Giustizia: la ragionevole proposta di abolire il carcere per garantire più sicurezza ai cittadini di Gaia Bozza fanpage.it, 20 luglio 2015 L'ipotesi di un'Italia senza carceri spaventa nell'epoca delle ruspe e delle sbarre per tutti, ma il libro "Abolire il carcere" spiega perché potrebbe aiutare non solo a rispettare i diritti umani, ma a garantire più sicurezza. Abolire il carcere. Una provocazione? No, "una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini". Abolire il carcere perché inutile e dannoso. Perché costoso, perché produce distorsioni nella società, perché esclude e moltiplica i delitti. Dati alla mano, è questo quello che ci spiega il libro "Abolire il carcere" (ed. Chiarelettere), scritto dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani, con Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia del diritto e tra i fondatori dell'associazione Antigone, Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto e Federica Resta, avvocato che si occupa proprio di questi temi. Perché abolire il carcere? Manconi spiega ciò che i quattro autori hanno voluto analizzare nero su bianco. Due elementi su tutti: la recidiva e il tasso di suicidi. Per la recidiva non esistono studi sistematici, ma ce ne sono almeno un paio ufficiali. Uno del 2007 guarda i dati dal 1998 al 2005, prendendo un campione di persone in affidamento ai servizi sociali e confrontando il dato con la popolazione che sconta invece la pena in carcere: ne emerge che oltre il 68 per cento di chi ha scontato la pena in carcere vi entra di nuovo, mentre solo il 19 per cento di chi ha usufruito di pene alternative rientrerà in carcere negli anni successivi. È uno scarto di 50 punti. E non si può ignorare. Poi c'è chi si ammazza in carcere, 1/3 di tutti i detenuti che muoiono dietro le sbarre. Dov'è l'articolo 27 della Costituzione? Dov'è la riabilitazione del condannato? Il carcere ha fallito, spiegano gli autori. Ma non solo perché ha tradito la Costituzione e non solo perché la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per le sue carceri. Ha fallito perché non è necessario e perché le pene detentive non sono praticamente mai citate nella Costituzione italiana; non è necessario perché non è sempre esistito. Non è necessario, dunque la disumanità delle carceri italiane (sovraffollamento, mancanza di alternative, isolamento, segregazione) non è l'unico aspetto e in ogni caso non è quello preponderante. In più, non è conveniente: se l'argomento umanità e diritti non colpisce nel segno, la cura per il portafoglio sensibilizza un'ampia fetta di popolazione. E in uno dei capitoli del saggio viene affrontato proprio questo nodo. Come sempre, numeri alla mano, si dimostra l'assurdità di un sistema enormemente costoso e dannoso. Nell'intervista a Fanpage.it, il senatore Manconi ripercorre anche un episodio doloroso e in qualche modo, paradigmatico, raccontato nel libro: all'inizio del 2015, ci racconta, "un ergastolano belga ha chiesto di poter accedere all'eutanasia, ricevendo una risposta positiva da parte del ministero della Giustizia". L'uomo era malato e voleva essere curato in una clinica specializzata per la sua malattia, definendosi uno "stupratore seriale" ma le sue richieste sono rimaste tutte inascoltate. Lo stato, di fatto, avrebbe preferito la sua morte: dunque per Manconi, ragionando su questo filo sottile che collega l'ergastolo alla morte, con questa pena intesa come vendetta e ritorsione sarebbe più coerente la pena di morte. E così l'ha definita anche Papa Bergoglio: pena di morte occulta. Ancora, nel libro molto spazio è dedicato alla storia di Rachid Assarag, che il senatore Pd segue da tempo e che Fanpage.it ha raccontato in un'inchiesta: è la storia di un uomo coraggioso, uno straniero, che ha portato dentro le carceri un registratore, che ha restituito poi all'opinione pubblica piccole e grandi violenze, botte e psicofarmaci, ricatti e accuse, denunce e controdenunce. Su questa vicenda è in corso un'inchiesta e lo stesso Rachid è sotto processo. Se il carcere ha fallito perché la pena diventa tortura e vendetta, cosa potremmo mettere "al posto" del carcere? Nel libro si parte dall'esempio di altri Paesi europei, dove la pena in carcere è assolutamente residuale (una ristretta percentuale) e c'è ampio ricorso a misure alternative. Con risultati migliori. Per gli autori del libro, più sicurezza per i cittadini si ottiene con una rimodulazione della pena: non la stessa per tutti (come il carcere) ma che cambi per ogni tipologia di reato e per ogni soggetto. Le proposte contenute nel libro sono dieci, un decalogo "ragionevole per la sicurezza dei cittadini", per dirla con le parole del libro. Depenalizzare tutto ciò che è possibile, salvo per le violazioni più gravi; cancellare l'ergastolo, una vera e propria pena di morte occulta, e ridurre le pene detentive; rendere il carcere una "extrema ratio"; riformare il processo penale e permettere di estinguere il reato con azioni in favore della vittima o della collettività; utilizzare la custodia cautelare solo se l'individuo è particolarmente pericoloso; potenziare le alternative al carcere per favorire il reinserimento sociale; superare il carcere duro e garantire i diritti fondamentali a tutti i detenuti; umanizzare i luoghi di detenzione; mai più bambini e minorenni in carcere; dopo il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, garantire una vera riabilitazione ai sofferenti psichici autori di reato. L'ipotesi di un'Italia senza carceri spaventa nell'epoca delle ruspe e delle sbarre per tutti. La sicurezza è in cima alle preoccupazioni degli italiani dagli anni Novanta. Ma dagli anni Novanta ad oggi i reati - soprattutto i delitti gravi - sono drasticamente diminuiti. "Cos'è che ci fa tanto preoccupare quando usciamo alle 20 la sera - si domanda ironicamente Manconi - Che ci fa temere per la vita dei nostri figli, dei nostri parenti, dei nostri cani e dei nostri gatti, se i delitti sono drasticamente diminuiti?". Non ha dubbi, il senatore controcorrente: "È l'incertezza, la crisi economica, la crisi sociale, la paura del domani. Ma è più comodo scaricare le nostre paure sull'elemento più debole della società: il criminale, meglio se straniero". Dunque, abolire il carcere è una provocazione, una utopia, un sogno rivoluzionario? Forse, piuttosto, una concreta proposta riformista. Giustizia: detenzione al restyling, focus su vita affettiva e misure alternative di Marzia Paolucci Italia Oggi, 20 luglio 2015 Edilizia carceraria, vita detentiva, maternità, vita affettiva, sanità, misure alternative e giustizia riparativa: è un approccio multidisciplinare quello oggi preso dal sistema dell'esecuzione penale che ha aperto i suoi Stati generali collocando ai tavoli di discussione gli esperti scelti dal Ministero. Il 1° luglio c'è stata la prima riunione dei coordinatori dei 18 tavoli con cui sono stati delineati temi e obiettivi del progetto che dovrebbe portare a ridisegnare anima e architettura del sistema penale italiano sconfitto da alti tassi di recidiva, incertezza della pena e sovraffollamento carcerario, fattore, questo, oggi nettamente migliorato da una migliore redistribuzione degli spazi in cella oggi resi più vivibili dal contemporaneo calo degli ingressi in carcere. A presiedere il lavoro di coordinamento del comitato di esperti, Glauco Giostra, ordinario di Procedura penale all'Università La Sapienza di Roma. Nel board guida don Ciotti dell'Associazione Libera di lotta alle mafie, Mauro Palma, consigliere del ministro della Giustizia per le tematiche sociali e della devianza, Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo, Luisa Prodi, presidente del Seac - Coordinamento enti e associazioni del volontariato penitenziario, Francesca Zuccari, docente di Servizio Sociale presso l'Università Lumsa di Roma e Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre. I tavoli Stranieri, lavoro, istruzione, salute e disagio psichico, misure alternative al carcere e giustizia riparativa. Tanti nomi per i diversi aspetti carcerari. C'è il tavolo Spazio della pena: architettura e carcere coordinato dall'architetto Tullio Zevi che prevede un modello di detenzione centrato sullo svolgimento della quotidianità in spazi comuni e la possibilità di curare i propri affetti anche in adeguati spazi aperti, sull'accentuazione della gestione autonoma e responsabile del tempo in detenzione. Il tavolo Vita detentiva, responsabilizzazione del detenuto, circuiti e sicurezza ha invece come tema fondante l' organizzazione della vita detentiva improntata al principio di individualizzazione del trattamento. Donne e carcere è invece il tema scelto dal terzo tavolo per la tutela della salute e dell'affettività femminile ma con riferimento particolare alla maternità in carcere. Ai minori con problemi di dipendenze e autori di reato, il progetto ha dedicato due tavoli: urgente a riguardo la "non più rinviabile definizione dell'Ordinamento penitenziario minorile", informa il Ministero, soprattutto in virtù della parallela attuazione del nuovo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Ai fini del reinserimento nel tessuto sociale di riferimento, interessante è anche il percorso di rieducazione previsto dal tavolo su Trattamento e ostacoli normativi alla sua individuazione finalizzato a eliminare gli ostacoli di accesso ai benefici penitenziari e il tavolo finalizzato al Reinserimento e alla presa in carico dei servizi sociali. La scommessa di Orlando "Gli Stati generali dell'esecuzione penale sono la scommessa politica più rilevante che questo ministero realizzerà nel 2015", ha osservato il ministro Orlando partecipando al ministero con il comitato scientifico alla prima riunione dei coordinatori dei 18 tavoli che dovranno ultimare i loro lavori entro ottobre 2015. "È importante sottolineare", ha dichiarato il ministro, "che ci sono le condizioni politiche per arrivare a sistematizzare l'insieme degli interventi che si sono susseguiti per affrontare l'emergenza carcere. Gli Stati generali", secondo il Guardasigilli, dovranno "affrontare il tema carceri con un approccio multidisciplinare e farne parlare tutto il paese: l'obiettivo è costruire un modello duraturo nel tempo e il lavoro fatto sarà la base per due interventi concreti, il primo di carattere amministrativo sulla riorganizzazione e il secondo normativo nell'ambito delle deleghe sul penitenziario che potranno raccogliere parte del lavoro sviluppato". Giustizia: rapporto di Fp-Cgil; agenti "in fuga" dalle carceri, 3.500 lavorano negli uffici di Francesco Volpi interris.it, 20 luglio 2015 Degradate, fatiscenti, invivibili. Lo stato delle carceri italiane continua a tener banco. Chi sbaglia deve pagare, questo è chiaro, ma ciò non significa obbligarlo a trovarsi in ambienti che di umano non hanno nulla. In questo modo la pena diventa un incubo e la possibilità di un reinserimento sociale del detenuto va a farsi benedire. L'ultimo allarme sulle nostre prigioni riguarda la "fuga" del personale di polizia penitenziaria. Ne parla un rapporto della Cgil Funzione pubblica che deve far riflettere. Specie in un momento in cui lo stesso ministero della Giustizia, coinvolgendo una serie di esperti, ha lanciato gli Stati generali dell'esecuzione penale per capire meglio quali interventi servano per il mondo carcerario; e mentre dagli istituti penitenziari arrivano quasi quotidianamente notizie indice di problemi: dalla mancanza d'acqua, agli agenti aggrediti, al caso avvenuto ad Enna delle terribili sevizie su un recluso protrattesi per un mese ad opera dei compagni di cella, su cui è' stata aperta un'inchiesta. Il fenomeno più macroscopico di questa problematica riguarda gli agenti che si spostano dalle carceri agli uffici amministrativi attraverso un sistema di mobilità a "chiamata diretta", ossia parallela rispetto a quella a domanda che elude la necessaria equità e trasparenza che quest'ultima garantisce. "In una pianta organica già insufficiente - ha spiegato segretario nazionale della Fp Cgil, Salvatore Chiaramonte - registriamo un fenomeno di mobilità parallela, che risponde a regole non trasparenti e dimostra la palese mala gestione del sistema. Se il 10% di personale, secondo procedure poco chiare, va a fare altro, vuol dire che siamo di fronte a un fenomeno che i vertici dell'amministrazione della Giustizia avrebbero dovuto contrastare, ma al momento, malgrado qualche flebile segnale, non c'è alcuna visibile inversione". I numeri inseriti nel report indicano in 45mila la dotazione organica prevista e necessaria nelle strutture penitenziarie italiane, a fronte delle 38mila unità effettivamente attive. Di queste ultime, tuttavia, oltre 3.500 non sono impegnate all'interno delle carceri, ma in uffici esterni, il che porta a oltre 10mila il reale deficit di personale negli istituti. Nel dettaglio tra Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia e Centro amministrativo "Giuseppe Altavista", sono addetti al lavoro d'ufficio circa 1.600 agenti, tra effettivi e distaccati, mentre negli enti esterni, tra cui tribunali e magistratura di sorveglianza, risultano essercene 400. Nei Provveditorati regionali dell'amministrazione penitenziaria sono impegnati in lavoro d'ufficio circa 800 unità, altre 500 sono nelle Scuole di formazione e aggiornamento e, infine, quasi 200 prestano servizio negli Uffici locali per l'esecuzione penale esterna. Ciò determina una carenza di risorse umane che incide sul peggioramento delle condizioni lavorative nelle carceri. Il dossier, infatti, evidenzia un aumento delle aggressioni agli agenti pari a oltre 200 casi, circa il 10% in più del primo semestre 2015 sullo stesso periodo 2014; impennata anche per i procedimenti disciplinari, saliti del 10%, con punte di oltre il 50% in alcune regioni come il Lazio. E crescono in maniera esponenziale gli straordinari, con picchi di 16 ore consecutive di lavoro in alcuni istituti. Il rapporto mette in luce anche un crollo degli investimenti in formazione, passati da 1.287.171 euro del 2010 a 391.120 euro del 2015; quanto alle risorse destinate alla manutenzione delle carceri, a fronte di un fabbisogno pari a 40 milioni di euro annui, sono precipitate a 4 milioni messi a bilancio lo scorso anno. E gli istituti penitenziari diventano inferni nei quali la riabilitazione diventa un sogno irraggiungibile. Fp-Cgil: agenti "in fuga" dalle carceri, 3.500 lavorano negli uffici (Ansa) "Fuga" dalle carceri alle scrivanie tra gli agenti di polizia penitenziaria. Lo denuncia un report della Cgil Funzione pubblica ricco di dati su cui riflettere, specie in una fase in cui lo stesso ministero della Giustizia, coinvolgendo una serie di esperti, ha lanciato gli Stati generali dell'esecuzione penale per capire meglio quali interventi servano per il mondo carcerario; e mentre dalle carceri arrivano quasi quotidianamente notizie indice di problemi: dalla mancanza d'acqua, agli agenti aggrediti, al caso avvenuto ad Enna delle terribili sevizie su un detenuto protrattesi per un mese ad opera dei compagni di cella, su cui è stata aperta un'inchiesta. Il fenomeno più macroscopico che emerge dal report del sindacato riguarda gli agenti che si spostano dalle carceri agli uffici amministrativi attraverso un sistema di mobilità a ‘chiamata direttà, ossia "una mobilità parallela rispetto a quella a domanda - spiega Salvatore Chiaramonte, segretario nazionale della Fp Cgil - che elude la necessaria equità e trasparenza che quest'ultima garantisce. In una pianta organica già insufficiente registriamo un fenomeno di mobilità parallela, che risponde a regole non trasparenti e dimostra la palese mala gestione del sistema - aggiunge Chiaramonte. Se il 10% di personale, secondo procedure poco chiare, va a fare altro, vuol dire che siamo di fronte a un fenomeno che i vertici dell'amministrazione della Giustizia avrebbero dovuto contrastare, ma al momento, malgrado qualche flebile segnale, non c'è alcuna visibile inversione". I numeri della Cgil indicano in 45mila la dotazione organica prevista e necessaria nelle strutture penitenziarie italiane, a fronte delle 38mila unità effettivamente attive. Di queste ultime, però, oltre 3.500 non sono impegnate all'interno delle carceri, ma in uffici esterni, il che porta a oltre 10mila il reale deficit di personale negli istituti, secondo le stime Cgil. Nel dettaglio tra Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia e Centro amministrativo "Giuseppe Altavista", sono addetti al lavoro d'ufficio circa 1.600 agenti, tra effettivi e distaccati, mentre negli enti esterni, tra cui tribunali e magistratura di sorveglianza, risultano essercene 400. Nei Provveditorati regionali dell'amministrazione penitenziaria sono impegnati in lavoro d'ufficio circa 800 unità, altre 500 sono nelle Scuole di formazione e aggiornamento e, infine, quasi 200 prestano servizio negli Uffici locali per l'esecuzione penale esterna. Questo produce una carenza di personale che incide sul peggioramento delle condizioni lavorative nelle carceri. Il report Fp Cgil, infatti, evidenzia un aumento delle aggressioni agli agenti pari a oltre 200 casi, circa il 10% in più del primo semestre 2015 sullo stesso periodo 2014; impennata anche per i procedimenti disciplinari, saliti del 10%, con punte di oltre il 50% in alcune regioni come il Lazio. E crescono in maniera esponenziale gli straordinari, con picchi di 16 ore consecutive di lavoro in alcuni istituti. Il rapporto mette in luce anche un crollo degli investimenti in formazione, passati da 1.287.171 euro del 2010 a 391.120 euro del 2015; quanto alle risorse destinate alla manutenzione delle carceri, a fronte di un fabbisogno pari a 40 milioni di euro annui, sono precipitate a 4 milioni messi a bilancio lo scorso anno. Giustizia: il governo metta fine al pasticcio intercettazioni di Carlo Nordio Il Messaggero, 20 luglio 2015 Alcuni mesi fa l'onorevole Pierluigi Bersani, a margine dell'inchiesta della procura di Firenze sulle cooperative rosse, auspicò con parole accorate una riforma della disciplina delle intercettazioni. Gennaro Migliore, ex esponente di Sel e attualmente del Pd, fu più severo, e definì la norma un obbrobrio. Come sempre, le reazioni più ferme e significative vennero dall'onorevole Massimo D'Alema che disse: "Così si sputtanano le persone". Noi sperammo che queste critiche, ancorché assai tardive, spronassero il governo alla sollecita revisione di una porcheria processuale che disonora il poco che resta della nostra civiltà giuridica. Invece non è accaduto niente, e il progetto di riforma, peraltro timido e insufficiente, si è insabbiato. Nel frattempo qualcuno ha passato ai giornali un'imbarazzante conversazione del presidente del Consiglio con un generale della Guardia di Finanza. E le solite anime belle hanno predicato che una sua eventuale iniziativa sarebbe a questo punto sospetta e quanto mai inopportuna. La vicenda Crocetta, della quale sorvolo sul merito, sta ora dimostrando che le reazioni di Bersani, Migliore e D'Alema erano anche troppo generose, perché non si era mai visto un simile pasticcio avvelenato. Cerco di spiegarlo chiedendo scusa ai lettori se dovrò usare qualche termine in giuridichese. Le intercettazioni, quelle legittime disposte dall'autorità giudiziaria, possono avere un diverso epilogo. Il primo possibile epilogo: le intercettazioni vengono riportate negli atti giudiziari, ad esempio nell'ordinanza di custodia cautelare, e quindi sono a disposizione di tutti. Per la verità, nemmeno in questo caso, dice il codice, sarebbero pubblicabili. Ma poiché non sono più segrete, tutti le pubblicano lo stesso, anche se coinvolgono, "sputtanandole", persone che con l'indagine non c'entrano nulla. Il secondo: le intercettazioni non sono tra gli atti "ostensibili", cioè portati a conoscenza delle parti, ma stanno comunque nel fascicolo processuale. Esistono, ma dovrebbero esser segrete. Anche qui la legge si è rivelata impotente. L'avvocato, il cancelliere, il poliziotto, eccetera, possono passarle al giornalista, che non rivelerà mai la fonte, invocando il segreto professionale; soprattutto se a interrogarlo sarà lo stesso magistrato che lo ha informato. Il terzo: le intercettazioni esistono, ma solo nei nastri registrati. Non essendo trascritte, possono essere note solo agli inquirenti che le hanno disposte ed eseguite. La loro divulgazione è molto rara, e costituirebbe un grave reato anche per il giornalista. Non perché abbia scritto una notizia falsa, ma perché ne sarebbe venuto in possesso, come un ricettatore, in modo illegale. Il quarto: l'intercettazione non esiste, e il giornalista se l'è inventata. È un caso limite, ma è, fino a prova contraria, il caso di Crocetta. Perché? Semplicemente perché la Procura della Repubblica di Palermo ne ha categoricamente e ufficialmente smentito l'esistenza. E di fronte alla parola del magistrato sta ora al giornalista dimostrarne la veridicità e, naturalmente, rivelarne la fonte. In difetto, si profilerebbe una grave responsabilità penale ed un ancor più oneroso risarcimento. Il paziente lettore avrà capito che da questa scellerata confusione normativa deriva un'intollerabile offesa ai principi minimi di libertà, riservatezza e onore che peraltro sono solennemente proclamati e garantiti dalla Costituzione "più bella del mondo". E, cosa peggiore, che questo sistema è diventato strumento di miserabile intimidazione politica. Se dunque ancora una volta ci potessimo permettere un suggerimento al presidente del Consiglio, ripeteremmo, con maggior vigore, l'appello accorato di qualche mese fa. Non è colpa sua se si è trovato questa vergognosa eredità. Ma per l'amor del cielo ponga fine a questa porcheria postribolare, così ben definita dall'onorevole D'Alema: perché, come insegnava Aristippo, la vergogna non sta nel trovarsi dentro un bordello, ma nel non saperne o non poterne uscire. Giustizia: tra i giudici amministrativi è "guerra" sulla proroga dell'età pensionabile Ansa, 20 luglio 2015 È "guerra" nelle file dei giudici amministrativi sull'età della pensione. Una guerra generazionale che oppone i magistrati più giovani a quelli più vecchi. I primi infatti hanno tirato un sospiro di sollievo quando il decreto legge "Giustizia per la crescita", varato dal consiglio dei ministri il 27 giugno, ha prorogato per un anno, cioè per tutto il 2016, la possibilità di rimanere in servizio per i magistrati che hanno tra i 70 e i 72 anni. Una misura valida però solo per i giudici ordinari ed esclusa esplicitamente per quelli dei Tar e del Consiglio di Stato. Tutto risolto? Non proprio, per lo meno da quanto emerge dai resoconti dell'ultima riunione del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, ossia l'organo di autogoverno, il corrispettivo del Csm per la magistratura ordinaria, perché quel che ne esce sono evidenti contrasti. La quarta commissione, infatti, ha approvato una proposta di ordine del giorno da sottoporre al plenum, che in sostanza spiega le ragioni per cui non si ritiene né necessario, né opportuno, che i magistrati amministrativi siano inclusi nella proroga. E le ragioni sono che, in realtà, la Giustizia amministrativa ha già provveduto a rinnovare i posti che si sarebbero resi vacanti negli uffici per ragioni di età dei titolari, mentre nei ranghi della magistratura ordinaria l'iter non si è svolto con gli stessi tempi e questo, in assenza di una proroga, rischiava di produrre scoperture. Dieci su 15 componenti del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa hanno quindi fatto istanza al presidente, Giorgio Giovannini - che presiede il Consiglio di Stato ed è nato il 24 dicembre 1943 - per ottenere una trattazione urgente della delibera della quarta commissione. L'obiettivo era quello di esaminare in plenum la questione prima della pausa estiva e prima della conversione in legge del decreto, temendo evidentemente possibili modifiche al testo in questa fase. Ma la trattazione non è stata inserita nei temi in agenda dell'ultimo plenum, che si è tenuto venerdì scorso: il presidente Giovannini si è riservato di convocare un plenum straordinario, che stando ai regolamenti Consiglio di presidenza dovrebbe riunirsi entro il 3 agosto. Ma per quella data il decreto sarà quasi certamente già stato convertito in legge, fanno notare alcuni dei firmatari della delibera messa in stand by, aggiungendo un altro particolare: tra gli emendamenti presentati alla Camera non manca ovviamente quello volto ad estendere la proroga prevista per le toghe ordinarie anche a quelle amministrative; né quello volto ad estendere a tutti la proroga anche oltre il 75mo anno di età. Giustizia: caso Ilva; oggi sentenza Gup, in 47 rischiano il processo, per 5 il rito abbreviato di Paolo Melchiorre Ansa, 20 luglio 2015 Più di tre anni di indagini, 13 mesi di udienza preliminare e ora, per il presunto disastro ambientale di Taranto e dintorni che avrebbe provocato lo stabilimento siderurgico Ilva, è arrivato il momento delle decisioni. Oggi, 20 luglio, il gup del Tribunale di Taranto Vilma Gilli farà sapere quanti dei 47 imputati (44 persone fisiche e tre società, ovvero Ilva spa, Riva Fire e Riva Forni Elettrici) che non hanno scelto riti alternativi, saranno rinviati a giudizio e dovranno essere processati, ed emetterà la sentenza per altri cinque imputati che hanno chiesto e ottenuto di essere giudicati con rito abbreviato. La schiera degli imputati è quanto mai composita: dai vertici della famiglia Riva (non si procederà solo nei confronti dell'ex patron dell'Ilva Emilio Riva, deceduto ad 87 anni il 29 aprile 2014, ma ci sono i figli Fabio, arrestato il 5 giugno scorso dopo due anni e mezzo di "rifugio dorato" a Londra e unico detenuto, e Nicola) ad ex dirigenti dell'azienda, a politici e amministratori (tra gli altri, l'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso), funzionari ministeriali e regionali (è sotto accusa l'Autorizzazione integrata ambientale rilasciata all'azienda il 4 agosto 2011), ex consulenti del Tribunale, avvocati (anche un legale Ilva), un poliziotto, un carabiniere e un sacerdote. Nell'inchiesta ci sono i fascicoli di due incidenti sul lavoro mortali, per i quali il pool della Procura guidato dal procuratore Franco Sebastio (gli altri pm sono l'aggiunto Pietro Argentino e i sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano) contesta ad un gruppo di dirigenti Ilva i reati di omicidio colposo e di omissione di cautele sui luoghi di lavoro. Per 11 imputati, tra cui i vertici Riva, c'è l'accusa di associazione per delinquere; in 17 rischiano il processo per disastro doloso oppure per rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. In 15 sono accusati di avvelenamento di acque o sostanze alimentari, con la contaminazione di nove allevamenti ovino-caprini, e l'abbattimento di 2.271 capi di bestiame, e delle acque del primo seno di mar Piccolo, con distruzione delle coltivazioni di mitili. Oltre a Vendola, tra i politici a rischio processo ci sono un deputato di Sel ed ex assessore regionale, Nicola Fratoianni, un consigliere regionale Pd appena riconfermato, Donato Pentassuglia, accusati di favoreggiamento personale, e poi un sindaco (Ippazio Stefano, di Taranto), al quale si contesta l'abuso d'ufficio, e l'ex presidente della Provincia di Taranto Giovanni Florido, accusato di concussione per induzione. Saranno giudicati dal gup con rito abbreviato l'ex assessore regionale all'Ambiente Lorenzo Nicastro, magistrato in aspettativa (accusato di favoreggiamento personale), il luogotenente dei carabinieri Giovanni Bardaro (rivelazione di segreti d'ufficio), il funzionario dell'Arpa Puglia e già consulente della Procura Roberto Primerano (falso ideologico, concorso in disastro doloso e avvelenamento di acque o sostanze alimentari), l'avv. Donato Perrini (rivelazione di segreti d'ufficio), già legale dell'ex assessore provinciale Michele Conserva (anche lui imputato) e il sacerdote don Marco Gerardo (favoreggiamento personale). Poco più di 800 le parti civili, tra le quali i ministeri dell'Ambiente e della Salute, ma anche enti locali, sindacati, associazioni ambientaliste, parenti di operai deceduti e centinaia di privati cittadini, soprattutto residenti del quartiere Tamburi, a ridosso dell'Ilva, che quotidianamente hanno respirato sostanze inquinanti. L'Ilva in amministrazione straordinaria aveva presentato istanza di patteggiamento, ma la possibilità per l'azienda di uscire dal processo è saltata per il parere contrario espresso dalla Procura, che non ha ritenuta congrua la pena. Non punibilità per tenuità del fatto applicabile ai procedimenti pendenti in Cassazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 8 giugno 2015 n. 24358. Nell'assenza di una disciplina transitoria, la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Cp, introdotto con il decreto legislativo n. 28 del 2015) è applicabile anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore e, quindi, anche a quelli pendenti in Cassazione. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 24358/2015. Le verifiche che devono fare i giudici - In tale evenienza, la Corte di legittimità, deve in primo luogo verificare l'astratta applicabilità dell'istituto, avendo riguardo ai limiti edittali di pena del reato. In secondo luogo, la Corte deve verificare la ricorrenza congiunta della particolare tenuità dell'offesa e della non abitualità del reato. Nell'effettuare questo secondo apprezzamento, il giudice di legittimità non potrà che basarsi su quanto emerso nel corso del giudizio di merito, tenendo conto, in modo particolare, dell'eventuale presenza, nella motivazione del provvedimento impugnato, di giudizi già espressi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità del fatto. La declaratoria di non punibilità per "particolare tenuità del fatto" - Si tratta di una decisione con cui la Corte di cassazione affronta la questione dell'applicabilità ai processi in corso, pendenti in sede di legittimità, della disciplina dell'articolo 131-bis del Cp, introdotto con il decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28, che, come è noto, configura la possibilità di definire il procedimento con la declaratoria di non punibilità per "particolare tenuità del fatto" relativamente ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. La decisione è perfettamente in linea con il significativo precedente (sezione III, 8 aprile 2015, Mazzarotto), con cui la questione è stata per la prima volta affrontata in sede di legittimità. Il ragionamento della Cassazione - Per cogliere il portato della decisione, è opportuno riportare il ragionamento della Cassazione. Gli imputati erano stati riconosciuti colpevoli, in concorso tra loro, del reato di cui all'articolo 256, comma 4 del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, e condannati alla sola pena pecuniaria. La questione della particolare tenuità del fatto è stata sottoposta alla Corte solo in udienza, ma la Corte ha ritenuto di doverla esaminare ex articolo 609, comma 2, del Cpp, sulla base del rilievo che tale questione non era stato possibile dedurla in appello (l'introduzione dell'istituto della particolare tenuità è stata successiva al giudizio di appello; il richiamo all'articolo 609, comma 2, del Cpp, va osservato per incidens, appare particolarmente pertinente, ove si consideri che la questione dell'irrilevanza penale del fatto difficilmente potrebbe farsi rientrare tra i "motivi nuovi" a sostegno dell'impugnazione, previsti nella disposizione di ordine generale contenuta nell'articolo 585, comma 4, del Cpp, giacché questi devono avere pur sempre a oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell'originario atto di gravame ai sensi dell'articolo 581, lettera a), del Cpp : si veda ex pluribus sezione IV, 3 novembre 2004, Nwobodo e altri; ciò che sarebbe difficilmente ipotizzabile rispetto a un istituto del tutto nuovo quale quello di che trattasi). La Corte, peraltro, non ha ritenuto di poter accedere alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità, dopo una verifica della fattispecie condotta secondo il percorso argomentativo su cui ci si è soffermati nella massima della decisione. In effetti, ha osservato la Cassazione, la pena edittale del reato oggetto della condanna rientrava nel range stabilito per il ricorso all'istituto, trattandosi del resto di fattispecie contravvenzionale, ma emergevano dalla decisione di merito dati indicativi di un apprezzamento sulla "gravità del fatto" che non consentiva di ritenere astrattamente configurabili i presupposti per la non punibilità (il fatto, sebbene definito "modesto" dal giudice di merito per giustificare l'applicazione della sola pena pecuniaria, prevista in alternativa a quella detentiva, era stato valutato comunque "di un certo rilievo", come poteva evincersi dall'entità delle pene comunque irrogate, che si discostavano, per tutti gli imputati, dal minimo edittale). Per l'effetto, la Cassazione ha rigettato il ricorso e, per quanto interessa, ha ritenuto non vi fossero tout court gli spazi per rinviare nuovamente gli atti al giudice di merito, per la carenza assoluta delle condizioni legittimanti la decisione di non punibilità. Scafisti: nulle le dichiarazioni dei migranti senza l'assistenza difensiva di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 30 giugno 2015 n. 27283. Nell'ambito del procedimento penale a carico degli scafisti, chiamati a rispondere del reato di cui all'articolo 12, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, i migranti trasportati sul natante vanno sentiti ex articolo 351, comma 1-bis, del Cpp, con l'assistenza del difensore, in quanto indagati per il reato di clandestinità di cui all'articolo 10-bis dello stesso decreto legislativo, con la conseguenza che le dichiarazioni irritualmente assunte non sono utilizzabili. Lo hanno stabilito i giudici della prima sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 27283 del 2015. Il caso specifico - Nella specie, il Gip non aveva convalidato il fermo degli scafisti proprio sul rilievo dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni "a carico" assunte dai migranti senza l'assistenza difensiva. La Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero, sostenendo che doveva trovare applicazione il disposto dell'articolo 63, comma 2, del Cpp, con conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni rese senza l'assistenza difensiva, mentre non poteva evocarsi, in senso diverso, la circostanza che la legge delega 28 aprile 2014 n. 67 abbia prevista la futura depenalizzazione della violazione dell'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, trattandosi di delega non ancora esercitata. Considerazioni sulla decisione - La decisione è formalmente corretta, ma non esime dal dovere sviluppare qualche considerazione rispetto a una soluzione che indubbiamente lascia insoddisfatti rispetto a un efficace contrasto dei fatti di immigrazione clandestina. In primo luogo, va sottolineato con sfavore il ritardo del legislatore nell'attuazione della legge delega n. 67 del 2014, tale da avere determinato una situazione di incertezza sulla persistente rilevanza penale delle condotte di cui, in quella sede, si prefigurava la decriminalizzazione (a parte il reato di clandestinità, sono note le incertezze giurisprudenziali sulla persistente rilevanza penale dell'articolo 2, comma 1-bis, del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l'omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui il mancato versamento non superi la soglia di 10.000 euro annui: la Cassazione, a fronte di incerte interpretazioni dei giudici di merito, è dovuta intervenire a chiarire che l'articolo 2, lettera c), della legge n. 67 del 2014 si è limitata a conferire al governo la delega a trasformare tale reato in illecito amministrativo purché il mancato versamento delle ritenute previdenziali non superi la soglia di 10.000 euro annui, ma allo stato tale delega non è stata ancora esercitata, onde, proprio in assenza del concreto esercizio della delega, non è possibile ritenere che i principi e i criteri contenuti nella legge di delegazione abbiano diretto effetto modificativo dell'ordinamento vigente, anche perché, diversamente opinando, ossia se si volesse pronunciare proscioglimento (o annullare senza rinvio, in cassazione) per tutti coloro i quali a oggi, al di sotto della quota di ritenuta di 10.000 euro, non hanno versato i contributi previdenziali si aprirebbe una impunità generale, nell'assenza di una esplicita norma che, oltre a depenalizzare la condotta, l'avrebbe peraltro comunque assoggettata a sanzione amministrativa: ex pluribus, sezione III, 13 maggio 2015, Proc. Rep. trib. Crotone in proc. Arminio). In secondo luogo, giova rilevare (lo si desume dalla motivazione della sentenza) che i migranti, nel caso di specie, erano stati recuperati in mare aperto da una nave della Marina militare italiana, che li aveva portati sul territorio nazionale: in questa situazione, sembra concettualmente inipotizzabile il reato di "clandestinità" di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, vuoi perché in Italia i migranti erano stati portati da personale della Marina, vuoi perché, comunque, anche a voler valorizzare l'intenzione di sbarcare sulle coste italiane, trattandosi di fattispecie contravvenzionale non avrebbe potuto ravvisarsi il tentativo: sotto questo profilo, una attenta considerazione della situazione fattuale ben avrebbe potuto consentire di superare ogni questione sulla veste giuridica con la quale i migranti avrebbero dovuto essere sentiti. In terzo luogo, una indicazione operativa, a regime immutato, può darsi per coloro che devono assumere informazioni dai migranti la disciplina dell'articolo 63 del Cpp non risulta applicabile in caso di "dichiarazioni spontanee" (articolo 350, comma 7, del Cpp; si veda sezione V, 23 febbraio 2005, Di Stadio e altro) e tali dichiarazioni, di norma, possono essere assunte senza particolari problemi nei confronti di persone che risultino volontariamente disponibili a chiarire le circostanze del loro arrivo in Italia, almeno con riguardo alle indicazioni soggettive degli scafisti che li hanno guidati. Misure antimafia interdittive, retroattività ed effetti su contratto già esaurito di Giovanni La Banca Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2015 Consiglio di Stato, sezione 3, sentenza 3 luglio 2015, n. 3310. Il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori elementi, non è di per sé idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione. Non può, infatti, configurarsi un rapporto di automatismo tra un legame familiare, sia pure tra stretti congiunti, e il condizionamento dell'impresa, che deponga nel senso di un'attività sintomaticamente connessa a logiche e a interessi malavitosi. Il ricorrente impugnava la relazione del Comando Provinciale dei Carabinieri che recava una ricognizione cronologica di incontri dello stesso con soggetti gravati da precedenti penali e di polizia, di cui due in rapporto di contiguità o appartenenza a clan camorristico. La relazione è stata inviata agli altri organi di polizia (Questura, Nucleo di Polizia Tributaria, D.I.A.) con invito "a integrare le informazioni di competenza sul conto della società e degli amministratori e soci in oggetto". Le note a riscontro degli organismi di polizia interpellati danno tutte atto dell'insussistenza di elementi che possano costituire mende o pregiudizi a carico della Ditta nei cui confronti era stato attivato il procedimento. Il ricorrente evidenziava l'insufficienza del quadro istruttorio posto a sostegno della misura di rigore, ove si consideri che lo stesso Comando dei Carabinieri aveva formulato l'esigenza di integrazione degli elementi dallo stesso raccolti, con specifico riferimento alle posizioni degli amministratori e dei soci della ditta interessata, e non aveva formulato, sulla scorta delle proprie acquisizioni, alcun giudizio sul pericolo di condizionamento mafioso della ditta. L'insufficienza delle risultanze istruttorie si riflette sulla congruità e adeguatezza della motivazione del provvedimento del Prefetto che - anche se espressione di un' ampia sfera di discrezionalità quanto all'elevazione della soglia di prevenzione dei fenomeni di condizionamento criminale di attività economiche finanziate con risorse economiche dello Stato o di altri organismi pubblici - deve, in ogni caso, delineare un sufficiente quadro che renda significativo, anche se su un piano i solo indiziario, il pericolo di condizionamento e di infiltrazione mafiosa. Quanto al dato oggettivo della situazione di convivenza, il ricorrente documenta la sua limitata durata temporale (circa tre mesi) e la cessazione della convivenza stessa in data antecedente a di adozione della misura interiettiva, venendo quindi meno la comunanza di vita quale condizione agevolativa del condizionamento mafioso, oltre ad evidenziare che la stessa relazione dei Carabinieri non attribuisce al periodo di convivenza valore significativo agli effetti predetti. Lo strumento de quo costituisce espressione di ampia discrezionalità, assoggettabile al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati. Il potere esercitato è espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata. Nella cosiddetta interdittiva prefettizia antimafia, ora prevista dagli articoli 91 e ss., Dlgs 6 settembre 2011, n. 159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, va ravvisata una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la Pa. Proprio per il suo carattere preventivo, essa prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell'esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la Pa e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia e analizzati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente. Tale potere è espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata. Di tal che, l'interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazioni malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da fattori sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata. Proprio in ragione della sua peculiarità, la misura deve essere assistita da congrua motivazione, che dia contezza dello svolgimento di un'adeguata istruttoria - da esplicarsi con l'ampiezza di poteri amministrativi tipici della discrezionalità ma anche con i limiti suindicati - tesa ad accertare e verificare gli elementi indizianti fondanti la sua emissione. In questi casi, il sindacato in sede giurisdizionale è diretto ad accertare l'assenza di eventuali vizi della funzione, che possano essere sintomo di un non corretto esercizio del potere, quanto all'accuratezza dell'istruttoria, alla completezza dei dati e fatti acquisiti, alla non travisata valutazione dei fatti stessi, alla sufficienza della motivazione e alla logicità e ragionevolezza delle conclusioni rispetto ai presupposti ed elementi di fatto presi in considerazione. La misura interdittiva deve, poi, fondarsi su elementi attuali e pertinenti, dai quali sia ragionevolmente desumibile un tentativo di ingerenza nella compagine sociale; in altre parole, essa non può fare riferimento a fatti remoti, privi di attualità. Con riguardo alla rilevanza del rapporto di parentela con soggetti che si affermano appartenenti o in rapporto di contiguità con la criminalità organizzata, agli effetti dell'inibitoria della costituzione di rapporti contrattuali e di sovvenzioni da parte di enti che utilizzano risorse pubbliche, il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori elementi, non è di per sé idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione. Non può, infatti, configurarsi un rapporto di automatismo tra un legame familiare, sia pure tra stretti congiunti, e il condizionamento dell'impresa, che deponga nel senso di un'attività sintomaticamente connessa a logiche e a interessi malavitosi. Se, da un lato, è vero, in base alle regole di comune esperienza, che il vincolo di parentela o di affinità può esporre il soggetto all'influsso dell'organizzazione, se non addirittura imporre (in determinati contesti) un coinvolgimento nella stessa, tuttavia l'attendibilità dell'interferenza dipende anche da una serie di circostanze e ulteriori elementi indiziari che qualifichino, su un piano di attualità ed effettività, una immanente situazione di condizionamento e di contiguità con interessi malavitosi. Tali elementi devono fornire, nel loro complesso, obiettivo fondamento al giudizio di possibilità che l'attività d'impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata. Nessuno di siffatti elementi e circostanze può rinvenirsi in un provvedimento che, a sostegno della misura interdittiva, rinvia per relationem e in via esclusiva al rapporto di polizia recante il solo elenco di incontri con soggetti malavitosi. In ogni caso l'applicazione automatica della misura interdittiva rappresenterebbe un irragionevole ostacolo al ripristino di un regime di vita lavorativa improntato al rispetto della legge nelle aree geografiche del Paese contraddistinte dalla forte presenza di organizzazioni criminali. Il cliente irreperibile è moroso, il fatto basta al legale ai fini del recupero del credito di Angelo Costa e Maria Domanico Italia Oggi, 20 luglio 2015 Se nel corso del giudizio il soggetto assistito dall'avvocato risulta irreperibile, ciò è sufficiente per il legale al fi ne di recuperare il proprio credito. Lo hanno affermato i giudici della VI sezione civile - 2 della Corte di cassazione con l'ordinanza n. 13132 dello scorso 24 giugno. Sembra opportuno in sede di commento premettere, che la condizione di "irreperibilità" afferisce ad una situazione sostanziale, di fatto che, rendendo irrintracciabile il debitore, impedisce, secondo quanto sottolineato anche dagli Ermellini, di effettuare procedura alcuna per il recupero del credito professionale. Circa, poi, la nozione di irreperibile di cui all'art. 117, dpr 115 del 2002 alla luce dell'interpretazione della norma quale emerge anche da un recente orientamento giurisprudenziale della Cassazione medesima (si veda: Cass. 20/7/2010 n. 17021) secondo la quale l'art. 117 dpr 115/2002 non specifica la significazione del termine "irreperibile" e non richiama espressamente gli artt. 159 e 160 c.p.c., pertanto non viene pienamente chiarito "se "irreperibile" è solo il soggetto che tale sia stato dichiarato nel corso del procedimento penale con apposito decreto del giudice, ovvero anche la persona che, pur rintracciata nel procedimento penale, venga successivamente a trovarsi in una situazione di sostanziale irrintracciabilità". Secondo i giudici di piazza Cavour, la ratio sottesa al combinato disposto degli artt. 116 e 117, dpr n. 115/2002 cit. secondo cui il difensore sarebbe tenuto ad esperire le procedure per il recupero dell'onorario e delle spese, non potendo queste essere poste a carico dell'erario solo per l'assunzione officiosa dell'incarico professionale, se tali procedure non sono possibili perché se il debitore non è rintracciabile è, appunto, irreperibile, non può esigersi che il difensore esperisca alcuna attività in tal senso, questa essendo del tutto vanificata da tale condizione del debitore medesimo, e "le spese, in tal caso, vanno poste a carico dell'erario, che ha diritto di ripetere le somme anticipate da chi si è reso successivamente reperibile". I supremi giudici hanno altresì concluso che la condizione di irreperibilità deve sussistere al momento in cui il creditore è in grado di azionare la sua pretesa e se a quel momento il procedimento penale si è già concluso e non si faccia questione alcuna in sede di esecuzione, non è dato al giudice emettere più alcun decreto ex art. 160 c.p.p. Procedimento sul patrocinio statale, il Ministero della Giustizia parte necessaria Italia Oggi, 20 luglio 2015 Il Ministero della giustizia, in caso di patrocinio a spese dello Stato, è parte necessaria del procedimento poiché rappresenta il soggetto passivo del rapporto di debito. Lo hanno affermato i giudici della VI sezione civile - 2 della Corte di cassazione con l'ordinanza n. 13135 dello scorso 24 giugno. Il procedimento di opposizione ex art. 170 del T.u. in materia di spese di giustizia rappresenta un giudizio autonomo rispetto a quello in cui il legale ricorrente ha prestato la propria opera; il relativo contenzioso ha per oggetto una controversia civile che va ad incidere su un diritto soggettivo di natura patrimoniale e da ciò discende, secondo i giudici della Cassazione, che parte necessaria di tale procedimento è ogni soggetto passivo del rapporto di debito. I medesimi giudici di piazza Cavour hanno altresì evidenziato come il procedimento di opposizione alla liquidazione degli onorari ex art. 170 sia applicabile, in ossequio anche ad un consolidato orientamento giurisprudenziale (si vedano: Cass. civ. 23/6/2011 n. 13807, Cass. 23/9/2013 n. 21685 e Cass. 26966/11), anche per l'individuazione del mezzo impugnatorio. Questo perché, hanno osservato gli Ermellini, la disciplina processuale applicabile, in mancanza di espressa previsione normativa, non va ricercata nella disciplina penalistica dettata dal dpr n. 115 del 2002, artt. 99, 112 e 113, ma nell'art. 170 del citato dpr (che pur rivolto a regolare l'opposizione ai decreti di pagamento in favore dell'ausiliario, del custode e delle imprese private incaricate della demolizione e riduzione in pristino deve ritenersi estensibile alle opposizioni ai provvedimenti di revoca della ammissione deliberati dal giudice civile) configurando tale disposizione un rimedio generale contro tutti i decreti in materia di liquidazione. Pertanto, se la revoca è stata chiesta dall'Ufficio finanziario ai sensi dell'art. 127, l'Ufficio finanziario sarà parte necessaria del procedimento, ma se la revoca è disposta (come nella specie) di ufficio dal giudice civile in un procedimento civile, l'Ufficio finanziario è reso parte attiva del procedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Prova civile: sulle domande di chiarimenti rivolte dal giudice al testimone Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2015 Prova civile - Interrogazione del testimone - Domande di chiarimenti rivolte dal giudice - Limiti - Inosservanza - Nullità della prova - Rilevabilità ad opera della parte interessata - Condizioni. Il giudice, nell'avvalersi della facoltà di cui all'art. 253, I comma, cod. proc. civ., rivolgendo al teste le domande utili a chiarire i fatti oggetto della sua deposizione, non può, in ogni caso, supplire alle deficienze del mezzo istruttorio proposto ed ammesso, senza, peraltro che, ove detto limite sia stato valicato, la conseguente nullità possa essere rilevata d'ufficio, sicché la parte, ove abbia rinunciato, implicitamente, con il proprio contegno processuale, o esplicitamente, a dolersi dell'inosservanza delle regole relative alla deduzione ed escussione della prova, non può in seguito elevare tale inosservanza a motivo di impugnazione verso la sentenza, che resta sanata per effetto di acquiescenza. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 12 giugno 2015 n. 12192. Prova civile - Testimoniale - Formulazione di domande utili al chiarimento dei fatti - Facoltà del giudice - Mancato esercizio in assenza di sollecitazione della parte - Conseguenze - Non deducibilità come motivo di impugnazione. L'articolo 253 cod. proc. civ. riconosce al giudice la facoltà, di ufficio o su istanza di parte, di rivolgere al teste le domande che egli ritiene utili per chiarire i fatti sui quali quest'ultimo è chiamato a deporre, senza che il mancato esercizio di ufficio di tale facoltà (qualora non vi sia stata un'istanza di parte funzionale ad ottenere tali chiarimenti) possa, peraltro, essere oggetto di impugnazione, costituendo essa espressione di un potere meramente discrezionale del giudice. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 6 aprile 2005 n. 7109. Prova civile - Poteri del giudice - Ammissione della prova - Requisiti di specificità e rilevanza dei capitoli di prova - Indagine del giudice di merito. Al fine della ammissione della prova testimoniale, l'indagine del giudice di merito sui requisiti di specificità e rilevanza dei capitoli formulati dalla parte istante, va condotta non soltanto alla stregua della letterale formulazione dei capitoli medesimi, ma anche ponendo il loro contenuto in correlazione agli altri atti di causa ed alle deduzioni dei contendenti, nonché tenendo conto della facoltà di chiedere chiarimenti e precisazioni ai testi, ai sensi dell'art. 253 cod. proc. civ. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 29 settembre 1995 n. 10272. Prova civile - Poteri del giudice - Prova per testimoni- Domande di chiarimento - Facoltà del giudice di porre domande di chiarimento - Limiti - Superamento dei limiti - Conseguenze. Il giudice in virtù della facoltà concessa dal II comma dell'articolo 253 cod proc civ può rivolgere al teste, d'ufficio o su istanza delle parti, tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti sui quali il teste e chiamato a deporre; tale facoltà non può estendersi sino al punto di supplire alle deficienze del mezzo istruttorio proposto ed ammesso. Ove il limite sia stato travalicato, la nullità che potrebbe derivarne non è rilevabile d'ufficio dal giudice. e la parte che implicitamente, con il proprio contegno processuale (o esplicitamente) abbia rinunciato a dolersi dell'inosservanza di regole e formalità relative alla deduzione ed escussione della prova testimoniale, non può successivamente elevare tale inosservanza a motivo di impugnazione verso la sentenza, dovendosi ritenere sanata detta inosservanza per effetto di acquiescenza. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 26 giugno 1976 n. 2401. Lettere: basta con l'antimafia da talk show di Massimo Adinolfi Il Mattino, 20 luglio 2015 Le persone oneste, a Palermo, sono più di trecento. Molte di più. Sono più di trecento le persone che vogliono la verità sulle bombe della mafia e sugli attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono di più, molte di più, le persone che vogliono liberare la Sicilia e l'Italia intera dalla morsa della criminalità organizzata. Ma ieri, a Palermo, dinanzi al palco allestito dalle Agende Rosse di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso, erano poche centinaia. Qualcosa, dunque, non va. Se si perde un pezzo di città, o addirittura la città intera di Palermo, delle due l'una: o si deve concludere che quella città è per sempre perduta alla legalità e irredimibile e irredenta o, con uno spirito di autocritica necessario, si ammette che bisogna oramai cominciare da un'altra parte, in un altro modo. Sarebbe infatti molto miope giudicare una città intera e la sua volontà di lottare contro le mafie dal grado di partecipazione alla manifestazione di ieri, e in generale dal grado di adesione alle iniziative che un pezzo di società civile - sempre più ristretto, sempre più involuto, sempre più autoreferenziale - organizza per tenere la propria intransigente posizione di paladini dell'antimafia. Tra l'una cosa e l'altra, tra Palermo e l'antimafia militante, bisogna stare dalla parte di Palermo. Vi sono state polemiche, in questi giorni, sul significato delle commemorazioni. I figli di Paolo Borsellino hanno detto che avrebbero disertato le cerimonie ufficiali (poi Manfredi ha invece deciso di esserci, per rispetto al Capo dello Stato, innanzi al quale ha pronunciato parole di esemplare dignità); Lucia Borsellino ha polemizzato aspramente con una certa maniera di declinare l'impegno antimafia, dimettendosi con grande compostezza dalla giunta Crocetta (solo dopo è scoppiato lo scandalo della frase ignobile del medico Turino, e il mistero dell'intercettazione mai agli atti da cui però sarebbe stata prelevata). Ma non sono solo le polemiche, i veleni, le insinuazioni e le mezze verità ad allontanare i cittadini. È, piuttosto, quell'antimafia esibita come divisa o come bandiera ad avere stancato, ad aver perduto senso, ad essere percepita come una sovrastruttura inutile, che alimenta solo se stessa ma non modifica né la coscienza del paese, né le pratiche di vita quotidiane. È l'antimafia come pulpito, non come attività investigativa o come contrasto giudiziario o come impegno formativo o come pungolo civile, è l'antimafia come accompagnamento sempre uguale allo spartito infinito delle inchieste, come ruminazione discorsiva continua e continuamente alimentata, a tenere lontana una fetta sempre più consistente della società dalle liturgie cerimoniali. Una messa in latino per gente che vuole ormai parlare un'altra lingua. Una parte di quel discorso funziona forse ancora: però solo come spettacolo, come denuncia ad uso delle telecamere e a beneficio dei talk show: ci si può sedere e ascoltare, e magari frequentare pure le repliche, ma quanto alla propria, diretta partecipazione, quando questa viene richiesta come una forma di intransigente militanza non solo civile, ma anche morale e soprattutto politica, quella no: quella è un'altra cosa, quella consente per esempio a Ingroia di raccogliere pochi punti percentuali alle elezioni politiche, come è accaduto nelle scorse elezioni, ma non si va oltre. E soprattutto non cambia nulla: non il pulpito, su cui salgono sempre gli stessi professionisti, e neppure quello che c'è sotto di esso. È accaduto ieri a Palermo, era già accaduto anche in Campania, nei mesi scorsi. Una società che rifiuta certi riti non è necessariamente formata da atei e senza Dio: magari è solo stufa del bigottismo ipocrita che si respira in alcune sacrestie. Lettere: le fratture sociali che mutano il quadro politico di Enzo Risso L'Unità, 20 luglio 2015 Il nostro Paese è attraversato da un crogiolo di contraddizioni globali e nostrane, in cui all'incedere dalla crisi, si sommano quelle generate dalla società dei consumi, dai processi di trasformazione culturale, dall'incalzare della mobilità di persone ed etnie. All'interno di questo quadro trasformativo si moltiplicano i "cleavages", frutto dell'intersecarsi delle pressioni generate dalle diverse sfere: economica, politica, culturale, sociale e territoriale. Le fratture sociali, come spiegava il politologo norvegese Rokkan, sono all'origine di partiti e movimenti; sono arche nelle trasformazioni dell'agenda setting e sono fondamento nelle scelte politiche, di adesione a leadership, di posizionamento cultural-valoriale degli individui. Dopo anni di predominio del tema ricchi-poveri, oggi, al vertice delle fratture italiche, c'è lo iato tra onesti e furbetti. Si tratta di un tema etico-comportamentale a forte valenza simbolica e trasversale. Sospinta dal susseguirsi di scandali e inchieste, questa frattura è diventata un'importante calamita politica. È un collante in grado di unire soggetti provenienti da culture politiche differenti; di mobilitare persone lontane dalla politica, ma esasperate dal malcostume italico e dalla maramalderia imperante. È una frattura, che sostiene ipotesi politiche marcate dalla volontà di scuotere il Paese e di proporre cambiamenti radicali. Al secondo posto, troviamo la storica separazione ricchi-poveri. Un tema sorretto dalla crisi, dall'accentuarsi delle diseguaglianze economiche, dalla caduta del ceto medio (nel 2003 il 70% degli italiani si sentiva ceto medio; oggi è il 42%) e dall'infragilimento del nucleo maggioritario delle famiglie, con il suo portato di modifiche negli stili di vita, nelle prospettive personali, nelle attese e speranze. La frattura ricchi-poveri non assume un connotato politico chiaramente orientato. Chi fosse indotto a pensare che essa alimenti la sinistra, si troverebbe spiazzato nell'osservare che buona parte dei soggetti in condizioni disagiate esprimono preferenze politiche orientate a centrodestra o per M5S. Laterza frattura, in netta crescita negli ultimi anni (è passata dal 6° posto in classifica, al 3°), è quella tra italiani e immigrati. Uno scollamento che è cresciuto nel tempo, accentuato dall'incremento degli sbarchi e dalla crisi. Nel 2002 la maggioranza degli italiani riteneva utile l'apporto degli immigrati. Oggi il quadro è mutato, con l'insediarsi della chiusura nei confronti di chi viene per un italiano su sette. Si tratta di una frattura ad alto potere collante, che attraversa il Paese da Nord a Sud ed è in grado di spostare opinioni da una parte all'altra degli schieramenti partitici. Quarto cleavages è quello rappresentato dal senso di frustrazione generato dal poter o non poter consumare. Si tratta di una frattura postmoderna, puro prodotto del fallimento della promessa di felicità alimentata, per decenni, dal consumismo. È una frattura che accompagna lo sfarinamento del ceto medio e genera pulsioni politiche presentistiche, ancorate a un sentimento di speranza per un nuovo benessere, per il ritorno a un passato felix e spensierato. Se queste sono le prime 4 fratture non vanno sottovalutate le altre, come ad esempio quella tra meritocrazia e uguaglianza. L'Italia è affascinata dalle potenzialità meritocratiche, ma attenta a non perdere le forme di protezione e salvaguardia. Oppure tasse-libertà, con il suo portato rancoroso nei confronti del sistema fiscale e dello Stato, l'insofferenza verso ciò che è pubblico, il bisogno di liberazione dai lacci burocratici. Infine, la spaccatura insicurezza-sicurezza. Sostenuta dalla spettacolarizzazione degli eventi criminali, questa frattura genera preferenze per leader dal linguaggio immediato e dal pugno di ferro, capaci di offrire rassicurazioni e tutele. Lettere: la necessità di sotterrare i moralisti con la politica, non con altro moralismo di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 luglio 2015 È il caso di Renzi? Forse sì. Abbiamo osservato con attenzione (e con un pizzico di cinico divertimento) le peripezie parallele con cui hanno dovuto fare i conti negli ultimi giorni due politici di centrosinistra che stanno mettendo il segretario del Partito democratico in una situazione che sarebbe un ossimoro definire imbarazzante. E alla luce di quello che sta capitando in Sicilia con il caso Rosario Crocetta e alla luce di quello che sta capitando a Roma con il caso Ignazio Marino l'impressione è che il capo del Pd abbia di fronte a sé un problema legato a una nuova e significativa "questione moralismo" più che a una vecchia e polverosa "questione morale". Inutile prendersi in giro: senza risolvere la questione, Renzi potrà mettere in campo le riforme più eccitanti del mondo, il taglio di tasse più incredibile della storia, la riforma del Senato più fantasmagorica dell'universo, ma non riuscirà mai a far compiere al suo elettorato, e forse al paese, un salto culturale oggi vitale e più che necessario. Il problema ci sembra evidente ed è un problema che somiglia più a un virus che a una semplice prassi politica: quando si coltiva il proprio elettorato a pane e moralismo si espone la propria parte politica a essere rottamata rapidamente da una parte politica più moralista e più intransigente di te. È il caso di Renzi? Forse sì. Un tempo, si sa, l'idea suicida della sinistra fu quella di non avere nessun nemico a sinistra - Pas D'Ennemi à Gauche. In un altro tempo, poi, l'idea sempre suicida della sinistra fu quella di non avere nessun nemico nelle procure - Pas D'Ennemi à la procure de Milàn. E nel tempo di oggi, invece, l'idea, purtroppo ancora molto diffusa nell'elettorato renziano e nella sua classe dirigente, è quella di non avere nessun nemico nella terra della morale. Proviamo a essere ancora più chiari mettendo in evidenza alcuni fatti (passati inosservati) accaduti negli ultimi giorni. Gli esempi migliori per capire di cosa stiamo parlando sono legati ai profili di due formidabili professionisti del moralismo, come Rosario Crocetta e Ignazio Marino, che nel tempo hanno costruito la propria identità e la propria discutibilissima credibilità facendo leva (moralisticamente) su parole vuote e fragili come "antimafia" e "legalità" - e non è un caso che entrambi siano entrati in crisi non appena hanno scoperto che accanto a loro era presente qualcuno capace di rivendicare un moralismo ancora più moralista del proprio. E qui arrivano i problemi per Renzi e sono problemi in un certo senso slegati a quelle inchieste che da una parte hanno colpito il medico di Crocetta e dall'altra parte hanno colpito la giunta di Marino. Entrambi i moralisti, sia Marino sia Crocetta, meritano di essere spazzati via dalla storia per la loro inadeguatezza e per il loro essere l'esempio più cristallino della politica che confonde la parola moralismo con la parola riformismo e che nasconde i propri fallimenti dietro gli Ingroia e i Sabella e issando in alto la bandiera della legalità come se non fosse ormai evidente che la legalità si combatte con l'efficienza non con il giustizialismo, gli amici di Cianciminello o le sfilate antimafia. Ma, in un caso di grande schizofrenia politica, il punto è un altro ed è che proprio quel partito a vocazione renziana che si auto professa garantista di fronte ai guai giudiziari ed extra giudiziari che hanno colpito le galassie di Marino e Crocetta ha messo in campo lo stesso schema adottato generalmente dai professionisti del moralismo, utilizzando intercettazioni monnezza per provare a cacciare i due odiati amministratori e fare dunque quello che non ha il coraggio di fare con la politica. Non una grande figura, anche considerando il fatto che, come si sa, ogni teorico del moralismo prima o poi verrà spazzato via dalla sua stessa e scellerata dottrina (citofonare ad Antonio Di Pietro o, per comodità, ad Antonio Ingroia). La sfida di Renzi, da questo punto di vista, è quella di creare una classe dirigente alternativa a quella "a vocazione moralista" che si è andata a diffondere come un virus inarrestabile in tutto il meridione, eccezion fatta per l'immenso Vincenzo De Luca. E tra cacicchi, magistrati e nuovi caudilli democratici, il segretario del Pd dovrà compiere così uno sforzo granitico per fare quello che oggi non è riuscito a realizzare: svelare gli altarini dei professionisti del moralismo, non copiarli, sfidare i falsi alfieri della legalità a colpi di riforme garantiste, non esserne ostaggio, e fare proprie, per esempio, le parole di una Lucia Borsellino, ex assessore di Crocetta, che poco prima di prendere a calci nel sedere il governatore siciliano ha consegnato sul tema parole definitive: "Non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere". È una battaglia cruciale per Renzi, e forse anche per il paese, ed è una battaglia centrale non solo per sotterrare l'antimafia dei pennacchi e dei parrucconi ma anche per dimostrare che quel Pd che Renzi proverà a ricostruire non è vittima di una improvvisa Soumission al grillismo chiodato. È una riforma culturale importante, vale quanto un'abolizione dell'articolo 18 o un'abolizione del bicameralismo perfetto, ed è una riforma che il presidente del Consiglio ha urgenza di fare per una ragione semplice e per la stessa ragione per cui avrebbe il dovere di mettere mano a una seria riforma delle intercettazioni: evitare che a forza di cedere alla dottrina moralista arrivi improvvisamente un nuovo moralista capace di dimostrare di avercelo, il moralismo, più duro di una qualsiasi Leopolda. Sicilia: dopo le polemiche di Manfredi Borsellino la situazione di Crocetta è insostenibile di Giovanna Casadio La Repubblica, 20 luglio 2015 "Intercettazione o non intercettazione, dopo le parole di Manfredi Borsellino la situazione in Sicilia è insostenibile". Debora Serracchiani, la vice segretaria del Pd, spezza la cortina di prudenza e di attesa. Non è vero che Renzi si sta disinteressando dello "scandalo Crocetta", non è vero che sta prendendo tempo. Queste sono le accuse che si rimpallano i dem siciliani, divisi per bande. Ma il segretario premier una decisione l'ha già presa: "Stabiliamo una exit strategy dalla giunta di Crocetta". Il dilemma è: convincerlo alle dimissioni o dimissionarlo. Al Nazareno parlano di "delegittimazione" del governatore ormai evidente. "Quanto ha detto Manfredi, raccontando la solitudine e il calvario della sorella Lucia, le difficoltà, le ostilità e le offese subite solo per adempiere al suo dovere di assessore alla Sanità, quasi un corso e ricorso della vicenda del padre Paolo, mi hanno scosso". Ammette Serracchiani. Politicamente c'è certo il timore che il Pd andando al voto, perda la Sicilia, anzi la regali ai 5STelle.Unsondaggio che circola al Nazareno parla dei dem ridotti al 17% e dei grillini che li doppierebbero. "D'altra parte si rischia di logorarsi", riflette sempre Serracchiani. A lei, a Lorenzo Guerini, l'altro vice segretario, e al sottosegretario Davide Faraone, è stato affidato il dossier Sicilia. Pochi giorni di tempo ha dato il premier. Pochi giorni per compiere tutti gli approfondimenti, le valutazioni, per capire le vere intenzioni di Crocetta il quale non arretra per ora e sostiene che quella telefonata scandalosa non c'è mai stata, che mai ha ascoltato la frase "Lucia Borsellino andrebbe fatta fuori, come suo padre" dalla voce del suo medico, il dottor Tutino, pubblicata dall'Espresso. Entro la fine della settimana tuttavia il Pd decide su Crocetta. Renzi su questo è stato chiaro. "Una agonia politica il Pd non può permettesela", ripete la vice segretaria, che conosce bene Crocetta da quando erano entrambi eurodeputati. I renziani accusano da mesi il governatore di avere tradito la promessa di discontinuità rispetto a Lombardo, di avere terremotato l'amministrazione regionale con cambi continui di assessori, di una situazione economica al collasso. I tempi del pressing quindi per tentare di convincere il governatore ad andarsene spontaneamente sono strettissimi. La segreteria nazionale vuole evitare il conflitto, la resa dei conti che aggiungerebbe ferite al già martoriato Pd siciliano. Ma siamo già al dopo Crocetta. E la prova del nove sta nella tela di alleanze che si sta tessendo con Alfano. L'obiettivo potrebbe essere quello di riproporre a livello siciliano il modello di maggioranza nazionale. Faraone è convinto che in settimana si scioglierà anche questo nodo. Bisognerà certo mettere sul tavolo una candidatura forte, una carta che riesca a sorprendere e ribaltare lo svantaggio politico. Tanto che si è pensato alla stessa Lucia Borsellino o al fratello Manfredi. Al Nazareno dicono che tutto questo è prematuro, che di nomi se ne sono fatti molti e chissà quanti se ne faranno ancora, dallo stesso Faraone a Enzo Bianco il sindaco di Catania a Giuseppe Lupo, l'ex segretario dem siciliano. Ma potrebbe trattarsi anche di un imprenditore, di una personalità della società civile che non dispiaccia ad Alfano. Oggi in Sicilia sbarca Roberto Speranza, leader della sinistra dem insieme con Davide Zoggia. Rilanceranno l'iniziativa della minoranza del partito. "Va ricercata la verità anche per rispetto alla famiglia Borsellino. Far cadere Crocetta è una responsabilità, ma no a agonie", osservano. Per dire, che sulla linea dell'addio a Crocetta c'è ormai tutto il Pd, maggioranza e minoranza. Serracchiani si era inalberata quando Fausto Raciti, il segretario dem siciliano, corrente "giovani turchi" aveva voluto fare a tutti i costi una conferenza stampa difendendo Crocetta. "Non è il caso", gli aveva detto, inascoltata. Adesso la delegittimazione del governatore - ripetono con ossessiva indignazione al Nazareno - passa attraverso le parole dolenti di Manfredi Borsellino. Roma: gioielliere ucciso, il presunto killer suicida in cella a Regina Coeli di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 20 luglio 2015 Ludovico Caiazza, tossicodipendente 32enne, era stato arrestato a Latina. Veniva controllato ogni 15 minuti. La procura apre un'inchiesta. Era stato arrestato meno di 24 ore prima, con l'accusa di aver ucciso un gioielliere romano durante una rapina mercoledì scorso. In tarda serata Ludovico Caiazza, 32 anni, è stato trovato impiccato nel carcere romano di Regina Coeli. La procura di Roma aprirà questa mattina un'inchiesta per fare luce sulla sua morte. Gli agenti della polizia penitenziaria, che dovevano sottoporre il detenuto a un controllo ogni 15 minuti, hanno trovato il corpo senza vita qualche minuto prima delle 23 di domenica notte. Caiazza, che era in isolamento nel settimo reparto, aveva un lenzuolo stretto intorno al collo che gli agenti hanno subito strappato. Ma era già troppo tardi. L'allarme è scattato intorno alla mezzanotte. All'arrivo di un'ambulanza del 118 per lui non c'era più nulla da fare. Nel pomeriggio il settimo reparto contava 120 detenuti e due soli agenti in servizio. Il pregiudicato ritenuto responsabile dell'omicidio di Giancarlo Nocchia, il commerciante di gioielli e orafo di 70 anni ucciso nel suo negozio in via dei Gracchi a Roma, era stato fermato nella serata di sabato su un treno diretto al Nord. Campano di origine ma da anni residente a Roma, al Tufello, Caiazza viaggiava su un intercity partito da Caserta che doveva portarlo di nuovo nella Capitale. Con sé aveva due revolver, uno in tasca e uno nella borsa. Inoltre è stato trovato ancora in possesso del cellulare della vittima e di alcune dosi di metadone. Probabilmente cercava un posto dove rifugiarsi, al quinto giorno di latitanza. Gli investigatori lo stavano cercando da giorni. I sospetti si sarebbero concentrati su Caiazza fin da subito con i primi risultati dei rilievi tecnici effettuati dai carabinieri del Ris che hanno isolato impronte digitali e tracce biologiche all'interno del laboratorio dell'orafo e su un portagioielli che durante la fuga il rapinatore ha perso in strada. Sebbene braccato, era comunque riuscito a volatilizzarsi lasciando la Capitale la sera del colpo. Per quattro giorni neanche la compagna e i familiari avevano avuto sue notizie. Sabato pomeriggio ha telefonato a un suo amico di Latina spiegandogli che era intenzionato a tornare a Roma per prendere alcune cose e poi ripartire. Così i militari del Nucleo investigativo hanno controllato con personale in borghese tutti i treni diretti nella Capitale e lo hanno fermato su un convoglio partito da Caserta. Capo Dap: detenuto solo cella a sua tutela "Dalle prime notizie trapelate, Ludovico Caiazza aveva precedenti per violenza sessuale e aveva una situazione personale di forte disagio. Per questo, per tutelarlo, non era stato messo a contatto con altri detenuti". È quanto spiega il capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, in merito alla vicenda del presunto killer di Giancarlo Nocchia, il gioielliere ucciso a Roma. "Da stanotte - aggiunge il capo del Dap - sono in costante e diretto contatto per acquisire informazioni su quanto accaduto. Gestire in carcere persone che manifestano un forte disagio individuale, come in questo caso, reso ancor più forte dal fatto che il soggetto era accusato di fatti gravissimi, non è semplice. La polizia penitenziaria svolge un compito delicatissimo. È vero che la compresenza di altri detenuti può aiutare a prevenire una situazione come quella che si è verificata. Ma nel caso specifico ha prevalso, in prima istanza e in attesa di più precisi riscontri, la necessità di tutelare il detenuto, visto che le prime notizie indicavano precedenti per violenza sessuale. E per questo, a sua tutela, si è scelto di lasciare il detenuto da solo". Caiazza era stato fermato e portato a Regina Coeli la sera del 18 luglio. Psicologa: era molto agitato Appena sette minuti. È il lasso di tempo, che passa tra un controllo e l'altro dei detenuti in cella, sfruttato da Ludovico Caiazza per togliersi la vita con un lenzuolo stretto al collo e annodato alla finestra. Quando è stato trovato in quel modo dagli agenti della polizia penitenziaria che hanno provveduto a tagliare il cappio, l'allarme è scattato immediatamente. L'ambulanza è arrivata a Regina Coeli nell'arco di pochissimi minuti ma i soccorsi sono stati inutili. Caiazza, una volta messo piede in carcere ieri pomeriggio, ha avuto un colloquio con la psicologa alla quale non è sfuggito "il forte stato di agitazione" del detenuto. Più tardi c'è stato un incontro di un'ora con l'avvocato d'ufficio. Milano: suicidio in Questura, 22enne si getta dalla finestra del terzo piano Corriere della Sera, 20 luglio 2015 Gianluca Mereu, incensurato, ottimo atleta, nella notte aveva picchiato i genitori: i vicini avevano chiamato la polizia. Stava per essere accompagnato in ospedale. Un ragazzo di 22 anni, Gianluca Mereu, incensurato, è morto domenica mattina lanciandosi da una finestra al terzo piano della Questura di Milano, sul lato prospiciente corso di Porta Nuova. Il dramma è avvenuto alle 7.30, dopo una nottata di tensione: il ragazzo era stato accompagnato in Questura da una volante, dopo che una vicina aveva chiamato la polizia per aver sentito i rumori di una violenta lite in casa. Il giovane, particolarmente muscoloso e atletico, aveva picchiato i genitori con violenza, anche al volto, al punto che la madre si era rifugiata al Commissariato Città Studi per trovarvi riparo ed il padre era scappato a casa del figlio maggiore. Una volta giunti sul posto, gli agenti hanno trovato l'appartamento aperto e vuoto. Mentre procedevano ad una ispezione, vi hanno fatto ritorno il padre e il figlio maggiore che, subito dopo, si è unito ai poliziotti nella ricerca del fratello Gianluca. Il 22enne è stato rintracciato, in forte stato confusionale, nei pressi della chiesa di piazza Bernini: pronunciava frasi farneticanti a sfondo religioso. Convinto dal fratello maggiore e dai poliziotti, Gianluca Mereu è stato accompagnato in Questura alle 6.30 circa. Qui, considerato che il ragazzo continuava ad pronunciare frasi senza senso, non è stato preso in carico dalle camere dei fermati, ma immediatamente sottoposto ad accertamenti da parte del personale 118, nel frattempo fatto intervenire. I sanitari hanno rilevato "parametri medici assolutamente nella norma ed una condizione di apparente serenità del ragazzo" che, tuttavia, continuava a richiedere un aiuto sanitario. Si è quindi deciso di accompagnarlo, con il suo consenso, in ospedale per ulteriori accertamenti. E qui è avvenuta la tragedia. Nel momento di spostarsi verso il cortile interno per raggiungere l'ambulanza Gianluca, con uno scatto repentino da vero atleta qual era, ha imboccato la vicina rampa di scale e, giunto al terzo piano nell'atrio della Divisione Polizia Anticrimine, si è lanciato dall'unica finestra, precipitando su un terrazzamento al primo piano. È morto sul colpo. Un altro equipaggio, alla presenza dei familiari, aveva nel frattempo proceduto ad una perquisizione in casa, dove sono stati trovati circa 70 grammi di marijuana. In casa c'erano anche numerosi attestati sportivi, a testimoniare l'ottima forma atletica del giovane, che aveva praticato thai boxe. Entrambi i genitori recavano i segni delle botte prese dal figlio, ma non hanno parlato di episodi precedenti a quello della notte. La madre, 58 anni, dopo l'aggressione è scappata al commissariato Città Studi. Lì c'era solo il centralinista, a cui ha raccontato che la famiglia aveva cenato e che poi, alle 21, Gianluca era uscito. Alle 4 è rientrato in casa e senza motivo ha colpito i genitori. Sembra che fosse molto agitato. Quando si è presentata in commissariato, attorno alle 4.30, la donna aveva un vistoso ematoma sotto l'occhio sinistro. Il centralinista, raccolta la sua versione, ha chiamato un'automedica: il dottore ha medicato la donna e l'ha riportata a casa. "Non ci sono ipotesi di reato né emergono anomalie dalla ricostruzione dei fatti", ha dichiarato il pm di turno, Tiziana Siciliano, sul posto per gli adempimenti e gli approfondimenti del caso. "È stato un gesto assurdo e imprevedibile - ha proseguito il pm - Il ragazzo era calmo prima di correre verso le scale. Era in mezzo a quattro addetti del 118 e a tre agenti, un numero di persone sufficiente per un caso del genere". E a proposito delle frasi a sfondo religioso: "Stava cercando di capire cosa fare della propria vita - ha continuato il pm - una cosa normale a 22 anni". Solo l'autopsia potrà chiarire se era sotto effetto di stupefacenti. "Il questore Luigi Savina, a nome di tutti gli operatori della polizia di Stato della Questura di Milano, esprime cordoglio per il drammatico evento occorso questa mattina rappresentando la propria vicinanza alla famiglia del ragazzo deceduto", si legge in una nota della Questura. "Ogni accertamento volto a chiarire i dettagli della vicenda è stato puntualmente avviato. Allo stato non sono emersi dubbi o perplessità sulla ricostruzione di quanto accaduto, che è avallata anche dalla visione delle telecamere interne alla Questura". Enna: sevizie in carcere; la direttrice Letizia Bellelli "il detenuto doveva fidarsi di noi" di Josè Trovato Giornale di Sicilia, 20 luglio 2015 Belelli: "Dal momento in cui la madre ci ha fatto capire cosa stava accadendo, siamo subito intervenuti, mettendolo al sicuro e tutelandolo". "Ci addolora molto quello che è accaduto. E ci dispiace che il giovane non si sia fidato di noi: saremmo intervenuti subito. Dal momento in cui la madre ci ha fatto capire cosa stava accadendo, siamo subito intervenuti, mettendolo al sicuro e attuando tutti gli interventi sanitari e per la sua sicurezza per tutelarlo". Lo ha detto Letizia Bellelli, direttrice della casa circondariale di Enna, in un'intervista telefonica all'indomani dell'incredibile notizia riguardante gli abusi, anche a sfondo sessuale, ai danni di un trentenne catanese, recluso per il furto di un motorino e divenuto vittima di violenze indicibili. Lo avrebbero torturato per oltre un mese con l'acqua bollente della pasta, che gli gettavano sui piedi; e poi sulle ustioni spalmavano detersivi, sale, aceto. L'avrebbero stuprato, gli avrebbero spento cicche di sigarette nelle parti intime. E poi lo avrebbero minacciato, per costringerlo al silenzio, che, se si fosse ribellato, avrebbero commesso ritorsioni verso i suoi familiari. In cinque gli avrebbero impedito di uscire dalla cella, nel timore che altri notassero le ferite. Sul caso indaga la Procura di Enna. È stata la madre del detenuto a dare l'allarme. La donna ha cominciato a urlare, notando la gravissima tumefazione a un orecchio del figlio. Immediatamente l'uomo è stato sottoposto ai controlli medici e sono stati scoperti i segni delle sevizie. Il giovane rischierebbe di perdere un piede. Avellino: crisi idrica nelle carceri, dopo le tensioni a Bellizzi esposto del Sappe in Procura Il Sannio Quotidiano, 20 luglio 2015 I problemi legati alla crisi idrica nei penitenziari di Ariano Iipìno ed Avellino, sono stati già oggetto di un esposto alle Procure di Avellino e Benevento da parte del Sappe. Ed è proprio una nota del sindacato della Polizia Penitenziaria a rilanciare il caso, per entrambi i penitenziari: "apprendiamo, con stupore e nello stesso tempo con soddisfazione che è bastato l'incontro tra il rappresentante sindacale Uil-Pa penitenziari ed il presidente dell'Alto Calore Lello De Stefano, per risolvere il problema che era divenuto annoso e drammatico, il Sappe (Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria) primo della categoria, ha più volte lanciato l'allarme su detta questione soprattutto dopo la costruzione dei reparti nuovi nelle strutture penitenziarie di Avellino e Ariano che erano già da sempre in sofferenza per una cronica carenza idrica, figuriamoci adesso che con i nuovi reparti la popolazione detenuta negli istituti in questione è aumentata di ulteriori 300 unità senza alcun potenziamento delle insufficienti e vetuste reti idriche". E continua: "Si porta a conoscenza che il Sappe per quanto riguarda anche la questione idrica dell'Istituto di Ariano Irpino, dopo l'apertura del nuovo reparto, ha presentato un dettagliato esposto-denuncia alla Procura di Benevento competente per territorio, in data 29.01.2015, esposto che verrà riproposto anche alla Procura di Avellino per ciò che concerne alla carenza idrica in relazione alla costruzione del nuovo reparto senza una adeguata previsione di rifornimento idrico cosa questa che si ripercuote sulla qualità detentiva dei detenuti". Santa Maria Capua Vetere (Ce): afa e mancanza d'acqua in carcere, sopralluogo del Pd Gazzetta di Caserta, 20 luglio 2015 La democratica ed il garante dei detenuti chiedono l'intervento della Regione: 1.300 persone vivono un disagio quotidiano. I problemi e i disagi avvertiti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono diventati un vero tormentone dell'estate, e adesso anche la classe politica cerca di trovare una soluzione per la Casa Circondariale sammaritana. Il consigliere regionale del Partito democratico, Enza Amato, e il Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco, hanno visitato il carcere di S. Maria Capua Vetere, "riscontrando immodificato il grave problema di mancata erogazione dell'acqua". "In questa Casa Circondariale - ricordano Amato e Tocco - attualmente ci sono 1.100 detenuti. E con il personale sono 1.300 le persone che vivono quotidianamente tale disagio. L'impianto idrico di questa sede - spiegano Amato e Tocco - non è mai stato al- lacciato alla rete dell'acquedotto comunale, come l'intera area limitrofa, per cui l'acqua erogata viene prelevata da un pozzo semiartesiano e filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione. È del tutto evidente che una soluzione di questo tipo è insufficiente in parti-colar modo nel periodo estivo e per i piani più elevati dei reparti detentivi dove l'acqua praticamente c'è solo nelle prime ore del mattino". "C'è una situazione tesa e difficile e circa 200 detenuti hanno chiesto il trasferimento, pur avendo le famiglie vicino S. Maria. Alcuni li abbiamo incontrati - continuano Amato e Tocco - e ci hanno raccontato che non possono lavarsi tutti i giorni, che l'acqua è razionata, che c'è un problema igienico per le cucine, questo nonostante gli sforzi che la Direzione ha messo già in atto per far fronte all'emergenza ed alleviare i disagi dei detenuti. "Occorre allacciare in tempi rapidi l'impianto alla rete idrica comunale - affermano Amato e Tocco. "Chi non conosce i disagi che comporta la mancanza d'acqua in una normale abitazione anche per un solo giorno? Proviamo ad immaginare cosa accade quando questo disagio perdura da circa venti anni e in un luogo dove convivono oltre 1.000 persone". "Interesseremo della questione anche la Regione Campania - concludono Amato e Tocco - per tentare di sbloccare questa situazione così incresciosa e di mettere in atto tutte le iniziative possibili per far si che un'opera, per cui esiste già un progetto esecutivo, possa essere realizzata in tempi rapidi". Civitavecchia: Casa di Reclusione "Passerini", nasce l'Ufficio Relazioni con il Detenuto Ristretti Orizzonti, 20 luglio 2015 Il progetto, nato da un'idea della Direzione del carcere, costituisce un importante innovazione. Uno Sportello per i detenuti che potranno rivolgersi direttamente per ricevere informazioni agli operatori penitenziari. Si abolisce la storica "domandina" e saranno gli stessi detenuti a recarsi in giorni e orari stabiliti dagli operatori per interloquire con quello di loro interesse: verranno fornite informazioni di routine, sui servizi e lo stato dei procedimenti. Educatori e addetti agli uffici di polizia penitenziaria, Comandante e Direttore potranno essere contattati senza la presentazione della usuale "domandina". Il progetto è stato presentato al personale e ha avuto il suo avvio a luglio giorno in cui sono stati formalmente inaugurati i locali destinati allo Sportello. Volterra (Pi): l'IdV visita il carcere, a favore del mantenimento del laboratorio teatrale gonews.it, 20 luglio 2015 IdV Toscana e la Senatrice IdV Alessandra Bencini in visita alla Casa di Reclusione di Volterra, la struttura carceraria situata all'interno della Fortezza Medicea di Volterra. Opera dall'agosto del 1988 con la Compagnia della Fortezza che, come riportato sul relativo sito ufficiale, nasce come progetto di Laboratorio all'interno della struttura penitenziaria a cura dell'Associazione Carte Blanche, con la direzione del regista e drammaturgo Armando Punzo. La Compagnia produce mediamente uno spettacolo all'anno, presentato sia all'interno della Casa di Reclusione, nel minuscolo teatro Renzo Graziani, una saletta di circa 40 mq, in occasione di stagioni teatrali, festival ed eventi. Molti di questi spettacoli, al pari dell'impegno profuso dai detenuti-attori, sono stati insigniti di premi tra i più ambiti nel mondo del teatro e continuano a riscuotere consensi tra addetti ai lavori, pubblico e operatori. Con piacere e senso di collaborazione Italia Dei Valori Toscana, Continuano Fittante e Bencini, effettuerà la visita presso il penitenziario toscano, per verificare personalmente lo stato dell'arte del progetto ed adoperarsi per la comunicazione di questa fortunata iniziativa che ha dato risvolti sociali anche sotto il profilo della riabilitazione carceraria. Infatti, aggiunge la Senatrice Alessandra Bencini, che conosce il progetto, questo tipo di esperienza ha dato ottimi risultati di riabilitazione dei soggetti sottoposti a restrizione, lo dimostrano le statistiche pubblicate. Considerato che grazie al lavoro promosso dalla Compagnia, la Casa di Reclusione ha smesso di essere percepita dalla cittadinanza limitrofe come corpo estraneo, iniziando un lento ma inarrestabile processo di apertura verso la società civile, e accompagnando il carcerato nel suo periodo detentivo in un percorso artistico e risocializzante. Anche ai sensi dell'articolo 27 della Costituzione l'obiettivo della detenzione è la rieducazione del condannato, la quale può avvenire anche attraverso simili processi riabilitativi. Si chiede di sapere quali iniziative, anche di carattere normativo, intenda intraprendere il Ministro in indirizzo al fine di valorizzare il progetto promosso dalla Compagnia della Fortezza, alla luce delle problematiche succitate; se intenda dotare la Casa di Reclusione di Volterra degli spazi idonei allo svolgimento dell'attività promossa dalla Compagnia alla luce del suo intento risocializzante. Genova: "Angeli con la pistola", al Festival di Verezzi in scena i detenuti di Marassi savonanews.it, 20 luglio 2015 Giunta al suo decimo anno di attività, per la realizzazione del suo ottavo spettacolo, la Compagnia Teatrale "Scatenati" della Casa Circondariale di Marassi, dopo aver affrontato nel corso degli ultimi anni la messa in scena delle più conosciute tragedie shakespeariane (Romeo e Giulietta e Amleto), torna alla commedia musicale con lo spettacolo di nuova produzione "Angeli con la pistola", tratto dal breve racconto di Damon Runyon "Madame La Gimp", che già ispirò Frank Capra per il suo primo film, "Lady for a day", girato nel 1933, del quale il famoso regista fece poi un noto remake nel 1961, con Glenn Ford e Bette Davis protagonisti, dal titolo "Pocketful of miracles". Lo spettacolo verrà portato in scena nell'ambito del 49° festival teatrale di Borgio Verezzi il 20 e il 21 luglio. Ambientate a New York al tempo del proibizionismo, le divertenti vicende di Dave "lo sciccoso" e di Apple Annie, mendicante alcolizzata venditrice di mele, ben si attagliano alla nostra compagnia di attori detenuti, come altrettanto bene si prestano a farne una commedia musicale dai toni ironici e scanzonati. Ancora una volta la scelta del testo cade su temi che, sebbene con la leggerezza della commedia, sono vicini alle storie, così come alle vite, dei nostri insoliti interpreti: truffe, corruzioni e loschi affari sono il quotidiano di Dave "lo sciccoso" e della sua banda che però, delinquenti dal cuore tenero, si adopereranno per realizzare, attraverso indicibili vicissitudini, il sogno della povera Annie: riuscire a sposare la figlia Louise con il discendente del conte spagnolo Alfonso Romero. Una favola: un pò ingenua, forse, sotto la cui semplicità serpeggia però una sorta di morale: ognuno di noi ha una sua propria storia alle spalle più o meno difficile ma, volendolo e con l'aiuto degli amici, può anche avere l'opportunità di sentirsi "signore" per un giorno, come recita il titolo del primo film di Capra, indistinguibile da quei cosiddetti veri "signori" che spesso hanno alle spalle storie molto più imbarazzanti da raccontare. Catanzaro: Premio "Alda Merini", l'Accademia dei Bronzi incontra i detenuti di Siano strill.it, 20 luglio 2015 Il Premio Alda Merini di poesia, promosso dall'Accademia dei Bronzi e dalle Edizioni Ursini, in collaborazione con la Camera di Commercio di Catanzaro, continua a suscitare grande interesse negli ambienti letterari della città, ma anche nelle istituzioni sociali con le quali da alcuni anni Vincenzo Ursini, presidente del sodalizio culturale catanzarese, ha realizzato significative azioni di promozione culturale. Il tutto nella più assoluta gratuità. Dopo aver offerto cento volumi e quaranta film in dvd, in collaborazione con l'associazione "Teura", presieduta da Antonio Montuoro, nei giorni scorsi, infatti, Ursini è stato promotore dell'incontro, all'interno della biblioteca dell'Istituto di pena di Catanzaro, con gli autori che hanno partecipato al premio Alda Merini meritando un attestato di merito e una targa: Francesco Annunziata e Pasquale De Feo. La Direttrice del carcere, dottoressa Angela Paravati, ha riservato ai rappresentanti dell'Accademia dei Bronzi (oltre ad Ursini erano presenti Mario Donato Cosco, G. Battista Scalise, Mauro Rechichi e Antonio Montuoro) un'accoglienza cordiale coniugata ad un'ospitalità calorosa. Nel saluto introduttivo della cerimonia, Paravati ha sottolineato l'importanza della reciprocità relazionale tra carcere e società improntata alla consapevolezza socio-civico-politica. Di grande significato sociale è stato l'intervento di uno dei due ospiti della struttura carceraria, Francesco Annunziata. Nel ringraziare Ursini e l'Accademia dei Bronzi per aver premiato la sua poesia "Incontri", Annunziata ha chiesto al presidente dell'associazione culturale catanzarese di intensificare tali iniziative perché - ha detto - "contribuiscono a rendere più accettabile la nostra condizione, ma soprattutto ci offrono l'opportunità di mantenere vivo il legame con la società esterna, cosa di cui abbiamo indubbiamente molto bisogno". Ursini, nel suo intervento di risposta, ha assicurato l'impegno dell'Accademia dei Bronzi a progettare, programmare e realizzare un serie di attività finalizzate, appunto, alla valorizzazione delle risorse umane e culturali della realtà penitenziaria. Immigrazione: sbarchi in aumento solo dell'8%, i veri numeri sull'emergenza profughi di Fabio Tonacci la Repubblica, 20 luglio 2015 In Veneto 5mila rifugiati, in Sicilia il triplo. Il Viminale: "I primi cittadini disertano le riunioni con i prefetti e poi protestano". La matematica dell'accoglienza non è un'opinione, fin tanto che la politica ne resta lontana. Altrimenti succede che 19 profughi a Casale San Nicola alle porte di Roma sembrino cento, mille, diecimila, una sorta di orda ingestibile. I numeri, quelli veri, ripuliti dalla propaganda di Lega Nord e non solo, raccontano che al momento non c'è stata la tanto paventata invasione dalle coste africane. E anche che il sistema Paese - stando ai calcoli del Viminale - è in grado di sopportare senza andare in stress 140-150 mila richiedenti asilo. Quanti sono quelli accolti oggi? 84.558. Meno della metà di quelli che gestisce la Germania (circa 200mila), un ventesimo di quelli che si accolla il Libano. Per dire. "Tra 500.000 e un milione sono pronti a partire dalla Libia", sosteneva l'agenzia Frontex non più tardi del marzo scorso. In effetti tra gennaio e febbraio si era registrato un aumento degli sbarchi impressionante, + 130 per cento. Stava per materializzarsi la peggiore emergenza immigrazione che l'Italia avesse mai affrontato, si pensava. Al 17 luglio, invece, il dato ufficiale è di 82.932 ingressi. Nello stesso giorno di un anno fa il conto era di 76.634. Siamo a un +8 per cento. In tutto l'arco del 2014 alla fine sbarcarono in 170mila (la metà dei quali scappati nel nord Europa) e quest'anno non ci discosteremo molto da quella cifra, se la progressione degli arrivi continuerà così. E però spuntano lo stesso focolai di tensione, soprattutto al Nord. A Eraclea, a Quinto di Treviso, a Padova. La percezione degli italiani - spiega l'ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti - non è quella prudente che i numeri suggerirebbero: la paura dello straniero è salita di nove punti. Perché? L'Italia oggi accoglie 84.558 richiedenti asilo. In effetti sono il 40 per cento in più rispetto al luglio dello scorso anno, quando lo Stato gestiva la sistemazione per 60.000. È questo il dato su cui soffiano i vari Salvini, CasaPound, Fratelli d'Italia, sindaci e amministratori del Veneto e Lombardia per sostenere la saturazione degli spazi. "Non possiamo permetterci di metterli qui, sono troppi", dicono. Dimenticandosi però che nel frattempo c'è stato il boom delle strutture temporanee di accoglienza, che hanno partecipato ai bandi delle prefetture con un rimborso a ospite di 30-35 euro giornalieri. I posti a disposizione quindi sono molti di più rispetto a qualche mese fa. Eppure il matra è ancora quello: "Non c'è più posto al Nord". Bisogna tornare ai numeri per capire se è davvero così. La Sicilia rimane la regione che sopporta il peso maggiore dell'accoglienza, con 15.067 migranti (18%), seguita dalla Lombardia che ne ospita 9.378 (11%). È migliorato l'impegno del governatore Maroni che fino a qualche mese fa si rifiutava di salire oltre il 7-8 per cento. Ma ancora non basta, considerate le dimensioni e la popolazione della Lombardia. Secondo Luca Zaia il Veneto e i suoi 5 milioni di concittadini non ce la fanno più a sopportare altri profughi, sono al collasso. Eppure ne accolgono appena 5.184, il 6 per cento. In proporzione, il piccolo Molise con 313mila abitanti e 1.287 profughi fa il triplo dello sforzo. C'è chi collabora e chi invece fa finta che il problema non esista. "A Treviso, a Padova, a Venezia, ma anche in alcune zone della Lombardia decine di sindaci e amministratori locali continuano a disertare i tavoli delle prefetture dove si decidono le sistemazioni", dicono fonti del Viminale. Salvo poi organizzare manifestazioni di protesta davanti a quelle strutture dei consorzi e delle cooperative sociali che hanno regolarmente vinto il bando ma si vedono bloccare l'arrivo dei profughi. Da un punto di vista prettamente elettorale, sono proteste che portano consenso. E qui sta il vero punto della questione, il retroscena non detto che spiega perché centinaia di migranti finiscano inspiegabilmente vicino a spiagge e alberghi durante le stagioni turistiche, o in periferie già problematiche, o, ancora, in quartieri residenziali di pregio che temono la svalutazione degli immobili. Nella maggior parte dei casi questo accade perché gli enti locali si sono rifiutati di condividere le scelte. Non hanno partecipato ai tavoli, hanno fatto orecchie da mercante. Di fatto lasciando la scelta nelle mani dei prefetti, che a quel punto decidono in autonomia. "Non ci stancheremo mai di cercare la più ampia partecipazione con sindaci e assessori", dice il prefetto Mario Morcone, a capo del dipartimento per l'Immigrazione. Entro l'estate dovrebbe essere pronto il bando per 10mila posti aggiuntivi Sprar, scritto insieme all'Anci. "E il ministero dell'Interno continuerà a individuare caserme da ristrutturare per aumentare i posti a disposizione". Immigrazione: profughi; in Italia i funzionari Ue, ma i trasferimenti rischiano di saltare di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 luglio 2015 Regole troppo rigide e meccanismi complicati: sembra quasi impossibile distribuire 24 mila profughi negli altri Paesi dell'Ue, come era stato stabilito. Per l'Italia è l'ultima carta da giocare, anche se la partita appare ormai chiusa. Perché alla vigilia della riunione dei ministri dell'Interno fissata per oggi a Bruxelles, sembra davvero difficile, forse addirittura impossibile, riuscire a distribuire 24mila profughi negli altri Paesi dell'Unione, come era stato stabilito. Formalmente si raggiungerà l'intesa, è possibile che nelle dichiarazioni ufficiali tutti esprimano soddisfazione. Ma sulla effettiva realizzazione del piano nessuno è pronto a scommettere. Troppo rigide le regole imposte durante i negoziati tra le varie delegazioni, troppo complicati i meccanismi per il trasferimento degli stranieri. E questo nonostante sia già stato avviato il nuovo programma di foto-segnalamento dei migranti, proprio come era stato imposto dalla Ue: creazione di cinque "hotspot", i centri dove trasferire chi approda, sotto il controllo dei funzionari europei. L'ennesima beffa che costringe i vertici del Viminale a individuare nuove strutture - caserme e altri stabili - dove ospitare i richiedenti asilo, tenendo conto che sono già 85mila le persone presenti e molte altre certamente arriveranno nelle prossime settimane. La linea - ribadita ai prefetti - è quella della fermezza: le proteste dei cittadini non potranno in alcun modo fermare la sistemazione dei migranti nei luoghi individuati. Il limite di due mesi per le istanze L'Agenda messa a punto agli inizi di maggio dalla commissione guidata da Jean Claude Juncker di fatto è fallita. Bocciata quasi subito la proposta di obbligare gli Stati membri ad accogliere gli stranieri, era stato stabilito che si sarebbe proceduto seguendo il criterio della volontarietà. La bozza anticipata nei giorni scorsi, che sarà discussa nel pomeriggio, dimostra però che per le autorità italiane sarà davvero arduo riuscire a ottenere un risultato accettabile. Rimane il vincolo di poter mandare all'estero soltanto eritrei e siriani, ma non è questo l'ostacolo principale. La vera difficoltà riguarda la procedura da seguire per riuscire a realizzare lo smistamento. In appena due mesi di tempo - questo è il limite stabilito - si dovrà presentare la richiesta allo Stato indicato dallo straniero, trasmettere la documentazione che attesti l'avvenuta identificazione e il foto-segnalamento ottenere il via libera. Altrimenti nulla da fare. Un iter che certamente scoraggerà i funzionari degli uffici addetti a questo tipo di pratiche, soprattutto tenendo conto che rappresenterà un aggravio di lavoro senza fornire vantaggi concreti per il sistema dell'accoglienza, visto il numero esiguo di persone da trasferire rispetto a quelle già presenti. I cinque "hotspot" chiesti dall'Europa La marcia indietro dell'Europa sulla collaborazione in materia di assistenza dei profughi non riguarda però gli obblighi di foto-segnalamento. Alcuni dei 44 funzionari delle agenzie europee - Frontex, Europol ed Easo - che dovranno collaborare con i colleghi italiani nell'identificazione dei migranti sono già arrivati. Gli altri giungeranno nelle prossime settimane, seguendo un programma stabilito quando si credeva fosse scontata una distribuzione dei richiedenti asilo tra tutti gli Stati dell'Unione. E lavoreranno nei cinque centri che il Viminale ha individuato per la prima assistenza di chi sbarca. Sono le strutture di Pozzallo, Augusta, Trapani, Lampedusa e Taranto dove gli stranieri vengono accompagnati subito dopo essere approdati sulle coste di Sicilia, Calabria e Puglia e prima di essere poi trasferiti nelle strutture individuate nelle varie Regioni in attesa che si stabilisca se abbiano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiati. Centri di accoglienza in caserme e stabili Terminata questa procedura si procede allo smistamento. Le strutture governative sono al limite della capienza, la mancata cooperazione dell'Europa costringe i vertici del Viminale a reperire nuove strutture: alcune saranno trasformate in centri di prima assistenza, altre serviranno ad accogliere i richiedenti asilo per lungo periodo, cioè in attesa che si completi l'iter dell'istanza. In alcuni casi si è deciso di optare per alcune caserme dismesse e sono cominciati i lavori per la ristrutturazione. Oltre a Messina e Civitavecchia, nella lista compaiono due strutture militari a Montichiari, in Lombardia, e ad Asti e a Treviso. Una scelta, quest'ultima, che ha provocato numerose polemiche e il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale, ha già fatto sapere che nei prossimi giorni sarà in Veneto proprio per cercare di risolvere tutte le questioni che si sono aperte nelle ultime settimane. La linea comunque non cambia, il ministro dell'Interno Angelino Alfano lo ha ribadito anche nei giorni scorsi: le proteste dei cittadini non dovranno modificare le decisioni già prese. Una strategia messa a punto con prefetti e questori nella consapevolezza che nella maggior parte dei casi la rabbia dei residenti è stata fomentata da movimenti di estrema destra come Casa Pound e Forza Nuova, che potrebbero aizzare la folla anche altrove. Immigrazione: tensione anche in Campania, a Roma il dialogo dopo la guerriglia di Mauro Evangelisti Il Messaggero, 20 luglio 2015 È un ricordo lontano il fumo delle balle di fieno andate a fuoco venerdì, nel corso dello scontro tra militanti di estrema destra e polizia che ha oscurato la protesta pacifica degli abitanti. A Casale San Nicola, a nord di Roma, dove in una ex scuola sono stati portati 19 giovani africani richiedenti asilo, è tornata la calma. Ieri, nel comprensorio fatto di belle ville adagiate lungo un viale alberato, c'era silenzio irreale. Per oggi non sono previsti nuovi trasferimenti, ma la linea del prefetto Franco Gabrielli è di applicare, gradualmente, il piano iniziale, che prevede un centinaio di ospiti nella struttura. Il comitato dei residenti, che si è dissociato dai violenti, prova la strada della trattativa. Si è detto disponibile a un incontro in Questura, anche oggi, come confermato con un comunicato. Ma la tensione sull'immigrazione è alta anche in altre zone di Italia. L'altra notte ci sono state proteste molto dure ad Acerra, in provincia di Napoli, per l'arrivo di un pullman con decine di stranieri che dovevano essere ospitati in alcune villette. I residenti sono scesi in strada e hanno bloccato il bus su cui viaggiavano immigrati dell'Africa centrale, sbarcati da poco in Italia. Gli abitanti di Acerra hanno spiegato: "Siamo preoccupati per le condizioni igienico-sanitarie, e per la posizione degli alloggi, in un parco residenziale cittadino". Sono intervenuti gli agenti del commissariato. Il sindaco ha parlato con i contestatori, gli immigrati sono stati portati a Giugliano. In Italia continua il grande caldo e un dirigente della Lega nord ieri ha auspicato l'uso di metodi fascisti, con tanto di liste già pronte di chi deve essere punito, contro il prefetto di Roma, Franco Gabrielli. Si tratta del vicepresidente del consiglio regionale della Marche, Sandro Zaffiri, che su Facebook ha scritto: "Gabrielli, un porco di un comunista al servizio del Pd attento che ti abbiamo segnato sul nostro elenco. Arriveremo. Olio di ricino te ne darei tanto". Numerose le condanne: dal governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, Pd ("Nessuno può permettersi di evocare pratiche fasciste, vergognoso") a quella del Lazio, Nicola Zingaretti, sempre democrat ("Gabrielli è un ottimo prefetto, un servitore dello Stato come ce ne sono pochi"). Indignato il sindaco Marino: "Dal vicepresidente del consiglio delle Marche parole inaccettabili". Pensare che a Casale San Nicola proprio gli abitanti che contestano il centro per i rifugiati si sono dissociati dai violenti. Spiega una di loro, Francesca Sanchietti: "Siamo tutti molto dispiaciuti, siamo tutti sconfitti per ciò che è successo venerdì: noi, lo Stato, quei ragazzi stranieri. Noi non vogliamo il centro perché vi sono delle irregolarità e perché è una zona inadatta, ma vorremmo scusarci con quei giovani immigrati che si sono trovati al centro della contestazioni, non erano loro l'obiettivo della protesta. Difendiamo la legalità. Chi parla di razzismo non conosce questa zona. C'è un problema di numeri: se fossero solo 19, come ora, potremmo parlarne. Ma cento, in un comprensorio di 250 famiglie, in un'area isolata di campagna, rappresenta un impatto non sostenibile". A Roma riparte la trattativa, dunque: da una parte c'è il desiderio di isolare i violenti (che non erano del posto); dall'altra il tentativo di dialogare con le istituzioni ("che non ci hanno mai voluto ascoltare"), per ridurre l'impatto sul quartiere. In altri termini: a Casale San Nicola il copione è assai differente da quello logoro della "caccia allo straniero". Loro, i 19 ragazzi provenienti da Gambia, Nigeria e Bangladesh, anche se ancora spaventati per le pietre lanciate contro il pullman venerdì ("certe scene le avevamo viste solo nei film"), hanno timidamente provato a uscire dal centro, un'ex scuola. Sono a tre chilometri dai mezzi pubblici, i mediatori culturali li hanno accompagnati fino alla stazione de La Storta e alcuni sono andati in centro a Roma. Ieri Marino ha parlato di quanto è successo a Casale San Nicola: "Possiamo noi romani dire no all'accoglienza? Io mi riconosco in quella Roma che ha fatto la fila per portare generi alimentari agli eritrei che altri paesi rimandavano indietro. Noi siamo quella Roma". Messico: una fuga in moto nel tunnel sotto il carcere, così il re della coca è tornato libero di Roberto Saviano L'Espresso, 20 luglio 2015 L'evasione incredibile e spettacolare del "Chapo", boss dei boss messicano, secondo gli Stati Uniti è "il criminale più pericoloso del mondo". Tutto ciò che riguarda El Chapo è spettacolare. El Chapo, ossia "il Tarchiato", chiamato così perché piccolo e tozzo, al secolo è Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, capo del Cartello di Sinaloa, il gruppo criminal-industriale messicano che ha rivoluzionato il mondo della cocaina. È ancora il capo, nonostante l'ultimo anno lo abbia trascorso dietro le sbarre. Spettacolare è stata la sua carriera criminale, spettacolare è stato il suo arresto la notte tra il 21 e il 22 febbraio 2014 e incredibile la sua fuga l'11 luglio 2015. La sua cattura il Messico la seguì con un'apprensione pari a quella per una finale dei Mondiali e superiore a quella di una campagna elettorale presidenziale. El Chapo si trovava nell'hotel Miramar, nel centro di Mazatlán, nello Stato di Sinaloa. Per arrestarlo servì lo sforzo congiunto della Marina militare messicana e della Dea statunitense, due elicotteri e sei unità terrestri di artiglieria eppure, nonostante lo spiegamento di forze, non fu esploso un solo colpo. Non ce ne fu bisogno, perché sembrò che El Chapo avesse deciso di farsi arrestare. Lui, come i boss italiani che studio da anni, raramente si allontanava dal centro del suo impero, dallo stato di Sinaloa che gli ha dato grandezza e offerto protezione, sempre. La cattura del Chapo tutto sembrò tranne che frutto di un lavoro di sola intelligence. Quanto piuttosto una resa, la volontà di togliersi dai giochi - ancora non era chiaro se solo momentaneamente e solo in apparenza - forse a favore delle nuove generazioni di affiliati che minacciavano di farlo fuori. Sconvolse però il luogo dell'arresto, non le montagne della Sierra, ma un residence di Mazatlán, un porto turistico, per nulla lontano dagli sguardi discreti dei sudditi. El Chapo era il re e regnava indisturbato, e protetto. Non era, quello, il primo arresto, così come l'11 luglio non è stata la prima evasione orchestrata da chi gli è vicino. Il motivo probabilmente lo stesso: il timore di essere estradato negli Stati Uniti, da dove mantenere un ruolo di primo piano sarebbe stato difficilissimo se non impossibile. E anche questa volta la fuga, avvenuta attraverso un tunnel sotterraneo, è degna delle migliori sceneggiature di film d'azione. El Chapo e i suoi, del resto, sono maghi nella progettazione e costruzione di cunicoli sotterranei; una settimana prima che fosse arrestato, a febbraio del 2013, le autorità messicane scoprirono una serie di cunicoli che collegavano le sue abitazioni. Quindi l'arte che aveva imparato per far arrivare la droga negli Usa gli servirà nella sua vita spesso, per nascondersi e, naturalmente, per evadere. La fuga dell'11 luglio è stata incredibile e a ripercorrerne le tappe sembra quasi di star raccontando la trama di un film. Solo che questo non è un film e in carcere non c'era un giusto finito per errore nelle maglie della giustizia, ma il re del narcotraffico mondiale, il capo indiscusso del cartello di Sinaloa, che gestisce circa un quarto della droga che entra negli Stati Uniti, definito dal numero uno della Dea di Chicago "il più pericoloso criminale del mondo". Altiplano, a un centinaio di chilometri da Città del Messico, è un carcere di massima sicurezza costruito per ospitare i criminali più pericolosi, quelli che mai da lì avrebbero potuto evadere. Eppure El Chapo ci è riuscito attraverso un tunnel lungo circa un chilometro e mezzo, costruito probabilmente grazie anche alla complicità di alcune guardie carcerarie. Era andato a farsi una doccia e non è più tornato. Dalle docce, dove non è possibile tenere telecamere di sorveglianza, si deve essere infilato - questa la ricostruzione della dinamica - in un buco scavato sul pavimento del diametro di circa 50 centimetri e profondo una decina di metri. Da lì deve essere passato a un secondo tunnel dove avviene il colpo da maestri: i complici di Guzmán sono stati in grado di scavare un tunnel orizzontale lungo un chilometro e mezzo, largo circa 70 centimetri e alto 170, illuminato, ventilato e al cui interno si trovava una sorta di "motocicletta su rotaie", che El Chapo ha utilizzato per percorrere quanto più rapidamente fosse possibile quei pochi metri che lo separavano dalla libertà, dal suo impero e dal trono lasciato vacante. E a noi il rammarico di non aver messo un punto a una delle carriere criminali più incredibili che si potessero raccontare. Non c'è null'altro da dire che questo: il re è tornato. Corea del Nord: qui si rischia l'esecuzione anche per un dvd di contrabbando di Andrea Pira Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2015 La dinastia Kim tra pena capitale e campi di detenzione. L'ultimo rapporto pubblicato dall'Istituto per la riunificazione, legato a Seul, rivela che in 13 anni sono state uccise 1.382 persone ritenute colpevoli di "crimini contro il regime". L'umiliazione pubblica e la successiva esecuzione dell'eminenza grigia del regime nordcoreano Jang Song-thaek, mentore del giovane Kim Jong-un, suonano come un segnale: nessuno può sentirsi al sicuro. Dal 2000 al 2013 sono state circa 1.400 le esecuzioni pubbliche in Corea del Nord. Per la precisione 1.382 secondo i dati compilati dall'Istituto coreano per la riunificazione. Cifre e circostanze delle esecuzioni capitali sotto la dinastia dei Kim emergono dall'ultimo rapporto sullo stato dei diritti umani nella Repubblica democratica popolare di Corea pubblicato dal centro studi legato al governo di Seul. Le informazioni si basano principalmente sulle testimonianze e i racconti di circa 200 esuli e disertori nordcoreani, raccolti tra il 2008 e il 2014. Come spesso accade con le notizie che arrivano da Pyongyang e dal versante Nord della zona demilitarizzata che separa i due Stati, anche i dati di questo libro bianco devono essere trattati con cura, sia per via della difficoltà nel verificare quanto riportato dai nordcoreani in fuga dal regime sia perché le due Coree sono ancora tecnicamente in stato di guerra e ogni informazione può essere letta con le lenti della propaganda, tanto più se proviene da una fonte più o meno vicina a uno dei due governi. Il rapporto presentato a febbraio dello scorso anno dalla commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord aveva comunque già fatto emergere nel dettaglio, se ancora ce ne fosse stato bisogno, le sistematiche violazioni in atto nel paese: dalle migliaia di prigionieri richiusi nei campi di detenzione (si parla di un numero che varia tra gli 80mila e i 120mila) spesso detenuti senza processo, alla violazione dei diritti di parola, di religione, di movimento, fino alle sparizioni forzate e alla negazione del diritto al cibo. È la stessa fotografia del paese data dall'ultimo rapporto del think tank sudcoreano. Come scrivono gli autori del documento dell'Istituto per la riunificazione, le evidenze cozzano con quanto dichiarato dal regime stesso in un recente rapporto presentato proprio all'Onu, nel quale Pyongyang sostiene di ricorrere alle pena capitale soltanto in casi eccezionali. Secondo il libro bianco del centro studi di Seul, i motivi per i quali si rischia di finire davanti a un plotone sono i più disparati. Si parla, ad esempio, di nordcoreani giustiziati per aver guardato dvd di sceneggiati sudcoreani importati di contrabbando. Un gran numero di esecuzioni sono, invece, legate al traffico di droga, così come molte sentenze sono legate a "crimini contro il regime". In generale, la pratica delle esecuzioni pubbliche è considerata un modo per tenere a bada la popolazione: una sorta di avvertimento a non andare contro la dirigenza. Non a caso il picco delle esecuzioni pubbliche si è avuto tra il 2008 il 2009, quando i casi documentati furono rispettivamente 161 e 160. Gli anni di maggior lavoro per il boia e per i plotoni d'esecuzione corrispondono a quelli della malattia di Kim Jong-il. Il 2008 è infatti l'anno nel quale il "Caro Leader", padre di Kim Jong-un, venne colto da un ictus che lo tenne a lungo lontano dalla scena pubblica; circostanza che diede sfogo a indiscrezioni di ogni tipo sulla stabilità del regime e sulla futura successione. Il 2009 fu, invece, l'anno della disastrosa riforma monetaria che aveva gettato il paese nel caos con una drastica svalutazione del won. Morto il vecchio Kim nel 2011 e salito al potere il giovane Kim Jong-un, i numeri delle esecuzioni calano drasticamente. Si è a conoscenza di 21 giustiziati nel 2012 e di 82 morti l'anno successivo. Un bilancio che non si discosta da quello di Amnesty International, che per il 2013 parla di almeno 70 esecuzioni, ossia un decimo delle condanne a morte eseguite in tutto il mondo. Cina: monaco tibetano morto in carcere per "attacco cardiaco", la famiglia è scettica La Presse, 20 luglio 2015 Pechino fa sapere che il monaco tibetano morto la scorsa settimana in carcere, Tenzin Delek Rinpoche, è deceduto per un attacco cardiaco dopo che ha rifiutato più volte di assumere farmaci o di essere visitato dai medici. Lo hanno riportato i media cinesi, dopo che il caso ha nuovamente sollevato preoccupazioni sul rispetto dei diritti della comunità tibetana. Secondo i media di Pechino, il monaco 65enne, sostenitore del Dalai Lama, è stato trovato nella sua cella da una guardia quando ormai non respirava, il 12 luglio. Sarebbe poi morto nell'Ospedale del popolo della contea di Danzhu, nella provincia dei Sichuan, nel sudovest della Cina, vicino alla prigione dove scontava l'ergastolo per "terrorismo e incitamento al separatismo". Nel passato, secondo i media, l'uomo avrebbe spesso rifiutato di essere curato e assumere medicinali. La sorella spiega tuttavia di avere sospetti sulle reali cause della morte, perché le autorità non le hanno spiegato la causa de decesso e il monaco è stato cremato contro la volontà della famiglia, violando anche le tradizioni buddiste tibetane. In precedenza Stati Uniti, Unione europea e gruppi per il rispetto dei diritti umani avevano più volte chiesto il suo rilascio. Siria: Al-Nusra propone scambio prigionieri al Libano, 3 soldati in cambio di 5 detenute Askanews, 20 luglio 2015 Le milizie jihadiste siriane del Fronte al-Nusra hanno chiesto alle autorità libanesi la liberazione di cinque detenute in cambio di tre militari tenuti in ostaggio da oltre un anno. L'offerta è stata avanzata da Abu Malik al Shami, comandante delle milizie nella regione di Qalamun, in un'intervista rilasciata all'emittente libanese Mtv organizzata per permettere alle famiglie dei sequestrati di poter visitare per qualche ora i propri cari, apparsi nelle immagini in buona salute. Al-Nusra tiene in ostaggio 19 tra poliziotti e militari libanesi sequestrati il 2 agosto del 2014 in una località nei pressi del confine siriano; i negoziati con le autorità libanesi per la loro liberazione, condotti con la mediazione del Qatar, sono "quasi interrotti", secondo quanto dichiarato da al Shami.