Chiusura Sezione A.S. di Padova: la sorella di un detenuto scrive ai dirigenti del Dap di Suor M. Consuelo Rosmini Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2015 Pace e bene! Sono Suor M. Consuelo Rosmini, sorella del detenuto Rosmini Demetrio Sesto, il quale al momento si trova a vivere la sua detenzione presso il carcere di Padova. In questo periodo mio fratello e tutta la famiglia, in particolare la mamma di 83 anni che non lo abbraccia da più di due anni, viviamo l'angoscia di un ulteriore trasferimento poiché la sezione A.S.1 di Padova verrà chiusa. Da 24 anni il trasferimento è un disagio che ogni due anni riviviamo! Ed è proprio adesso che deve essere trasferito? Da quello che ho potuto constatare personalmente recandomi ai colloqui e da quello che comunica telefonicamente o attraverso i colloqui ai mie familiari Demetrio, grazie anche a voi, sta intraprendendo un percorso di acquisizione di fiducia in se stesso, di voglia di crescere e costruire il suo futuro rimettendosi in gioco. Tutto ciò non solo pensando a se stesso ma anche coinvolgendo i suoi compagni di detenzione rivolgendo, così lo sguardo agli altri ed in particolare a coloro che hanno bisogno (Progetto Pigotta Unicef, Telefono Azzurro, etc..). Ciò lo potete costatare dai diversi impegni che ha assunto nel corso del tempo ovvero la scuola e poi l'università, il volontariato, gli incontri settimanali di catechesi, la partecipazione attiva a corsi ed a convegni che hanno permesso di aprire nuovi orizzonti nella sua storia. Credo che dopo tredici anni di reclusioni nella sezioni di A.S.1 abbia dato modo di dimostrare la sua non pericolosità. Non crediate che sia arrivato il tempo di pensare alla declassificazione? Anzi nel suo percorso ha dato atto di avere acquisito un ruolo; oggi per lui è importante quello che è diventato! Un ulteriore trasferimento potrebbe diventare lacerante e rappresentare un azzeramento di tutto quello che ha costruito fino ad ora. Demetrio con il suo entusiasmo e la sua voglia di " fare" manifesta la sua volontà e possibilità che può farcela! Saluti dai familiari di Demetrio Rosmini. Giustizia: il suicidio, moderno patibolo di Rita Bernardini Il Garantista, 21 luglio 2015 Prova sollievo il capo della Lega per il suicidio in una cella di Regina Coeli del presunto killer del gioielliere romano Giancarlo Nocchia. D'altra parte, quando c'è un fatto di cronaca nera, Salvini è sempre chiamato dai media a commentare: a lui bastano 142 caratteri per far rimbalzare i suoi stati d'animo in ogni canale televisivo, radiofonico, per non parlare della carta stampata e di Internet. Quando gli scappa, lui la fa con grande naturalezza e, con altrettanta disinvoltura e scioltezza, il giornalismo italiano - succube culturalmente dell'elevato pensiero dello statista padano - rilancia, ritwitta, diffonde. Per i rom ci sono le ruspe, per i migranti i respingimenti possibilmente con coté di affogamenti, per gli autori di reati (non importa se reali o presunti) ci vuole la galera a vita meglio se insaporita con possenti dosi di istigazione al suicidio. Quanto questa politica manettara e giustizialista - basata più sulla percezione indotta che su dati di fatto reali-sia poi efficace ai fini del governo dei fenomeni sociali del nostro tempo, ecco, su questo è impedito controbattere con dati, documenti, ricerche, riflessioni, dibattito. Tornando al suicidio verificatosi a Regina Coeli nella sezione Nuovi Giunti (Settima Sezione) non posso dimenticare quel che mi raccontava la compianta psicologa del carcere romano, Ada Palmonella: abbiamo pochi minuti per parlare con i ragazzi (spesso tossicodipendenti) appena entrati in carcere che, come si sa, sono ad alto rischio suicidano; li fanno vivere in celle immonde senza la minima possibilità di svolgere una qualsiasi attività, i momenti d'aria sono ridotti al minimo, per il resto passano tutta la giornata in celle piccolissime a disperarsi. In quella settima sezione di Regina Coeli ci sono stata la scorsa Pasquetta con Marco Pannella. Ricordo che mentre passavamo cella-cella per parlare con i detenuti, gli agenti che ci accompagnavano abbassavano gli occhi per la vergogna perché attraverso la nostra presenza prendevano coscienza di una realtà di totale e immonda illegalità. L'indomani da Radio Radicale chiedevo a Santi Consolo e al Ministro Andrea Orlando di venire con noi a visitare quella che viene chiamata la sezione di "accoglienza" di Regina Coeli, dove vi avrebbero trovato anche due transessuali murate vive 24 ore su 24 da ormai 21 giorni perché a loro venivano negati persino i venti minuti d'aria per il divieto d'incontro con i detenuti "maschi". Chi si meraviglia dei mancati controlli che hanno portato al suicidio del presunto assassino del gioielliere, non conosce la realtà carceraria italiana e il suo stato di totale illegalità. Se vivessimo in uno Stato di diritto, realtà come quella dell'antico carcere romano non dovrebbero semplicemente esistere e, invece, non solo esistono ma sono costate e costano fior di miliardi prelevati direttamente dalle tasche dei cittadini. Le carceri continuano ad essere luoghi oscuri, impenetrabili, dove può succedere di tutto. Può accadere, per esempio, che un ragazzo di trent'anni - è accaduto ad Enna recentissimamente - sia torturato e stuprato per tre settimane di seguito dai compagni di cella senza che il personale penitenziario, compreso quello sanitario, si accorga di nulla. Solo le urla della madre al colloquio, hanno salvato quel giovane: la donna si era accorta di una impressionante tumefazione ad un orecchio e ha chiesto spiegazioni alla Direttrice. La vicenda del suicidio nella Questura di Milano, invece, ci descrive in modo chiaro come il ventiduenne Gianluca Mereu sia stato condotto nel posto sbagliato: essendo uscito di senno (aveva appena malmenato la madre urlando frasi sconnesse), avrebbe dovuto essere affidato ad un pronto soccorso psichiatrico per poi essere seguito dal Centro di salute mentale di riferimento. Ma anche nella ricca Lombardia il disagio mentale deve fare i conti con sempre più ridotte risorse sanitarie sul territorio così che accade frequentemente che la risposta la si trovi più sbrigativamente nella repressione delle forze di polizia. Insomma, in Italia è stata abolita la pena di morte, ma abbiamo ben salda e funzionante la pena che produce e conduce alla morte: ciò avviene nelle nostre carceri e, non di rado, nei commissariati di polizia. E la mano che dispensa morte, spiace dirlo, è quella di uno Stato sempre più canaglia rispetto ai suoi principi costituzionali e agli obblighi internazionali assunti. L'effettiva praticabilità del diritto alla conoscenza da parte dei cittadini, soprattutto nei luoghi oscuri dove lo Stato esercita il suo potere, farebbe rapidamente scomparire o comunque ridimensionerebbe molto le violazioni di legge nei confronti dei diritti umani universalmente acquisiti. In questa direzione, potrei dire ostinata e contraria al senso comune sempre più nemico del buon senso, il Partito Radicale e i suoi soggetti costituenti hanno convocato per il prossimo 2 7 luglio a Roma la Seconda Conferenza Internazionale "Universalità dei Diritti Umani, per la transizione verso lo Stato di Diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza". Giustizia: vittoria e sconfitta dello Stato, in 24 ore di Paolo Graldi Il Messaggero, 21 luglio 2015 Una fettuccia di tela ricavata in gran fretta dal lenzuolo strappato, un cappio improvvisato. Allacciato alle sbarre più alte, all'ingresso della cella di "grande sorveglianza" per stringere una disperazione incontenibile: pochi, lunghissimi attimi e poi il corpo che penzola inanimato, senza più vita, tardivi, vani i soccorsi. Ludovico Caiazza, "presunto omicida" del gioielliere Giancarlo Nocchia, ferocemente assassinato nel suo negozio-laboratorio nel pomeriggio del 15 luglio, arrestato al termine di un'indagine lampo dei carabinieri di Roma, un piccolo capolavoro investigativo, se ne è andato confessando a suo modo a una psicologa del carcere e poi al suo avvocato, la sua colpa. Senza più droga, tremante d'astinenza (fino all'arresto lo teneva in piedi il metadone), depresso, sconfitto, travolto dagli eventi da lui stesso innescati, Caiazza ha "confessato" il suo atroce delitto. Non voleva uccidere quel brav'uomo di settant'anni che gli si era opposto con tutte le energie racchiuse nella disperata difesa della vita e dei gioielli di sua creazione. Voleva, ripete con lo sguardo fisso nel vuoto, voleva solo ferirlo con un coltello, ma per vincere quella imprevista e orgogliosa resistenza aveva perso ogni lume della ragione e colpito la vittima al capo con un oggetto pesante, squarciandogli il cranio, uccidendolo all'istante. Lo ha abbattuto per portare a termine la razzia dei gioielli e poi scappare con quella ridicola parrucca, infilata sulla testa per camuffarsi e, con gli occhiali scuri, rendersi irriconoscibile. Feroce e ingenuo, un balordo armato di violenza cieca, la stessa con la quale ha costruito la sua disgraziata esistenza, rapine, spaccio, eroina o derivati non importa iniettati in ogni brandello di vena utile. "Gli ho preso il telefonino perché non volevo che chiamasse aiuto", ha biascicato agli interlocutori per rendersi credibile. Vittorioso con quell'indagine impeccabile e anche con quel tratto di sensibilità umana e speciale dimostrata dalle visite connotate da intensa vicinanza ai parenti, alla moglie, ai figli, ai cognati, del generale Angelo Agovino, comandante dell'Arma nel Lazio, lo Stato con la morte del detenuto esce sconfitto nel percorso verso una giustizia compiuta. Un alto ufficiale che sa assolvere anche al difficile compito di mostrare una presenza discreta, certo non di facciata, una presenza che consola ma anche che mostra un impegno di tanti uomini in divisa tutti protesi a chiudere il cerchio al più presto. Si dispiega una sorta di paradosso nel quale l'azione investigativa rapida e vincente ha dimostrato che non c'è impunità possibile, che gli strumenti dell'indagine, anche quella più sofisticata e articolata, hanno il potere di rassicurare e insieme di ammonire chi pensasse di farla franca. La morte di un detenuto, ancorché accusato di un delitto efferato e inescusabile, che pure può produrre indifferenza e in qualcuno persino compiacimento, resta un vulnus. Perché la colpa ha bisogno di una sentenza e, questo va preteso con fermezza, di una espiazione senza sconti: la società, da Beccaria in poi, dimostra così che è la giustizia e non la vendetta a rappresentare la forza della legge. Un maledetto accidente ha chiuso con un lutto inutile la sciagurata vita di quest'uomo ma ciò lascia intatte le domande su come, pure in un reparto di "Grande sicurezza", in pochi minuti, si può organizzare la propria morte. I detenuti, qui, vengono sorvegliati a vista, una guardia ne ha in "carico" centoventi e passa davanti alle celle ogni quindici minuti, chi dice anzi ogni sette minuti. Davvero la sorveglianza era adeguata? Rigurgita la vecchia e sacrosanta polemica sugli organici, due inchieste una interna del Dap e un'altra della Procura della Repubblica accerteranno eventuali responsabilità o omissioni di qualche genere. Certo, la contabilità dei suicidi in carcere non rassicura: 868 morti dal 2000, 23 dall'inizio dell'anno. Problemi personali che si abbattono insopportabili con lo choc della detenzione? Può darsi, anzi certamente la condizione del recluso è spesso strangolata da vicende personali. Detenzione al limite del sopportabile, come ci viene detto anche in sede Ue, con richiami e multe. Il fenomeno, nelle sue diverse componenti è tuttavia assai serio, escludendo che non vi sia mai un valore aggiunto di dispotismo afflittivo non consentito. Che però non va messo nel conto. Nel caso di Caiazza l'incontro con la psicologa del carcere e poi con l'avvocato sembrano aver assicurato un mantello protettivo al detenuto, travolto dal precipitare degli eventi. La carenza, dunque, è casomai strutturale, riguarda il personale, probabilmente anche le tecnologie del controllo ravvicinato. Che scarseggiano. "Reato estinto per sopravvenuta morte del reo", con la formula di rito sulla copertina azzurra del fascicolo intestato alla Procura. della Repubblica di Roma il caso della rapina di via dei Gracchi prenderà la via dell'archivio. Restano aperte le indagini dei carabinieri perché le scorribande criminali di Ludovico Caiazza nel quartiere dello shopping potrebbero rivelarsi numerose. Nell'ultimo saluto all'orefice che tutti conoscevano e stimavano era ammirevole la compostezza della moglie Piera, del figlio Gianluca e dei fratelli Paolo e Rita e dei commercianti del quartiere che lasciano cadere parole pesanti sull'insicurezza dentro la quale sono costretti a vivere giorno per giorno, in un clima di assedio della piccola e meno piccola criminalità. Si torna a invocare la polizia e i carabinieri di prossimità, una deterrenza visibile, vistosa, pronta, una soluzione adottata e poi svanita quasi del tutto. La sicurezza è un prodotto e dunque costa. È un prezzo, tra i tanti, che va pagato. E questo volentieri. Giustizia: l'ordinaria giornata di suicidi che piace a Salvini di Alfredo Barbato Il Garantista, 21 luglio 2015 "Non sono tanto dispiaciuto", così il leader leghista commenta la morte del presunto killer del gioielliere, ieri i funerali della vittima. Poche ore dopo si sarebbe celebrato il funerale di Giancarlo Nocchia, il gioielliere ucciso a Roma, nel quartiere Prati. Lui, Ludovico Caiazza, 32 anni, è accusato dell'assassinio. È nel carcere di Regina Coeli, da solo in cella, quando decide di farsi un cappio con le lenzuola e di togliersi la vita. Sono le 22.50 di domenica, gli agenti lo tirano giù quando è già morto. L'ennesimo suicidio dietro le sbarre. Appena qualche ora prima nella questura di Milano un ragazzo di 22 anni, Gianluca Mereu, si era lanciato dalla finestra, in preda a una crisi psicotica, ed era morto. Il capo della Lega Salvini ha commentato: "non posso dire di essere dispiaciuto". A poche ore dal funerale di Giancarlo Nocchia, il gioielliere ucciso la settimana scorsa a Roma, si suicida in cella il suo presunto assassino. Ludovico Caiazza, il pregiudicato napoletano arrestato sabato con l'accusa di aver compiuto la rapina finita in tragedia nel quartiere Prati, è stato trovato appeso a un lenzuolo domenica sera dagli agenti penitenziari in servizio nella settima sezione di Regina Coeli. Ha approfittato dell'intervallo tra le due "ronde" che il poliziotto compie, come sempre in questi casi, ogni quindici minuti. Poche ore dopo, ieri mattina, arriva il momento dell'ultimo saluto al gioielliere, nella chiesa di San Gioacchino a Roma. "Era un onesto lavoratore e una brava persona. Un uomo giusto che si è impegnato con amore nella sua arte orafa", sono le parole che il parroco gli dedica nell'omelia. Ma parole assai più aspre vengono pronunciate da alcuni amici di Nocchia intercettati dai cronisti. "Una persona che si uccide per non pagare la pena che gli toccava dopo aver avuto il coraggio di commettere un omicidio mi la- scia indifferente", dice per esempio un'amica d'infanzia del gioielliere al termine dei funerali. "Doveva fare la stessa fine di Giancarlo", commenta un'altra signora che vive nel quartiere Prati. Poi arriva il colpo finale, che come spesso in questi casi viene sparato da Matteo Salvini. Il calibro è 140, come i caratteri del post su twitter: "Suicida in carcere presunto omicida di gioielliere di Roma. Morte è sempre brutta notizia, ma stavolta non sono troppo dispiaciuto". Sul suicidio di Ludovico Caiazza scattano due indagini. Una giudiziaria da parte della Procura di Roma, affidata al pm Sergio Colalocco, l'altra interna al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il cui vertice, Santi Consolo, spiega perché Caiazza si trovasse solo nella sua cella, a poche ore dall'arresto: "Dalle prime notizie trapelate Ludovico Caiazza aveva precedenti per violenza sessuale e aveva una situazione personale di forte disagio. Per questo, per tutelarlo, non era stato messo a contatto con altri detenuti". Consolo spiega di essere in contatto con il carcere romano e con i responsabili della polizia penitenziaria per comprendere la dinamica dell'accaduto. "Gestire in carcere persone che manifestano un forte disagio individuale, come in questo caso, reso ancor più forte dal fatto che il soggetto era accusato di fatti gravissimi, non è semplice. La polizia penitenziaria svolge un compito delicatissimo. È vero che la compresenza di altri detenuti può aiutare a prevenire una situazione come quella che si è verificata. Ma nel caso specifico ha prevalso, in prima istanza e in attesa di più precisi riscontri, la necessità di tutelare il detenuto, visto che le prime notizie indicavano precedenti per violenza sessuale. E per questo, a sua tutela, si è scelto di lasciare il Caiazza da solo". In carcere chi ha precedenti per reati a sfondo sessuale, specie se su minori, rischia di essere oggetto di ritorsioni da parte degli altri reclusi. È pur vero però che in questo caso difficilmente all'interno del carcere potevano essersi diffusi dettagli tanto precisi sul passato di Caiazza. Oggi sul suo corpo verrà effettuata l'autopsia. Dovrebbero arrivare conferme sulle notizie che vengono diffuse innanzitutto dal segretario della Cisl-Fns Lazio Massimo Costantino, secondo il quale il detenuto è stato trovato appeso alle lenzuola che aveva legato alle sbarre della finestra "intorno alle 22.50 di domenica, con l'osso del collo già spezzato. I soccorsi sono stati immediati, sette minuti e l'ambulanza era già a Regina Coeli, in sezione vi erano due agenti", è la ricostruzione di Costantino, "per la grande sorveglianza è previsto un giro di controllo ogni 15 minuti. Questo suicidio rappresenta un doppio fallimento, poiché da un lato non è stata data la possibilità alla famiglia del gioielliere di vedere riconosciuta la giustizia e far espletare in carcere la pena a Caiazza, ma anche per lo stesso, a cui non è stato impedito" di uccidersi. Difficile dire cosa potesse essere fatto. Il presunto killer di Nocchia aveva avuto nel pomeriggio un colloquio con la psicologa. Che non esita ad ammettere: "Era in uno stato di forte agitazione", anche se non si poteva "prevedere un atto così estremo". L'altro colloquio Caiazza lo aveva avuto con il legale d'ufficio. E come fa notare un altro sindacalista degli agenti penitenziari, Donato Capece del Sappe, "probabilmente solo allora, come avviene spesso in casi del genere, ha realizzato la gravità di quello che aveva commesso". Caiazza aveva un passato di grave tossicodipendenza, aveva passato un anno a San Patrignano. L'illusione di aver cambiato vita rispetto al passato deve essersi infranta con tale violenza, quando ha saputo della morte di Nocchia, da avergli distrutto l'ultima luce nell'anima. Giustizia: suicidio Caiazza, il problema non è la mancanza di poliziotti di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 21 luglio 2015 Non è mai facile commentare un suicidio. Ancor più difficile è commentare il suicidio di Ludovico Caiazza che si è tolto la vita nel carcere romano di Regina Coeli subito dopo essere stato arrestato per avere ucciso un gioielliere nel corso di una rapina. Il dibattito pubblico si è concentrato sulla scarsità del personale di Polizia penitenziaria addetto alla vigilanza e sulle responsabilità degli operatori penitenziari. Provo invece a rovesciare il dibattito, premesso che nel carcere romano di Regina Coeli da qualche tempo si respira un'aria di maggiore apertura che non va intaccata. È infatti uno di quegli istituti dove si è cercato di applicare il regime delle celle aperte durante il giorno. Il suicidio di un detenuto è sempre un gesto commesso da una persona disperata, tanto più se avviene nell'immediatezza rispetto all'ingresso in carcere. Pertanto non è facile prevederlo. Gli accorgimenti che si devono prendere al fine di prevenirlo non devono essere un'ulteriore minaccia alla sua serenità. Per evitare rogne in alcune carceri accade che un poliziotto entri in cella ogni cinque minuti per verificare se il detenuto sta mettendo in atto qualcosa di strano. In questo modo se il detenuto era precedentemente tranquillo viene sicuramente indotto ad agitarsi. Tanto più se gli accorgimenti usati sono solo di tipo logistico e securitario, ovvero privarlo di vestiti, lenzuola e ogni altro oggetto con cui potrebbe impiccarsi, dunque lasciandolo in una cella ‘liscià ossia tristemente vuota. Essere detenuti nudi in una cella liscia è facile che solleciti idee suicidarie prima assenti. Pertanto il punto non è quanti poliziotti fossero in servizio nel carcere romano di Regina Coeli nel turno serale o notturno. Il punto è un altro, ovvero in cosa consiste la presa in carico di una persona dopo che ha commesso un delitto gravissimo. La responsabilità è prioritariamente di chi ha competenze nell'ambito socio-sanitario, dunque nel caso delle carceri la competenza è delle Asl. Va verificato se esiste un protocollo per la prevenzione dei suicidi, in cosa consiste e se è operativo. Un po' di anni fa l'amministrazione penitenziaria scrisse nuove regole per la custodia dei nuovi giunti. Regole che partivano dall'assunto che in quel momento delicato tutti hanno idee brutte per la testa. Vi deve essere ascolto da parte di medici, psicologi, operatori sociali. I colloqui con il detenuto non devono essere burocratizzati, come in un ufficio comunale al momento del rilascio della carta di identità. Pertanto sarebbe utile sapere nel caso del suicidio avvenuto a Regina Coeli quanti operatori medici e dell'ambito psico-sociale lavorano in carcere e per quante ore. Il dibattito dunque va spostato di piano: non concentrarsi sul basso numero di poliziotti ma sul basso numero di operatori del servizio socio-sanitario. Da quando c'è stata l'importante riforma della medicina penitenziaria che ha previsto il passaggio di competenze dal ministero della Giustizia alle Regioni e dunque alle Asl queste ultime non hanno prodotto quel salto di qualità che ci si aspettava nell'offerta di salute psico-fisica. Non hanno investito nuove risorse umane se non in casi eccezionali. Non sappiamo quali saranno gli esiti dell'inchiesta nel caso del suicidio a Regina Coeli. Supponiamo, un po' come accade sempre, che non si ragioni su responsabilità sistemiche ma su responsabilità individuali e ci si concentri su chi non ha dato l'ordine di controllare a vista il detenuto ogni secondo del giorno e della notte. Quali saranno gli effetti di una simile decisione? In tutte le carceri e non solo a Regina Coeli, per evitare problemi, i controlli di polizia diverranno asfissianti tanto da rendere la vita dei detenuti ancora più faticosa. L'obiettivo di chi ha compiti di custodia legale non è togliergli le lenzuola bensì togliergli l'intenzione di ammazzarsi. E questo lo si fa costruendo un carcere aperto, umano, non asfissiante. Giustizia: agenti ridotti e troppi detenuti, lo scorso anno 44 suicidi in cella di Cristiana Mangani Il Messaggero, 21 luglio 2015 Ogni giorno provano ad uccidersi 3 reclusi. Nel 2014 quasi 7mila atti di autolesionismo. Il sindacato di polizia penitenziaria: siamo pochi e ogni 12 mesi perdiamo 1.300 unità. Sovraffollamento, carenza di organico, morti sospette, suicidi: lo stato delle carceri italiane continua a mostrare tutte le sue lacune. Nell'ultimo anno la situazione sembra leggermente migliorata, anche se gli ultimi dati mostrano una nuova inversione di tendenza. E infatti, se subito dopo i provvedimenti deflattivi imposti dal precedente governo si era avuta una flessione della popolazione carceraria, ora si registra un nuovo rialzo: 54 mila detenuti contro i 52 dell'inizio dell'anno. Il dato rimane comunque positivo considerando che in passato la cifra era intorno ai 68 mila. Non accenna ad aumentare, invece, il personale di polizia penitenziaria. "Il turn over non ha consentito di recuperare il 100 per cento, ma soltanto il 50 - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato di categoria. Perdiamo 1.200-1.300 unità all'anno per ragioni legate a motivi personali, a raggiunto limite di età, a infermità. E così siamo arrivati a circa 38 mila unità, siamo abbondantemente sotto organico". Sul suicidio di Ludovico Caiazza, Capece ha una sua idea: "Avrei dato la sorveglianza a vista, anche se non si può giudicare così dall'esterno. Il personale, comunque, è stato efficientissimo e ha fatto tutto il possibile". I dati. Intanto, però, nelle carceri si continua a morire. Sono sempre del Sappe le cifre che delineano la portata del disagio: 44 suicidi nel 2014, 24 fino al 20 luglio del 2015. In media ogni giorno si verificano nelle celle almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi, 10 colluttazioni e 3 ferimenti. Lo scorso anno sono stati 6.919 i detenuti coinvolti in atti di autolesionismo: 933 hanno tentato il suicidio e sono stati salvati dai poliziotti penitenziari, 966 i ferimenti e 3.575 le colluttazioni. "Il dato oggettivo è che il carcere, così come è strutturato e concepito oggi, non funziona - denuncia ancora il sindacato. Lo sanno bene i poliziotti che stanno nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno". Malagestione. A Regina Coeli, poi, la situazione sembra ancora più difficile: circa 250 poliziotti in meno rispetto all' organico previsto, con 200 unità distaccate presso il Tribunale, la Corte di cassazione, il Dap, e il ministero della Giustizia. "Rispetto ad un organico previsto di 613 unità - spiega la Fp-Cgil Polizia Penitenziaria - risultano essere amministrati 568 agenti. Ma, a questa "apparente" carenza di 45 poliziotti penitenziari, vanno sommati gli altri 200 distaccati". Una carenza, sottolinea ancora la Fp Cgil, "frutto di una mobilità "parallela" e poco trasparente, che conferma la mala gestione del sistema. Quanto è accaduto domenica scorsa nel carcere di Regina Coeli è drammatico ma l'intero sistema di gestione della mobilità del personale va assolutamente rivisto: servono poliziotti, serve maggiore trasparenza, attenzione e investimenti adeguati". Intanto nelle celle si continua a morire, anche se - come spiega il garante per i detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone - "il problema dei suicidi mostra sempre un margine di insondabilità". "È probabile - aggiunge - che più personale eviterebbe in parte queste morti, ma il suicidio di chi entra in carcere avviene quasi sempre perché una persona ha preso consapevolezza della cosa terribile che ha fatto". La struttura. La morte di Caiazza a Regina Coeli apre, però, il caso del carcere di via della Lungara. E a sollevarlo è l'ex garante per i detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. "Il fatto che ci fossero solo due agenti di guardia non mi stupisce - dice - è la routine. Teniamo conto che la polizia penitenziaria è ovunque in sotto organico. Il problema è che lui era un nuovo giunto, ossia il tipo di detenuto che va guardato con maggiore attenzione perché più facilmente esposto al rischio suicidio. Teoricamente servirebbe un controllo h24". Il mandato di Marroni è scaduto, ma il Consiglio regionale non ha più provveduto a nominare un nuovo garante, anche se lui conosce molto bene quella realtà. "La direttrice Silvana Sergi - sottolinea - è una donna di valore e di grande esperienza, ma è la struttura che a mio giudizio andrebbe chiusa, perché non risponde a quanto prevede l'ordinamento penitenziario in termini di spazi. Quel carcere resta lì perché ci sono tanti interessi: dei familiari, degli avvocati, dei magistrati, anche dei commercianti del quartiere: il carcere porta gente in zona". Giustizia: dossier di Ristretti Orizzonti; 24 suicidi da inizio anno, dal 2000 sono già 869 La Presse, 21 luglio 2015 Ludovico, un lenzuolo come cappio, a Regina Coeli. Giuseppe, suicida nel carcere reggino di Arghillà. Mahmeli, arrivato al capolinea dell'esistenza nella casa circondariale di Padova. E poi Calogero, Giovanni, Bruno e molti altri. A tenere aggiornato il bollettino dei lutti nelle istituzioni carcerarie è il centro studi di Ristretti Orizzonti. E poi Calogero, Giovanni, Bruno e troppi altri. Dall'inizio dell'anno 24 persone detenute si sono tolte la vita in cella o in un ambiente confinato, come è successo con il ragazzo di 22 anni che si è lanciato fuori da una finestra della questura di Milano. Altri 37 reclusi sono morti nei penitenziari per malattia, per overdose o per motivi che ancora sono tutti da chiarire. I nomi e i cognomi dei morti dietro le sbarre riempiono decine di pagine. Dal 2000 a ieri si contano 2.433 decessi, 869 dei quali per suicidio. Uno stillicidio continuo, inarrestabile, per il senatore Luigi Manconi, fondatore di "A buon diritto" e autore del libro -provocazione ‘Abolire il carcerè: "Purtroppo l'ultimo caso conferma quello che denunciamo da sempre. Il carcere è una macchina che produce morte, stress, patologie, sintomi. Si tolgono la vita i detenuti, in misura dalle 15 alle 18 volte superiore rispetto alla popolazione libera. E lo fanno anche gli agenti. Nella Polizia penitenziaria ci sono stati 100 suicidi in una decina d'anni". Per indagati e condannati i momenti peggiori sono quelli iniziali, l'impatto con l'istituzione. Lo conferma Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti: "Il primo contatto con il carcere, e con te stesso e le tue responsabilità, è drammatico, devastante. Eppure manca l'ascolto di queste persone, manca il personale che le affianchi. Si è calcolato che gli psicologi sono talmente pochi che possono spendere sei minuti all'anno per ogni persona che hanno in carico, che sta male". Il sistema, a suo parere, "è sbilanciato verso la sicurezza, anziché verso gli individui reclusi e i loro bisogni". E allora, suggerisce Favero, "bisognerebbe lavorare sulla formazione del personale della Polizia penitenziaria e mettere in campo più operatori da dedicare all'ascolto e alla presa in carico delle persone con disagi". A livello centrale, presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, da una decina d'anni è attiva l'Unità di monitoraggio degli eventi suicidari, burocratica denominazione di un gruppo di superesperti. Pietro Buffa, storico direttore del carcere torinese delle Vallette e provveditore dell'amministrazione penitenziaria per l'Emilia Romagna, ne fa parte. E spiega: "Valutiamo i casi e cerchiamo di prospettare soluzioni, raccordandoci con le regioni, da cui dipendono le asl impegnante nei singoli istituti. Sono le stesse regioni a tradurre in protocolli concreti quello che deve essere l'approccio integrato tra la sanità e l'amministrazione penitenziaria. Un esempio? Si definiscono e si applicano i criteri con cui valutare il rischio di suicidio dei singoli detenuti. Un altro? Si elencano le cose cui va prestata più attenzione, in funzione preventiva. Purtroppo non è così semplice. Ma è anche vero che parecchi tentativi di suicidio vengono sventati". Giustizia: agenti abbandonati, Gratteri ha proposto una riforma che resta nel cassetto di Sergio Luciano Italia Oggi, 21 luglio 2015 Vivono in prigione senza essere mai stati condannati. L'agente di custodia di Trentola Ducenta che ha fatto una strage per una lite sul parcheggio è stato chiaramente travolto da un raptus di follia, ma l'eccezionalità funesta del suo gesto comunque richiama alla mente - di chi la conosce, cioè pochissimi italiani - la situazione d'emergenza psicologica permanente in cui vive una delle categorie più "a rischio" della pubblica amministrazione, appunto quella degli agenti penitenziari. Un'emergenza che genera stress e disagi psichici di ogni sorta. E che una riforma, proposta al premier, su richiesta, dal Procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri, risolverebbe probabilmente alla radice. Nel quadro di quella più generale riforma della giustizia chiaramente improcrastinabile e reclamata a gran voce dal Presidente Emerito Giorgio Napolitano. Eppure, per ora, niente. Guardiamo i dati. Le statistiche dimostrano che ogni anno si suicidano 12 agenti di custodia, frustrati da un lavoro che definire ingrato è eufemistico. Condividono, di fatto, la vita reclusa dei detenuti, di cui devono subire insulti e angherie perché non possono reagire, e guai se lo fanno. Così ogni anno circa 400 agenti devono farsi medicare per ferite o percosse, costretti - come sono - a girare disarmati nei reparti (sarebbe peggio se i detenuti si impadronissero delle loro armi!) e quindi ad affrontare corpo a corpo eventuali aggressioni. Sono consapevoli di presidiare un angolo buio e malsano dell'organizzazione pubblica, visto che nelle carceri vive regolarmente un 25% in più della popolazione consentita. Insomma, un vita infame, che genera stress e depressione. "Al centesimo catenaccio, alla sera mi sento uno straccio", cantava Fabrizio De Andrè, nella sua celebre "Don Raffaè", dedicata appunto alle depresse confessione di "Cafiero Pasquale", agente di custodia "a Poggioreale dal 1953", ridotto ad adepto del boss Don Raffaè (si suppone, Cutolo) che rappresentava per lui l'unica concreta autorità raggiungibile. E veramente, come la poesia sa cogliere intuitivamente, la condizione carceraria peggiore, è, per certi versi, quella degli agenti. Strutturalmente sotto-organico, mai adeguata all'accresciuto numero delle presenze medie in carcere (oggi circa 55 mila), la polizia penitenziaria non ha neanche dalla sua la reputazione di cui, nonostante tutto, ancora gode la polizia "normale", e ancor più i carabinieri. I frequenti casi di abusi o peggio (chi non ricorda la morte assurda di Stefano Cucchi?) commessi, in questo contesto, dagli stessi agenti, aggravano una situazione già marcia. La situazione è talmente grave che Gratteri, nella sua proposta di riforma, pone una riconversione radicale delle funzioni della Polizia penitenziaria al centro delle operazioni. Secondo Gratteri, la polizia penitenziaria, sgravata di alcune incombenze, dovrebbe avere ben altri avrà compiti. Dovrebbe dotarsi ad esempio di un ufficio scorte per la sicurezza dei palazzi a rischio (tribunali, procure, ecc.) e sarebbe chiamata ad occuparsi in via esclusiva di pentiti e collaboratori di giustizia. L'uso scriteriato delle traduzioni dei detenuti dalle carceri alle sedi dei processi e ritorno - che assorbe annualmente il lavoro di 10 mila agenti, più di un quarto del totale - andrebbe eliminato grazie all'uso massivo della videoconferenza, permettendo così di rimpolpare i ranghi operativi con gli uomini risparmiati, aprendo - oltretutto - grazie al loro ritorno all'opera, numerosissime porzioni degli edifici carcerari oggi vuoti perché non "gestibili". Giustizia: la proroga della proroga sulle pensioni delle toghe di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 21 luglio 2015 Per la serie: "La legge è uguale per tutti, ma alcuni sono più uguali". Oggi la Camera vota il decreto che proroga di un anno il pensionamento dei magistrati ordinari che non hanno ancora compiuto 72 anni. La misura si è resa necessaria perché i ruoli della Cassazione (dove i magistrati sono il triplo rispetto alla Francia) risulterebbero sguarniti: soprattutto per i presidenti di sezione. Questa proroga fa seguito alla precedente proroga di un anno stabilita quando nel 2014 il governo Renzi aveva deciso di riportare l'età della pensione dei giudici da 75 a 70 anni. La cosa provocò allora una sollevazione fra i magistrati, che agitarono lo spettro delle aule giudiziarie deserte a causa dei pensionamenti in massa senza rapidi rimpiazzi: considerando che per fare un concorso, argomentarono, servono almeno quattro anni. Tanti quanti ne erano necessari per una laurea in giurisprudenza. Un'assurdità, ma nessuno sollevò il problema. E per quieto vivere, a causa anche delle pressioni del Quirinale (c'era Giorgio Napolitano) si concesse una proroga di un anno. I magistrati in servizio sarebbero andati in pensione a 71 anni anziché a 70. Adesso si scopre che il Csm, pur avendo avuto a disposizione un anno di tempo per avviare le nomine alla Cassazione, ha iniziato le procedure soltanto lo scorso primo luglio. Così ecco la necessità di una nuova proroga: non più in pensione a 71, ma a 72 anni. Solo i magistrati ordinari, però. Il che ha fatto infuriare i giudici contabili e amministrativi. I quali, dopo le proteste iniziali, hanno pensato bene di saltare anche loro sullo stesso treno. In commissione è passato quindi un emendamento che proroga di sei mesi il trattenimento in servizio dei magistrati della Corte dei conti. E ora ci sono fortissime pressioni per estendere la proroga ai magistrati del Tar e del Consiglio di Stato. Magnifico esempio per un Paese con un disperato bisogno di cambiamento: che ci arriva proprio da coloro chiamati ad applicare le leggi. Niente passaporto mentre si espia la pena di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2015 Consiglio di Stato - Sentenza 14 luglio 2015. La libera circolazione dei cittadini tra Paesi dell'Unione europea non impedisce al Questore di ritirare il passaporto a chi debba espiare una pena. Lo precisa il Consiglio di Stato nella sentenza 14 luglio n. 3532, relativa all'ex presidente Berlusconi. Stessa sorte era capitata (sentenza 3348/2012) a Fabrizio Corona, che intendeva espatriare dopo una condanna definitiva. Le due sentenze, redatte dal presidente del collegio giudicante Pier Giorgio Lignani, interessano tutti i cittadini italiani, perché chiariscono i limiti alla libertà di circolazione. I confini nazionali infatti riemergono quando vi è una condanna da espiare, perché il diritto del singolo Stato ad ottenere l'esecuzione della pena prevale sia sul diritto del cittadino di recarsi in altro Stato membro (articolo 4 Direttiva 38/2004), sia sul diritto degli altri Stati di ammettere nel loro territorio i cittadini dell'unione (articolo 5). Si tratta di diritti simmetrici che possono essere limitati per ragioni di ordine pubblico, di sanità o di sicurezza (articolo 27 Direttiva 38), cui il Consiglio di Stato aggiunge l'ipotesi di una pena in corso di esecuzione. Questi importanti principi sono giunti nelle aule giudiziarie perché il Questore di Roma si è trovato a ritirare il passaporto e, contemporaneamente, a sostituire la carta d'identità dell'interessato con una su cui appare la stampigliatura "non valida per l'espatrio". Il documento per l'espatrio, in caso di condanna penale solo pecuniaria, va chiesto al giudice dell'esecuzione penale (articolo 676 Cpp, Cassazione penale 1610/2015). Se invece la condanna non è pecuniaria, ma è convertita in una misura di tipo rieducativo (alternativa alla reclusione), scattano comunque il ritiro del passaporto e la stampigliatura sulla carta d'identità. È infatti la legge 1185/1967 che impone tali comportamenti al Questore, senza che abbia rilievo il principio di proporzionalità, e cioè senza alcuna verifica sul comportamento del condannato. Se esiste una pena da espiare, viene meno il diritto di libera circolazione tra paesi Ue: del resto, sottolinea il Consiglio di Stato, se il condannato ottenesse il passaporto e lo utilizzasse per espatriare in un Paese "Schengen", rischierebbe comunque un mandato di cattura internazionale finalizzato a eseguire la pena. Una conseguenza cioè ben maggiore della predetta stampigliatura limitatrice (oggi usuale per i minorenni o i coniugi con figli minori). Lo stesso accade in altre evolute nazioni: la Corte dei diritti dell'uomo (41199/06 del 26 aprile 2011), ha deciso il caso di un cittadino svizzero che aveva chiesto, dalla Tailandia (dove si trovava), il rinnovo del passaporto. Le autorità elvetiche, a causa di un procedimento penale nel paese alpino cui il cittadino intendeva sottrarsi, avevano negato il rinnovo del passaporto, costringendo il richiedente a una vita da immigrato "sans papier" nel paese asiatico. La Corte di Strasburgo ha condiviso l'operato della Svizzera, sottolineando la prevalenza dell'interesse delle autorità nazionali a perseguire penalmente i propri cittadini. Il passaporto quindi va negato, se è in corso l'espiazione di una pena. Avviso di udienza, nulla la notifica al portiere dell'avvocato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 20 luglio 2015 n. 31399. È nulla la notifica dell'avviso di udienza del tribunale della libertà effettuata a mani del portiere se l'ufficiale giudiziario non avvisa il legale dell'avvenuto deposito a mezzo di raccomandata. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 31399/2015, accogliendo le doglianze dell'imputato. Nel ricorso contro l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, infatti, il detenuto aveva eccepito che la notifica era stata conosciuta dal difensore solo il giorno successivo alla consegna nelle mani del portiere, mentre la prescritta raccomandata era pervenuta addirittura il giorno prima dell'udienza. In un simile caso, per la Suprema corte, deve trovare applicazione il consolidato principio di diritto affermato dalle Sezioni unite (36634/2005) in base al quale "in caso di notifica di atti al difensore dell'imputato eseguita con consegna di copia al portiere o a chi ne fa le veci, l'ufficiale giudiziario ha l'obbligo di dare notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento, atteso che la prescrizione di cui all'articolo 157, comma terzo, codice procedura penale si applica anche per le notifiche da eseguire a soggetti diversi dall'imputato (art. 167 cod. proc. Pen.), con la conseguenza che i termini decorrono dalla data di ricezione della raccomandata da parte del destinatario". E siccome la questione era stata "ritualmente e tempestivamente" sollevata in sede di discussione dinanzi al T.D.L. senza però trovare accoglimento, i giudici di legittimità hanno annullato l'ordinanza, non senza osservare, per inciso, che "la ristrettezza dei termini rispetto alla celebrazione del processo poteva essere tranquillamente superata utilizzando lo strumento della notifica a mezzo fax". Il maltrattamento una tantum non è causa di addebito della separazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2015 Corte d'Appello di Taranto - Sentenza del 6 marzo 2015 n. 109. Il maltrattamento del coniuge una tantum non giustifica l'addebito della separazione in capo all'aggressore. Lo ha stabilito Corte d'Appello di Taranto, sentenza del 6 marzo 2015 n. 109, stabilendo che l'evento, se non reiterato, non può considerarsi causa fondante dell'impossibilità della prosecuzione della convivenza. Il caso - In primo grado, l'attrice aveva sostenuto che il marito l'aveva sempre "denigrata ed ingiuriata", arrivando in una occasione anche ad aggredirla "procurandole lesioni", dopodiché si era allontanato dalla casa coniugale, lasciandola senza assistenza morale e materiale, per cui chiedeva la separazione con addebito al marito ed un assegno mensile di 700 euro per il concorso nel mantenimento del minore e di lei stessa. Il Tribunale, però, ha respinto la richiesta di addebito e pronunciato la separazione per "ragioni oggettive", assegnando alla moglie la casa coniugale e fissando l'assegno in 650 euro. La motivazione - Proposto appello, la Corte di secondo grado si è rimessa all'indirizzo di legittimità secondo cui "in tema da separazione personale dei coniugi la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla mera esistenza di violazione dei doveri posti a carico degli stessi dall'articolo 143 del codice civile essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia rivestito sicura efficacia causale nel determinarsi dell'intolleranza della convivenza". Ciò detto, prosegue la sentenza, "non può attribuirsi esclusiva o, quanto meno, importantissima rilevanza" ai "maltrattamenti subiti" nel periodo del matrimonio quale causa determinante del relativo fallimento, atteso che l'episodio, "pur ovviamente spiacevole, del litigio, con prodursi di lievissime contusioni in danno della moglie, non può ragionevolmente rivestire valore di causa fondante l'impossibilità di prosecuzione della convivenza", dal momento che è mancata la dimostrazione di "eventuali reiterati ed abituali comportamenti violenti o prevaricatori". Mentre, l'esistenza di una pronuncia di condanna penale di primo grado "non comprova la doglianza dell'appellante, conoscendosi della stessa il solo dispositivo e non trattandosi di giudicato". Neppure, poi, si può dare rilievo alla deposizione del figlio che "si rapporta esclusivamente al menzionato litigio inter partes ed è assolutamente generica e priva di qualsivoglia riferimento temporale in relazione a "maltrattamenti" assuntivamente posti in essere dal padre". Da qui la conferma del convincimento del Collegio di prima istanza ed il rigetto della domanda di addebito al marito della dissoluzione del rapporto matrimoniale. Reati ambientali: nessuno sconto sul versamento extra tabellare di acque reflue di Pietro Verna Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2015 Corte di cassazione n. 21463/15. Lo scarico abusivo di acque reflue di cui all' articolo 137, comma 5, del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale) è un reato di pericolo che si consuma anche se il valore-soglia viene superato una sola volta e a prescindere dall'esistenza o meno di danni all'ambiente (Cassazione, sentenza n. 21463/15). In questi termini la Corte di legittimità ha respinto il ricorso proposto contro la sentenza con la quale la Corte d'appello di Milano aveva confermato la condanna inflitta agli amministratori di un'impresa chimica, per aver scaricato nella rete fognaria acque reflue provenienti da lavorazioni galvaniche, contenenti un quantitativo di nichel eccedente il limite prescritto. La tesi dei difensori degli imputati, secondo i quali il reato ex articolo 137, comma 5, decreto legislativo n.152/2006 non sarebbe configurabile in presenza di "un singolo superamento" e che l'impianto sarebbe stato "regolarmente revisionato e funzionante" è stata ritenuta priva di pregio dal Supremo Collegio per due motivi. In primis, in ragione del fatto che la violazione del divieto di scarico extra tabellare ("chiunque, in relazione alle sostanze indicate nella tabella 5 dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, nell'effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali, superi i valori limite fissati nella tabella 3 o, nel caso di scarico sul suolo, nella tabella 4 dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, oppure i limiti più restrittivi fissati dalle Regioni o dalle Province autonome o dall' Autorità competente a norma dell'articolo 107, comma 1, è punito con l'arresto fino a due anni e con l'ammenda da tremila euro a trentamila euro") riproduce sostanzialmente il divieto di cui all'articolo 21 della legge Merli (1976), in merito al quale la giurisprudenza della Corte è pacifica nel ritenere che anche il superamento isolato eccedente i valori tabellari ha la capacità di ledere l'ambiente, a prescindere dal modo, episodico o meno, con il quale il versamento extra tabellare viene effettuato (Cassazione, sentenza n. 6594/94). Sicché un solo scarico superiore al valore-soglia, anche se involontario, è penalmente sanzionabile, "essendo esclusi dalla previsione normativa soltanto quei fatti neppure occasionalmente riconducibili alle attività degli insediamenti produttivi" (Cassazione, sentenza n. 9160/98). In secondo luogo, perché la violazione dell'articolo 137, comma 5, del decreto legislativo n. 152/2006 configura un reato di pericolo presunto che esclude ogni valutazione del giudice sulla gravità, entità e ripetitività della condotta, la cui offensività è insita nella condotta omissiva da parte del soggetto munito di autorizzazione allo scarico, a prescindere dal dolo o dalla colpa (ex multis, Cassazione, sentenza n. 11884/14). Ragione per la quale, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale, non è necessario che il reo sia consapevole di aver superato i valori limite, essendo sufficiente che tale superamento sia imputabile alla condotta colposa dell'autore della violazione. Condotta che, nel caso di specie, è consistita nella mancata adozione delle misure necessarie per impedire l'evento, avvalorata dal fatto che entrambi i giudici di merito hanno escluso il caso fortuito, per una serie di ragioni (scarsa conoscenza delle caratteristiche tecniche dell'impianto, mancata individuazione della causa specifica dell'eccesso di nichel, mancato riscontro di quanto dichiarato dal teste a discarico in dati oggettivi) ed hanno preso in considerazione l'ipotesi che l'azienda aumentasse in alcune fasi della lavorazione o in alcuni periodi dell'anno l'uso di tale metallo, ovvero che la manutenzione non fosse compiuta con modalità adeguate. La pronuncia - argomentano gli Ermellini - si colloca sulla scia dell'orientamento giurisprudenziale della Corte secondo cui la fattispecie di scarico con superamento dei limiti tabellari, quale reato autonomo avente carattere formale, è integrata per il solo fatto del superamento dei limiti consentiti, in quanto il danno procurato all'ambiente è presunto dalla legge, sicché: - non è possibile dedurre la non offensività della trasgressione basata sulla natura limitata o temporanea della violazione; - non è richiesta la prova oggettiva o soggettiva della lesione del bene ambiente, perché la punibilità della condotta deriva da valutazioni tecnico scientifiche che tengono conto di molteplici parametri, come la natura delle sostanze o la possibilità di accumulo. Ciò senza trascurare il principio generale, in base al quale la sanzione penale funge da ostacolo per prevenire "il rischio di una concreta offesa del bene ambiente da parte dell'esercente un'attività autorizzata che, violando, anche se colposamente, le prescrizioni dell'autorizzazione di cui è munito, potrebbe determinare un concreto pericolo di compromissione dell'ambiente". Lettere: troppo potere nelle mani dei magistrati di Massimo Krogh Corriere del Mezzogiorno, 21 luglio 2015 Oggi il pubblico ministero possiede mezzi (mandati, avvisi di garanzia, iscrizione della notizia di reato, richiesta di rinvio a giudizio, ecc.) potenzialmente idonei a condizionare la vita del Paese. Può dirsi con ragionevolezza che il servizio giudiziario è divenuto un potere, il potere forte dello Stato. Quest'anomalìa vorrebbe una spiegazione, vale a dire, perché tanto potere non bilanciato, come invece avviene altrove? Come rimuovere questo squilibrio fra i poteri dello Stato; provocato da un potere che fra l'altro dovrebbe essere un servizio? È o no un cardine della democrazia la regola che un potere statuale non possa mai condizionarne un altro? Una risposta va necessariamente trovata, visto che siamo l'unico Paese del mondo cosiddetto sviluppato a presentare questa visibile supremazia del potere giudiziario, irruente al punto di squilibrare il sistema Stato. I magistrati, con la prescrizione che ne straccia il lavoro, sono anch'essi le vittime di un'incultura politica che non ha saputo dare al Paese una giustizia che non faccia uscire di testa chi vi s'imbatte, come non di rado avviene. Sarebbe molto sciocco prendersela con loro. Mentre bisognerebbe chiedersi se la ragione di questo poco ambito primato non stia per caso in quell'identità di carriera Giudice/Pm che distingue il nostro Paese dal resto dei paesi avanzati. Abbiamo pubblici ministeri che agiscono sentendosi giudici e giudici che decidono sentendosi pubblici ministeri. La confusione è andata molto avanti e nuoce sostanzialmente al normale funzionamento della giustizia. In Trancia dove la carriera è unitaria, l'ufficio del pubblico ministero è peraltro coordinato dal ministro della giustizia. Non si vede perché preconcette preoccupazioni debbano mantenerci isolati nell'incredibile paradosso che chi giudica e chi accusa siano compagni di banco. L'ulteriore unicum che ne deriva è l'uso eccessivo della custodia cautelare, in qualche modo legata allo strapotere del pubblico ministero e che è fonte di un sovraffollamento delle carceri italiane francamente vergognoso. Sembra che il legislatore ci stia pensando (meglio tardi che mai), visto che con una modifica normativa in coreo il carcere preventivo è ora limitato ai reati particolarmente gravi. A Napoli, comunque, non manca il camorrista per strada, direi però la caricatura del camorrista; gestisce il parcheggio abusivo, ed anche le strisce blu per un supplemento sul ticket. Si tratta di spiccioli, ma a Napoli è sempre questione di spiccioli, che messi insieme fanno una somma, ed è un costo che la pazienza dei napoletani si adatta, meglio si costringe, a pagare per sottrarsi alla "fatica" di reagire. La giustizia non funziona, anzi è al collasso; nel suo precipitare in basso può portarsi dietro il Paese se manca una forte reazione politica capace di dare speranza ai cittadini. A Napoli, però, uno "spicciolo" di reazione dovrebbe partire anche dal basso, per una risalita alle regole. Roma: il suicidio del killer del gioielliere e i buchi della sorveglianza in cella di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 21 luglio 2015 Domenica mattina la psicologa del carcere aveva raccomandato una visita psichiatrica e il regime di "grande sorveglianza". Eppure poche ore dopo Ludovico Caiazza, 32 anni, è riuscito a creare un cappio con le lenzuola, l'ha attaccato alle sbarre della cella e si è impiccato. È il ventiquattresimo detenuto che si suicida dall'inizio dell'anno. E adesso i magistrati e il Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, dovranno accertare che cosa davvero sia accaduto dal momento dell'ingresso dell'uomo nel reparto "Nuovi Giunti" sino all'arrivo dei soccorsi all'uomo accusato di aver aggredito e ucciso il gioielliere Giancarlo Nocchia, nel suo negozio al quartiere Prati a Roma. E per farlo stanno ricostruendo orari e circostanze, in modo da verificare se ci siano state omissioni da parte di chi aveva il compito di vigilare. Tenendo conto che proprio di fronte alla psicologa Caiazza si era mostrato sconvolto, sostenendo di aver saputo che l'orafo era morto solo dopo essere fuggito, e aveva detto: "Adesso chiudete la porta e buttate la chiave". Ma soprattutto anche perché ieri sera si è ucciso nello stessa reparto un ragazzo rumeno di 18 anni, Eduard Theodor Brehuescu accusato di aver assassinato lo scorso aprile il truccatore delle dive Mario Pegoretti. L'arrivo di notte. I carabinieri del Reparto operativo di Roma che lo hanno arrestato su un treno lo accompagnano nel penitenziario alle 3,15 di domenica. L'uomo è in preda a una crisi di astinenza: lo sottopongono alle visite mediche e gli somministrano il metadone. Poi c'è l'incontro con la specialista che deve giudicare le sue condizioni mentali. I tre parametri di pericolosità sono "medio, minimo e basso", ma la raccomandazione è di tenerlo sotto controllo. Alle 10,50 Caiazza incontra l'avvocato d'ufficio. Il colloquio dura fino alle 12,20. E forse solo in quel momento l'indagato si rende conto delle conseguenze di ciò che ha fatto, del rischio che buttino la chiave, soprattutto tenendo conto dei precedenti penali, come lui stesso aveva auspicato. Il rientro in cella. Alle 12,30 Caiazza torna in cella. Le disposizioni concordate dalla polizia penitenziaria con la direttrice del carcere Silvana Sergi sono di controllarlo ogni 30 minuti, "ma in realtà il passaggio è stato effettuato ogni quarto d'ora", spiega la stessa Sergi. Nel reparto ci sono 109 reclusi "governati" da due sorveglianti, un agente di piano e uno preposto. Secondo le relazioni di servizio compilate dopo il decesso, alle 22,45 l'agente vede il corpo che penzola accanto alla finestra. Fa scattare l'allarme, chiama i soccorsi, arrivano gli altri agenti che lo tengono per le gambe e tagliano il lenzuolo. Dieci minuti dopo intervengono i medici del 118. Provano a rianimarlo, utilizzano anche un defribillatore. Non c'è nulla da fare. Alle 23,25 Caiazza risulta "deceduto". I sorveglianti verbalizzano, come sottolinea la direttrice, "che in realtà quando si è scoperto che si era impiccato erano trascorsi solo 7 minuti dall'ultimo controllo". L'autolesionismo. Saranno i magistrati a dover stabilire come mai, nonostante le condizioni del recluso fossero ritenute a rischio, non si sia deciso di sorvegliarlo "a vista". E dunque a chiarire se sia stata seguita la procedura prevista in questi casi, ma anche se fosse sufficiente il numero di agenti in servizio. Certamente il suicidio di Caiazza riporta in primo piano un'emergenza che il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria, ma anche Radicali e associazioni che operano all'interno dei penitenziari denunciano da anni e che riguarda proprio le condizioni di vivibilità in alcuni casi disumane, dovute anche alle carenze di investimenti. Nel 2014 ci sono stati "43 suicidi, 6.919 atti di autolesionismo, 966 i ferimenti e 3.575 le colluttazioni". A volte, denuncia il segretario del Sappe Donato Capece, "basterebbe davvero poco, come usare lenzuola di carta per chi arriva in condizioni alterate". Roma: i colleghi del gioielliere ucciso "meglio così, l'avrebbero liberato subito" di Erica Dellapasqua Corriere di Roma, 21 luglio 2015 "Ma la foto ancora non c'è, di lui o della ragazza?". I colleghi e gli amici di Giancarlo Nocchia vorrebbero capire se gli è mai passato davanti il killer "che non ha neanche avuto il coraggio di farsi processare, codardo, una fine troppo veloce". Perché "ps - ha aggiunto qualcuno sul bigliettino di ringraziamento ai carabinieri che l'avevano arrestato - si è appeso in cella ieri!". Prati è un quartiere "chiuso" per lutto che non si rimangia niente delle dichiarazioni sul rapinatore "solo perché adesso è morto anche lui - dicono dal negozio Esoterica a Cola di Rienzo - aveva già fatto del male, violenza sessuale, rapina, ora se la vedranno lassù, forse meglio così, che tanto tra rito abbreviato e sconti di pena magari tornava fuori dopo un anno". Allora, due morti e un solo lutto: "Quanto accaduto al signor Nocchia non può passare inosservato - si legge sul volantino circolato tra i commercianti ieri - abbiamo pensato di lavorare con le serrande abbassate, una dimostrazione di cordoglio civile e solidale ma anche un modo per ricordare alle istituzioni che siamo commercianti e cittadini che pagano le tasse per ricevere in cambio servizi carenti sotto ogni punto di vista assistendo a cadenza ciclica a rapine, stupri ed omicidi". Si parla di una petizione, da consegnare forse al municipio forse al sindaco Marino. Ma intanto c'è paura: "Lunedì, due giorni prima della rapina a Nocchia, sempre un tossico voleva rubare alla profumeria qui davanti - raccontano le commesse di Stefanel in via Cola di Rienzo - siamo tornati in un clima da anni 80. I turisti stanno cominciando ad aumentare, quando inizierà il Giubileo non so come faremo, anche l'altro giorno un carabiniere in borghese ci ha riportato un vestito che si erano rubati". Serrande a metà anche in via dei Gracchi: "Il supermercato Pam, noi e poi Giancarlo - ricordano dal negozio di scarpe attaccato alla gioielleria - nel giro di pochi mesi ci hanno fatti tutti, in fila. Quando a novembre ci rubarono tutte le scarpe fu proprio Giancarlo a dirci di mettere l'antifurto e di fare un'assicurazione". E sul suicidio "non saprei, così sembra davvero tutto più inutile, Giancarlo è morto, l'assassino è morto, i carabinieri hanno ritrovato i gioielli, davvero tutto inutile: viaggiava con due pistole, forse se avesse voluto ucciderlo gli avrebbe sparato sul colpo". Poche scuse, invece, per i colleghi dell'autoscuola Flaminia: "Prendeva il metadone, non era un tossico che ha agito in preda al delirio, e comunque anche se sei disperato non arrivi a uccidere perché non ti viene aperta la cassaforte, punto". Roma: un altro dramma nello stesso "braccio" di Regina Coeli, 18enne si toglie la vita di Lorenzo De Cicco e Adelaide Pierucci Il Messaggero, 21 luglio 2015 A meno di 24 ore dal suicidio del killer di Prati, un altro detenuto è stato trovato morto nella sua cella a Roma. Stesso carcere di Ludovico Caiazza, Regina Coeli, stesso "braccio": la settima sezione. La vittima stavolta è Theodor Eduard Brehuescu, 18 anni, uno dei due giovani romeni che, ad aprile, ha ucciso Mario Pegoretti, il parrucchiere dei vip, ammazzato a colpi di pietra nella Pineta Sacchetti dopo un litigio per il pagamento di un rapporto sessuale. Dalle prime ricostruzioni sembra che il giovanissimo ragazzo di vita si sia tolto la vita. A darne l'annuncio ieri è stata la Fns Cisl, che ora, con il segretario Costantino Massimo, chiede di "chiarire la dinamica dell'accaduto". Autolesionismo. La Procura di Roma ha già aperto un secondo fascicolo. Se ne occupa il pm Luca Tescaroli che per ora procede contro ignoti e in nottata ha fatto un sopralluogo in carcere. Un mese fa anche l'altro ragazzo arrestato per l'omicidio di Pegoretti, Florin Liviu Vlad Axente, 21 anni, aveva compiuto un episodio di autolesionismo. "Si è ferito alla braccia", ha spiegato l'avvocato Marco Casalini. "Ci danno trentanni". Theodor Eduard Brehuescu era stato arrestato insieme all'amico Florin Liviu il 30 aprile scorso, pochi giorni dopo la morte di Pegoretti. Per entrambi l'accusa era di omicidio volontario a scopo di rapina. Pegoretti, 61 anni, parrucchiere di tanti personaggi del mondo dello spettacolo, era stato ritrovato senza vita in fondo a una piccola scarpata nel parco della Pineta Sacchetti, periferia Nord di Roma, senza né scarpe né pantaloni. Picchiato selvaggiamente e ucciso a colpi di pietre. "Ma mica sono pentito per quello che abbiamo fatto. Solo un rimprovero, non essere scappato subito. Ora che ci hanno preso ci danno trent'anni. O forse venti". Queste le frasi choc dei due giovani romeni intercettate dai carabinieri in caserma subito dopo l'arresto. Brehuescu era un fiume in piena. Si lamentava con Florin. Cercava di preparare una linea difensiva, che poi però avrebbe cercato di ribaltare davanti agli inquirenti, provando a scaricare tutte le colpe sull'altro. "Diciamo che siamo entrati nel parco - era la linea abbozzata dai due - che quello voleva fare sesso, che noi eravamo ubriachi, che quello ha provato a saltarci addosso, che la vittima è caduta e che noi abbiamo cominciato a tirargli calci, che abbiamo preso una pietra e lo abbiamo colpito ripetutamente alla testa e che siamo andati via". I due avevano parlato della vittima dicendo che gli avevano tirato dei calci al basso ventre e di non sentirsi colpevoli perché "voleva fare sesso" con loro. È allora che Theodor ha voluto sottolineare di "non sentirsi in colpa" per quanto accaduto. La tentata evasione. Prima dell'interrogatorio in caserma, Florin aveva anche fatto un'ultima proposta al complice: "Scappiamo ora". "Con le manette ai polsi?", gli aveva risposto l'altro. Florin aveva poi rivelato un particolare agli inquirenti: il "vecchio" al momento dell'aggressione aveva solo un euro in tasca. "È per questo che ho voluto rubargli l'orologio", aveva spiegato. Un orologio falso Armani, che Theodor la sera stessa avrebbe regalato alla fidanzata, una studentessa romana. Ed è proprio in casa di lei che i carabinieri lo hanno recuperato. Firenze: detenuto 45enne muore dopo essere stato al campo sportivo. Osapp: colpa caldo Ansa, 21 luglio 2015 Un detenuto di 45 anni è morto nel carcere fiorentino di Sollicciano dopo essere stato al campo sportivo. La causa della morte sarebbe infarto. "Ci domandiamo - scrive il Sindacato di polizia penitenziaria Osapp - se sia il caso, secondo noi sì, di sospendere l'attività sportiva all'aperto nelle ore pomeridiane quando il caldo si fa opprimente". Per l'Osapp "appare evidente la necessità di evitare tali rischi soprattutto per quei detenuti che non hanno un'attestazione medica di idoneità" allo sport. Parma: il Garante; bancomat rotto, i familiari possono versare i soldi all'ufficio colloqui parmatoday.it, 21 luglio 2015 Dopo la pubblicazione dell'articolo sulla rottura del bancomat che permette ai famigliari dei detenuti di versargli i soldi sul conto interno del carcere di via Burla a Parma il Garante per i Detenuti del Comune di Parma ci ha risposto, comunicando che i famigliari potranno versare i soldi direttamente presso l'Ufficio rilascio colloquio nelle giornate di visita ai detenuti. "Successivamente alla notizia -si scrive il Garante- da voi diffusa e una verifica fatta nella giornata di ieri presso il carcere comunico che il servizio di versamento dei soldi per il mantenimento dei familiari detenuti è attivo. In attesa che il bancomat venga riparato i familiari potranno versare i soldi direttamente presso l'Ufficio rilascio colloquio nelle giornate di visita ai detenuti. Ancona: a lezione dagli artigiani Cna, corsi per i detenuti di Montacuto e Barcaglione anconatoday.it, 21 luglio 2015 Conto alla rovescia per l'avvio dei nuovi corsi di formazione organizzati dalla Cna di Ancona per i detenuti di Barcaglione e di Montacuto, che inizieranno mercoledì 22 luglio. "Grazie all'Ambito territoriale sociale XI di Ancona - spiega Andrea Riccardi, segretario della Cna dorica - che riceve uno stanziamento specifico dalla Regione Marche, prosegue come lo scorso anno l'organizzazione di corsi di formazione presso gli Istituti penitenziari di Ancona: uno per elettricista e uno per idraulico. A tenere le docenze saranno gli artigiani ed i professionisti del sistema Cna, che insegneranno ai detenuti un mestiere, anche attraverso dimostrazioni pratiche e focalizzando l'attenzione sulle buone prassi da tenere per lavorare in sicurezza". "Il Comune di Ancona realizza gli interventi nell'area penitenziaria e post-penitenziaria, attraverso i contributi che la Regione Marche eroga annualmente agli Ambiti Territoriali Sociali, oltre che da fonti proprie del Bilancio Comunale - precisa l'Assessore ai Servizi Sociali Emma Capogrossi - Le politiche regionali relative al settore penitenziario sono orientate a sostenere sul territorio marchigiano, la programmazione concertata di interventi tra enti, istituzioni e servizi per la realizzazione di progetti nello specifico settore. Tra i diversi progetti che l'Amministrazione sostiene, quelli di carattere formativo, come quelli promossi dalla Cna, hanno una particolare rilevanza in quanto oltre a migliorare le condizioni di vita all'interno del carcere promuovono l'apprendimento di competenze e abilità professionali utili al reinserimento sociale una volta terminato il periodo di detenzione". Il Comune di Ancona e la Cna hanno così avviato un progetto che vuole offrire una formazione pratica e una teorica ai detenuti, con l'obiettivo di migliorare il loro bagaglio culturale e consentirgli, nel momento del reinserimento nella società, di spendere un'esperienza positiva che potrebbe aiutarli a trovare un lavoro. Cna ha coinvolto gli artigiani del territorio che meglio di chiunque altro possono insegnare quello che realmente è richiesto dal complesso mercato del lavoro. Cosenza: il carcere di via Popilia senz'acqua, i detenuti protestano ed arriva l'ispezione quicosenza.it, 21 luglio 2015 A causa del furto, ad opera di ignoti, dei tubi di rame di cui è composta la conduttura comunale e dalla rottura di una pompa di sollevamento l'impianto idraulico dell'Istituto Penitenziario è in tilt. "Ieri mattina, nella Casa Circondariale Sergio Cosmai di Cosenza, l'onorevole Enza Bruno Bossio del Pd ha svolto una visita ispettiva - si legge in una nota divulgata dalla delegazione che ha visitato la casa circondariale - a seguito della grave emergenza idrica registratasi nell'Istituto Penitenziario che aveva determinato una forte manifestazione di protesta da parte di tutti i detenuti ristretti al suo interno. L'onorevole Bruno Bossio, come nelle precedenti ispezioni, è stata accompagnata da Emilio Quintieri e Gaspare Galli, rispettivamente esponenti dei Radicali Italiani e dei Giovani Democratici. Per fronteggiare l'emergenza, il Prefetto di Cosenza ha ordinato ai Vigili del Fuoco, di fornire l'acqua al Carcere tramite le loro autobotti per uso igienico - sanitario in quanto le cisterne di cui era dotato l'Istituto, aventi una capacità complessiva di 50 mila litri, si erano completamente svuotate. Successivamente sono stati effettuati i necessari lavori di riparazione ed è stata ripristinata l'erogazione dell'acqua potabile. Si ricorda che nella casa circondariale di Cosenza, a fronte di una capienza regolamentare di 220 posti, sono rinchiusi 221 detenuti, 26 dei quali stranieri. Tra questi, 112 sono i condannati definitivi e 109 quelli in attesa di giudizio. Grazie all'intervento precedente dell'onorevole Bruno Bossio, il Governo, tra le altre cose, ha incrementato i fondi destinati a chi lavora in carcere da 140.000 a 232.000 euro (92.000 euro), consentendo di far lavorare all'interno del carcere 55 detenuti mentre prima soltanto 39 riuscivano a lavorare alle dirette dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria. Ed oggi, grazie all'incremento di fondi, i detenuti dopo i 6 mesi di lavoro, potranno ottenere anche l'indennità di disoccupazione che prima gli era preclusa. Dal 2010 ad oggi, sono 124 i detenuti scarcerati per effetto delle Leggi "Svuota Carceri" da Cosenza (469 in tutta la Calabria), 20 quelli dimessi e sottoposti ai domiciliari con il braccialetto elettronico (8 As e 12 Ms). Solo 1 detenuto, invece, dopo l'intervento della Corte Costituzionale che ha abrogato la Legge Fini Giovanardi sugli Stupefacenti, ha avuto la pena rideterminata ed è stato scarcerato. Nessuno - sottolinea la delegazione - ha ottenuto la riduzione pena o il risarcimento danni dal Magistrato di Sorveglianza per la detenzione in condizioni inumane e degradanti. Nel Carcere di Cosenza, non ci sono stati suicidi negli ultimi anni (l'ultimo è avvenuto nel 2006) e sono pochissimi i tentati suicidi (1 nel 2014, 2 nel 2015). Pochissimi anche gli atti di autolesionismo (1 nel 2014, 7 nel 2015), nessun decesso di detenuti o di Poliziotti Penitenziari e tantomeno alcuna aggressione nei confronti di questi ultimi da parte dei primi. Sono in corso di ultimazione i lavori di rifacimento completo delle celle del Reparto di Isolamento con l'adeguamento delle stesse al Regolamento di Esecuzione del 2000 che prevede i servizi igienici e la doccia in un vano annesso alla cella. Nel reparto isolamento di Cosenza, invece, il lavabo ed il bagno erano ancora a vista, senza alcuna protezione direttamente all'interno della stanza, accanto al letto, mentre le docce erano in un locale comune nel corridoio. Prossimamente, sarà aperta e resa funzionante anche la Palestra, chiusa da molto tempo e, qualora sarà finanziato il progetto presentato dalla Direzione dell'Istituto, al posto dell'attuale campo sportivo, saranno realizzati due campi di calcio a cinque, aumentando le possibilità di utilizzo per i detenuti". Nuoro: detenuto scortato in ospedale tenta di sfilare la pistola a un agente penitenziario La Nuova Sardegna, 21 luglio 2015 Trasferito in ospedale per un malore, Antonio Devaddis di Orgosolo ha aggredito il personale di Badu e carros che lo accompagnava. È stato bloccato dopo una breve collutazione. Attimi di panico al pronto soccorso dell'ospedale San Francesco. Un detenuto del carcere di Badu e carros che stava per essere visitato dai medici ha tentato di sfilare la pistola dalla custodia di un agente penitenziario del nucleo traduzioni che lo accompagnava insieme ai suoi colleghi. Ne è nata una colluttazione, durante la quale l'agente è stato colpito al volto, ma il detenuto è stato bloccato pochi istanti dopo e ricondotto in carcere. All'agente sono stati assegnati cinque giorni di cure per le contusioni riportate. Il detenuto aveva accusato un malore in mattinata e dopo la prima visita nel reparto di infermeria di Badu e carros era stato trasferito all'ospedale per ulteriori accertamenti. È probabile dunque che si trattasse di una simulazione per tentare un'evasione fallita sul nascere. Il detenuto è Antonio Devaddis, orgolese di 51 anni, in cella dal marzo scorso con l'accusa dell'omicidio di Angelo Filindeu e in attesa di giudizio. L'episodio è stato denunciato dalla Uil Penitenziari che da tempo chiede un aumento degli organici del personale di sorveglianza e di traduzione nel carcere nuorese. All'agente sono stati assegnati cinque giorni di cure per le contusioni riportate. Napoli: la Federico II collaborerà alla rieducazione dei detenuti degli Istituti penitenziari napolitoday.it, 21 luglio 2015 L'obiettivo dell'accordo è quello di sostenere i detenuti delle carceri partenopee in un'ottica del loro reinserimento nella vita sociale. Sarà presto firmata infatti la convenzione tra l'Ateneo e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per la Campania. L'obiettivo dell'accordo è quello di sostenere i detenuti delle carceri partenopee in un'ottica del loro reinserimento nella vita sociale. L'accordo verrà siglato dal Rettore dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, Gaetano Manfredi, e dal Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per la Campania, Tommaso Contestabile, martedì 21 luglio 2015, alle 12, nell'Aula del Consiglio di Amministrazione presso il Rettorato della Federico II. Carceri: teatro, la compagnia "Stabile assai" di Rebibbia si esibisce nelle carceri lucane Ansa, 21 luglio 2015 Tre appuntamenti, negli istituti penitenziari di Potenza, Matera e Melfi (Potenza), per raccontare "Un amore bandito", lo spettacolo teatrale portato in scena dalla compagnia "Stabile assai" composta da detenuti del carcere romano di Rebibbia. Gli eventi sono stati presentati stamani a Potenza, nel corso di una conferenza stampa, dal Provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria della Basilicata e della Calabria, Salvatore Acerra, dal presidente regionale dell'Aics (Associazione italiana cultura sport), Franco Cafarelli, dal funzionario dei servizi sociali del Provveditorato, Giuseppe Palo, e dall'assessore comunale di Potenza allo Sport, Giovanni Salvia. Il primo appuntamento è a Melfi il 22 luglio, alle ore 15.30. Si prosegue a Potenza, nell'istituto penitenziario, dove lo spettacolo andrà in scena alle ore 10, e poi nel teatro Stabile del capoluogo lucano, alle ore 16.30, con la tavola rotonda "Teatro-sport: strumenti di inclusione", e alle ore 18, con una replica di "Un amore bandito" aperta al pubblico. Terzo e ultimo appuntamento a Matera, il 24 luglio, alle ore 10, nella struttura penitenziaria. Lo spettacolo conclude il trittico dedicato alle vicende del brigantaggio, cominciato con "Carmine Crocco, un brigante del Sud" e proseguito con "Una storia bandita". La compagnia "Stabile assai" è il più antico gruppo teatrale del settore penitenziario nazionale, che esordì nel 1982 con la partecipazione al festival di Spoleto. Cosenza: attori di "Amore Sbarrato 2"; in cella solo sventurati, mai visti colletti bianchi di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 21 luglio 2015 Un sorriso ai familiari, un bacio ai bimbi. Il sipario si è chiuso, si torna in cella. Lo spettacolo "Amore Sbarrato 2" diretto dal regista Adolfo Adamo, in scena Mercoledì scorso al Morelli, verrà riproposto in una nuova edizione anche il prossimo anno, come affermato dall'assessore Rosaria Succurro nel corso della serata. A partecipare a questa seconda edizione, in veste di attori, sette detenuti: Luigi Belladonna, Armando Bevilacqua, Eduardo Caputo, Agostino Casella, Francesco Picicco, Pierpaolo Tormento e Mario Tuoto. Insieme a loro due ex ospiti della casa circondariale Sergio Cosmai che avevano già iniziato il percorso teatrale, durato cinque mesi. Sono loro a raccontare cosa significa salire sul palco e poi rientrare in carcere. Andrea è di Cosenza, classe 77 porta sulle spalle nove anni di detenzione. Tentato omicidio l'accusa. "Questi progetti - spiega Andrea che ha lasciato il carcere da dieci mesi - in un contesto in cui le attività sono limitate. può aiutare a trascorrere un paio d'ore diverse dove riesci a non pensare al contesto in cui vivi. Insomma distrae e non in tutte le carceri riescono a portare avanti queste iniziative. Per il resto credo che per una persona che esce da un penitenziario dopo tanti anni non è facile il reinserimento nella società soprattutto nel mondo lavorativo. I pregiudizi e le conseguenze del passato te le trovi nel presente perché gli sbocchi lavorativi sono davvero pochi. A me fa rabbia, ho subito un'ingiusta detenzione per un reato che non ho mai commesso. Nonostante tutto ho pagato. Che la legge è uguale per tutti è solo un modo di dire. I politici che rubano miliardi non fanno neanche un giorno di carcere. Non hanno mai provato cosa significa stare in cella. Un povero sventurato che invece ruba una bottiglia da un supermercato deve scontare tre anni, dal primo all'ultimo giorno in galera, senza nessuno sconto di pena. L'ho visto con i miei occhi. In nove anni di carcere non ho incontrato né politici, né professionisti, né colletti bianchi. La borghesia in carcere non ci finisce. Mai. Purtroppo ci sono individui ed individui. Gli avvocati non hanno la bacchetta magica, quando la magistratura lavora con i paraocchi stritola sia l'imputato sia il suo legale. Certo il carcere di via Popilia può essere definito un carcere modello sia a livello di infrastruttura sia a livello di gestione. Mi sono trovato sempre bene, non mi posso lamentare. Resta però l'amarezza di un sistema ingiusto". Rosario viene da Africo, nel reggino, ha 49 anni di cui 13 trascorsi dietro le sbarre. Ha lasciato il carcere di via Popilia circa un mese fa dopo quattro anni trascorsi in cella per aver violato la sorveglianza speciale. Era andato in auto ad accompagnare i figli a scuola, ma per lui si riaprirono i cancelli del penitenziario. Quest'anno ha recitato da libero e ne è estremamente felice "sono iniziative buone per tutto il mondo carcerario, dal personale ai familiari. I posti, però, sono limitati non tutti riescono ad accedervi. Grazie al teatro la mente va oltre le sbarre, fuori dai muri della galera. Il carcere, si sa, è dolore e tristezza. Si cerca di trascorrere le giornate dandosi forza a vicenda, andando in saletta, a scuola, al campo sportivo, lavorando nel carcere. Il lavoro però è pochissimo e ci sono graduatorie lunghissime. Via Popilia, - spiega Rosario inizialmente arrestato per associazione di stampo mafioso - è il miglior carcere della Calabria, il personale dà spazio al detenuto dandogli la possibilità di fare attività sportive andare in palestra. È gestito bene anche se la struttura a me non piace con quegli stanzoni con sei/sette persone. Se fossero cubicoli, stanzine piccole, sarebbe meglio. Il reinserimento nella società? È una questione personale. Se l'ex detenuto ha voglia di vivere nella legalità lo fa, se non vuole farlo non c'è carcere che tenga. Il nostro codice penale è un mostro. Va cambiato. Con la recidiva, un pregiudicato può finire in carcere anni per delle banalità. Un esempio. Se abiti in un paesino di poche anime, dove sono quasi tutti pregiudicati, ma li conosci da trent'anni cosa fai? Non li saluti? Se lo fai però ti condannano e ti arrestano. Se c'è un reato sono d'accordo, ma se dico ciao e vado via perché devo finire in carcere? Non è giusto. Anche perché come ripeto, sinceramente, se una persona ha voglia di reinserirsi nella società lo fa, altrimenti anche un giovane incensurato ne esce più criminale di prima" Libro: "I colori della libertà. Arte-terapia in carcere", la presentazione alla Camera Dire, 21 luglio 2015 Il Deputato Questore, On. Stefano Dambruoso, giovedì 23 luglio, alle ore 11:30, presso la Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, presenterà il libro "I colori della libertà. Progetto Arte-terapia in carcere" strumento di riflessione e riabilitazione. Il libro raccoglie le testimonianze dei detenuti maturate nell'ambito del progetto "Arte in carcere", promosso dall'On. Dambruoso presso la Seconda Casa di reclusione di Bollate-Milano, con l'obiettivo di favorire il loro recupero ed il reinserimento nella società civile attraverso un percorso di arte-terapia. Tanto in linea con gli obiettivi del decreto legge n.146/2013 - c. d. "decreto svuota carceri" - sostenuto con convinzione in Commissione Giustizia da Scelta Civica. Il progetto, finanziato unitamente all'Associazione Parlamento della Libertà, si fonda sulla convinzione dell'efficacia dell'espressione artistica nel percorso di recupero e di reintegrazione sociale. L'incontro offrirà spunti di riflessione - in occasione del 40° anniversario della riforma penitenziaria - sul principio della custodia cautelare come extrema ratio e sull'ingresso ed uscita dal circuito penitenziario. Parteciperanno all'evento: l'On. Andrea Orlando, Ministro della Giustizia, il dott. Santi Consolo, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, l'On. Donatella Ferranti, Presidente della Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati e il dott. Massimo Parisi, direttore della Casa di reclusione di Milano-Bollate. Nel corso della presentazione, cinque detenuti, tra i tanti che hanno partecipato al progetto - dopo aver ricevuto l'autorizzazione dal Dap ed a proprie spese - saranno presenti per testimoniare sull'importanza dell'iniziativa. Libri: intervista al fotografo Valerio Bispuri, autore di "Encerrados" di Davide Barbera insideart.eu, 21 luglio 2015 Parla il fotografo romano subito dopo la pubblicazione del suo libro sui volti degli encerrados. Viaggio nel cuore a tinte fosche dell'America Latina. Il bianco e il nero, il bene e il male, nel mezzo un'infinita scala di grigi che racchiude l'umanità dolente messa a fuoco dall'obiettivo di Valerio Bispuri. "Encerrados" è la summa finale di dieci anni trascorsi a documentare la vita all'interno delle carceri latino-americane, che divengono un tramite ai fini di un racconto speculare e alternativo del subcontinente. Uno sguardo, al contempo intimo e universale, che disvela ai nostri occhi ciò che rimane dell'uomo quando viene privato del suo bene più prezioso: la libertà. Prima di entrare nel merito del tuo lavoro sugli encerrados facciamo un passo indietro. Quasi in contemporanea hai portato avanti un progetto incentrato sul paco - la droga dei poveri - documentandone il consumo in Argentina, Brasile e Perù. Da cosa nasce l'interesse per l'America Latina? "L'attrazione per l'America Latina nacque nel 2000, quando intrapresi un viaggio con un amico che lavorava ad un documentario per Stream TV, piattaforma televisiva a pagamento precedente all'odierna Sky. Mi chiese d'accompagnarlo ed io accettai volentieri di seguirlo: girovagammo quattro mesi lungo il continente per raccontarne le tradizioni e questa fu, per così dire, la mia iniziazione al Sud America. Da lì prese piede l'idea di approfondire la conoscenza di questa terra, idea realizzata circa un anno e mezzo dopo quando mi recai in Argentina per documentare la crisi economica del Paese. Infine mi ci trasferii, decidendo di trascorrerci un periodo più lungo della mia vita. Vi sono anche altre motivazioni in base alle quali ho scelto più volte di lavorare in Sud America, riconducibili ad una "coerenza di discorso": scelgo di non raccontare tutto ciò che avverto come distante da me e che so di non poter approfondire in modo adeguato. Motivo per cui non mi dedico particolarmente al mondo orientale o a quello africano. Al contrario, l'America Latina "siamo noi", in special modo l'Argentina che è stata soggetta alla colonizzazione spagnola. Fondamentalmente la cultura, i modi di vivere e di pensare sono i nostri, nonostante tutte le contaminazioni e i distinguo del caso. Il Sud America, a differenza di altri luoghi cui prima accennavo, è molto nelle mie corde. Sono dell'idea che se non si conosce a fondo ciò di cui si parla, non lo si può nemmeno rendere efficacemente. Sempre a patto di non volersi rifugiare in qualcosa che abbia un valore puramente estetico. Riguardo Paco, al progetto si è aggiunta una parte inedita e l'idea è quella di poterne fare un libro nel 2016". Da Paco a Encerrados il passo è breve anche in via concettuale, essendo lo spaccio di droga il reato più diffuso in America come in Europa. C'è un episodio particolare legato alla nascita di Encerrados? Quali erano le tue intenzioni iniziali? "Le mie intenzioni erano quelle di ottenere un lavoro quanto più globale possibile, che avesse una doppia finalità: da un lato riuscire a rappresentare il Sud America attraverso le sue carceri e dall'altro raccontare l'uomo privato della propria libertà. Encerrados nasce per caso, forse come tutti i più grandi lavori. Mi trovavo in Ecuador, ad una cena, insieme ad un saggista che aveva pubblicato un testo sul nuovo sistema carcerario ecuadoregno; lui stesso m'invitò, in veste di fotografo e giornalista europeo, a visitare un carcere per appurare i cambiamenti del sistema di detenzione. Accettai, spinto anche dalla curiosità. Fu un'esperienza molto forte e drammatica, nei confronti della quale ero del tutto impreparato. Chiunque, perfino chi guarderà le immagini del mio libro, non potrà comprendere appieno la realtà del carcere senza averci mai messo piede. Superato lo shock del primo impatto chiesi se fosse possibile visitarne altri. Desideravo osservare meglio cosa accadeva e, nondimeno, volevo testare me stesso per capire quale fosse il mio approccio ad un ambiente del genere. Dopo la visita alle prigioni ecuadoregne non vi era ancora una prospettiva di progettualità da parte mia, tanto che vendetti quelle fotografie alla rivista D di Repubblica, che in quel periodo - stiamo parlando del 2002/2003 - si era aperta anche ad un certo tipo di reportage. Il progetto partì in modo consapevole una volta tornato in Argentina, quando visitai il carcere di Villa Devoto, a Buenos Aires: dentro una cella vidi quattro detenuti che parlavano di calcio e bevevano mate, quasi in una sorta di surreale allegria. Guardandoli sembrava che avessero dimenticato dove si trovavano. Quest'episodio mi ha aiutato a comprendere che il carcere non era soltanto violenza ma anche tanto altro, come i momenti di apparente normalità". Insieme all'occhio di riguardo per l'America Latina, un'altra costante dei tuoi progetti è la predilezione per i reportage a lungo termine. Come pianificavi il tuo lavoro? Quanto tempo avevi a disposizione all'interno delle strutture? "La pianificazione è senza dubbio un aspetto fondamentale e preliminare, ma è pur vero che in alcuni casi dev'essere presente una forte componente d'intraprendenza. Al momento giusto bisogna anche saper rischiare, lanciarsi "all'avventura" senza che vi siano certezze sui frutti del tuo operare. Ripenso a quando tutto questo ebbe inizio, ai tempi in cui avevo davanti a me qualcosa come nove paesi da visitare: tra le richieste dei permessi per gli accessi, la lentezza della burocrazia, sembrava un percorso infinito. Se c'è un consiglio che posso dare ai giovani fotografi, che sia al contempo un modo per combattere il panico in situazioni del genere, è questo: portate avanti i vostri progetti senza pensare ad un fine, portateli avanti perché credete che sia giusto farlo, perché lo sentite, perché lo volete, perché pensate che sia importante! Fin dall'inizio l'unico aspetto per me rilevante era che il lavoro arrivasse ad una conclusione, maturando con i suoi tempi. Reputavo Encerrados e Paco i miei due progetti più importanti e questo bastava a perseverare. Nel frattempo, per finanziarmi, facevo altri mille lavoretti. Adesso che posso permettermelo, dopo tanta fatica, prediligo esclusivamente reportage a lungo termine. Venendo alla pianificazione, per visitare le prigioni bisognava che richiedessi il permesso all'ambasciata del paese situata in Italia, non potevo recarmici per via diretta. Successivamente l'ambasciata inviava le informazioni sul progetto all'ente che si occupava del sistema carceri, che lo analizzava e decideva se concedermi o meno l'accesso. Questo processo poteva risolversi in breve tempo, ma anche rimanere in stallo per mesi. Una volta ottenuto l'accesso, rimanevo un giorno - circa dalle 9 alle 16 - all'interno della struttura. Non era infrequente attendere due anni un permesso che poi si risolveva in pochissime ore effettive passate a fotografare sul campo". Spesso sottolinei come Encerrados non ambisca ad essere un libro di denuncia, eppure il contributo delle tue immagini si è rivelato fondamentale almeno in un episodio, come apprendiamo dalle parole di Roberto Saviano che ha curato la prefazione del volume. Raccontaci cos'è successo. In secondo luogo: se non è denuncia questa, cos'è? L'aneddoto a cui ci riferiamo riguarda il Padiglione numero 5 del carcere di Mendoza, popolato dai detenuti argentini ritenuti più pericolosi. Contrariamente al volere del direttore decisi di entrare, assumendomi tutte le responsabilità e non senza una buona dose di paura. A parole tutto risulta sempre più semplice di com'è nella realtà. Le guardie chiusero la porta alle mie spalle e mi ritrovai fra i carcerati. Trascorsi due ore in loro compagnia e nemmeno un solo gesto di violenza fu commesso nei miei riguardi; all'opposto, i detenuti mi indicavano cosa fotografare, su quale dettaglio della loro miserevole condizione porre l'accento. Anni dopo, anche grazie al sostegno del governo e della divisione argentina di Amnesty International, esposi queste immagini a Buenos Aires: di lì a breve il Padiglione numero 5 venne prima chiuso, trasferendo i detenuti, poi demolito. Questo è uno di quei traguardi della fotografia di cui vado molto fiero. Per il resto, Encerrados non ha l'intento di denunciare, perlomeno non direttamente. Denunciare il mondo delle carceri, in sé, sarebbe anche piuttosto semplice. Il libro nasce per raccontare come si vive senza libertà. Proviamo ad immaginare cosa significhi, da domani, non avere più alcun contatto con il mondo, rinunciare alle nostre abitudini: cosa sentiamo dentro? Cosa proviamo? L'intento risiede nel trasmettere le sensazioni che può provare un uomo recluso in una cella. Al contrario, il libro sul paco sarà una forte denuncia del sistema di corruzione che orbita attorno al narcotraffico nel suo complesso. In passato ho già ricevuto minacce dai narcotrafficanti e la pubblicazione potrebbe costarmi il divieto d'ingresso in Argentina, ma è importante lanciare un messaggio forte". Un dato che colpisce è il numero di suicidi - praticamente assenti - nonostante le condizioni delle carceri non siano migliori rispetto a quelle italiane o europee, dove invece le statistiche in merito continuano ad essere poco confortanti. Ricollegandoci al tuo intento di raccontare la libertà negata, in quali modi si può reagire al regime di detenzione? E cosa puoi dirci delle carceri femminili? "In Sud America il suicidio non è concepito nemmeno all'esterno del carcere; in qualche modo potremmo dire che non fa parte dell'anima latino-americana e del loro intendere la vita. Piuttosto adelante, andare sempre avanti, anche se spesso questa mancanza di violenza nei confronti di se stessi si tramuta in violenza verso l'altro. Resistere è il loro imperativo, anche in contesti come le crisi economiche o violente dittature. In carcere vi sono sostanzialmente tre fasi che ogni detenuto affronta: la prima è quella della lotta contro lo stato delle cose in cui viene a trovarsi; la seconda ha invece a che fare con la rassegnazione, quando comprende che è costretto a rimanere dietro le sbarre; la terza invece è quella dell'accettazione e insieme della resistenza, in questo momento prova a ricavarsi delle nicchie di normalità. Sono più o meno questi i tre momenti topici: rabbia, disperazione e sopravvivenza. Per quanto concerne le carceri femminili va detto che sono molto violente, al pari di quelle maschili. La differenza più grande sta nella gestione della sessualità da parte del sistema, in quanto per le donne non è prevista la visita intima. Le detenute soffrono molto la repressione sessuale e a questa situazione fa da contraltare l'aumento dei casi di lesbismo. Un'altra differenza risiede nel fatto che, a dispetto di quanto accade agli uomini, le detenute vengono letteralmente abbandonate. La donna in carcere è profondamente sola, nessuno più s'interessa di lei, che sia la madre o il compagno. I loro figli, quando non hanno la fortuna di avere dei nonni che possano accudirli, vengono mandati in orfanotrofi o più spesso in strada. Subiscono violenze di ogni genere, vengono drogati, stuprati. Si perdono, non esistono. Non hanno nome, non hanno età, non hanno nulla: nati e abbandonati nel mondo. C'è un'associazione, in Perù, che si prende cura delle bambine violentate. Ricordo gli occhi di una di loro, immobilizzata a letto, a dieci anni la vita era come se l'avesse già uccisa". Il fotogiornalismo, a suon di casi eclatanti, sembra stia subendo il fascino di un'estetizzazione sempre più forte che tende, in fin dei conti, a prevalere sui contenuti veri e propri. Qual è il tuo modo di concepire il reportage? "Credo che, oggi, certi fotografi pensino di più ai festival e agli aperitivi. Il fatto stesso di parlarne in un ristorante, a due passi da Ponte Milvio, è a suo modo indicativo. Qui, da questa parte del mondo, la vita può essere talmente facile da sembrare un gioco. Un fotogiornalista, secondo me, ha il dovere di sfruttare il proprio talento per documentare storie come quelle che ho raccontato nei miei lavori, che riguardano l'uomo e la sua sofferenza sotto ogni aspetto. Ne esistono tante, troppe. Se sei un fotogiornalista e hai un'etica - a maggior ragione se godi di una certa visibilità e sai che le tue foto avranno un pubblico vasto - non puoi non fare questo. Non puoi rifugiarti nell'estetica fine a se stessa, altrimenti smarrirai la vera essenza del reportage. Lotto per questo. Servirà a qualcosa? Io penso di sì, se non altro a smuovere qualche coscienza, fosse anche una soltanto. La mia battaglia personale è quella di trasmettere ad altri fotografi una certa filosofia: oggi non è importante saper fare una bella foto, bensì esprimere quello che è il mondo e le sue contraddizioni, mostrare vicende poco o per nulla conosciute. Questo è il compito del fotoreporter". Nel 2011 hai esposto Encerrados al Visa pour l'image di Perpignan, il più grande festival di fotogiornalismo a livello internazionale. Come si è arrivati alla pubblicazione del libro? "C'è un aneddoto che riguarda la mostra di Perpignan. Jean-François Leroy, il direttore, camminava in uno dei corridoi. Nel caos del festival lo avvicinai - per fortuna parlo un po' di francese - e gli raccontai del mio progetto sulle carceri del Sud America, lasciandogli fra le mani un cd-rom con all'interno le immagini. Passati diversi mesi mi contattò attraverso la mia posta elettronica, comunicandomi che il lavoro gli era piaciuto molto e che avrebbe organizzato l'esposizione a Perpignan. Fu un momento di grande felicità. Da lì l'idea di farne un libro, tanto che mi misi subito alla ricerca di un editore disposto a pubblicarlo. A questo proposito va detto che purtroppo, in Italia, se non rientri in quella rosa di cinque nomi importanti, non trovi nessuna casa editrice disposta a pubblicarti coprendoti le spese per intero. Tanti, infatti, rifiutarono. A quel punto mi convinsi che avrei dovuto far qualcosa di mia iniziativa, così avviai una campagna di crowdfunding, stabilendo come traguardo il raggiungimento di ventiduemila euro. Volevo un libro che fosse il massimo sotto più punti di vista, in fondo era il mio tributo a dieci anni di fatiche. Chiunque riteneva fosse impossibile che ci riuscissi, ma fortunatamente avevo dalla mia l'interesse di tanta gente che in seguito alla mostra e al documentario trasmesso su Sky Arte si era interessata al mio lavoro. Non solo la raccolta fondi raggiunse la quota che mi ero prefissato, ma la superò anche. Con in mano la certezza di riuscire a stampare il libro mi sentivo inarrestabile. Mi recai presso la casa editrice Contrasto e parlai con Roberto Koch, fondatore e direttore. L'idea gli piacque subito e da lì il cammino fu tutto in discesa". Qualche anticipazione sul futuro dei tuoi altri progetti? "Come accennavo all'inizio, c'è l'intenzione di far diventare un libro anche Paco. Jean-François Leroy mi ha già garantito che nel 2016 esporremo il lavoro a Perpignan. Poi vorrei continuare due miei progetti, uno sulla sordità e l'altro sul lesbismo. Infine, insieme alle mie collaboratrici stiamo lavorando per la creazione a Roma di un punto interattivo - non una scuola di fotografia propriamente intesa - all'interno del quale tutti i fotografi, provenienti sia dall'Italia che dall'estero, possano scambiarsi opinioni, idee, confrontarsi e lavorare collettivamente. Un luogo ideale dove organizzare workshop, sia miei che di colleghi che stimo, in cui possa trovare spazio la voce di chiunque ami la fotografia ed un certo modo di intenderla". Immigrazione: ricollocamento dei profughi; gli Stati si sfilano, la Ue si ferma a 32mila di Francesca Basso Corriere della Sera, 21 luglio 2015 Accordo al ribasso sui ricollocamenti. Alfano: via il prefetto di Treviso. Non sono state superate le difficoltà tra gli Stati dell'Unione Europea emerse nelle scorse settimane per trovare un'intesa sul ricollocamento in due anni da Italia e Grecia negli altri Paesi Ue di 40 mila migranti richiedenti protezione internazionale: l'accordo si è fermato a 32.256, mancano all'appello 7.744 persone. La cifra per il primo anno è stata raggiunta, ma non quella complessiva. Mentre gli Stati Ue hanno mostrato maggiore apertura verso la ridistribuzione, sempre in due anni, dei migranti provenienti dai campi profughi extra-Ue: sono disposti ad accoglierne 22.504, quando il limite fissato dalla Commissione Ue nel Piano immigrazione era di 20 mila. "Sono deluso che non si sia arrivati all'accordo", ha commentato il commissario all'Immigrazione Dimitris Avramopoulos, "ma è stato fatto uno storico passo avanti nelle politiche europee" sull'immigrazione. Entro fine anno la Commissione ha intenzione di proporre un meccanismo con chiavi fisse di ripartizione. Per ora c'è un problema non risolto di solidarietà tra gli Stati Ue. Il piano della Commissione era un tentativo di venire incontro alla situazione di emergenza che stanno vivendo Italia e Grecia. Però "basare la solidarietà europea sulla volontarietà ha chiaramente mostrato i suoi limiti", ha constatato al termine del Consiglio Affari interni Jean Asselborn, il ministro lussemburghese degli Esteri e dell'Immigrazione e presidente di turno della riunione dei ministri degli Interni dei Ventotto. Asselborn ha anche annunciato che "le prime redistribuzioni cominceranno a ottobre" e che tra fine novembre e dicembre vi sarà una nuova riunione con l'obiettivo di raggiungere il tetto fissato anche per il secondo anno. Il ministro dell'Interno Angelino Alfano lo definisce "un primo passo" di un'intesa che "copre il primo anno di un piano biennale". Ma durante la discussione a porte chiuse, dai toni piuttosto sostenuti racconta una fonte vicina al dossier, Alfano ha ricordato agli altri ministri che "solidarietà e responsabilità devono viaggiare assieme". L'accordo prevede infatti un maggiore impegno italiano sul fronte dell'identificazione dei migranti in arrivo, per poter stabilire quanti fra loro hanno diritto alla protezione internazionale. Alfano ha spiegato che "noi dovremo mettere in campo misure organizzative che sono la parte di adempimento dell'Italia e procederemo con la stessa progressione con cui procederà la fase di completamento del numero che deve portarci a 40 mila". Da Bruxelles ha anche annunciato "la sostituzione del prefetto di Treviso". L'immigrazione è un tema delicato e "ogni Paese ha la propria sensibilità nazionale, in alcuni Paesi ci sono le elezioni, ma una volta passate le urne, le chance di trovare delle soluzioni saranno più palpabili", ha spiegato Asselborn. Il riferimento è a Polonia e Spagna che voteranno in autunno. Varsavia si è offerta di accogliere 1.100 richiedenti asilo contro i 2.659 proposti dalla Commissione, Madrid 1.300 contro 4.288. Ma anche altri Stati si sono tirati indietro: l'Austria non è disposta ad accogliere nessun profugo da Italia e Grecia, mentre ne prenderà 1.900 dai campi extra Ue. L'Ungheria invece zero. La giustificazione è che sono due Paesi sottoposti a una forte pressione migratoria dalla rotta dei Balcani. Francia e Germania hanno confermato lo sforzo, rispettivamente pari a 10.500 e 6.752 migranti. Mentre Gran Bretagna e Danimarca hanno esercitato la loro opzione a non partecipare, a differenza dell'Irlanda che invece accoglierà 600 persone. Immigrazione: non siamo razzisti, siamo peggio. La rivolta dei "proprietari del territorio" di Annamaria Rivera Il Manifesto, 21 luglio 2015 Il blocco fascioleghista, aizzato da caporioni quali Zaia e Salvini, imperversa da Nord a Sud, guidando la rivolta dei "proprietari del territorio": marce, molotov, cassonetti incendiati e saluti romani. La simbologia del pogrom si era già espressa, a Quinto di Treviso, col rogo delle suppellettili di uno degli alloggi destinati ai profughi: razziate, gettate in strada e date alle fiamme tra la folla plaudente. Ora il macabro festino dell'intolleranza si arricchisce di un dettaglio ancor più esplicito: le minacce al prefetto di Roma, Franco Gabrielli, reo di non aver ceduto al ricatto dei cittadini "esasperati" di Casale San Nicola. In uno sgangherato messaggio via Facebook, l'autore delle minacce, il vicepresidente, leghista, del consiglio regionale delle Marche, indegno della carica istituzionale che ricopre, promette "olio di ricino" al "porco di un comunista". Siamo ormai a un punto di svolta allarmante, con Salvini che vomita quotidianamente ingiurie e cliché razzisti come: "Smettete di coccolare migliaia di clandestini. Accoglieteli in prefettura o a casa vostra, se proprio li volete". Mentre il sistema di accoglienza dei profughi mostra tutta la sua inadeguatezza, mentre sugli scogli di Ventimiglia il gruppo di giovani esuli continua a resistere da più di un mese, abbandonato da ogni istituzione centrale, il blocco fascioleghista, aizzato da caporioni quali Zaia e Salvini, imperversa da Nord a Sud, guidando la rivolta dei "proprietari del territorio": marce, molotov, cassonetti incendiati e saluti romani. Arduo è questa volta giustificare i tentati pogrom con la retorica della guerra tra poveri, sebbene alcuni media persistano. Non siamo in periferie estreme, degradate e abbandonate, ma in un comune tutt'altro che povero, amministrato da un monocolore leghista, e in un sobborgo romano tutto ville e piscine. In realtà, gli imprenditori politici del razzismo, spalleggiati da quelli mediali, non fanno che legittimare od organizzare proteste che si nutrono di una percezione delirante degli altri: quella che li colloca, simbolicamente e fattualmente, nella sfera dell'estraneità all'umano. Solo così è spiegabile come si possa partecipare o consentire al lancio di sassi e bottiglie contro il furgone che a Casale San Nicola trasportava i diciannove giovani richiedenti-asilo, già sgomenti per aver dovuto abbandonare d'un tratto la sistemazione precedente e terrorizzati dalla torma degli scalmanati. In realtà, coloro che si sono lasciati guidare dai fascioleghisti niente sanno dei profughi alloggiati o da alloggiare nel "loro territorio": non ne conoscono neppure le nazionalità. Grazie al martellamento mediale dovrebbero, però, essere edotti dell'epopea che li vede tragici eroi del nostro tempo: la fuga da mondi in fiamme o in sfacelo, l'estenuante traversata perigliosa del Mediterraneo, i cadaveri, anche di bambini, abbandonati alle acque nostre, le madri che sbarcano orfane dei figli e i figli che approdano orfani dei genitori… Ma quel che forse sanno non li muove a pietà, non fa scattare la molla dell'empatia o solo della commiserazione: il delirio produce anche anaffettività, com'è ben noto. Nulla sanno di ognuno di loro. E di tutti non possono dire neanche che sono ladri e rapitori di bambini, come dicono abitualmente degli "zingari". Eppure li hanno già catalogati come nemici della loro mediocre tranquillità borghese o piccolo-borghese, che essa alberghi nelle ville con piscina di Casale San Nicola oppure in alloggi ordinari di Quinto di Treviso. Sanno o dovrebbero sapere quali gaglioffi siano i militanti di CasaPound, Forza Nuova, Militia Christi, Fratelli d'Italia, Lega Nord e via dicendo. Eppure è a loro che si affidano "per proteggere il nostro territorio dagli extracomunitari". Così una residente di Casale San Nicola all'inviato del Corriere della Sera, Fabrizio Roncone, in una dichiarazione preceduta dal classico "Noi non siamo razzisti, ma…", sublime per emblematicità razzista. La molla dell'empatia, ma verso i difensori del loro territorio, è invece scattata nel M5S: una delegazione, costituita da parlamentari e da consiglieri comunali e municipali di Roma, si è affrettata a ricevere il "comitato spontaneo di Casale San Nicola, riunito in presidio". Niente di nuovo. Del pari, tutt'altro che inedita nella storia italiana recente è la tentazione del pogrom. Ma è proprio questo a farci temere: il fatto che nulla cambi, se non in peggio, dopo quasi quarant'anni d'immigrazione in Italia. Droghe: un mondo senza droghe è un'illusione, per questo la cannabis va legalizzata di Benedetto Della Vedova* Il Foglio, 21 luglio 2015 Il mercato della droga, così come lo conosciamo, non è il prodotto della naturale inclinazione umana a far uso e a volte, purtroppo, abuso di sostanze psico-attive. Al contrario, è il risultato di un'illusione politica, quella di un mondo senza droghe, e della scelta di perseguirla con rigore "scientifico". Un fallimento analogo a quello del comunismo realizzato, che per creare un mondo senza povertà, ha universalizzato la miseria ovunque abbia esteso il proprio dominio. È il proibizionismo l'infrastruttura economico-legale su cui viaggiano ad alta velocità le merci più mobili e redditizie, appunto le droghe proibite. È il proibizionismo la causa, di cui l'enorme concentrazione di poteri economici e politici in capo alle narco-mafie è l'effetto. Le droghe (comprese alcune di quelle oggi proibite) esistono da millenni, ma la droga è solo da qualche decennio una calamità globale. Con il proibizionismo essa non ha cessato di drogare gli uomini, ma ha iniziato a condizionare il mondo, dalla Colombia all'Afghanistan. Nel caso delle cosiddette droghe leggere, cioè dell'hashish e della marijuana, il fallimento della proibizione non ha solo un'evidenza lampante, ma difetta anche della giustificazione morale in cui i proibizionisti - che prediligono l'etica delle intenzioni a quella dei risultati - si rifugiano come nell'argomento imbattibile e finale. La cocaina uccide, l'eroina uccide, quindi…. Ma l'hashish e la marijuana no. Non fanno bene, ma certo non peggio delle droghe legali più diffuse -l'alcol e il tabacco (che mai hanno usi terapeutici a differenza della cannabis) - e rispetto ad esse riversano sulla società un carico minore di malattia, di violenza e di quei costi diffusi che gli economisti chiamano "esternalità negative". Non è un caso che l'inversione di marcia, sulle droghe leggere, arrivi dagli Stati Uniti, da sempre il paese più seriamente proibizionista. Oggi hanno iniziato altrettanto seriamente a prendere atto che i conti di quell'approccio non tornano e stanno cambiando verso. *Senatore e sottosegretario agli Esteri, promotore dell'intergruppo parlamentare Cannabis legale Droghe: non proibizioni, ma responsabilità Giovanni Battistuzzi Il Foglio, 21 luglio 2015 Verrebbe da dire sì alla legalizzazione della cannabis per quello che è stato, ricordi, adolescenza, per un romanticismo di slogan, canzonette, ritornelli, idee un po' fricchettone. Per Pannella che sventola un panetto di fumo davanti a manifestanti e polizia, "la dò a voi o la dò a loro?", per Bob Marley-Skardy-JAx-PituraFreska, i discorsi con gli amici e tutto quello che ci sta in mezzo. Verrebbe da dire di sì per questo, ma questo non basta, non serve, non c'entra. Il punto è un altro, anzi, sono altri, tre: economico, sociale, culturale. Innanzitutto i conti: legalizzare vuol dire tassare, ossia incremento d'entrate statali, guadagno. Circa 8 miliardi di euro l'anno secondo il report del governo Monti del 2012, un cifra non banale che potrebbe essere utile per abbassare il peso fiscale per il contribuente oppure essere impiegato in altri settori strategici. Soldi e tasse, ma non solo. Il mercato della cannabis è ora nelle mani della malavita, piccola o organizzata che sia. Legalizzarla vorrebbe dire colpire l'illegalità, trasformarla in legalità: è droga? Viene e verrà consumata comunque, il mercato è in crescita, tanto vale toglierlo dalla penombra della criminalità, non far finta che non esista e affrontarlo legge alla mano. E poi c'è la parte culturale: legalizzare vuol dire responsabilizzare, superare i limiti e le storpiature dello stato-balia. Demandare al cittadino la possibilità di decidere totalmente sulla propria vita, all'interno di una legalità diffusa e ad una tolleranza intelligente. Non proibizioni ma responsabilità, servirebbe una legge che punti a questo. Serve una discussione intelligente, affrontare il problema senza pregiudizi e storpiature, ragionare. Legalizzare è la via, ma non basta, bisogna decidere a chi toccherà produrla e altre questioni: differenziare l'offerta? Come? Permettere o no la produzione domestica? Come sanzionare lo spaccio? Creare delle liste? Dover presentare una certificazione medica? Le domande sono tante, vanno trovate le risposte. Guinea Equatoriale: Berardi libero dopo 1.000 giorni di carcere, ma battaglia non è finita Askanews, 21 luglio 2015 "La battaglia non è finita. Mi sento ancora in pericolo, minacciato fisicamente. Ma non solo io. In quel Paese c'è una violenza sistematica e organizzata contro gli stranieri e anche contro la popolazione locale". La denuncia, forte e perentoria, arriva da Roberto Berardi, l'imprenditore italiano rilasciato dopo due anni e mezzo di prigionia in Guinea Equatoriale e rientrato in Italia il 14 luglio. Nella conferenza stampa organizzata da Amnesty International Italia nella sua sede romana, Berardi - socio d'affari in un'impresa di costruzione e progettazione col figlio maggiore del presidente Obiang, Teodorin Nguema Obiang e arrestato dopo aver denunciato un ammanco di milioni di dollari nella società - ha raccontato il suo calvario, alla presenza anche dei familiari di altri italiani detenuti nell'ex colonia spagnola. Lo ha fatto perché convinto che solo una "diplomazia forte" può averla vinta su quella che ha definito una "dittatura vecchio stile, una dittatura dimenticata", quella della famiglia Obiang. Ma anche perché certo che "gli altri detenuti sono stati presi in ostaggio per la sua liberazione". "Ho il dovere di aiutarli", ha detto Roberti, "di aiutare loro ma anche un popolo intero, perché sono migliaia gli stranieri e i locali" detenuti nelle carceri del Paese dopo processi sommari. I cittadini italiani ancora in carcere sono Fabio Galassi, il figlio Filippo Galassi e Daniel Candio. Agli arresti domiciliari Fausto Candio, padre di Daniel e un tecnico, Andrea, di cui non si vuole diffondere il cognome. "Il mio caso - ha spiegato Berardi - è diventato fondamentale per il regime degli Obiang, perché ha messo in luce la loro metodologia" di trasferimento dei fondi tramite conti paralleli, grazie anche alla complicità della Banca centrale africana, verso le banche di altri Paesi nel mondo intero. Milioni e milioni di dollari frutto dei proventi dell'industria petrolifera e sottratti al popolo della Guinea. "Ma sono arrivati al termine, sanno che hanno bisogno di altri ostaggi per poter negoziare la loro salvezza, perché ormai sono sempre di meno i posti al mondo dove possono sentirsi al sicuro", spiega Berardi, convinto che la sua liberazione, avvenuta dopo aver scontato tutta la pena e anche 50 giorni di più, sia stata possibile solo grazie all'intervento delle diplomazie americana e francese. Secondo il suo avvocato lo scopo del suo arresto era di impedirgli di testimoniare davanti al dipartimento di giustizia americano in merito alla presunta corruzione di Teodorin. "Quasi mille giorni di prigionia, 18 mesi di isolamento totale, frustato, torturato in una stanza delle torture, al termine di un processo farsa con un avvocato d'ufficio che non conosceva il caso", accusato di riciclaggio e peculato. Il racconto di Roberto Berardi, che in questi 960 giorni ha perso 32 chilogrammi, fa rabbrividire. A quelli già noti si aggiungono anche altri dettagli, se così possono essere definiti, come quello della morte in Guinea Equatoriale "in uno strano incidente" dell'architetto e suo braccio destro nella società Eloba. Ma anche il racconto di una fuga di notte dal carcere, avvenuta nel luglio 2013, e la porta rimasta chiusa del consolato spagnolo, con "il mio rientro in carcere per lo stesso canale di uscita". Al termine della conferenza stampa il presidente di Amnesty, Antonio Marchesi, ha parlato di un "epilogo positivo, che però non deve far dimenticare che nelle carceri della Guinea ci sono ancora centinaia di stranieri". Marchesi ha rivolto un appello alle diplomazie dei paesi occidentali e alle autorità italiane "per una politica estera diversa, che non dimentichi, in sede di rapporti bilaterali, la questione dei diritti umani". Stati Uniti: lo strano suicidio in un carcere del Texas di Sandra Bland, attivista di colore di Francesco Tortora Corriere della Sera, 21 luglio 2015 La versione ufficiale della morte dell'afroamericana non convince l'America. In un video, girato durante l'arresto, la ragazza sarebbe stata malmenata da un poliziotto. Un misterioso caso di suicidio in carcere potrebbe riaccendere le tensioni razziali negli Stati Uniti. La vittima è Sandra Bland, afroamericana originaria di Naperville, cittadina dello stato dell'Illinois. Secondo la versione ufficiale della polizia penitenziaria la ventottenne si sarebbe tolta la vita lo scorso 13 luglio con un sacchetto di plastica in una cella del carcere "Waller County Jail" di Hempstead, in Texas. Descritta dai media americana come una ragazza bella, colta e in procinto di lavorare per l'ateneo "Prairie View A&M University", la Bland, un'attivista per i diritti civili, era stata arrestata tre giorni prima durante un controllo stradale di routine. Secondo il rapporto steso dall'agente che l'ha ammanettata, la ragazza avrebbe tentato di aggredirlo. Tuttavia un video, girato da un passante e postato sul web, mostrerebbe una versione alquanto diversa: il poliziotto sarebbe stato ripreso seduto in ginocchio sul corpo della ragazza mentre usa le maniere forti per arrestarla. Venerdì scorso una folla di 150 persone ha manifestato fuori il carcere di Hempstead chiedendo verità e gridando lo slogan "Cosa è successo a Sandy?". Sui social media migliaia di americani hanno espresso solidarietà alla famiglia della vittima e gli hashtag #JusticeForSandy e #WhatHappenedToSandyBland hanno imperversato su Twitter. Secondo i conoscenti della ragazza la storia del suicidio "È incomprensibile" e diversi commentatori hanno sottolineato come prima di essere arrestata la giovane aveva partecipato attivamente a una campagna a sostegno del Black Lives Matter movement, movimento per i diritti civili nato a seguito della morte di Trayvon Martin e Michael Brown, due giovani di colore uccisi dalla polizia negli Stati Uniti. Per molti quello di Sandra Bland non è altro che l'ennesimo omicidio razziale compiuto da agenti americani. Sharon Cooper, sorella della vittima, non crede alla versione della polizia penitenziaria e assieme alla sua famiglia ha ottenuto che un'autopsia indipendente sia effettuata sul suo corpo. I risultati dovrebbero essere pronti entro le prossime 72 ore: "Io conoscevo bene Sandy - ha spiegato ai media statunitensi la sorella della vittima -. La storia del suicidio non regge. Era una persona estremamente allegra, coraggiosa piena di vita e di gioia. È inimmaginabile che abbia deciso di togliersi la vita". Secondo la Cnn alcuni filmati girati all'interno del penitenziario mostrerebbero che, oltre alla Bland, nessuno è mai entrato nella sua cella. Inoltre il network statunitense ha scavato nel passato della ragazza scoprendo che recentemente avrebbe vissuto una profonda depressione. Intanto l'agente che ha arrestato la ragazza è stato temporaneamente sospeso per "presunte violazioni delle regole del Dipartimento della Pubblica Sicurezza". Elton Mathis, procuratore distrettuale della contea ha invitato alla calma e alla pazienza: "La morte di Sandra Bland non sarà insabbiata - ha assicurato ai media americani - Tutta la verità verrà fuori". Mauritania: fermato e poi rilasciato un noto attivista per l'abolizione della schiavitù di Andrea Scutellà La Repubblica, 21 luglio 2015 Yacoub Diarra è presidente dell'Ira Mauritania sezione Italia e si era recato nel Paese africano per visitare il carcere di Aleg, dove dal novembre 2014 è rinchiuso il leader della protesta abolizionista Biram Dah Abeid. "In Mauritania - racconta la moglie di Diarra - la schiavitù si trasmette per via matriarcale: così la prole degli stupri dei padroni apparterrà per sempre ai padri violentatori". Nuovi segnali di guerra tra il regime militare mauritano e il movimento per l'abolizione della schiavitù Ira Mauritania. Mentre il presidente dell'associazione Biram Dah Abeid e il vicepresidente Brahim Bilal Ramdane sono detenuti da otto mesi nella prigione di Aleg, l'attivista Yacoub Diarra, al vertice della sezione italiana del movimento, è stato prelevato sabato 18 luglio dalle forze dell'ordine, in piena notte, e trascinato al commissariato Dar-Naïm. Secondo il Global slavery index la Mauritania è il Paese con il più alto tasso di schiavitù al mondo: il 4% della popolazione vive in questa condizione, ufficialmente abolita nel 1981 e criminalizzata ulteriormente nel 2007. Quell'ossessione per il controllo. Diarra ha seguito la polizia senza opporre resistenza, in piena osservanza del metodo non violento dell'Ira Mauritania. "Se ci vogliono arrestare, noi li seguiamo. Sappiamo di essere dalla parte della legge e della ragione", racconta sua moglie Ivana Dama, vicepresidente della sezione italiana dell'associazione. Diarra è stato rilasciato nel pomeriggio di domenica. "Noi viviamo a Roma - spiega Ivana - ma lui era tornato per festeggiare la fine del Ramadan con i suoi parenti, per andare a trovare Biram in carcere ed incontrarsi con gli attivisti del movimento. Appena è atterrato in Mauritania hanno cominciato subito a pedinarlo". L'ossessione per il controllo, infatti, è una caratteristica peculiare del regime militare di Mohamed Abdel Aziz, diventato presidente dopo il colpo di stato del 2008. "Ogni attivista - testimonia Ivana - ha mail, telefono e spostamenti costantemente monitorati. Io stessa, alcuni anni fa, ho ricevuto delle minacce di morte". È proprio il matrimonio dei due ad aver destato le indesiderate attenzioni del regime africano. "Sono stata accusata dalla stampa mauritana di essere una ‘puttana bianca che non si fa gli affari suoì - prosegue l'attivista - in combutta con il Vaticano e con gli ebrei. Durante il fermo hanno chiesto a Yacoub della nostra relazione e del perché fosse andato a trovare Biram. Sembrano spaventati dalla rete che stiamo creando in Europa, vogliamo che tutti conoscano lo scandalo della schiavitù in Mauritania". La schiavitù per nascita: fondata sulle idee e sulla violenza sessuale. "Esistono quattro tipi di schiavitù in Mauritania: delle idee, domestica, sessuale e fondiaria", racconta ancora Ivana. Con le idee e con il sesso l'etnia arabo-berbera al potere (neri più chiari) si garantisce la quota di schiavi haratin (i neri neri) che le spetta, secondo interpretazioni degenerate dell'islam, per diritto. "La schiavitù si trasmette in Mauritania per via matriarcale: così la prole degli stupri dei padroni apparterrà per sempre ai padri violentatori", prosegue l'attivista. Gli schiavi considerati troppo belli, invece, vengono castrati: si teme infatti che possano insidiare le figlie e le mogli della casta al potere, contaminandola con il loro seme. Il 27 aprile del 2012 gli attivisti dell'Ira hanno bruciato i testi di alcuni imam mauritani che contengono la legittimazione ideale del fenomeno. "L'Islam è una religione di pace", testimonia Ivana, il cui marito Yacoub è, appunto, musulmano. "Ma la religione in Mauritania viene strumentalizzata per costringere al silenzio e all'obbedienza la maggioranza della popolazione. In molti credono di poter accedere al paradiso soltanto tramite l'accettazione della propria condizione in vita". Al fondo c'è poi il nucleo economico. "Gli schiavi, soprattutto anziani e bambini, fanno da domestici in casa. Poi lavorano gratuitamente le terre che sono state espropriate e vendute all'estero, magari agli indiani o ai cinesi", precisa ancora la vicepresidente di Ira Mauritania. Biram Dah Abeid, il Mandela mauritano. Nel novembre del 2014, proprio durante una protesta anti-schiavista, Biram Dah Abeid, che fondò il movimento nel 2008, è stato arrestato dalle autorità e da allora è detenuto nel carcere di Aleg. "È un po' la Guantánamo mauritana - spiega Ivana - soprattutto per le condizioni igienico-sanitarie e per il caldo. Lo hanno arrestato perché è un bravo leader e perché fa paura, visto che alle ultime elezioni presidenziali è arrivato secondo". Il 2013 è stato l'anno di maggiore celebrità per Biram: ha ricevuto, dal governo irlandese, il Front Line Award for Human Rights Defenders at Risk, consegnato agli attivisti che sono più in pericolo al mondo. Il 2013, però, è anche l'anno in cui Biram ha ricevuto il Premio per i diritti umani delle Nazioni unite. Nel 2014 è entrato nella lista delle "dieci persone che hanno cambiato il mondo di cui potreste non aver sentito parlare" di Peace Link Live. Le reazioni della comunità internazionale. L'Ira Mauritania, in soli sette anni, si è ramificata in Occidente e ha portato il cancro della schiavitù all'attenzione dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. "Da parte degli americani c'è stata una presa di posizione più netta - sottolinea Ivana Dama - gli europei vanno a corrente alternata, anche se il 17 dicembre è stata proposta al Parlamento Ue una risoluzione in favore di Biram. Gli interessi economici di alcuni Paesi dell'Unione in Mauritania pesano molto sul timido impegno. Diciamo che in segreto, però, tifano per noi". Trentasei milioni di schiavi nel mondo. Quello della schiavitù moderna non è un problema che affligge solo la Mauritania. Secondo il Global Slavery Index si tratta di una condizione che riguarda circa 36 milioni di donne, uomini e bambini in tutto il mondo: dall'Uzbekistan ad Haiti, dal Qatar all'India, alla Russia, alla Cina, fino ad arrivare al Pakistan. Nell'Africa sub-sahariana è una pratica comune in Ciad, Mali, parte del Senegal e, appunto, in Mauritania.