto deve ritenersi effettuato non nel luogo dove si trova l'elaboratore elettronico che conserva e rende disponibili i dati per l'accesso degli utenti, bensì nel luogo in cui il caricamento del dato "informatico" viene effettivamente eseguito". Ora, osserva la Corte, al momento della proposizione dell'eccezione di incompetenza, c'erano diversi elementi che consentivano di individuare il luogo di caricamento dell'articolo. In particolare, era noto che l'upload era avvenuto per mano di una terza persona residente a Ferrara che aveva dichiarato di aver utilizzato una connessione fissa e dunque verosimilmente quella di casa propria. Da qui l'annullamento della condanne e la trasmissione degli atti al Procurare della Repubblica di Ferrara, sulla base del seguente principio di diritto: "Nei reati di diffamazione commessi a mezzo della rete internet, ove sia impossibile individuare il luogo di consumazione del reato e sia invece possibile individuare il luogo in remoto in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato, tale criterio di collegamento, in quanto prioritario rispetto a quello di cui al comma II dell'articolo 9 cpp, deve prevalere su quest'ultimo, cosicché la competenza risulta individuabile con riferimento al luogo fisico ove viene effettuato l'accesso alla rete per il caricamento dei dati sul server". Niente diffamazione per la controparte che denuncia irregolarità dell'avversario di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 21 luglio 2015 n. 31674. Come nelle migliori gare di pugilato, due avvocati se ne sono date di santa ragione. Ma al gong finale - strano a dirlo - non c'è stato un vinto e un vincitore. Situazione di perfetta parità quindi. Questo perché il legale della controricorrente ha proposto ricorso in Cassazione contro le sentenze di merito di condanna per diffamazione del proprio assistito. Il reato in questione era derivato dalla denuncia fatta dalla controricorrente nei confronti dell'altra parte per aver utilizzato documenti falsi tali da indurre il giudice in errore e fargli prendere una decisione sbagliata. La denuncia all'Ordine degli avvocati - L'imputata, perciò, convinta del fatto suo, aveva inviato al Consiglio dell'ordine degli avvocati di Perugia un esposto in cui accusava il togato per aver richiesto un decreto ingiuntivo indicando documenti diversi da quelli effettivamente prodotti con la palese intenzione di trarre in inganno il giudice, il quale in effetti aveva addirittura concesso la provvisoria esecuzione del decreto di ingiunzione senza che, a suo dire, sussistessero i requisiti di legge. I giudice della Cassazione, dunque si sono trovati alle prese con una vicenda piuttosto complessa e sicuramente non facile da risolvere. La Corte, con la sentenza n. 31674/2015, come di consueto, facendo appello al buon senso e al dettato normativo ha ritenuto pienamente legittima la denuncia della controparte al Consiglio dell'ordine degli avvocati avendo denunciato un comportamento che secondo la parte non rispettava nemmeno lontanamente i doveri di indipendenza, lealtà, probità, decoro, diligenza e competenza propri di che esercita la professione forense. Si legge nella sentenza come i giudici nei precedenti gradi di giudizio si fossero concentrati esclusivamente sul giudicare le espressioni utilizzate dalla controparte come "la palese intenzione di trarre in inganno" locuzione che per l'appunto rappresentava un'accusa di aver agito (la controparte) con dolo intenzionale che avrebbe aggirato il giudice così da indurlo a concedere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo senza che ne sussistessero i presupposti. Le stesse sentenze del passato, quindi, avevano riconosciuto la responsabilità per la controparte di aver agito fraudolentemente nei confronti dell'avvocato che invocava la diffamazione e tale reato era stato comminato correttamente. La posizione della Corte - Secondo la Cassazione, invece, per risolvere la controversia andava effettivamente esaminato l'operato della controparte. E questo nelle fasi di merito non è stato assolutamente fatto. Infatti non era mai stata condotta una verifica sulla natura dei documenti prodotti e che avrebbero provocato la misura giudiziale. Conclude la decisione spiegando che "è l'accertamento della realtà di fatto che è idoneo a influenzare il giudizio sulla condotta dell'imputata, giacché, se l'avvocato della parte avesse fatto quanto denunciato, nessuna censura poteva essere mossa alla denunciante, poiché l'esercizio del diritto è incompatibile anche a livello putativo con la responsabilità sia essa penale o civile, purché l'errore in cui il legale sia incorso sia stato effettivamente all'origine delle rimostranze dell'imputata". Annullata perciò la sentenza di condanna per diffamazione e rinvio per un nuovo esame della causa al Tribunale di Perugia. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni anche con l'esibizione della pistola di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 21 luglio 2015 n. 31654. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non violenza privata per il creditore che appoggia una pistola sulla scrivania del debitore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 21 luglio 2015 n. 31654, chiarendo che l'aggravante dell'utilizzo di una arma è espressamente prevista dalla fattispecie criminosa. Spiega infatti la Suprema corte che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone si differenzia da quello di violenza privata - che ugualmente contiene l'elemento della violenza o della minaccia alla persona - "non nella materialità del fatto, che può essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell'elemento intenzionale". Infatti, nel reato di cui all'articolo 393, c.p., come in quello di cui all'articolo 392, in cui la violenza è esercitata sulle cose, "l'agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata". Ciò che dunque caratterizza il reato è "la sostituzione della strumento di tutela pubblico con quello privato". È poi necessario che la condotta illegittima non ecceda "macroscopicamente i limiti insiti nel fine di esercitare, anche arbitrariamente, un proprio diritto", giacché in caso contrario ricorrono gli estremi della diversa ipotesi della violenza privata (610 c.p.). Ora, secondo la Corte di merito il comportamento dell'imputato aveva travalicato tale limite in quanto il comportamento tenuto era "incompatibile con il ragionevole intento di far valere il proprio diritto di credito". Per i giudici di Piazza Cavour, però, è lo stesso articolo 393 a prevedere, al comma 3, che la violenza o minaccia possa essere commessa con le armi. Dunque, escluso che "la semplice esibizione di un'arma da parte dell'agente possa essere considerata di per sé un ostacolo alla configurazione del delitto di cui all'art. 393, c.p.," rimaneva ancora da stabilire se l'agente abbia o meno "macroscopicamente superato i limiti dell'esercizio arbitrario sfociando nella violenza privata". Ebbene, per la Cassazione la risposta non può che essere negativa, "proprio per le modalità non particolarmente allarmanti con cui è stata utilizzata l'arma, non è dato sapere se carica o meno, che l'imputato si è limitato ad esibire, riponendola su di una scrivania, senza puntarla all'indirizzo del debitore". La prescrizione non blocca la confisca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza del 21 luglio 2015 n. 31617. È possibile la confisca del prezzo o del profitto del reato anche in caso di intervenuta prescrizione. E poi: quando il prezzo o il profitto del delitto è costituito da denaro, la confisca delle somme di cui l'interessato ha la disponibilità, è sempre da qualificare come confisca diretta, senza necessità di provare la derivazione della somma confiscata dal reato. Sono questi i chiarimenti offerti ieri dalle Sezioni unite penali nella sentenza n. 31617 depositata ieri (anticipata sul Sole 24 Ore del 1° luglio). Sul primo punto, le Sezioni unite svolgono una lunga riflessione per arrivare alla conclusione che la confisca del prezzo del reato non rappresenta una vera e propria pena, e, perciò, non presuppone necessariamente un giudicato formale di condanna come unica fonte adatta a svolgere le funzioni di titolo esecutivo. Ciò che invece conta anche nella prospettiva tracciata da plurime pronunce della Corte di giustizia europea, è che la responsabilità sia stata accertata con una sentenza di condanna anche se il processo è stato definito con una dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione. Tuttavia, l'intervento della prescrizione, per poter conservare la misura della confisca, deve essere una forma di conclusione del giudizio "neutra" in termini di affermazione di responsabilità, confermando nei fatti in questo modo un precedente giudizio di condanna, secondo un modello, osservano le Sezioni unite, non troppo diverso da quello delineato dall'articolo 578 del Codice di procedura penale in materia di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione. Del resto, sottolinea ancora la pronuncia, "la non rinuncia alla prescrizione presuppone una sorta di nolo contendere sul punto, rendendo ancora più bizzarra l'ipotesi di una automatica (ed ingiustificata) vivificazione di un provvedimento che, come si è detto, mira esclusivamente a riportare il pretium sceleris al di fuori della sfera patrimoniale di chi l'abbia percepito". Per le Sezioni unite, così, nel principio di diritto fissato, la confisca è possibile anche quando il reato è stato prescritto. A condizione che si tratti di confisca diretta e ci sia stata una precedente pronuncia di condanna "rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell'imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato". Quanto al secondo chiarimento di fondo relativo al prezzo o profitto costituito da denaro, la sentenza osserva che in questo caso la somma si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto e perde ogni connotato di autonomia in relazione all'identificabilità fisica. Decisione del giudice a seguito di trattazione orale Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2015 Procedimento civile - Procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica - Sentenza emessa ex art. 281 sexies cod. proc. civ. - Lettura e sottoscrizione della sentenza e del verbale da parte del giudice - Omissione del deposito, della data e della firma del cancelliere immediatamente dopo l'udienza - Nullità della sentenza - Esclusione - Fondamento. La sentenza pronunciata ex art. 281 sexies cod. proc. civ., integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l'udienza. La previsione normativa dell'immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire al cancelliere il suo inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze - con l'attribuzione del relativo numero identificativo-ed alle parti di chiederne il rilascio di copia. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 29 maggio 2015 n. 11176. Procedimento civile - Sentenza emessa ex art. 281 sexies cod. proc. civ. - Lettura del dispositivo in udienza senza contestuale deposito della motivazione - Nullità - Conversione in sentenza ordinaria - Esclusione - Fondamento. La sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., con la lettura del dispositivo in udienza ma senza il contestuale deposito della motivazione, è nulla in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, dovendosi altresì escludere la sua conversione in una valida sentenza ordinaria poiché la pubblicazione del dispositivo consuma il potere decisorio del giudice, sicché la successiva motivazione è irrilevante in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 30 marzo 2015 n. 6394. Procedimento civile - Sentenza emessa ex art. 281 sexies cod. proc. civ. - Sentenza contestuale- Omessa lettura del dispositivo in udienza - Effettivo deposito contestuale di motivazione e dispositivo - Conseguenze - Nullità - Esclusione. La sentenza con motivazione contestuale, pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., non è nulla nel caso in cui il giudice non provveda alla lettura del dispositivo in udienza e vi sia stato il deposito immediato ed integrale del dispositivo e della motivazione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 12 febbraio 2015 n. 2736. Procedimento civile - Sentenza emessa ex art. 281 sexies cod. proc. civ. - Sentenza ex art. 281 sexies cod. proc. civ. - Predisposizione di una bozza di provvedimento prima della discussione - Nullità - Condizioni. In caso di sentenza pronunciata ex art. 281 sexies cod. proc. civ., non è causa di nullità la predisposizione, da parte del giudice, dopo il doveroso studio preliminare della causa ( prima dell'udienza) di un testo provvisorio del provvedimento, salvo che ciò si traduca nel mancato esame delle questioni di fatto e di diritto prospettate nella discussione, compatibili con le posizioni assunte dalle parti e rilevanti ai fini della decisione, ovvero in un pregiudizio per la difesa. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 14 maggio 2014 n. 10453. Procedimento civile - Sentenza ex art. 281 sexies cod. proc. civ. - Inosservanza delle forme previste dalla legge - Nullità - Esclusione - Fondamento - Fattispecie in tema di consegna alle parti di uno stampato poi sottoscritto dal giudice e depositato in cancelleria. La sentenza pronunciata ex art. 281 sexies cod. proc. civ. senza l'osservanza delle forme previste dal codice non può essere dichiarata nulla ove sia stato raggiunto lo scopo dell'immodificabilità della decisione e della sua conseguenzialità rispetto alle ragioni ritenute rilevanti dal giudice all'esito della discussione, trattandosi, in ogni caso, di sanzione neppure comminata dalla legge. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 14 maggio 2014 n. 10453. Lettere: il buio, il carcere e l'indifferenza di noi fuori di Antonio Padellaro Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2015 Ultime notizie dal buio dell'indifferenza. Suicida in cella presunto killer gioielliere, solo due agenti in servizio, aperta inchiesta. Un altro detenuto s'impicca nel carcere di Regina Coeli. Unica reazione dal mondo dei vivi (si fa per dire) quella di Matteo Salvini: a proposito del morto numero uno twitta: "Non sono troppo dispiaciuto". Ecco. Alcuni mesi fa, in un ciclo d'incontri con giornalisti e scrittori promosso a Rebibbia dall'associazione Antigone e da Giorgio Poidomani, ebbi modo di parlare con un gruppo di detenuti che non si rassegnano ad essere considerati dei numeri, e pure fastidiosi. Con grande franchezza mi dissero una verità incontestabile: grazie di essere qui, ma quando tornerai là fuori quanti articoli scriverai sulla nostra condizione? Poi, uno di loro, Federico Mollo, che segue un corso di scrittura creativa, mi regalò un suo struggente libro di poesie, Sentimento prigioniero, che ora sfoglio pensando alle ristrettezze delle celle, al caldo insopportabile di questi giorni, e a quei due numeri in meno. Nel buio carcerario qualche bagliore lo portano Antigone, il lavoro incessante dei Radicali e la vicinanza di Papa Francesco. Stavo per scrivere che tutto il resto è Salvini, ma spero proprio di no. Leggo Federico: "me sento perso, affranto, confuso, penso alla vita che freme lì fuori, ne percepisco gli echi, ne assaporo gli odori". Roma: nel "braccio dei suicidi" a Regina Coeli, solo tre agenti a vigilare su 112 detenuti di Lorenzo De Cicco Il Messaggero, 22 luglio 2015 Nella VII sezione si è ucciso il killer di Prati, dopo 24 ore l'omicida del parrucchiere dei vip. La direttrice: "Eventi imprevedibili". Marroni: "L'istituto non è a norma". Chi arriva nel cuore centrale di Regina Coeli, in quella che tutti chiamano "la prima rotonda", non può non accorgersi dei due grandi quadri che dominano lo spiazzo. Rappresentano la Madonna e Gesù in croce, col suo viso rassegnato e sofferente. La stessa espressione che noti sulle facce dei detenuti. La settima sezione, quella dove domenica notte si è impiccato il killer di Prati e, neanche 24 ore dopo, si è tolto al vita il 18enne romeno accusato dell'omicidio del parrucchiere dei vip a Pineta Sacchetti, è nell'altra rotonda, la seconda. "Qui ci teniamo i detenuti in attesa di convalida", spiega la direttrice del carcere, Silvana Sergi. "Queste due tragedie ci hanno colpito tutti. Erano tre anni che non accadeva niente di simile. Purtroppo ormai ho imparato che chi vuole fare questo gesto estremo, non lo fa capire a nessuno. A un certo punto nelle loro menti scatta qualcosa, un meccanismo quasi impossibile captare anche per i nostri operatori". I sindacati puntano il dito sul sovraffollamento. Costantino Massimo, segretario della Cisl Fns, spiega che l'istituto "oggi ospita 839 detenuti sui 624 stabiliti dal ministero della Giustizia". A controllarli sono solo di 449 agenti. "La pianta organica ne prevede 613". Secondo Angelo Marroni, l'ex garante dei detenuti del Lazio, c'è soprattutto un problema "strutturale" per Regina Coeli. Questo ex convento voluto a metà del Seicento da Urbano VII e poi convertito in carcere nel 1881 dal nuovo Regno d'Italia, "non è adatto ad essere un istituto penitenziario. Non è a norma". Dovrebbe essere un "carcere giudiziario", come è inciso sul frontespizio del portone d'ingresso, vale a dire una struttura temporanea, una "porta girevole" per smistare i detenuti in altri istituti. "Invece - spiega l'ex garante - molti qui dentro passano anche 4-5 anni". Troppi, per una struttura che "non ha nessuno spazio ricreativo o sportivo e celle spesso degradate". Al piano terra della Seconda sezione, dove sono rinchiusi i malati con disturbi psichici, non ci sono neanche le lenzuola e i letti sono inchiodati al pavimento, per evitare atti di autolesionismo. La Terza sezione ha ancora le docce comuni. Nelle celle dove i bagni ci sono, invece, spesso gli impianti sono rotti o fatiscenti. "La manutenzione la fanno i detenuti", spiega ancora la direttrice. E in alcune celle il bagno e la cucina, sono nello stesso loculo. Nel "braccio dei suicidi", la settima sezione, spiega la direttrice, sono ospitati in 112. A sorvegliarli in teoria sono 18 agenti. Ma di fatto la turnazione prevede che in ognuno dei 3 reparti ci siano al massimo da 2-3 poliziotti contemporaneamente. Secondo Silvana Sergi però "questi numeri con i suicidi non c'entrano nulla. Sono eventi imprevedibili". Theodor, il 18enne romeno accusato dell'omicidio del parrucchiere dei vip, "era un detenuto modello. Non era sconvolto per quello che aveva fatto, non eccedeva nelle terapie: prendeva solo dieci gocce di tranquillante, succede spesso a un detenuto così giovane". All'inizio era stato con altri detenuti, racconta la direttrice, "poi aveva chiesto di stare da solo. Lo avevano infastidito, anche perché il suo reato era stato consumato in un ambiente gay per una prestazione sessuale. Dall'8 luglio era in una cella da solo, proprio per evitare contatti. Da noi era seguito. Purtroppo non è servito". Roma: "guardo il soffitto da mesi…", così in carcere i detenuti la fanno finita di Cristiana Mangani e Adelaide Pierucci Il Messaggero, 22 luglio 2015 La storia del 18enne accusato del delitto del parrucchiere dei vip: "Sono una nullità". Si è ucciso impiccandosi a Regina Coeli, aveva chiesto e ottenuto il cambio di cella. A trovare il corpo di Theodor Eduard Brehuescu è stato sempre lo stesso agente penitenziario che, un giorno prima, aveva tentato di soccorrere Ludovico Caiazza, l'uomo accusato di aver ucciso il gioielliere Giancarlo Nocchia. Era nei turni di servizio e non gli è stato risparmiato il nuovo shock. Un particolare che la dice lunga sulla situazione dell'organico nelle carceri italiane: il personale è poco, ci sono anche le ferie, ed è toccato sempre a lui, al poliziotto che a Regina Coeli chiamano "il tedesco" per il suo rigore, tentare di salvare un altro giovanissimo, un altro disperato. Così le inchieste della procura di Roma sono diventate due e non si sa ancora se i casi verranno unificati. Ma le storie che percorrono "quelle celle oscure" parlano di solitudine, disadattamento, e anche di poca possibilità di riscatto, perché all'Istituto di via della Lungara le iniziative sono scarse. La storia di Brehuescu ne è un esempio, e la sua condotta non è meno violenta di quella di Caiazza. Stessa ferocia nell'esecuzione di un delitto, stessa incapacità di gestire la detenzione e la presa di coscienza di quanto hanno commesso. Il romeno era finito in carcere per aver ucciso, insieme con u ventunenne Florin Liviu Vlad Axente, il parrucchiere Mario Pegoretti. Lo avevano ammazzato a colpi di pietra, senza pietà. In quei giorni Brehuescu era ancora minorenne e, forse, avrebbe sperato in una detenzione diversa, in un istituto per minori. Ma quando gli investigatori hanno individuato i presunti assassini, il ragazzo aveva ormai compiuto 18 anni da un giorno e si è ritrovato a Regina Coeli, guardato a vista in strettissima sorveglianza, perché - dietro le sbarre - agli stranieri che uccidono gli italiani, riservano un trattamento non particolarmente di favore. Lui, nel frattempo, ha sempre negato di essere l'autore dell'omicidio, mentre il complice ha continuato a tirarlo dentro. Poi qualcosa non ha funzionato, Theodor si è sentito minacciato, ha avuto paura: chiede di essere trasferito in un'altra sezione. Lui si trova alla VII, quella dei "nuovi giunti", dove era stato portato anche Caiazza, ed è lì che matura il proposito di farla finita. Nei mesi precedenti il regime di sorveglianza è diminuito: è passato da grandissima a grande, fino a niente. Brehuescu è, quindi, senza controllo, in una cella da solo, due piani sopra il detenuto Caiazza che ha scelto di morire qualche ora prima di lui. Forse l'altro suicidio gli fa immaginare che non ci sia via di uscita, che la sua vita ormai è persa: tagliuzza il lenzuolo di stoffa e si impicca alle grate della cella. Che soffrisse di un forte disagio lo sanno bene i suoi legali. Lo aveva manifestato più volte, anche mercoledì scorso, quando ha incontrato uno degli avvocati. "Sono tre mesi che guardo solo il soffitto - si è sfogato - Non ho un libro, ho solo un'ora d'aria, faccio la doccia da solo, non scambio una parola con nessuno. Non so proprio come passare la giornata. Avvocato, mi faccia aiutare da uno psicologo, mi sento una nullità". Qualche cella più in là il presunto complice è stato ritrovato con alcuni tagli sul corpo. Si parla di atti di autolesionismo, ma, allo stato, non si può escludere che qualcuno all'interno del carcere volesse fargliela pagare. "II problema - dichiara l'avvocato Giovanni Savona che lo assiste con un altro collega - è che nelle carceri c'è la tendenza a trattare male chi ha commesso omicidi contro italiani. E poi c'è poco personale, tanto affollamento. Ci vorrebbe più attenzione ai diritti umani". Ieri la mamma di Theodor, distrutta dal dolore, si è interrogata a lungo sul perché questa cosa sia successa: "Andava aiutato di più - si è disperata - Andava controllato a vista, perché tutto questo non è stato fatto?" L'agente che ha trovato il corpo, nel frattempo, è stato sentito dalla procura. Volevano conoscere la dinamica dei fatti. È provatissimo e ancora sotto shock per quanto ha visto nel giro di poche ore. "Non gli hanno neanche risparmiato di continuare a stare in servizio pure il secondo giorno - dice Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria - Quando è morto Ludovico Caiazza era di turno solo lui, insieme con un altro collega che stava alla rotonda. La seconda sera, invece, il turno era stato rinforzato ed erano in tre". Ieri sulla vicenda è intervenuto il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Aspetto che mi arrivi la relazione prima di prendere qualsiasi decisione - ha dichiarato. Ne ho chiesta una amministrativa, già avviata dal Dap, e una penale". Roma: quella porta aperta due volte sull'orrore, parlano gli agenti di Polizia penitenziaria di Federica Angeli La Repubblica, 22 luglio 2015 "Trovarsi di fronte a un uomo impiccato è una scena che difficilmente si dimentica. All'agente che ha soccorso il primo detenuto suicida domenica notte non hanno neanche dato qualche giorno di riposo o prescritto una visita psicologica. Niente. Il giorno dopo era di nuovo a lavorare, malgrado lo shock, e ha dovuto soccorrere il secondo suicida. Siamo sotto organico e pochi sanno cosa vuol dire lavorare in un carcere". Giovanni Passaro, segretario provinciale del sindacato Sappe, ha oltre 20 anni di esperienza alle spalle nel corpo della polizia penitenziaria. Accanto a lui un agente che spiega cosa è accaduto. Due suicidi in 48 ore, nel VII braccio di Regina Coeli, nessuno poteva evitarli? "Le spiego come funziona. Per quanto riguarda il primo dei due suicidi, era stato stabilito che ci fosse la massima sorveglianza. Ciò significa controlli ogni 15 minuti. La psicologa che aveva visitato quell'uomo aveva deciso così perché era molto agitato. Ogni cella ha due porte: una blindata e la cancellata a sbarre. La prima era aperta per via del caldo, quindi il controllo, passando davanti alla cella era agevolato. Alle 22.30 l'uomo era sulla branda. Al passaggio delle 22.45 era impiccato. Lo abbiamo slegato e poi praticato un massaggio cardiaco". Stessa scena la sera seguente? "Sì, con la differenza che per il secondo uomo l'unica prescrizione era dì stare in cella da solo per ritorsioni da parte di altri detenuti. Alle 21.30 l'agente di turno addetto al controllo del secondo piano e terzo piano (ovvero di 150 detenuti da solo), l'ha trovato morto, anche lui impiccato". Impossibile per voi agenti penitenziari prevenire gesti del genere? "E come si fa? Siamo pochi, siamo 25 a turno per 850 detenuti in tutta Regina Coeli, tra la medicheria e i vari bracci. Malgrado questo in entrambi i casi le vittime sono state soccorse a pochi minuti dal gesto, non dopo ore dimenticati in una cella, questo ci tengo a sottolinearlo". Firenze: detenuto di 45 anni muore giocando a calcetto, forse ucciso dal caldo di Luca Serrano La Repubblica, 22 luglio 2015 SI è accasciato a terra davanti agli sguardi sconvolti degli altri detenuti, durante una partita di calcio organizzata nell'ora d'aria. Torna l'allarme per le condizioni del carcere di Sollicciano, dove lunedì pomeriggio un cittadino albanese di 45 anni ha perso la vita stroncato da un infarto: si tratta del nono detenuto morto nel carcere fiorentino dall'inizio dell'anno. Una tragedia che secondo il sindacato di polizia penitenziaria Osapp è stata provocata con tutta probabilità dal caldo torrido all'interno della struttura: "Ci domandiamo se sia il caso, secondo noi sì, di sospendere l'attività sportiva all'aperto nelle ore pomeridiane quando il caldo si fa opprimente- commenta il sindacato - appare evidente la necessità di evitare tali rischi soprattutto per quei detenuti che non hanno un'attestazione medica di idoneità". "Il caldo a Sollicciano è insopportabile, più che in altre case circondariali - attacca il garante per i detenuti della Toscana, Franco Corleone - per fortuna non siamo più ai livelli di sovraffollamento degli anni passati, ma la situazione è ancora grave e merita risposte immediate". Sul caso, intanto, il pubblico ministero di turno ha disposto il trasferimento all'istituto di medicina legale di Careggi, per effettuare l'autopsia. L'uomo stava scontando una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti con fine pena nel febbraio 2017. Lunedì pomeriggio, sotto il sole battente, non ha saputo resistere all'ora d'aria e a una partita di calcio: complice l'afa, all'improvviso ha accusato un malore ed è caduto a terra senza sensi. I soccorsi sono scattati nel giro di pochi istanti. Portato d'urgenza in ospedale, i medici hanno a lungo provato a rianimarlo ma alla fine non hanno potuto far altro che constatare la morte. "I problemi sono quelli di sempre: mancanza di personale, assistenza sanitaria disastrata, condizioni di vita drammatiche - scrive in una nota l'Osservatorio carcere della Camera Penale di Firenze - Le Camere Penali assieme alle associazioni che si occupano di carcere continuano a denunciare questa situazione, ma politica e istituzioni, evidentemente, hanno una diversa agenda. Serve un ordinamento nel quale la pena della detenzione sia misura non centrale del sistema. Nel frattempo, amnistia e indulto rappresentano l'unica soluzione immediata praticabile". Parma: il Garante dei detenuti "troppo caldo, disagi nelle celle e negli spazi comuni" parmatoday.it, 22 luglio 2015 Emergenza caldo nel carcere di via Burla a Parma. Ecco la lettera che il Garante dei Detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri ha inviato ad Elena Saccenti, Direttore Generale dell'Ausl di Parma e a Carlo Berdini, direttore degli Istituti Penitenziari di Parma. Spett.li Direttori, il perdurare della emergenza caldo, che da oltre una settimana coinvolge il nostro territorio, e la conseguente e difficile vivibilità degli spazi detentivi del carcere ha fatto aumentare in modo significativo le segnalazioni di sofferenza e preoccupazione da parte di detenuti, dei loro familiari e legali. Va ricordato che lo scorso aprile il Direttore generale della Sanità e politiche sociali della Regione Emilia Romagna ha diffuso le "Linee regionali di intervento per mitigare l'impatto di eventuali ondate di calore - estate 2015" e a tal proposito si chiede alla SS.VV. se: la direzione del carcere e conseguentemente la popolazione detenuta è informata per tempo dai Responsabili dei gruppi operativi della Azienda sanitaria di Parma del verificarsi di giorni nei quali si prevedono disagi meteoclimatici; se e in quale modo sono state valutate le condizioni microclimatiche attuali delle sezioni e delle celle di detenzione e degli spazi dedicati alla socialità e alla cosiddetta "aria" anche al fine di adottare provvedimenti per mitigare l'impatto sui detenuti dell'ondata di calore. Nel corso di una ispezione condotta dallo scrivente lo scorso venerdì è stato rilevato il disagio vissuto dai detenuti per le alte temperature presenti nelle celle e negli spazi comuni. Si prega pertanto le SS.VV. di informare lo scrivente se e in che modo sono state adottate misure per facilitare le condizioni di vita dei detenuti: anziani, gli over 65 anni presenti sono oltre 50 di cui 20 hanno più di 75 anni, cardiopatici che risulterebbero essere almeno 160, persone indigenti che non hanno sostegno economico da parte dei familiari. Per tutta la popolazione detenuta ed in particolare per le citate categorie di persone più fragili si chiede di facilitare/autorizzare: l'utilizzo delle docce anche in orari notturni sospendendo gli attuali orari che prevedono il divieto di fare le docce nelle ore serali e notturne; il consumo di acqua, frutta e verdura ponendo attenzione sulle situazioni di persone indigenti che non hanno risorse economiche per acquistare questi beni e nel caso provvedere alla fornitura a carico dell'Amministrazione penitenziaria; utilizzare quali luoghi per l'ora d'aria le sale coperte nell'area lavorazioni che risultano essere all'ombra in quanto i luoghi dove normalmente si svolge l'ora d'aria sono inadeguati essendo fatte di cemento armato e avendo, in gran parte, schermature parziali al sole; sospendere l'ora d'aria dalle 13.00 alle 15.00 (ore di punta del calore) e spostarle nel pomeriggio inoltrato nei giorni di massima criticità climatica. Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere senz'acqua, una situazione ormai insostenibile casertanews.it, 22 luglio 2015 "Alle condizioni minime di civiltà e di dignità non si deroga, neanche in carcere. La situazione dell'istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere sta diventando davvero allarmante e, dopo tanti solleciti formali e informali, sto valutando di procedere ad una interrogazione parlamentare. Nel frattempo è investita della questione anche la Regione Campania, attraverso la consigliera Enza Amato e la Garante per i diritti dei detenuti Adriana Tocco che qualche giorno fa hanno fatto visita all'istituto". Lo annuncia la deputata del Partito Democratico Camilla Sgambato preoccupata per il prolungarsi della situazione di carenza idrica al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sono mesi ormai che la parlamentare sammaritana sta seguendo - in collaborazione con la direttrice del carcere Carlotta Giaquinto, con il Capo del Dap Santi Consolo, con il provveditore Tommaso Contestabile e con il Comune di Santa Maria Capua Vetere - l'annosa vicenda, e due settimane fa ne ha scritto anche ai sottosegretari Umberto Basso De Caro e Paola De Micheli. "L'allaccio alla rete idrica è stata autorizzata dal Dap che ha stanziato i fondi per sostenere la spesa prevista per le opere di attivazione (circa un milione di euro) ma, dopo numerosi incontri tra rappresentanti della Direzione Generale beni e servizi e dell'ufficio tecnico del Prap con il Sindaco del Comune di Santa Maria - spiegava la parlamentare nella missiva - si è verificato che, pur essendo già stato predisposto un progetto tecnico, esistono degli impedimenti di ordine amministrativo-contabile, che hanno reso irrealizzabile l'opera. I fondi, infatti, non possono essere trasferiti dal Ministero della Giustizia ad un Ente locale, che nel caso di specie dovrebbe assumere le vesti di stazione appaltante, trattandosi di lavori da svolgersi per la maggior parte al di fuori dell'area demaniale dell'amministrazione penitenziaria". "Urge necessariamente trovare una soluzione per superare questo impasse burocratico", torna ora a ribadire con forza l'onorevole Camilla Sgambato. "Non è pensabile né tollerabile - aggiunge - che millecento detenuti, oltre agli agenti che lavorano lì giorno e notte, possano ancora sopportare questa incresciosa situazione resa ancora più pesante dall'afa di questi giorni. Serve uno sforzo comune e responsabile di tutti i soggetti istituzionali perché si arrivi subito ad una soluzione". Presidente Avvocatura: detenuti senza acqua, lede dignità Oltre 1.200 detenuti senz'acqua, costretti a lavarsi poche volte a settimana, ridotti a vivere in condizioni igienico-sanitarie al limite della vivibilità e in situazione di grande sovraffollamento. Succede al carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere. A denunciare la grave situazione è la Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere. Il presidente dell'organo dell'Avvocatura, Romolo Vignola, è durissimo: "I detenuti del carcere di Santa Maria stanno vivendo in condizioni invivibili, che lede la dignità umana. È assurdo che nel 2015 in una struttura come il carcere manchi l'approvvigionamento di acqua, circostanza che si aggiunge al caldo eccezionale di questi giorni. Chiediamo che gli enti competenti si muovano". Il problema acqua dura da anni, visto che non è stato mai realizzato l'allacciamento della struttura alla rete idrica pubblica del Comune di Santa Maria Capua Vetere. Il sindaco del Comune confinante di San Tammaro, Emiddio Cimmino, ha più volte manifestato al Ministero di Grazia e giustizia la disponibilità a far allacciare il carcere alla rete del suo paese. "Bisogna fare subito qualcosa", dice Cimmino. La Camera penale intanto, d'intesa con l'ordine degli avvocati presieduto da Alessandra Diana, preannuncia iniziative tra cui una conferenza stampa che dovrebbe tenersi venerdì 24 luglio presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Salerno: apre reparto psichiatrico, intesa con l'Asl, struttura ospiterà fino a otto detenuti di Viviana De Vita Il Mattino, 22 luglio 2015 Un protocollo d'intesa tra carcere e Asl per rendere operativo il nuovo reparto del penitenziario di Fuorni, per curare i detenuti con problemi di salute mentale. La struttura, inaugurata lo scorso aprile e che trasforma la casa circondariale di Salerno in uno tra i penitenziari all'avanguardia in Italia, è ufficialmente "decollata" ieri mattina grazie al protocollo d'intesa firmato tra il direttore del carcere Stefano Mattone e il manager dell'Asl Antonio Squillante. "La firma rappresenta l'atto conclusivo di un lungo e complesso lavoro attraverso il quale - ha sottolineato Martone - si apriranno nuove prospettive per la diagnosi e la cura dei malati mentali in regime di privazione della libertà e per poter affrontare efficacemente gli aspetti di rischio legati ai suicidi in cella adottando tutte le misure di prevenzione legate a questa problematica". Ora saranno sanciti i protocolli operativi del nuovo reparto e si dovranno individuare anche i mezzi di prevenzione e di contrasto al rischio suicidario, tra le maggiori emergenze. Ribadito dall'Asl anche l'impegno a destinare più risorse alla cura dei detenuti. "Da tempo - ha spiegato Squillante - le Asl non prestavano questa attenzione ai problemi dei penitenziari: grazie allo stanziamento di nuove risorse possiamo dedicarci maggiormente ai problemi dei detenuti prevedendo anche nuove figure professionali per migliorare la qualità dei servizi". La struttura destinata ad ospitare fino ad otto detenuti - attualmente ne sono ricoverati tre - gode di figure professionali di alto livello: tre psichiatri, tre psicologi, un infermiere, assistenti sociali ed educatori al fine di superare i vecchi ospedali giudiziari dove i detenuti affetti da queste patologie venivano "parcheggiati" senza poter godere di alcuna cura adeguata. La nuova ala, realizzata sopra l'infermeria, gode degli servizi tipici di una struttura sanitaria i pazienti sono sottoposti a visita tre volte al giorno e sono seguiti da personal e altamente specializzato. Il nuovo reparto rappresenta quindi la realizzazione di uno dei tanti progetti messi in cantiere all'interno di un penitenziario dove resta quello del sovraffollamento il problema più grave. Bologna: l'On. Zampa (Pd); annullate tutte le sanzioni a direttrice dell'Ipm Paola Ziccone Ansa, 22 luglio 2015 "Si conclude con l'annullamento di tutte le sanzioni a suo carico la vicenda che ha riguardato, a cominciare dal 2011, la direttrice dell'istituto penitenziario minorile di Bologna, Paola Ziccone". Lo riferisce Sandra Zampa, deputata del Pd e vicepresidente della commissione Infanzia e adolescenza: "È di oggi infatti l'ultimo annullamento della quinta sanzione disciplinare", scrive in una nota Zampa, che più volte ha sottoposto al ministero della Giustizia la vicenda "perché emergessero le vere responsabilità circa i fatti accaduti al Pratello e ai disagi gravi per i minori detenuti". I problemi per Ziccone cominciarono il 29 agosto 2011, quando fu rimossa dal servizio sulla base di un provvedimento che le imputava la responsabilità dell'assenza, contemporanea, di metà degli agenti di Polizia penitenziaria in servizio. Il 29 maggio 201 vince la causa contro la rimozione. Tuttavia, ricorda Zampa, "senza alcuna spiegazione non viene reinserita nel suo ruolo di direttrice dell'Ipm". Il 31 maggio 2012, tra l'altro, fu sospesa tre mesi dal servizio e dallo stipendio da parte del Dipartimento per la Giustizia Minorile, ma ancora una volta il ricorso ebbe successo. "Esprimo la mia soddisfazione - prosegue Zampa - per l'esito di questa vicenda e mi attendo che Paola sia reintegrata nel suo ruolo e che al più presto siano rintracciate le vere responsabilità circa le reiterate violenze nei confronti di detenuti, di detenuti forti contro detenuti deboli, fra le quali una violenza sessuale, fatti accaduti dopo la sospensione di Ziccone del 29 agosto 2011". Zampa ha inoltre annunciato un'interrogazione per sapere se verranno inflitte sanzioni ai dirigenti "che hanno continuato ad infierire" e chiederà a chi dovrà essere addebitato il costo delle cause sostenute. Al direttore in arrivo al dipartimento di giustizia minorile "chiederò di voler incontrare Paola Ziccone, di presentarle delle scuse e di fare un sopralluogo a Bologna". Avellino: la mamma di Ciro Esposito, Antonella Leardi, incontra i detenuti di Lauro Il Velino, 22 luglio 2015 Si terrà martedì 28 luglio alle 10.30, presso la Casa Circondariale di Lauro (Av) il terzo incontro di Antonella Leardi con i detenuti, ai quali la mamma di Ciro Esposito presenterà il suo libro Ciro Vive, scritto insieme alla giornalista Rai del programma Porta a Porta Vittoriana Abate ed edito da Graus. L'iniziativa è stata realizzata attraverso il contributo della Società Sportiva Calcio Napoli, grazie alla quale sono state distribuite un congruo numero di copie in diversi Istituti Penitenziari e scuole della periferia di Napoli. La mamma di Ciro ha già incontrato i detenuti dell'Istituto Penitenziario per i Minori di Nisida e della Casa Circondariale di Secondigliano. In queste occasioni Antonella Leardi, insieme ai membri dell'Associazione Ciro Vive, parla di suo figlio, della violenza dentro e fuori gli stadi, di giustizia e della capacità di lottare e perdonare. A settembre riprenderanno gli incontri presso le scuole medie superiori della Campania ed in particolare l'Istituto Comprensivo Ilaria Alpi-Carlo Levi e l'Itis Galileo Ferraris di Secondigliano. Gli incontri, fortemente voluti dal direttore dell'Istituto Penitenziario per i minorenni di Nisida Gianluca Guida, dal direttore della Casa Circondariale di Secondigliano Liberato Guerriero e dal direttore della Casa Circondariale di Lauro, Antonio di Lauro, rappresentano un'opportunità per diffondere il messaggio di pace e amore della mamma di Ciro Esposito. Nel progetto sono coinvolti anche la Casa Circondariale di Poggioreale, il Centro di Rieducazione Minorenni della Campania, l'Istituto Penale Minorile di Airola, la Scuola Calcio Arci Uisp Scampia e la Provincia Italiana della Congregazione dei Servi della Carità Opera Don Guanella. Nel libro Ciro Vive Antonella Leardi racconta i giorni della speranza e del dolore, la storia di Ciro dall'infanzia al tragico incidente a Roma. Augusta (Sr): il romanzo "Effatà" di Simona Lo Iacono in scena al carcere libertasicilia.it, 22 luglio 2015 Una lettura che prende fin dalle prime pagine quella riferita al romanzo "Effatà" della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono. Evidenziamo un passo: "I bambini le chiedevano questo" e con la mano indica il grande tavolo attorno al quale in 12 assieme a lui sono stati fino a quel momento seduti ad ascoltare, "proprio questo che sta succedendo qui oggi". Un uomo F. B., 53 anni, detenuto nella Casa di reclusione di Augusta che dovrà scontare una condanna pesante, dà delle spiegazioni alla scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono, la quale ha dato la sua personale interpretazione del sogno che ha spinto l'autrice a realizzare il romanzo "Effatà". Il testo è infatti al centro del programma di lettura "Read and Fly" una delle attività organizzata all'interno del carcere grazie alla sensibilità del direttore Antonio Gelardi e che prevede al termine di una serie di incontri preparatori, la messa in scena del romanzo da parte degli stessi detenuti. Nel corso del primo appuntamento l'autrice ha dunque spiegato come la storia, che intreccia due piani narrativi accomunati dal tema della sordità e dal dramma dell'Olocausto, sia stata ispirata da un sogno in cui le apparvero due bambini sordomuti. "Capivo che mi stavano domandando qualcosa, e mi svegliai molto turbata - ha raccontato ai carcerati. Il giorno dopo, lavorando a una questione di diritto internazionale, scoprii l'esistenza di un bambino, morto in seguito ai programmi di eugenetica voluti dal führer un mese dopo la scomparsa di Hitler. La prima cosa che ho pensato è si sarebbe potuto salvare e da qui è nata la voglia di restituirgli la dignità del ricordo attraverso le pagine del mio libro". "Con queste cose Dio ti paga, perché l'uomo invece non ce la fa" ha detto in italiano stentato un altro detenuto, uno straniero, al termine del racconto del sogno. Un gruppo dunque abbastanza affiatato (anche se la composizione potrebbe mutare, spiegano dalla Casa di Reclusione "qualcuno potrebbe uscire e altri potrebbero arrivare") e sicuramente molto reattivo ha accolto la partenza del progetto teatrale. "Teniamo molto all'attività espressiva all'interno del carcere - ha affermato il direttore Gelardi - nella sua introduzione all'incontro, e cerchiamo di espanderla a quante più persone possibile proprio perché crediamo al suo potere liberatorio". Il corso è partito nel novembre 2013, come spiegato dall'ideatrice e curatrice di "Read and Fly" Michela Italia, e al suo interno sono stati affrontato testi importanti come Shakespeare e Wilde. Adesso c'è una nuova sfida per questi uomini che, qualunque sia il tipo di reato per il quale sono stati condannati, stanno pagando la propria colpa alla società: calcheranno le scene vestendo i panni di personaggi del tutto diversi da loro, un impegno che li aiuterà anche ad affrontare la lunga permanenza all'interno dell'istituto di detenzione. "Ho scelto di lavorare su questo libro invece che su altri - ha spiegato Simona Lo Iacono ai detenuti - perché è un libro che parla di colpa e di redenzione, e perché rappresentando uno dei sotto processi di Norimberga, quello ai dottori, vi darà la possibilità di vivere un vero e proprio ribaltamento dei ruoli. Ed è proprio questo scambio di visioni della vita che è sempre fonte di una grande crescita spirituale". A questo punto la scrittrice ha cominciato a suddividere le parti da interpretare e, ispirata dalla particolare verve oratoria di uno dei partecipanti, gli ha affidato quella di Telford Taylor, il pubblico ministero americano nel processo contro i gerarchi nazisti. Immigrazione: prefetti in rivolta "siamo stanchi degli insulti" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 22 luglio 2015 Migranti, la protesta dopo l'attacco della Lega a Gabrielli e la rimozione del dirigente a Treviso. "Non vogliamo essere i capri espiatori, denunceremo chi offende". Morcone contro la Ue: ha fallito. Emergenza profughi: dopo la battaglia sull'accoglienza, scoppia la rivolta dei prefetti. "Stanchi di fare la parte dei capri espiatori", i rappresentanti della sicurezza sul territorio annunciano che "sono pronte a partire le denunce". Così dopo il muro all'accoglienza alzato dalle regioni del Nord a guida centrodestra ( Veneto, Lombardia e Liguria) e dopo l'accordo al ribasso raggiunto in Europa sulla redistribuzione dei profughi sbarcati in Italia e Grecia, tocca ai prefetti lanciare l'allarme. "Circondati da enorme ostilità", bersaglio di "frasi indegne da parte di esponenti istituzionali e noti politici", i prefetti annunciano: "Ci tuteleremo in ogni sede. Se il sistema della sicurezza ha retto in questa fase di emergenza immigrazione, lo si deve soltanto al nostro lavoro". Claudio Palomba, presidente del Sinpref, il più rappresentativo sindacato della categoria, sottolinea che "se il tema dell'immigrazione diventa uno scontro politico, la battaglia deve rimanere nell'ambito politico. Invece alla fine a rimetterci siamo noi". A pesare è l'annuncio della rimozione del prefetto di Treviso e "le frasi indegne" rivolte dal vicepresidente del consiglio delle Marche contro il prefetto di Roma, Franco Gabrielli. "Sono pronto a partire con denunce", afferma Palomba, che ieri sera ha inviato una lettera al Viminale per chiedere un incontro con il ministro dell'Interno, Angelino Alfano. "Gli illustreremo una realtà che vede i prefetti circondati da enorme ostilità, alle prese con un'emergenza difficilissima da affrontare. Ogni giorno - aggiunge Palomba che è prefetto di Lecce - le 103 prefetture sul territorio lavorano senza sosta per assicurare assistenza logistica e sanitaria ai migranti che arrivano e che ci vengono assegnati, a volte con preavvisi strettissimi. Bisogna identificarli, visitarli, curarli, trovare loro una sistemazione, il governo deve riflettere su questi aspetti. Non vogliamo diventare i capri espiatori della politica. Siamo abituati a gestire le situazioni emergenziali, ma il nostro lavoro deve essere riconosciuto. E non devono scaricarsi sui prefetti le tensioni derivanti da questa situazione". In effetti la macchina dell'accoglienza vede la sua guida al Viminale e i suoi esecutori sul territorio nei prefetti. Eppure dal ministero dell'Interno si tende a sminuire la portata della protesta: "I prefetti hanno grandi responsabilità, è vero -ammette un tecnico del ministero - ma hanno fatto il loro dovere nel garantire l'accoglienza ai profughi e continueranno a farlo". Non è tutto. Di una solitudine dei prefetti parla anche Mario Morcone. "Noi prefetti ci aspettiamo un confronto con i sindaci e gli assessori regionali per trovare le soluzioni migliori - sostiene il capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione in un'audizione davanti alla commissione parlamentare sul sistema di accoglienza - ma se questi non vengono al tavolo dicendo che hanno già troppi migranti allora dobbiamo rispondere che una soluzione dobbiamo comunque trovarla e collocare quei migranti. Tutti - prosegue Morcone - abbiamo voglia di trovare soluzioni in un quadro di collaborazione. Ma se non mi dai quella collaborazione mi costringi a decidere in solitudine, perché stiamo parlando di persone e io a quelle persone devo dare una risposta. Se mi aiuti, lo facciamo insieme. Se no, lo faccio da solo". Il prefetto Morcone non usa poi giri di parole per bollare l'accordo europeo sulle quote. "Auspicavamo 40mila senza fare tante storie". Insomma un piccolo passo, non certo un grande successo. Immigrazione: gli ispettori dell'Ue in Italia contro le fughe dei migranti di Marco Zatterin La Stampa, 22 luglio 2015 Oggi in Sicilia una delegazione di europarlamentari per valutare l'utilizzo dei fondi comunitari. I partner europei scettici su come avvengono i controlli vogliono garanzie. Non si fidano dell'Italia. Lo suggerisce anche la Commissione Ue, laddove sottolinea che il sistema degli "hotspot" per il controllo e la registrazione delle genti che attraversano il Mediterraneo, e poi sbarcano sulle nostre coste, è "concepito come contributo per facilitare l'attuazione degli schemi di riallocazione" dei disperati nei 28 Stati dell'Unione. I centri di coordinamento saranno gestiti dalle forze nazionali d'intesa con le agenzie comunitarie: Frontex (vigilanza frontiere), Easo (ufficio per l'asilo), Europol ed Eurojust (coordinamento giudiziario). Sulla carta vengono ad aiutare i nostri uomini e donne; in pratica, hanno il compito di far girare la macchina. È un modo per controllare i controllori e limitare le fughe verso il resto dell'Europa. Vogliono che il Bel Paese sia responsabile. Perché solo così gli altri potranno accettare di essere solidali. E da oggi a venerdì una delegazione del Parlamento europeo sarà in Sicilia e visiterà i centri di accoglienza di Pozzallo e Mineo, proprio per valutare l'utilizzo dei fondi comunitari per le politiche d'immigrazione e la creazione degli "hotspot". La delegazione, 18 eurodeputati, incontrerà, tra gli altri, il sottosegretario per le questioni legate all'immigrazione Domenico Manzione. Niente impronte Una parte rilevante del popolo in fuga da guerra e morte arriva in Italia e non ci resta. Spariscono in fretta, per lo più dopo aver rifiutato di concedere le impronte per evitare d'essere schedati e ricadere nelle regole di Dublino, quelle che prescrivono l'obbligo di restare nello Stato d'accesso. Sanno che da non c'è lavoro e credono che altrove le condizioni siano migliori. Più storie raccontano di vigilanti italiani che chiudono un occhio, se non tutti e due. Nel 2014, su 170 mila arrivati, solo 60 mila sono rimasti. Oltretutto, rimandiamo a casa appena il 20% dei clandestini espulsi. Gli atri svaniscono. Oltralpe. La fiducia latitante è uno dei motori della grande discussione fra le capitali sulle riallocazioni volontarie dei migranti, triste balletto della solidarietà azzoppata. Molti Paesi lamentano i controlli "approssimativi" effettuati da italiani e greci. Dicono che saranno solidali solo se ogni singola testa sarà registrata. In pratica il nostro fardello sarà alleggerito in parte quando i partner Ue saranno sicuri che terremo quelli che restano. "È ingiusto - ammette un diplomatico, però il rispetto delle regole potrebbe portare in futuro a un meccanismo di redistribuzione sistematica". Prima, però, meglio fare i compiti. Gli hotspot in Italia dovrebbero essere cinque. Il primo è già aperto in un Commissariato di Catania, in attesa di avere a disposizione una sede più grande. Una nota interna e riservata di Bruxelles precisa che si occupa del coordinamento delle accoglienze ed è composto da quattro funzionari di Frontex e uno da Europol, Easo, Eurojust e di collegamento con la forza navale anti-trafficanti del Mediterraneo, Eunavfor. La piattaforma coordina i team operativi sul territorio: 6 squadre per lo screening (10 uomini di Frontex), cioè la registrazione e la presa delle impronte, compito che tocca agli italiani; 9 squadre per il debriefing (17 unità), cioè la raccolta di informazioni su chi arriva. Si attendono 45 funzionari dell'Easo per trattare i richiedenti asilo. Al Viminale non sono propriamente felici. Tempi biblici I problemi non mancano. Il concetto di Hotspot prevede il trattenimento dei migranti sino a domanda d'asilo trattata, il che funziona se le procedure di screening sono rapide. Da noi durano in media 5 mesi, nei quali andrebbero tenuti chiusi. Ma dove? La domanda non ha risposta. Il che porta alla necessità di avere una lista dei Paesi sicuri, quelli verso i quali il rimpatrio può essere automatico. L'Italia ne è priva, per ragioni politiche, nazionali e no. Aiuterebbe che a scriverne una fosse l'Europa. Il lavoro è iniziato. Ma ci vorrà tempo. E, ancora per questa stagione, bisognerà fare con quello che c'è. Immigrazione: Mohamed è morto per i nostri pomodori di Antonio Sciotto Il Manifesto, 22 luglio 2015 Braccianti. Nardò, l'immigrato sudanese lavorava in nero: 3,5 euro per ogni cassone di 3 quintali. Il caldo a 42 gradi, la fatica, la pressione dei caporali. Flai Cgil: l'azienda è già sotto processo per tratta di uomini. Mohamed si è accasciato mentre raccoglieva i pomodori. Il caldo eccessivo, il sole forte, probabilmente la stanchezza, lo hanno stroncato: è successo l'altroieri, alle due del pomeriggio, in un campo di Nardò, in provincia di Lecce. Il bracciante, un immigrato sudanese di 47 anni, non aveva un contratto, ma era in possesso della carta di soggiorno in quanto richiedente asilo. L'azienda per cui lavorava è attualmente sotto processo per un caso di cui si è molto parlato a Lecce, un'organizzazione criminale sgominata nel 2011 grazie all'operazione di polizia Sabr (dal nome di uno dei caporali): le accuse, per sedici imputati, imprenditori e caporali ancora in attesa di una sentenza di prima grado, vanno dall'associazione per delinquere alla riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, all'intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione e falso, e comprendono anche la tratta di persone. Ieri, per la morte di Mohamed, sono finiti sul registro degli indagati il titolare dell'azienda agricola per cui lavorava, la moglie di quest'ultimo e il caporale che lo aveva portato nel campo. Mohamed, raccontano Antonio Gagliardi e Yvan Sagnet, sindacalisti della Flai Cgil, era arrivato da pochi giorni a Nardò: come tantissimi altri braccianti usava spostarsi nei diversi territori di raccolta, in tutto il Sud, a seconda delle stagioni. La moglie e la figlia piccola si trovavano infatti a Catania, e appena appresa la notizia sono partite immediatamente per raggiungere il centro pugliese. "Mohamed lavorava per 3,50 euro a cassone - spiega Sagnet, sindacalista della Flai - Ciascun cassone pesa 3 quintali, e più ne riempi, più vieni pagato. La giornata di lavoro inizia alle 5 del mattino e finisce tra le 17 e le 18: si passano 12 ore sotto il sole, a faticare come bestie. Mohamed probabilmente non era abituato, era la prima volta che raccoglieva pomodori, e i 42 gradi, la pressione psicologica, sono stati fatali. Non si conosce ancora il motivo esatto della morte, le autorità hanno disposto un'autopsia". Erano irregolari anche i due lavoratori che si trovavano vicino all'uomo e che hanno lanciato l'allarme, come non erano a norma dal punto di vista della sicurezza altri 28 braccianti registrati dalla polizia in quel momento nel campo. "L'autoambulanza, chiamata dagli altri lavoratori, è arrivata dopo due ore - dice Sagnet - ma ormai era troppo tardi e Mohamed era già morto". La storia, drammatica già in sé, diventa ancora più significativa se si guarda il contesto in cui è avvenuta: innanzitutto, come detto, l'azienda coinvolta era già sotto processo. E in quello stesso processo, avviato nel gennaio 2013 dopo due anni di indagini su una tratta di clandestini dall'Africa all'Italia, si sono costituite come parti civili anche la Flai e la Cgil. Ma evidentemente le cause legali, le imputazioni penali, non bastano a fermare certi imprenditori "spregiudicati". Stesso discorso per i caporali, spesso immigrati anche loro: gli imputati per il caso Sabr, spiegano alla Flai Cgil, sono ad esempio tunisini, algerini, sudanesi. Ma non basta, perché nel 2011 c'era stata un'altra vittima tra i braccianti di Nardò: "Un ragazzo era morto in una baracca e non nel campo - racconta Sagnet - Non abbiamo mai capito per quale motivo, ma deve aver contribuito la durezza del lavoro". Proprio nel 2011 è scoppiata una rivolta a Nardò, con uno sciopero dei migranti durato 13 giorni, e che poi ha acceso i riflettori sul territorio e ha contribuito alla riuscita dell'operazione Sabr, quella che ha portato sotto processo i presunti trafficanti di uomini. Sagnet, camerunense, era uno di quei braccianti ribelli, e da allora è cresciuto fino a diventare sindacalista della Flai Cgil. "Se non è andata come a Rosarno - aggiunge il suo collega Antonio Gagliardi - è stato grazie al fatto che il sindacato ha saputo incanalare quelle lotte, e al successivo intervento delle autorità. Poi abbiamo deciso di costituirci parte civile". "Ma tante cose ancora non funzionano - conclude Gagliardi. Ad esempio le liste di collocamento pubbliche che noi del sindacato abbiamo fortemente voluto: ci sono e sono uno strumento importante, ma non è obbligatorio per le imprese pescare i lavoratori solo da lì, e quindi ritengono più comodo ed economico utilizzare ancora oggi i caporali". "La morte di Mohamed non può restare un fatto di cronaca estiva, è un atto di accusa verso un mercato del lavoro agricolo colpito dalla piaga dello sfruttamento - dice Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil - È una situazione che denunciamo e contrastiamo da anni, incontrando enormi difficoltà anche da parte di chi - politica e istituzioni - dovrebbe dare risposte forti e immediate. Mohamed è morto perché non poteva alzare la testa per chiedere aiuto, non poteva far valere i suoi diritti". Droghe: dal Pd primo segno di vita di Maurizio Coletti Il Manifesto, 22 luglio 2015 Il Pd ha convocato lo scorso 16 luglio una riunione sui temi delle droghe e delle tossicodipendenze presso la sede nazionale del Nazareno. Sono stati invitati una quarantina di soggetti attivi nel campo delle dipendenze e delle policies sulle droghe. Tra le varie organizzazioni presenti, a sorpresa, due rappresentanti di San Patrignano. La riunione è stata aperta da una breve introduzione di Micaela Campana, responsabile nazionale Pd per il Welfare. Erano presenti anche due deputati, Federico Gelli e Donata Lenzi e il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. Si sono susseguiti numerosi interventi, molti da parte di rappresentanti di organizzazioni che aderiscono al Cartello di Genova. Franco Corleone ha consegnato ai dirigenti del Pd il 6° Libro Bianco sulla legge antidroga, ribadendone i contenuti per quanto riguarda i dati sulla portata criminogena degli approcci repressivi, le considerazioni sulle disastrose politiche internazionali dell'Italia negli ultimi anni e le due proposte di legge, una sulla depenalizzazione/liceità del consumo di sostanze stupefacenti, sulla riduzione del danno e sulla revisione delle norme sugli interventi dei servizi pubblici e del privato sociale; l'altra sulla legalizzazione della cannabis. Altri hanno sottolineato come sia imprescindibile parlare di politiche sulle droghe e non di tossicodipendenze, essendo queste ultime una fetta molto piccola di un campo dei consumi che è invece assai ampio. Una forte insistenza è stata espressa sull'urgenza di avere un interlocutore politico all'interno del Governo, al fine di dare sostanza e certezza alle azioni che riguardano la Conferenza Nazionale e la sua preparazione, la Relazione al Parlamento, il coordinamento con i Ministeri e con le Regioni, la Consulta Nazionale degli Operatori e degli esperti. Si è insistito sull'urgenza di ricostruire totalmente l'approccio italiano nei fora internazionali, in quanto siamo quasi alla vigilia dell'appuntamento Ungass dell'Aprile 2016. Tutti gli intervenuti hanno ribadito l'importanza di proseguire con l'azione di riforma del Dipartimento Politiche Antidroga, superando completamente le pesanti conseguenze della passata gestione. Diversi sono stati anche coloro che hanno denunciato lo stato pietoso in cui versano i servizi pubblici territoriali e i centri di privato accreditato: problemi di budget, di rette, di personale, di mancato turn over, la tendenza non comprensibile all'accorpamento ai Dipartimenti di psichiatria. Su quest'ultimo punto, qualche brevissima considerazione: la tendenza all'accorpamento è molto diffusa nelle Regioni; ma non si comprende il vantaggio che ne consegue. La psichiatria ha sempre rifiutato di occuparsi di consumatori di sostanze; e continua a farlo anche là dove l'accorpamento è stato realizzato. Lancio una proposta: una commissione indipendente di esperti venga incaricata dal Dpa e dalle Regioni di valutare i risultati dell'operazione lì dove sono passati quattro o cinque anni dall'avvio. La denuncia dello stato di abbandono è stato fatto con dignità, competenza e ragionevolezza. Ha concluso l'on. Gelli prendendo l'impegno, a nome del Pd, di proseguire dopo l'estate i lavori del gruppo di esperti. Ma, soprattutto, ha ribadito che il Pd sta lavorando per definire a breve una responsabilità politica del settore. Ha anche sottolineato l'interesse per mettere mano ad una legge che superi quella pasticciata in vigore attualmente. Non ha ripreso direttamente i temi della Conferenza e dell'Ungass. Se veramente fossimo alla vigilia di un'identificazione di un sottosegretario per i temi delle droghe e dei consumi, tutti gli impegni che sono emersi nell'incontro potrebbero finalmente trovare una risposta. Stati Uniti: dubbi su suicidio detenuta afroamericana dopo diffusione video del suo arresto Adnkronos, 22 luglio 2015 La misteriosa morte di un'afroamericana in un carcere del Texas riapre la polemica sulla brutalità della polizia contro le minoranze negli Stati Uniti. Sandra Bland, 28 anni, è stata trovata impiccata con un sacchetto della spazzatura nella cella dove era stata rinchiusa tre giorni prima, dopo essere stata fermata per non aver messo la freccia mentre guidava la sua auto. La famiglia non crede al suicidio e i dubbi sono cresciuti dopo la diffusione di un video sulle circostanze dell'arresto. Il procuratore distrettuale della contesa di Waller, Elton Mathis, ha ora aperto un'inchiesta per omicidio. La famiglia Bland ha dichiarato che la giovane donna era arrivata in Texas per iniziare un nuovo lavoro alla Prairie View A&M University, dove si era laureata nel 2009. Ne era molto felice e non aveva nessuna ragione di suicidarsi. Il 10 luglio Sandra Bland è stata fermata da un poliziotto dei Ranger, Brian Encinia, per una banale infrazione del traffico. Il video ripreso dalla telecamere dell'auto del poliziotto, che ora è stato diffuso, mostra un alterco fra i due quando l'agente chiede alla donna di spegnere la sua sigaretta. Alla fine la donna viene sbattuta a terra e ammanettata. Il video non è sempre chiaro, ma il senatore del parlamento del Texas Royce West, intervistato dal Washington Post, afferma che appare come la donna sia stata anche minacciata con un taser.