Una discarica illegale di Michele Ainis Corriere della Sera, 19 luglio 2015 Le carceri italiane violano la Costituzione: non recuperano il detenuto, lo diseducano e la politica rincorre gli umori giustizialisti. Per i penitenziari spendiamo circa tre miliardi l'anno, più degli altri Paesi europei, ma con pessimi risultati. La persistenza dell'ergastolo, la promiscuità fra colpevoli di piccoli reati e criminali incalliti, l'eccesso di leggi penali: ecco i capitoli di un fallimento nazionale. "Abolire il carcere?". Più che una domanda, parrebbe una bestemmia. Oppure un delirio, il vaneggiamento utopico di chi progetti un mondo senza delitti e senza guerre. Ma in un volumetto appena pubblicato da Chiarelettere questa domanda si converte in un imperativo, in un'indicazione perentoria. Anzi: gli autori (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta) vi si riferiscono come a una proposta "ragionevole", in grado di rendere più sicura la vita dei cittadini, non meno sicura. Non sono i primi a immaginare l'impossibile. La medesima proposta fu anche di Giulio Salierno, intellettuale oggi un po' dimenticato, ma di cui certamente si ricordano quanti vissero i nostri ruggenti anni Settanta. Salierno scrisse il primo libro- documento sulla condizione carceraria (Il carcere in Italia, con Aldo Ricci, 1971), pubblicato da Einaudi nella collana diretta da Elio Vittorini: il "Nuovo Politecnico", con quel francobollo rosso che la rendeva inconfondibile. Un saggio e insieme una testimonianza, uno spaccato di vita vissuta. Per raccontare il carcere, possiamo innanzitutto raccontare quella vita. Salierno era nato a Roma nel 1935, da una famiglia di militari e di burocrati. Crescendo a Colle Oppio, che a quel tempo costituiva un'enclave fascista, gli venne naturale diventare fascista a propria volta. Sicché nel 1952 è segretario della sezione giovanile del Msi; si trova coinvolto in pestaggi, scontri di piazza, piccoli attentati contro le sedi del Partito comunista; frequenta Evola, ammira Borghese, Almirante, Graziani. A 18 anni progetta l'azione esemplare: uccidere Walter Audisio, alias colonnello Valerio, che si era assunto la responsabilità dell'esecuzione di Benito Mussolini. Insieme a un altro, una notte cerca di rubare un'automobile, per servirsene poi nella sua impresa. C'è a bordo una coppia di fidanzatini; lui reagisce; Salierno (o forse l'altro) spara. Un omicidio assurdo, come quelli descritti da Camus. A quel punto fugge a Lione, per arruolarsi nella Legione straniera, garanzia d'impunità. Però a Sidi-Bel-Abbès viene catturato dall'Interpol, ed è il primo arresto effettuato nella Legione dopo 153 anni. Perciò Salierno sperimenta le celle algerine: due metri per un metro, con un'altezza d'un metro e 60, sicché non puoi starci in piedi; e là fuori il deserto, la sabbia arroventata. Fra gli altri prigionieri, le prime cellule del Fronte di liberazione nazionale, che in capo a pochi anni restituirà l'indipendenza all'Algeria. Lui solidarizza con quei giovani arabi, ne comprende le ragioni. Un moto umano, prima che politico; lo stesso sentimento che poi riversa sui detenuti delle carceri italiane, dopo la condanna a 30 anni per omicidio a scopo di rapina. Si consuma così la sua conversione. Mentre girovaga per 22 penitenziari, Salierno legge di tutto, prende un diploma da geometra, è il primo detenuto a iscriversi all'università; e diventa comunista. In prigione, a Perugia, scrive un libro (La spirale della violenza); studia i regolamenti carcerari, pretendendone il rispetto; s'erge a paladino dei diritti dei detenuti. Nel 1968, dopo 13 anni di galera, viene graziato da Saragat per i suoi meriti di studioso. E allora il Pci lo esibisce come una Madonna pellegrina, mentre lui - attraverso la casa editrice Einaudi - entra in contatto con i maggiori intellettuali dell'epoca, promuove con Basaglia la chiusura dei manicomi, con Terracini la riforma penitenziaria. Rivestirà anche incarichi accademici nelle università di Trento, Roma, Firenze, Sassari, Teramo; e scriverà altri libri, fino alla morte nel 2006. Che cosa ci racconta questa storia? Che il carcere può ben essere strumento di riscatto; come del resto vuole l'articolo 27 della nostra Carta, secondo cui "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Sennonché Salierno è stato un'eccezione, ha avuto in sorte un'esistenza eccezionale. Nella normalità dei casi le galere funzionano piuttosto come una discarica, come la Nave dei folli (Narrenschiff) immaginata da Foucault, con il suo equipaggio galleggiante lungo i fiumi della Renania, senza mai il permesso di sbarcare in città. Perché in carcere ci vanno i reietti - gli immigrati, i tossicomani, i poveri, tutto il caleidoscopio della marginalità sociale. E loro, quando escono dal carcere, poi ci ritornano: in Italia l'indice di recidiva è al 70%, quando in Svezia rasenta la metà, mediante il ricorso alle pene non detentive e al lavoro esterno. Da qui un fallimento nazionale: spendiamo all'incirca tre miliardi l'anno, più degli altri popoli europei; ne otteniamo in cambio i peggiori risultati. Da qui, inoltre, un'illegalità costituzionale. Perché di fatto la pena detentiva è una vendetta, né più né meno. E d'altronde, se fosse viceversa uno strumento di recupero, come potremmo mai giustificare la pena dell'ergastolo? Eppure la Consulta l'ha giustificata (sentenze del 1974, 1983, 1994), dato che l'ergastolano può ottenere pur sempre la grazia o la liberazione condizionale. Curioso argomento: ragionando così, dovremmo ammettere la pena di morte, poiché il Quirinale può graziarti all'ultimo minuto. O dovremmo difendere l'indissolubilità del matrimonio, senza mai concedere divorzi; tanto, ciascun coniuge ha la possibilità di rimanere vedovo. Ma la nostra Carta qui entra in gioco pure sotto un altro profilo: l'eguaglianza. Vero, le pene hanno una durata diseguale, a seconda della gravità dei reati. Ma vengono scontate in condizioni eguali, nello stesso penitenziario, nella stessa cella dove il ladro di polli dorme di fianco all'omicida. La promiscuità delle carceri è la prima causa del loro degrado. Trasforma il piccolo delinquente in un criminale incallito, come una scuola a rovescio: diseducazione, anziché rieducazione. Stimola gesti d'autolesionismo (o anche i suicidi: 44 nel 2014) dentro il carcere, le recidive fuori. E in conclusione genera l'ossimoro, la torsione logica dei principi costituzionali: la massima eguaglianza, la massima ingiustizia. C'è infine un'ultima ferita ai valori della Carta, la più profonda. Non perché la Costituzione italiana ripudi le galere come ripudia le guerre; anche se l'unico riferimento vi s'incontra nell'articolo 13, ed è un argine all'abuso della carcerazione preventiva. Tuttavia fra quelle norme riecheggia una lezione illuminista, anzi una doppia lezione. Primo: diritto penale minimo. Secondo: carcere come extrema ratio. Che cosa ci è accaduto invece? Che abbiamo in circolo 35 mila fattispecie di reato, sicché rischiamo d'infrangere la legge senza nemmeno sospettarlo. E che in Italia va in galera l'82% dei condannati; in Inghilterra e in Francia il 24%. La domanda è: perché? Risposta: per la pressione dell'opinione pubblica e per la debolezza della politica. Infatti dopo Tangentopoli è montata un'onda giustizialista, che i nostri politici non hanno saputo governare. Da qui la riforma che nel 1992 ha reso impraticabile l'amnistia (servono i due terzi in Parlamento, quando la Costituzione si cambia a maggioranza assoluta). Da qui l'inasprimento delle pene e l'affastellamento dei reati (new entry: l'omicidio stradale). Da qui il sovraffollamento delle carceri (ancora al 118%). Ma la politica sbaglia a inseguire gli umori viscerali dell'elettorato: se vuole edificare un Paese più civile, prima o poi dovrà addossarsi il peso di decisioni impopolari. Se non per abolire il carcere, per abolirne gli abusi. Ergastolo ostativo. Intervista all'avvocato Maria Brucale, della Camera penale di Roma di Barbara Alessandrini L'Opinione, 19 luglio 2015 L'ergastolo ostativo è stato il tema centrale affrontato nell'ultimo recente direttivo di "Nessuno Tocchi Caino". Un argomento delicatissimo di cui è urgente parlare proprio in previsione della riforma dell'ordinamento penitenziario e del confronto avviato con gli Stati generali delle carceri. Perché non ci si dovrebbe mai stancare di ricordare che la pena, la condanna del reo, anche volendo attenersi semplicemente alla nostra Carta Costituzionale, deve avere un fine riabilitativo e mai vendicativo, come al contrario si verifica nel nostro sistema di esecuzione della pena. Alcuni docenti universitari, costituzionalisti, avvocati, oltre a Marco Pannella, Sergio D'Elia, Elisabetta Zamparutti, Rita Bernardini, hanno avviato nella sede del Partito Radicale una seria riflessione sulle attuabili strade per superare l'articolo 4 bis, ritenuto una mostruosità dell'ordinamento penitenziario. Ma hanno anche riproposto all'attenzione l'altro orrore del 41bis, il regime carcerario di rigore di cui non si rispetta quasi mai la natura temporanea così come sarebbe previsto ma che troppo spesso diventa regime permanente in quei casi in cui i detenuti rifiutino il ricatto di condizionare alla collaborazione con la giustizia, alla confessione e alla delazione la possibilità di evitare di attendere la propria morte all'interno di un carcere con un'ora d'aria al giorno. Ne parliamo con l'avvocato Maria Brucale della Camera Penale di Roma, da sempre attenta a quest'emergenza e che al direttivo di Nessuno Tocchi Caino ha preso parte. L'ergastolo ostativo è la pena maggiormente in conflitto con il valore rieducativo che l'espiazione dovrebbe avere secondo la nostra Carta Costituzionale. Questa condanna in cui l'avvenire viene confinato nel passato non è inquadrabile costituzionalmente… "La norma preclude a chi ha commesso determinati reati (cosiddetti reati ostativi), tra cui, primi, i reati associativi, l'accesso ad ogni beneficio penitenziario ed alla liberazione condizionale, salvo che collabori con la giustizia o che la sua condotta collaborativa sia divenuta inutile o inesigibile. L'ergastolo per i reati contemplati dall'articolo 4 bis O.P. si espia per intero. È la morte viva, l'assenza di aspirazione di recupero, di reinserimento o di rieducazione, di proiezione, la sottrazione di qualsivoglia anelito di cambiamento, è apparenza di vita. Il "fine pena mai" o 9999, come si trova scritto ormai negli ordini di esecuzione pena emessi dalle Procure rappresenta la suggestione del numero periodico che si ripete all'infinito; l'indicazione di un tempo che non può arrivare. L'ergastolo ostativo è, dunque, vistosamente incostituzionale. Chi subisce una condanna deve poter dare una proiezione alla sua speranza, individuare un obiettivo certo cui tendere, credere che avrà un'altra opportunità. Neppure il rimorso trova spazio in una pena senza fine; perde ogni utilità l'introspezione, la revisione critica del sé. Altro che rieducazione! Non ha senso la riabilitazione se non ci potrà mai essere restituzione alla società". Sull'ergastolo ostativo come si è pronunciata la convenzione Edu? Prevede articoli che esprimano dubbi o ne condannino l'esistenza? E la Carta di Strasburgo? "Si è soffermato sul tema nel corso del direttivo il professor Davide Galliani dell'Università degli Studi di Milano, coordinatore di un prestigioso progetto di ricerca intitolato "The right to hope. Life Imprisonment in the European Context", cofinanziato dall'Unione europea. "Gli articoli della Convenzione verso i quali l'ergastolo ostativo all'apparenza sembra suscitare perplessità sono il n. 3 (pene inumane e degradanti), il n. 5 (legittimità della detenzione rispetto alla sentenza di condanna), il n. 6 (equo processo), il n. 7 (legalità penale, qualità della legge, prevedibilità) e forse anche il n. 14 (divieto di discriminazioni). Possibili violazioni tra di loro differenti, ma rette da un medesimo filo conduttore: la problematicità dell'automatismo legislativo che rende inumana e degradante e illegittima una pena "senza più colpevolezza", pena tra l'altro difficilmente prevedibile prima di commettere un reato e nella quale svolgono un ruolo di particolare importanza i pareri di soggetti non giurisdizionali (organi requirenti, comitato ordine pubblico e sicurezza), senza considerare le discriminazioni di fatto nei confronti degli ergastolani ostativi. In ogni modo, la Corte di Strasburgo non si è mai pronunciata nello specifico su alcun automatismo legislativo che precludeva l'accesso alle misure alternative, anche perché, non avendolo fatto nei confronti dell'Italia, non poteva certo farlo verso altri Stati del Consiglio d'Europa, non avendo paragoni il nostro articolo 4 bis ord. pen. Nonostante questo, dopo la sentenza Vinter c./Regno Unito del 2013, vi è stato il caso Trabelsi del 2014, nel quale la Corte ha giudicato contrario all'articolo 3 il Life Imprisonment federale degli Stati Uniti, che era riducibile solo in tre circostanze: la grazia e la commutazione presidenziale, motivi di salute e la collaborazione con la giustizia pre e post sentenza, su mozione al giudice del Governo". Molti ergastolani ostativi, peraltro, sono reclusi in regime di 41 bis con ulteriori pressanti limitazioni. C'è un limite temporale alla soggezione al regime di rigore considerando i devastanti effetti che ha sulla salute, anche mentale, del detenuto la permanenza in condizioni di isolamento? "Il 41 bis è nato come misura emergenziale per rispondere alla ferocia delle stragi di Capaci e di via D'Amelio ma la sua presenza nell'ordinamento è diventata immanente e attraverso due riforme normative, nel 2002 e nel 2009, ha attinto una più ampia categoria di reati. In linea teorica, il perdurare delle condizioni di pericolosità del soggetto che renda legittima la sua soggezione alla carcerazione differenziata, dovrebbe essere verificato in termini di attualità ogni due anni ma la realtà è che opera una sorta di presunzione sine die che raramente consente a chi è entrato in 41 bis di uscirne. Nessun limite temporale, dunque, a fronte di una serie indefinita di privazioni e di vessazioni che appaiono biecamente punitive e quasi mai rispondono a logiche effettive di sicurezza: gravi compressioni alla possibilità di leggere, informarsi, studiare; di dipingere, disegnare; impossibilità di cucinare; interruzione pressoché totale delle relazioni con i familiari; limitazioni nel vestiario, nella ricezione di pacchi dall'esterno; accesso all'aria una sola ora al giorno, in uno spazio asfittico e senza cielo; soggezione a censura della corrispondenza e tempi indefiniti per comunicare con i propri affetti; negazione del criterio della territorialità e dunque reclusione in luoghi molto lontani da quello di residenza dei familiari e imprevedibilità dei trasferimenti. Una simile, ininterrotta, aberrante negazione della sfera individuale e della sua possibilità di esprimersi, non può non tradursi in una sorta di deprivazione sensoriale, in un nichilismo che è coatta negazione quotidiana del sé". È di tutta evidenza che infliggere questo tipo di pena a chi non collabora con informazioni o confessioni rappresenta una forma di tortura. "È una forma di tortura, indubbiamente. Lo è in sé la sottrazione della speranza e l'attesa della morte come stillicidio di un tempo che scorre senza immagini nuove. Lo è assai di più se, come nel 41 bis, ti è tolta anche la possibilità di tentare di offrire spazi vivi alla tua mente. Il Comitato anti-tortura del Consiglio Europeo, già nel novembre 2013 aveva intimato all'Italia di adottare le misure necessarie per assicurare che tutti i detenuti sottoposti al regime di cui all'art. 41 bis potessero usufruire di una più vasta gamma di attività mirate, trascorrere almeno 4 ore al giorno al di fuori delle proprie celle, insieme agli altri detenuti presenti nella stessa sezione; accumulare le ore di colloquio a loro spettanti di diritto e non utilizzate; telefonare con maggiore frequenza, indipendentemente dal fatto che avessero o meno effettuato il colloquio mensile. Nulla, però, è cambiato". Cosa prevede o sostiene la convenzione Onu? E la nostra Carta Costituzionale? "Secondo la Convenzione Onu si tratta di tortura: qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenza forti, fisiche o mentali al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni. La nostra Costituzione ripudia la pena contraria al senso di umanità e che mortifichi la dignità del condannato. Citando il professor Andrea Pugiotto, illustre costituzionalista, relatore nell'ambito del direttivo, "La Corte Costituzionale supera le doglianze di stridente incostituzionalità di ergastolo ostativo e regimi detentivi esasperatamente afflittivi, ritenendo il detenuto ostativo libero di offrire la propria collaborazione per superare gli ostacoli normativi. Ecco la clamorosa finzione! È davvero libero un uomo cui sia prospettata l'alternativa tra fornire dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie o aspettare di morire murato vivo in carcere? Di quale libertà si parla se poi anche il regime detentivo è quello duro del 41 bis? È evidente che la vessazione è parte di un ingranaggio attivo dell'investigazione". Al momento l'unico strumento di battaglia sono i ricorsi. Quale bilancio rispetto a quelli presentati alla Corte Europea dei Diritti Umani? "Come ha spiegato il professor Galliani, ad oggi il tema della compatibilità dell'ergastolo ostativo con la Convenzione Europea non risulta affrontato direttamente. Le pronunce che ha citato, tuttavia, rivestono una estrema importanza per l'ordinamento interno. La sentenza "Vinter c. Regno Unito", qualifica l'ergastolo senza possibilità di revisione della pena come violazione dei diritti umani, poiché l'impossibilità astratta della scarcerazione è trattamento degradante e inumano contro il prigioniero. L'ergastolo è in sé, dunque, inumano e degradante se, come per i reati ostativi, non contempla alcuna possibilità di accesso al trattamento rieducativo, con la proiezione di tornare in libertà, diversa dalla collaborazione con la giustizia. La pronuncia successiva, Trabelsi c. Belgio, sembra offrire uno spiraglio interpretativo luminoso: contrario ai diritti umani è in sé il condizionare alla collaborazione con la giustizia (troppo spesso opportunistica delazione), l'accesso alla gradualità del reinserimento in società. La pena, nel tempo, deve poter essere rivalutata in termini di perdurante utilità e rispondenza ai suoi scopi originari. Ove il condannato abbia raggiunto la rieducazione, fine ultimo di qualunque carcerazione, deve essere restituito alla società". A chi interessa lo stato di diritto? di Sergio D'Elia (Segretario di Nessuno Tocchi Caino) Il Garantista, 19 luglio 2015 Il Partito Radicale, "Nessuno tocchi Caino" e "Non c'è Pace Senza Giustizia" hanno proposto allo Stato italiano, in quanto tale, di essere tra i convocatoli della Conferenza Internazionale su "Universalità dei diritti umani per la Transizione verso lo Stato di Diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza", che si terrà il 27 luglio 2015 a Roma presso il Senato della Repubblica. Dopo aver acquisito il patrocinio alla Conferenza del Ministero degli Affari Esteri nel corso di un incontro che alla Farnesina la settimana scorsa tra Gentiloni e una delegazione radicale guidata da Marco Pannella, il Partito Radicale rilancia. Il Partito Radicale rilancia e propone al Governo italiano l'obiettivo più ambizioso della promozione di un'azione istituzionale volta a creare le condizioni politiche per una transizione verso la piena attuazione dello Stato di Diritto e dei Diritti Umani che veda, tra gli altri, l'Unione Europea e la Lega Araba attori attivi di questo processo. Attivare questo processo costituirebbe l'alternativa, ragionevole e concreta, a illusorie vie meramente diplomatiche o, peggio, militariste per far fronte alle continue e gravi emergenze in atto nel mondo, non solo quello arabo-musulmano, ma anche quello cosiddetto libero e democratico. Per questo proponiamo ai massimi rappresentanti dello Stato italiano, dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio e ai Ministri degli Esteri e della Giustizia, non solo di condividere le ragioni e gli obiettivi della Conferenza del 27 luglio, che sicuramente condividono, ma di compiere l'atto conseguente di convocarla e di sostenerla. Non sarebbe la prima volta che lo Stato italiano fa propri e porta a compimento progetti - offerti chiavi in mano dai Radicali. È già accaduto per la Moratoria Onu sulle esecuzioni capitali e per l'istituzione della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra e contro l'umanità. Gli obiettivi di riforma conseguiti con tali progetti sono universalmente riconosciuti, come è da tutti nel mondo riconosciuto il ruolo dello Stato italiano che li ha fatti propri e portati a compimento. Ad oggi, però, non è giunta risposta a questa nostra nuova proposta allo Stato italiano di essere artefice di un'altra riforma, altrettanto necessaria e urgente per tornare ai principi fondativi delle Nazioni Unite di ricerca di pace e stabilità internazionale e a quelli costitutivi di uno Stato di Diritto, democratico, federalista e laico, attraverso il pieno rispetto dei diritti umani fondamentali, a partire da quello che consente ai cittadini di conoscere il processo decisionale e l'operato dei propri Governi, Parlamenti e organizzazioni intergovernative. Non mi meraviglia il silenzio sin qui da registrare dello Stato italiano sulla nostra proposta/offerta di convocare la Conferenza del 27 luglio su Stato di Diritto e Diritto alla Conoscenza, non mi meraviglia perché se di questo nuovo progetto è stata negata la conoscenza al popolo italiano, è probabile che ai suoi massimi rappresentanti, che pur lo conoscono e condividono, non sia risuonata come proposta e "notizia" degna di attenzione. Il regime di democrazia reale, che connota il nostro Paese e che sta alla Democrazia come i regimi di socialismo o comunismo reale stavano agli ideali socialisti o comunisti, ha ormai - da decenni - riflessi automatici: i Radicali, le proposte Radicali, perciò ragionevoli, non devono essere notiziabili. Intervista a Raffale Cantone "il giudice interpreti la realtà, non è un entomologo" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2015 "Il giudice non è un entomologo, vive nella realtà e l'interpretazione consente opzioni diverse fra le quali scegliere". Il presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, interviene nel dibattito sui rapporti fra giustizia ed economia. "C'è un vuoto della politica e della Pa, ma il giudice può valutare, invece di un sequestro che blocca la produzione, una decisione che consenta la prosecuzione dell'attività, con prescrizioni". Presidente Cantone, le sentenze sfonda bilancio della Consulta, i sequestri Fincantieri e Ilva, il dissequestro condizionato dell'Aeroporto di Fiumicino: vicende che hanno fatto riesplodere il conflitto tra diritto ed economia, giudici e imprese. Lei è stato Pubblico ministero, giudice di Cassazione e ora guida un'importante, cruciale, Autorità amministrativa. Quindi, è dall'altra parte della barricata… "In realtà non mi sento affatto dall'altra parte della barricata. L'Autorità che presiedo gode di un'autonomia che la rende diversa da altri organi amministrativi, quindi questo mi fa sentire più vicino all'attività della magistratura di cui comunque faccio parte". A maggior ragione, allora, come vive questo conflitto? "Credo che questo conflitto sia in gran parte apparente e dipenda da un equivoco di fondo: chi parla di un contrasto in atto, paradossalmente finisce per attribuire ai giudici responsabilità e poteri che non hanno né devono avere. Il bilanciamento tra interessi, infatti, spetta al legislatore, che deve individuare quale di questi interessi (ad esempio quello alla salute, al lavoro o alla libertà di impresa) debba prevalere. Attribuire questa responsabilità al giudice significa consegnargli una valutazione di tipo politico. Ovviamente il giudice non è cieco e non vive in un altro mondo o in un iperuranio". Proprio da qui nasce il problema: la crisi economica sembra dare più forza a chi pretende dai giudici di "farsi carico" delle "compatibilità economiche" delle loro decisioni, cioè dell'impatto sui conti pubblici, sulla produzione, sull'occupazione, sull'esercizio d'impresa. Ma è una richiesta "compatibile" con la tutela di diritti fondamentali? E se sì, come? "Ciò che accade nel mondo che ci circonda non può essere considerato un fatto neutro; il giudice non è un entomologo e non deve astrarsi dalla realtà; del resto, noi magistrati abbiamo sempre rivendicato un'interpretazione evolutiva delle norme, che tenga conto, cioè, dei mutamenti della realtà. Nessuna legge, infatti, potrà essere tanto dettagliata da prevedere tutta la casistica concreta e l'idea illuministica del giudice mera bocca della legge è fuori dai tempi. Ovviamente, non si può di certo giustificare l'inapplicabilità della legge né possono accettarsi letture creative che trasformino il giudice in un legislatore. Nei limiti della norma, fra le varie opzioni è possibile individuare una scelta compatibile con la realtà. E quindi, ad esempio, in luogo di un sequestro che comporti il blocco di un'attività, verificare se sia possibile emettere un provvedimento diverso, che, ad esempio, consenta la prosecuzione dell'attività, accompagnato da prescrizioni esigibili e utili a superare le criticità". Ci sono diritti fondamentali incomprimibili, come la salute. I giudici possono chiudere un occhio in funzione di ragioni economiche? "La risposta non può che essere "assolutamente no"; ribadisco, però, che spesso l'interpretazione consente opzioni diverse fra le quali scegliere". Lei presiede un'Autorità con poteri molto penetranti sulla vita delle imprese e che ora collabora con l'Autorità giudiziaria: in questa collaborazione c'è anche uno spazio di valutazione comune sulle compatibilità economiche delle decisioni da prendere o restano ambiti nettamente distinti? "Le nostre decisioni, proprio perché amministrative, e quindi caratterizzate da discrezionalità, possono tener conto anche dell'impatto economico. Nel caso, ad esempio, dell'istituto del commissariamento degli appalti, che aveva destato grande preoccupazione fra gli addetti ai lavori, abbiamo optato per un'interpretazione molto garantista e rigorosa e ci siamo mossi con cautela e in modo chirurgico, utilizzandolo solo quando effettivamente necessario e senza incidere sull'attività complessiva dell'impresa. I commissariamenti fatti, che fra l'altro sono stati in pochissimi casi impugnati dagli imprenditori, hanno forse potuto anche evitare provvedimenti più drastici, come il commissariamento giudiziale di tutta l'impresa, previsto dal decreto 231 del 2001. Su questo aspetto si è riusciti a trovare, in modo informale e senza alcuna concertazione, un giusto equilibrio con l'attività della magistratura". I giudici rivendicano il diritto/dovere di fare il proprio mestiere, il che comporta - soprattutto nel penale - una certa rigidità degli strumenti da applicare, anche nel cautelare. Tuttavia, le Procure vengono accusate di protagonismo e pregiudizio anti-industriale. Lei nota protagonismo e pregiudizio? "Non mi sento di escludere a priori che ci possano essere state ipotesi sporadiche di protagonismo, comunque "corrette" dai riesami o dalla Cassazione. Se, però, si guardano i numeri, non vedo affatto il contestato attivismo anti-impresa. In presenza di una criminalità ambientale in alcuni contesti tanto diffusa, dove sono tutti questi impianti chiusi? I dati numerici potrebbero persino far pensare a una scarsa attenzione per i reati a tutela di salute e territorio". Le risulta che in altri Paesi europei ci sarebbe molta più flessibilità, nel senso che le fabbriche stanno aperte o chiudono solo per decisione della Pa e non dei magistrati? "Non ho elementi e dati certi per affermarlo. Sicuramente in alcuni Paesi c'è meno attenzione verso alcuni tipi di illeciti e, spesso, una legislazione, anche processuale, diversa che non consente facili paragoni. In Italia, fra l'altro, spesso il legislatore produce norme molto rigorose, salvo poi lamentarsi quando vengono applicate. Ti viene il dubbio che certe norme siano volute quasi come un manifesto pubblicitario e non in una prospettiva di concreta applicazione". Quanto pesa l'inefficienza della Pa nelle decisioni cautelari dei magistrati? "Pesa moltissimo ed è questa, spesso, la causa di interventi della magistratura. I controlli e gli interventi amministrativi potrebbero evitare che le situazioni si aggravino. Se nel caso dell'Ilva si fosse intervenuti in via preventiva, decenni fa, non saremmo forse arrivati a questo punto. Se nell'Aeroporto di Fiumicino qualcuno avesse scoperto prima l'esistenza, sotto il tetto, di materiale nocivo alla salute, l'incidente e le sue conseguenze sarebbero stati evitati. L'attività di prevenzione in materia di salute finisce per essere quasi sempre scaricata sulla magistratura, costretta a intervenire ex post e quando ci sono danni già gravi. Nessuno può negare che nel caso dell'Ilva la magistratura sia intervenuta quando già era in atto una situazione di disastro sanitario". Eppure, alcune iniziative politiche e amministrative sono state messe in campo solo dopo lo shock giudiziario. Perché? "Questa è una domanda che vorrei fare anche io. La pubblica amministrazione e la politica avrebbero ragione di lamentarsi se di certi problemi si fossero fatte carico prima. E anche il mondo imprenditoriale che poi lamenta l'interventismo qualche responsabilità pure la ha, nel non essersi fatto carico di alcuni problemi e di non aver proposto soluzioni che, forse, avrebbero potuto persino evitare problemi successivi". Si dice: il giudice deve farsi carico del contesto competitivo e globale in cui operano le imprese… "La magistratura ha certamente una responsabilità per la competitività del sistema Paese ma sotto un altro profilo, quello della rapidità e della prevedibilità delle decisioni che creano quell'indispensabile certezza del diritto di cui hanno bisogno gli operatori economici. Queste sono le contestazioni che anche sul piano internazionale vengono mosse al nostro sistema. Sono responsabilità, però, che vanno divise con la politica che non fornisce risorse e spesso interviene in modo alluvionale sul piano legislativo". Quindi, riassumendo, secondo lei farsi carico delle compatibilità economiche significa esercitare un margine di discrezionalità che finisce per politicizzare l'attività giudiziaria? "Sì. La magistratura che fa valutazioni di opportunità rischia di diventare attore politico. Le scelte di compatibilità sono tipicamente politiche e di esse deve farsi carico il legislatore, anche con assunzione di responsabilità davanti ai cittadini, com'è avvenuto nella vicenda Fincantieri. L'inerzia o l'inadeguatezza politica si scaricano sulla magistratura, che poi, però, viene accusata di supplenza o ingerenza". Come se ne esce? "È questo il paradosso della vicenda. C'è un enorme iato fra le affermazioni di principio e i fatti concreti. Tutti rivendicano una forte autonomia della politica ma poi scaricano sulla magistratura molte delle scelte. Se ne esce, secondo me, con una maggiore autorevolezza e credibilità della pubblica amministrazione e della politica. E un ruolo importante deve svolgerlo anche l'imprenditoria. Se oggi rischiamo di perdere una delle più grandi acciaierie d'Europa è perché non ci sono state scelte chiare in passato e non perché i giudici hanno fatto emergere un bubbone". Legge sulle intercettazioni, i tempi rischiano di allungarsi Il Messaggero, 19 luglio 2015 Si cerca, per l'ennesima volta, di regolare le intercettazioni. Stavolta la riforma è contenuta nel ddl che si occupa di processo penale, ma data la complessità della materia, è possibile che i tempi non siano brevi "a meno che non si decida per lo stralcio", spiega il viceministro della Giustizia Enrico Costa. Il testo dovrebbe andare alla Camera in aula il 27 del mese, per poi riprendere dopo la pausa estiva, ma le polemiche sono roventi dopo la diffusione di presunte intercettazioni riguardanti il presidente della Sicilia Rosario Crocetta. "Sulle intercettazioni servono regole chiare e il Pd per ottenerle andrà avanti come sempre", assicura il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani la quale ammette che sta ancora cercando di capire "quello che sta succedendo (in Sicilia ndr): credo che sia la prima volta che il tema delle intercettazioni venga utilizzato in assenza, forse e addirittura, dell'intercettazione. Bisogna fare chiarezza". Martedì in commissione Giustizia a Montecitorio il governo dovrebbe dare il proprio parere, dopodiché si cominceranno a votare gli emendamenti al testo. La riforma del processo penale contiene diverse deleghe. Ma, in questi giorni più che mai, dopo la pubblicazione delle intercettazioni tra il premier Renzi e il generale Adinolfi, prima, e quelle sul governatore della Sicilia Renato Crocetta, dopo, occhi puntati sull'art. 25. Se, da un lato, nella delega al governo si tende a prevedere la semplificazione dell'impiego delle intercettazioni per "i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione", dall'altro, scatta una stretta sulla pubblicazione delle conversazioni intercettate, specie se riguardano persone estranee alle indagini. Un punto, su tutti, bisognerà chiarirlo: quando fissare l'udienza filtro, l'udienza durante la quale le parti coinvolte, in contraddittorio davanti al giudice, decidono quali intercettazioni vanno ritenute penalmente rilevanti e quali scartate. Nella legge delega non ci sono "paletti" su quando mettere in atto la selezione delle intercettazioni. C'è, poi, un Altro passaggio della legge delega che però potrebbe essere soppresso. È quello che prevede la non pubblicabilìtà dei dati relativi al traffico telefonico, telematico e informatico: l'emendamento soppressivo porta la firma del M5S. Lettere: pour parler di carcere di Gemma Brandi (Psichiatra psicoanalista, Responsabile Salute in carcere AS di Firenze) Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2015 Ho avuto modo di ascoltare e leggere in successione alcuni commenti sugli ormai dibattuti Stati Generali della Esecuzione della Pena. Il primo a dirne pubblicamente, con una punta di entusiasmo e una dichiarata speranza, fu lo scorso 19 Maggio a Parma il Provveditore della Emilia Romagna, Dottor Pietro Buffa. Eravamo relatori all'interno della brillante iniziativa Dolore in bellezza che in quella città organizza annualmente la Dottoressa Maria Inglese, giovane psichiatra attiva nel carcere cittadino, in collaborazione con la Cattedra di Scienze Sociali. Il Provveditore arrivava da Milano, dove aveva partecipato all'incipit degli Stati Generali e confidava nella possibilità che fosse questo un modo per convogliare la debita attenzione sul carcere e promuovere scelte innovative utili. Ho poi letto il commento della Dottoressa Antonella Tuoni, Direttore del destruendo Opg di Montelupo Fiorentino, che si interrogava sulla assenza degli organi penitenziari alla presidenza dei diciotto tavoli, mettendo in guardia dal rischio di escludere gli operatori del settore dal dibattito sulla Esecuzione Penale. A questo si è aggiunto il parere di chi ha deprecato lo scarso coinvolgimento degli ospiti, loro malgrado, delle carceri italiane. Né si può considerare sufficiente al riguardo che qualcuno si sia premurato di raccoglierne le richieste e le considerazioni prima dell'avvio dei lavori, essendo il pubblico scambio di idee sui temi in gioco a rendere interessante una qualsiasi partecipazione, essendo la presenza là dove si discute a rendere proficuo il confronto. L'interposta persona è quanto più danneggia chi soffre di un eccesso di rappresentanza, tra questi i detenuti e chi non ha raggiunto la maggiore età. Aggiungo una mia sottolineatura: qualcuno ha pensato a quanto sia importante il tema della salute in un carcere in cui la tossicofilia investe una percentuale da brivido della popolazione, in cui la malattia mentale interessa la metà degli ospiti (come peraltro nelle altre carceri del mondo), in cui esplode quotidianamente la sofferenza delle gens sans aveu, degli uomini senza padrone che vengono gettati in barche della disperazione, trasformate in novelle navi dei folli? Come e in che misura sono stati coinvolti i sanitari del settore nei tavoli chiamati a trattare il tema? C'è da confidare che, tra i tavoli 10 e 11 a qualcuno venga in mente di prendere in considerazione gli effetti immediati della Legge 9/2012 e della Legge 81/2014: quelli scontati, che comportano l'invio in carcere, poco importa se in sezioni psichiatriche, peraltro non istituite, i soggetti cui sia applicato l'articolo 148, gli osservandi e i minorati psichici che un tempo soggiornavano in Opg (un bel salto di qualità assistenziale, senza dubbio!); quelli meno scontati, che hanno visto aumentare, per l'atavico scollamento tra assessment peritale e assistenza psichiatrica, tanto il numero di soggetti da ospitare nelle Rems, quanto il numero di folli dichiarati seminfermi e spediti in carcere nelle sezioni ordinarie. Sappiamo bene che taluni desiderano sopprimere anche le Rems e fare del carcere il luogo in cui i malati di mente avranno infine il diritto di scontare la pena, ma si tratta dei vari qualcuno che di carcere e soprattutto di responsabilità della cura in carcere non sanno un'acca, che semmai in carcere vanno per cavalcare una protesta fruttuosa per i loro destini. E ora che qualcuno non risponda, vi prego, che sono state invitate le società scientifiche, noti esperti o docenti universitari che non hanno mai calpestato il marciapiede del carcere! Non ritengo che coloro che hanno levato la loro fondata protesta sulla costituzione dei tavoli (la cui composizione, a parte i responsabili, non mi pare peraltro essere stata resa pubblica) lo abbiano fatto per il desiderio narcisistico di essere chiamati a prendervi parte, bensì per interesse alla qualità futura del loro lavoro e del loro benessere, nonché per il dovere civico di segnalare una assenza, visto che un posto occupato male è peggio di un posto vuoto e visto che solo chi conosce a fondo i temi da trattare, per viverli al di qua o al di là delle sbarre quotidianamente, potrebbe contribuire alla stesura di norme utili alle pratiche del settore. Troppe persone in questo Paese parlano di quello che non fanno e, tra quelli che fanno, troppi non parlano del loro operato. È uno dei mali di una Italia in cui le competenze sono spesso considerate frutto di una osservazione della esperienza altrui più che della esperienza sul campo, di una Italia in cui il pour parler e la presunzione hanno la meglio sulla sequenza pensiero, convinzione, azione, con i risultati che siamo costretti a vivere sulla nostra pelle tutti, i detenuti tra i primi, visto che il carcere anticipa e distilla i problemi in fieri di ogni società. Lettere: l'abbraccio che solo l'Italia regala ai figli dei detenuti di Agnese Moro La Stampa, 19 luglio 2015 "Mi chiamo Sara, ho 17 anni e un padre - al quale sono molto legata - che ha trascorso tanto tempo in carcere. Varcare il portone ed entrare nella sala di attesa, prima del colloquio, mi ha sempre stravolto l'anima, divisa ogni volta tra il desiderio di riabbracciare mio padre e il senso di soffocamento che quel luogo mi provoca: mi sembra che le pareti si stringano, che i corridoi del carcere si trasformino in paludi dalle sabbie mobili, mentre i rumori mi rimbombano nella testa. Gli anni passati tra il fuori e il dentro di mio padre sono stati, con l'arrivo della mia adolescenza, un crescendo di sensazioni, frustrazioni, traumi ed ansie, che mi hanno trascinata, inconsapevolmente, verso la solitudine. Mi sono chiusa in casa, ho iniziato a frequentare la scuola a singhiozzo e a passare poco tempo con i miei amici, i ragazzi della mia età. Con l'arrivo della "Carta dei figli dei genitori detenuti", mio padre è uscito per alcune ore e ha festeggiato, per la prima volta dopo tanto tempo, il mio compleanno a casa insieme a me. La sua presenza tra le pareti domestiche mi ha tirata fuori dall'incubo in cui mi ero cacciata, mi ha fatta di nuovo sorridere, mi ha dato la sensazione di una boccata d'aria fresca respirata di prima mattina. Ho capito che a piccoli passi potevo riprendere la mia vita di ragazza". In Italia grazie alla "Carta dei figli dei genitori detenuti" - il Protocollo d'Intesa firmato lo scorso anno dal Ministero della Giustizia, dall'Autorità Garante dell'Infanzia e dell'adolescenza e da "Bambini senza sbarre" - ai figli di genitori detenuti è riconosciuto il diritto al mantenimento e alla continuità del legame affettivo con loro. E al genitore il diritto alla genitorialità. Questo è possibile per i centomila bambini e adolescenti italiani figli di genitori detenuti. Si tratta di un caso unico in Europa: negli altri Paesi i minori non hanno questa stessa opportunità. Per questo Sara di Bambini senza sbarre ha lanciato un appello alle Istituzioni europee perché la Carta sia estesa a tutti i figli di genitori detenuti d'Europa. Possiamo sottoscriverlo all'indirizzo change.org cercando la petizione "Non un mio crimine, ma una mia condanna". Sardegna: detenuti psichiatrici, a Capoterra nascerà la prima residenza sanitaria La Nuova Sardegna, 19 luglio 2015 L'alternativa all'ospedale psichiatrico giudiziario sarà presto realtà: una residenza sanitaria per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) sarà inaugurata a Capoterra. Ieri mattina la firma dell'accordo tra l'assessore regionale alla Sanità Luigi Arru e il prefetto di Cagliari, Giuliana Perrotta. "La Regione ha detto il titolare della Sanità - è tra le prime in Italia ad aver attivato la struttura residenziale psichiatrica alternativa all'Opg, come previsto dalla legge 81/14". Con questa intesa l'assessorato e la prefettura si impegnano a mettere in atto le misure di sicurezza all'interno della struttura, per il benessere dei pazienti e degli operatori, e allo stesso tempo per garantire la sorveglianza all'esterno. La Regione ha scelto come sede per la Rems il polo della Rsa già esistente di Capoterra. La struttura è affidata al Dipartimento di Salute mentale della Asl 6 di Sanluri. "Grazie a questo passaggio - ha commentato l'esponente della giunta Pigliaru - si dà la possibilità alle persone internate negli Opg della penisola di rientrare in Sardegna per iniziare percorsi di cura nella comunità di Capoterra. Il progetto della Rems non ha solo una valenza terapeutica ma rappresenta un cambiamento culturale di grande portata". La Rems sarà uno dei nodi della rete assistenziale che è costituita da centri di salute mentale, comunità terapeutiche e psichiatria forense. Per raggiungere questo obiettivo l'assessorato ha collaborato con la magistratura, il dipartimento di amministrazione penitenziaria e gli ordini degli avvocati. All'interno della Rems sarà assicurata agli ospiti protezione e sicurezza, e verranno attivati processi di cambiamento attraverso percorsi partecipativi alle attività della residenza. I pazienti saranno impegnati in attività psico-educazionali e di psicoterapia individuale e di gruppo, interventi riabilitativi quali musicoterapia, arte terapia, attività manuali e sportive. Milano: la Confederazione Italiana Agricoltori porta "Semi in libertà" ad Expo globalpress.eu, 19 luglio 2015 Anche in Italia saranno presto riconosciuti agli agricoltori i cosiddetti diritti fitogenetici "on-farm" e il cammino per una concreta applicazione del protocollo di Nagoya (accesso alle risorse genetiche ed equa condivisione dei benefici derivanti dal loro utilizzo) è vicino al traguardo. L'annuncio arriva da Anabio, l'associazione dei produttori biologici aderenti alla Cia-Confederazione italiana agricoltori, che oggi tiene la sua "Giornata" in Expo, al Teatro della Terra all'interno del Biodiversity Park. Un'intera giornata dedicata alla biodiversità, alle produzioni bio, alla rinnovata alleanza tra uomo e ambiente, dove "nutrire il pianeta, energie per la vita" diventa "rispettare il pianeta, per nutrire la vita". La giornata è scandita da una tavola rotonda e dall'assemblea nazionale di Anabio, alla quale partecipano tra gli altri il presidente della Cia Dino Scanavino, il vicepresidente vicario Cinzia Pagni, il presidente di Anabio Federico Marchini, il viceministro alle Politiche Agricole Andrea Olivero, il rappresentante della Fao Mario Marino, le parlamentari Susanna Cenni e Alessandra Terrosi, nonché i presidenti delle altre associazioni biologiche italiane (Federbio, Aiab, Assobio, Città del Bio). Da questo think-tank emerge chiarissimo il profilo di una nuova agricoltura che si fonda su tre pilastri: la biodiversità la sua tutela e la sua diffusione, il biologico come sistema avanzato e sostenibile di coltivazione, l'agricoltura multifunzionale e custode. È il perimetro che viene tracciato dall'azione di Anabio che proprio oggi annuncia un decisivo passo avanti nel riconoscimento dei diritti fitogenetici on-farm. "È un passo decisivo - afferma il presidente di Anabio, Federico Marchini - per tutelare il lavoro degli agricoltori che difendono le sementi autoctone, che valorizzano e custodiscono la biodiversità, che operano per diffondere la biodiversità. Ed è anche il solo strumento per arginare il monopolio dei semi detenuto da quattro multinazionali che da sole producono il 70% delle sementi nel mondo. Possiamo dire che oggi qui a Expo Cia e Anabio portano semi di libertà". Avellino: Uil-Pa; risolta l'emergenza idrica a Bellizzi, resta l'allarme per Ariano Irpino ilciriaco.it, 19 luglio 2015 "Questa mattina mi sono recato presso la Casa Circondariale di Avellino per assumere in via diretta quale fosse la situazione a seguito dei disordini verificatisi giovedì nella sezione A.S - afferma Eugenio Sarno Segretario Generale Uilpa Penitenziari -. Protesta scoppiata a seguito della sospensione della fornitura idrica. In primis ho potuto rilevare ed apprezzare la grande disponibilità e professionalità del personale di polizia penitenziaria in servizio quella notte, ma anche delle unità che sono accorse libere dal servizio per riportare la calma e ripristinare l'ordine. Con sollievo ho appreso che le condizioni del Sovrintendente, che dovette ricorrere alla cure ospedaliere per un principio di intossicazione da fumi, sono in netto miglioramento. Nel corso della visita ho incontrato il Direttore Pastena con il quale abbiamo condiviso l'apprezzamento per l'intervento dell'Alto Calore che garantirà nel futuro una costante erogazione di acqua senza prevedere più alcuna sospensione. Per tale ragione ho incontrato il Presidente De Stefano, a cui ho partecipato il compiacimento della Uil-Pa penitenziari per aver risolto un problema che aveva indubbi risvolti di ordine igienico sanitario ma anche di ordine pubblico. Se, però, la situazione dell'approvvigionamento idrico al carcere di Bellizzi Irpino può definitamente essere considerata risolta, restano inalterate le problematiche afferenti all'erogazione di acqua al cercare di Ariano Irpino. Una situazione, per stessa ammissione dell'Amministrazione Penitenziaria, di difficile risoluzione considerato che non esiste alcuna mappa della rete idrica interna (Ariano è tra le c.d. Carceri d'oro) che pur necessità di interventi immediati atti a tamponare le numerose perdite. Per queste ragioni il Provveditore Regionale, Contestabile, ha incaricato l'Ufficio Tecnico del Prap a redigere un progetto che preveda il rifacimento ex novo dell'intera rete idrica del carcere del tricolle. Mi pare evidente che questo impegno deve essere portato a termine nel più breve tempo possibile e non mancherò di sollecitare il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e lo stesso Ministero della Giustizia a garantire l'appostamento dei fondi necessari per la realizzazione dell'opera". Report di Nessuno Tocchi Caino "pena di morte, c'è chi l'abolisce e chi ancora la pratica" La Repubblica, 19 luglio 2015 Il resoconto di Nessuno Tocchi Caino rende note le decisioni di diversi governi in materia di condanne a morte, ma anche di decisioni volte al superamento o la commutazione della pena capitale con altre forme di pena. Il periodico resoconto di Nessuno Tocchi Caino - Ong italiana attiva a livello internazionale, affiliata al Partito Radicale Transnazionale, il cui principale obiettivo è l'attuazione della moratoria universale della pena di morte - rende note le decisioni di diversi governi in materia di condanne a morte, ma anche di decisioni volte al superamento o la commutazione della pena capitale con altre forme di pena. Zambia. Il presidente dello Zambia, Edgar Lungu, ha ridotto in ergastolo le condanne di 332 detenuti nel braccio della morte per risolvere il problema del sovraffollamento nella sezione di massima sicurezza del carcere di Mukobeko. Durante una visita alla prigione, che si trova a circa 180 km a nord di Lusaka, Lungu ha detto che è inaccettabile ospitare centinaia di persone in una sezione con una capienza di 51 detenuti. "È ovvio - ha detto Lungu - che si tratta di un affronto alla dignità umana a parte i problemi sanitari e igienici che il sovraffollamento ha creato". I reati passibili di pena di morte includono omicidio, tradimento e rapina a mano armata, anche se lo Zambia non ha giustiziato nessun prigioniero dal 1997. Italia. Il Partito Radicale, Nessuno tocchi Caino e Non c'è Pace Senza Giustizia hanno proposto allo Stato italiano, in quanto tale, di essere tra i convocatori della Conferenza Internazionale su "Universalità dei diritti umani per la Transizione verso lo Stato di Diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza", che si terrà il 27 luglio 2015 a Roma presso il Senato della Repubblica. Dopo aver acquisito il patrocinio alla Conferenza del Ministero degli Affari Esteri nel corso di un incontro che si è svolto alla Farnesina la settimana scorsa tra il Ministro Paolo Gentiloni e una delegazione radicale guidata da Marco Pannella, il Partito Radicale rilancia e popone al Governo italiano l'obiettivo più ambizioso della promozione di un'azione istituzionale volta a creare le condizioni politiche per una transizione verso la piena attuazione dello Stato di Diritto e dei Diritti Umani che veda, tra gli altri, l'Unione Europea e la Lega Araba attori attivi di questo processo. Usa. Il Presidente Barack Obama ha tagliato le pene detentive di 46 persone condannate per reati non violenti, cinque delle quali all'ergastolo, perché le loro punizioni erano esagerate rispetto al crimine commesso. "Come ex assistente del Procuratore Generale degli Stati Uniti e avvocato penalista - ha detto Obama in un annuncio televisivo - so bene come le condanne a livello federale possano, in troppi casi, portare colpevoli per fatti non violenti di droga a trascorrere decenni, se non la vita, in carcere. In alcuni casi, la pena prevista dalla legge è stata sproporzionata rispetto al reato". Obama ha finora concesso 89 commutazioni durante la sua presidenza, 76 delle quali nei confronti di condannati per reati di droga in base alle direttive severe messe in atto alla fine del 1980 quando il Paese era alle prese con l'epidemia di crack. Il record di Obama. È il record di commutazioni registrato in un solo giorno dai tempi del Presidente Lyndon B. Johnson e le 89 condanne commutate da Obama finora superano il totale complessivo di commutazioni concesse dai Presidenti Ronald Reagan, George Bush, Bill Clinton e George W. Bush messi insieme. Queste commutazioni vanno inquadrate nel tentativo dell'amministrazione Obama di ridurre i costi e il sovraffollamento delle carceri federali e dare un po' di sollievo ai detenuti. Ma è solo una goccia d'acqua nel mare della popolazione detenuta negli Stati Uniti, i quali hanno meno del 5 per cento della popolazione mondiale, ma - occorre ricordarlo - hanno quasi il 25 per cento della popolazione carceraria totale del mondo. Belize. Il 44enne Glenford Baptist, ultimo prigioniero nel braccio della morte del Belize, ha appreso questa mattina che la sua condanna all'impiccagione verrà commutata. Baptist uccise un uomo nel 2000 e fu condannato a morte pochi mesi dopo assieme ad altre due persone. Altri prima di lui, come Patrick Reyes, Earlin White, Adolph Harris, Patrick Robateau e Leslie Pipersburgh hanno beneficiato di una riduzione della condanna. I due motivi per i quali Baptist aveva presentato ricorso erano il grande intervallo di tempo tra la sua condanna e l'appello in corso, circa 13 anni e 8 mesi, che costituisce una violazione dei suoi diritti costituzionali di cui alla sezione 7 di non essere trattato in modo disumano, e la sua condanna a morte automatica per l'omicidio con arma da fuoco, scorretta sulla base del caso di Patrick Reyes e della Regina su cui si è pronunciato il Privy Council nel 2002. Esecuzioni ferme da 30 anni. L'udienza per la determinazione della nuova sentenza di Baptist è fissata per ottobre. Nel 2000, Baptist insieme con l'ormai defunto Gilroy Wade e Oscar Catzim Mendez furono accusati di aver ucciso Azrin White come vendetta per un presunto rapimento. L'allora giudice della Corte Suprema e attuale procuratore generale Wilfred Elrington pronunciò le condanne a morte nel novembre del 2001. Presso la Corte d'Appello, Mendez vinse mentre Wade e Baptist videro respinte le loro istanze. Wade fu poi vittima di un omicidio in prigione nel novembre del 2007. Il Belize non pratica esecuzioni capitali da 30 anni, l'ultimo ad essere giustiziato fu Kent Bowers, tuttavia la pena di morte resta in vigore nel Paese. Egitto. L'Osservatorio dei Diritti e delle Libertà egiziano ha reso noto che i tribunali militari e civili del Paese hanno emesso 92.420 condanne contro cittadini egiziani durante il primo anno di mandato del presidente Abdul Fatah Al-Sisi, tra cui 464 condanne a morte. In un rapporto sulle violazioni del giusto processo in Egitto, l'Osservatorio ha riportato che i tribunali civili egiziani hanno emesso i loro verdetti in 570 casi ed i tribunali militari in altri 17. Secondo il rapporto, 92.420 egiziani sono stati condannati da tribunali militari o civili. Condannate a morte per 464 persone. Dei 464 cittadini condannati a morte, sette sono già stati giustiziati. Il documento riporta inoltre che altri 4.800 sono stati condannati a complessivi 39.040 anni di carcere, mentre 772 sono stati condannati all'ergastolo. I tribunali, continua il rapporto, hanno assolto 3.457 egiziani. Altri sono stati esonerati dalle proprie condanne e 214 sono quelli cui sono state comminate nuove condanne. Inoltre, i giudici hanno fissato cauzioni per circa 16.800 dollari. Ma l'immigrazione non è un'emergenza di Chiara Saraceno La Repubblica, 19 luglio 2015 C'è sicuramente razzismo nelle proteste degli abitanti dei quartieri di Treviso e Roma che si sono visti arrivare tra le proprie case, da un giorno all'altro, decine di immigrati, spesso alloggiati in condizioni di degrado (a Treviso mancava persino l'acqua e l'elettricità). Ma ci sono anche i mestatori politici che non aspettano altro per soffiare sul fuoco dell'insofferenza e della paura. Ed è inaccettabile che si impedisca persino, come è avvenuto a Treviso, la distribuzione del cibo a chi è arrivato senza nulla. Ma c'è soprattutto la reazione di chi sente le condizioni della propria vita quotidiana minacciate da un terremoto sociale improvviso, da decisioni di cui si sente ed è vittima, senza essere stato consultato e tanto meno preparato. È in larga misura la conseguenza dell'insipienza, del pressapochismo del governo e del ministero degli interni, che sembrano continuare a trattare gli arrivi dei migranti, per lo più fatti sbarcare sulle nostre coste dalle navi di soccorso, come un fenomeno imprevedibile e imprevisto. Nel migliore dei casi si invitano le regioni, i comuni, i prefetti, a trovare alloggi, con l'unico criterio della distribuzione numerica, non anche con quello della analisi dei contesti, degli equilibri numerici più adeguati, delle necessarie misure di sostegno non solo ai migranti, ma alla popolazione che deve accoglierli. Mentre si chiede insistentemente che l'Europa faccia la sua parte, lo Stato italiano non fa la sua. Anzi, si comporta con gli enti e le comunità locali esattamente come rimprovera all'Europa, scaricando, letteralmente, su di loro la responsabilità di trovare soluzioni senza alcuna preparazione o preavviso, con le prefetture che spesso non sembrano capaci di interloquire con i governi locali e questi con le loro comunità, dove la soluzione più facile e ovvia sembra spesso quella di trovare qualche edificio degradato, qualche quartiere periferico già in sofferenza di cui non ci si preoccupa di aumentare il disagio e le tensioni. Sta succedendo, in modo molto più massiccio e rapido, quello che era avvenuto negli anni Ottanta e Novanta in molti quartieri di edilizia popolare nella grandi città, quando gli abitanti appartenenti a un ceto di lavoratori a reddito modesto, che avevano conquistato la sicurezza di una abitazione dignitosa, videro progressivamente modificare le caratteristiche dei propri vicini, man mano che in quei quartieri venivano concentrati, dalle politiche pubbliche, tutti i possibili "casi sociali", con un peggioramento consistente della qualità della vita e talvolta della sicurezza dei vecchi abitanti. Sono ovviamente d'accordo che i migranti in attesa delle verifiche del loro status (non sto parlando di quelli regolari, come invece fa sempre il governatore del Veneto, equivocando a bell'a posta) siano distribuiti sul territorio, alleggerendone il peso che grava sproporzionatamente sulle regioni meridionali e sul Lazio. La questione è che occorre arrivarci in modo non emergenziale, pensato e costruito come un processo complesso, che deve riguardare non solo i migranti, ma anche le comunità che li accolgono. Non si possono modificare dall'oggi al domani le caratteristiche sociali di un quartiere, mandandovi cento alla volta migranti spaesati, che non conoscono la lingua né gli usi del posto, che devono ricostruire una normalità in un contesto estraneo. Come sanno anche le cooperative sociali più serie che si occupano di migranti, non si può fare accoglienza seria e tanto meno attività di integrazione a livello di massa, ma solo con piccoli numeri. Ciò vale anche per i quartieri, i cui abitanti, inoltre, non possono essere considerati semplici ricettori di decisioni prese altrove, senza consultarli. Come mostrano i casi più virtuosi, e ce ne sono, occorre un lavoro paziente di negoziazione e di costruzione di percorsi condivisi, che garantisca accompagnamento al processo e anche contropartite a chi legittimamente pensa che il valore della sua casa crollerà o chela sicurezza complessiva sarà indebolita. E possibilmente evitando di coinvolgere quartieri che hanno già grossi problemi e in cui lo Stato non è molto presente. Non si elimineranno i conflitti, ma se ne conterranno le forme più estreme e, soprattutto, si restituirà sia ai migranti in attesa di decisione sia ai cittadini tra cui vanno a vivere la dignità di essere trattati civilmente, da soggetti responsabili. Altrimenti il razzismo continuerà a funzionare da copertura per una politica insipiente e i mestatori e predicatori d'odio avranno buon gioco per le proprie scorrerie. Migranti sotto choc a Roma "chiusi qui, come in prigione" di Carlo Lania Il Manifesto, 19 luglio 2015 "Ma che ci faccio io qui dentro? Questa è una prigione e io non ho fatto niente: non posso uscire, non posso neanche attraversare questo cancello perché subito mi fermano. Sai che ti dico? Anche se il posto è bello io domani scappo e torno dove stavo prima, sulla Tiburtina, lì almeno potevo muovermi". Ha solo 18 anni, viene dal Mali e ha voglia di parlare. "Però niente nomi", dice in francese da dietro la piccola recinzione che circonda l'ex scuola Socrate di Casale San Nicola, il centro accoglienza contro il quale da tre mesi gli abitanti della zona si battono tanto da scontrarsi, 48 ore fa, all'arrivo dei primi 19 profughi, con le forze dell'ordine. Persone trascinate via a forza dagli agenti, cassonetti e balle di fieno bruciate e militanti di Casapound che fronteggiano gli agenti ed esibiscono saluti romani al passaggio del pullman con i migranti. Scene rimaste negli occhi dei 19 ragazzi originari di Bangladesh, Gambia, Nigeria, Mali e Senegal. Negli occhi e non solo. "Non ci aspettavamo una reazione così forte", dice il ragazzo mentre qualche suo compagno si avvicina alla recinzione. La notte, per questi primi 19 profughi, è passata in maniera tranquilla anche se la tensione per quanto accaduto era alta, spiegano gli addetti della cooperativa "Isola verde" che ha in gestione il centro. A mezzogiorno sono tutti in giardino che chiacchierano tra loro. Fuori tre blindati controllano la situazione. Si comincia a organizzare la vita nel centro, la disposizione dei posti, i turni al computer. Nell'ex scuola sono state ricavate stanze da cinque e otto letti, preparate per accogliere in tutto un centinaio di migranti: 75 uomini e 25 donne, più qualche bambino, assistiti dal personale della cooperativa che comprende anche una psicologa, un medico, quattro mediatori culturali e un avvocato. "Col tempo verranno anche avviate le attività di integrazione, che prevedono l'insegnamento dell'italiano e corsi professionali", spiega un dipendente della cooperativa. Qui, nell'ex scuola, i migranti resteranno per un anno e per domani è previsto l'arrivo di un secondo gruppo, quello più numeroso. Residenti permettendo, certo. Ieri il comitato che si oppone al centro si è riunito in assemblea. C'erano da decidere le nuove iniziative da intraprendere e qualcuno ha pensato di invitare il sindaco Ignazio Marino. "Venga qui personalmente per rendersi conto della criticità di questo contesto" spiega uno dei portavoce del movimento, Francesca Sanchietti. "Abbiamo la necessità di riflettere, di capire con calma e secondo la legge cosa dobbiamo fare", proseguono al comitato. "Andremo avanti con le nostre azioni legali, perché ciò che sta succedendo sta calpestando i nostri diritti. Noi - ricordano - abbiamo fatto un esposto sull'illegittimità dell'utilizzo dell'ex scuola Socrate da parte della cooperativa e su come quest'ultima ha partecipato al bando di gara. Sta tutto nelle mani del magistrato e sarà lui adesso a seguire questa questione". Certo qualche chiarimento non farebbe male. Ad esempio potrebbero chiarire il rapporto con Casapound, e magari prendere le distanze pubblicamente dai saluti romani che si sono visti l'altro giorno, e non limitarsi a dire che Casapound appoggia la loro lotta e che vorrebbero lo facessero anche altri partiti. Anche perché quei saluti fascisti, così come le manifestazioni inscenate contro gli immigrati, non sono piaciute a tutti i residenti della zona. Anzi: "Dovevamo portare delle torte, accoglierli bene. Sono profughi che fuggono da una guerra, nel loro Paese in molti casi erano ricchi. Non sono disperati che vanno rubando. Ma se anche ci fosse questo rischio, non è generando situazioni come ieri che si risolvono". A parlare è Aldo Zappala, produttore tv anche lui residente di Casale San Nicola. Come lui almeno altre 20 famiglie non hanno gradito le scene di venerdì: "Siamo pratici - aggiunge - se i migranti arrivano e trovano gli imbecilli con il saluto romano, è proprio per quello che si possono creare situazioni critiche". Chi di sicuro non arretra è la prefettura. Il prefetto Franco Gabrielli ha confermato il trasferimento di tutti i migranti e accusato i residenti di Casale San Nicola di farsi strumentalizzare "dagli estremisti". Intanto le indagini per individuare i protagonisti degli scontri con le forze dell'ordine proseguono e si sta valutando la possibilità di applicare nei loro confronti un Daspo, il divieto di partecipare a manifestazioni sportive. "La normativa introdotta ad agosto dal governo - ha spiegato il questore di Roma Nicolò Dangelo - prevede infatti che i provvedimento possa essere applicato anche a coloro che si macchino di reati contro l'ordine pubblico". I rifugiati senza tetto? Mettiamoli nelle carceri mandamentali chiuse di Pina Sereni Il Tempo, 19 luglio 2015 Sono 56 le carceri mandamentali chiuse. In molti casi sono state ristrutturate. Hanno uffici, infermerie, mense nuove di zecca ma sono state cancellate dal panorama italiano. "Soppresse", come si dice in gergo. Sono le case mandamentali, costruite negli Anni Ottanta. Servivano ad accogliere i detenuti in attesa di giudizio per reati lievi e chi era stato condannato con pene fino a un anno di reclusione. Le gestivano le Preture. Poi è cambiato il vento. Qualcuna è stata utilizzata come casa di custodia attenuata, altre sono state chiuse. Non sono blindate come le prigioni vere e per questo non possono ospitare assassini, truffatori e mafiosi per ridurre l'emergenza sovraffollamento nelle carceri ordinarie della Penisola. L'ipotesi che ora lancia il Sappe, il sindacato autonomo di polizia, è quello di metterci gli immigrati sbarcati a migliaia in Italia con i barconi "spediti" dalle organizzazioni criminali che in Libia e in Africa gestiscono il traffico dei profughi. Vivrebbero in queste ex prigioni, senze però essere detenuti, nell'attesa che venga riconosciuto loro lo status di rifugiati politici oppure venire rispediti nei paesi di provenienza se riconosciuti clandestini. In queste 56 strutture ci sarebbero, disponibili fin da subito, tremila posti. Costerebbe molto, molto meno che reperire e pagare posti letto nei centri di accoglienza di mezza Italia. Rimaste inutilizzate, le case mandamentali sono stati riconvertite in alcuni casi nei modi più bizzarri. Ad Accadia, un paesino di montagna in provincia di Foggia, c'è un progetto per trasformare il vecchio carcere in un centro di produzione di idrogeno da energia rinnovabile. A Monopoli l'ex prigione è stata occupata per anni da sfrattati, mentre a Cropani, in provincia di Catanzaro, la casa mandamentale è stata trasformata in deposito per la raccolta differenziata e archivio del Comune. Ad Arena, vicino Vibo Valentia, nella ex prigione è finita una Onlus. A Petilia, in provincia di Crotone, nella casa mandamentale ci vogliono mettere la caserma de vigili del fuoco. A Gragnano, Comune di appena 14 chilometri quadrati alle porte di Napoli, c'è chi aveva lanciato il progetto per trasformare la prigione in pastificio. Fuori dai circuiti di riconversione è rimasto l'ex carcere siciliano di Villalba. Tagliato dall'intesa firmata nel 2010 tra Palermo e Roma per fare sorgere nell'isola quattro nuovi istituti. Quando la struttura funzionava tra il 1985 e il 1990, ospitava circa 70 detenuti. Conta 32 celle a due posti, servizi igienici e docce annesse, la cucina può fornire 250 pasti al giorno; c'è perfino la lavanderia. Tutto pronto ma inesorabilmente chiuso. Capece (Sappe): le Case mandamentali sarebbero una soluzione a costo zero di Valeria Di Corrado Il Tempo, 19 luglio 2015 "Perché non utilizzare strutture in disuso come le case mandamentali per risolvere il problema dei migranti, invece che collocarli in quartieri che già hanno i loro problemi?". La domanda che si pone Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), a differenza di tante altre domande vuote e retoriche, fornisce già una delle possibili soluzioni alle violente proteste anti-profughi dei residenti, scoppiate in questi giorni a Casal San Nicola, alla periferia nord di Roma, e nel comune veneto di Quinto di Treviso. "Abbiamo in Italia decine e decine di case ex mandamentali che si potrebbero impiegare per l'ospitalità dei migranti, visto che sono comunque strutture pubbliche già soggette a interventi economici". Cosa sono le case mandamentali? Sono istituti costruiti negli anni 80, nei quali venivano detenute persone in attesa di giudizio per reati lievi oppure persone condannate a pene fino a un anno. Erano a disposizione delle Preture e all'epoca ne hanno costruite a iosa. Poi è cambiata la politica penitenziaria: alcune le hanno utilizzate come case di custodia attentata, altre le hanno chiuse. Il Ministro Conso, infatti, voleva strutture piccole, che fungessero da "anticamera della libertà", per chi doveva scontare ancora un altro anno. Quando è cambiata di nuovo la politica penitenziaria, e si è deciso di lasciare tutti in carcere fino alla fine, non servivano più anche in questa veste di case di custodia attenuta. Quindi sono state dismesse per essere reimpiegate in nuove carceri, poi, con i provvedimenti svuota carceri, che hanno indotto i magistrati a utilizzare misure alternative e braccialetti, sono rimaste inutilizzate. Non potrebbero servire come soluzione al sovraffollamento delle carceri? No, non servirebbero al sovraffollamento perché come carceri vere e proprie sono state dichiarate antieconomiche per il numero di posti letto che offrono. I costi di gestione sono troppo alti, per questo le hanno chiuse e abbandonate. Invece come strutture ricettive non servirebbe tutto quel personale che occorre a un penitenziario, a cominciare dai poliziotti. Sono in condizioni di agibilità queste strutture? Bisognerebbe vedere quali sono quelle che allo stato sono idonee a un immediato utilizzo e quelle che invece necessitano di pochi lavori di adattamento. Sono una specie di alberghi, né a tre né a quattro stelle, però sono pulite, alcune arredate, altre addirittura nuove e mai utilizzate. A mio avviso vanno benissimo, si possono ricavare 3 mila posti letto in totale. Impiegare queste strutture, di cui per altro si occupò tempo fa persino la Corte dei Conti sull'ingiustificata dismissione, potrebbe essere una idonea e dignitosa collocazione, oltreché una soluzione ai problemi spesso anche di ordine pubblico che si creano nei quartieri e nelle cittadine ogni qualvolta si individua un sito dove ospitarli. Gli immigrati non avranno l'impressione di stare in carcere? Queste strutture di carcere hanno poco e niente. Non sono state costruite come carceri di massima sicurezza, sono strutture leggere, senza recinzioni esterne, c'è un semplice portone di ingresso, ognuno avrebbe la chiave della sua stanza. Se poi in questo Paese si vogliono mettere a disposizione degli immigrati gli alberghi a 5 stelle, è una scelta politica che fa il governo, ma l'alternativa c'è. Che risparmio avrebbe l'amministrazione? Notevole. Mettiamo a disposizione quello che abbiamo a costo zero. Per prima cosa si risparmierebbero i costi che ora si pagano ai privati per l'affitto degli immobili o agli albergatori per l'affitto delle stanze. Inoltre, molte di queste strutture sono a carico dei comuni, tenerle chiuse quando possono essere agibili è un peccato. Lo ha evidenziato anche una relazione della Corte dei conti che richiamava questi sprechi, fornendo l'elenco delle case mandamentali, della loro capienza e dello stato della struttura al momento della soppressione. Quali altre soluzioni ci sono? Anziché sottrarre alloggi ai cittadini italiani, ci sono tantissime possibilità alternative. Ad esempio, abbiamo dismesso la scuola di formazione del personale penitenziario di Monastir, in Sardegna, e da allora è rimasta abbandonata; invece potrebbe ospitare fino a 300 persone. Poi sparse per l'Italia ci sono tante strutture militari, dismesse per ragioni di tagli. A ciò si aggiungono i piccoli ospedali chiusi, sempre per la spending review, oppure costruiti e mai aperti. Inoltre, il ministero della Giustizia ha centinaia di alloggi confiscati alla criminalità organizzata che potrebbero essere destinati all'accoglienza dei migranti e affidati alla gestione di cooperative, associazioni o alla Protezione civile. Secondo lei il Governo prenderà in considerazione la vostra proposta? Basta volerlo e il problema si risolve. Se c'è un'emergenza, il Paese deve guardarsi attorno per trovare una risposta. Servirebbe un tavolo di confronto tra tutti i ministeri per fare un'analisi sulle strutture dismesse e ancora agibili che si hanno a disposizione. Se invece si pensa che la soluzione è alzare il telefono e chiamare un albergo, allora vuol dire che alla base ci sono altre motivazioni. La marijuana è nociva, ma lo spaccio mafioso di più di Umberto Veronesi (Direttore scientifico emerito Istituto europeo di oncologia) Corriere della Sera, 19 luglio 2015 Il dibattito sulla liberalizzazione della cannabis deve cambiare rotta e puntare diritto al cuore del problema. La questione non è infatti se la marijuana è dannosa o no per la salute: sicuramente lo è, e si tratta soltanto di stabilire quanto. La discussione in atto nel mondo occidentale è piuttosto: vietare il consumo per legge è efficace per controllare il consumo di sostanze dannose oppure no? Non dimentichiamo che Benedetto Della Vedova, promotore della proposta di legge sulla liberalizzazione oggi al centro delle polemiche, ha creato l'intergruppo parlamentare che ha lavorato al testo partendo dalla relazione di inizio anno della Direzione nazionale antimafia, che affermava "si ha il dovere di evidenziare che, nonostante il massimo sforzo profuso dal sistema nel contrasto alla diffusione dei cannabinoidi, si registra il totale fallimento dell'azione repressiva". Tutto è nato quindi dalla crisi del proibizionismo e su questo tema la politica deve prendere posizione. Arenarsi sul fatto che la droga sia un male è inutile al fine della risoluzione del problema. Il nostro Parlamento non è solo e isolato, come accennavo, nell'affrontare questo tema e i dati disponibili sono coerenti nel confermare che il proibizionismo non diminuisce il consumo di cannabis e aumenta la criminalità che ne controlla il mercato. Abbiamo anche l'esempio concreto di cosa succede invece se dal divieto si passa alla liberalizzazione, come è avvenuto nello Stato del Colorado, che nel gennaio 2014 ha autorizzato il consumo di cannabis ad uso ricreativo. Recentemente il Dipartimento di polizia del Colorado ha ufficialmente dichiarato che in un anno il tasso di criminalità è sceso del 5,6 per cento, mentre il consumo non è aumentato. In proporzioni diverse, l'esperienza in questo Stato di oltre 5 milioni di abitanti, ricalca la vicenda nazionale Usa degli anni 20 in tema di alcol, quando il National Prohibition Act fu annullato perché il mercato nero e la criminalità che lo gestiva in toto erano diventati incontrollabili e il tasso di alcolismo rimaneva inalterato nel Paese. Del resto oggi siamo di fronte a una svolta culturale a livello mondiale. A fine 2013 l'Uruguay è stato il primo Paese al mondo a legalizzare la produzione, distribuzione e vendita della cannabis. A gennaio 2014, subito dopo il Colorado, anche lo Stato di Washington ha liberalizzato la cannabis. A luglio 2014 il New York Times ha preso una posizione decisa a favore della legalizzazione della marijuana, cambiando, con gran coraggio, la sua linea da sempre favorevole alla proibizione. A novembre 2014 in Oregon, Alaska e California si è tenuto un referendum che ha nell'insieme decretato la fine del proibizionismo. Per non perderci in teorie basta anche riflettere sulla questione del fumo di sigarette. Il tabagismo è riconosciuto fra i più gravi problemi socio sanitari internazionali. Eppure le sigarette non si proibiscono, anzi nel nostro Paese sono Monopolio di Stato. Non è sfuggito in questo caso ai governi che il mercato che nascerebbe da un divieto avrebbe proporzioni planetarie e sarebbe interamente nelle potenti mani della criminalità. Se non riusciamo a dissuadere i nostri figli dal fumare sigarette e spinelli, almeno non buttiamoli nelle braccia delle mafie. Cannabis: l'importante è l'educazione, parliamone a scuola di Antonio Marziale (Presidente Osservatorio sui Diritti dei Minori) Il Garantista Sono 218 i parlamentari che spingono affinché la cannabis possa essere coltivata in casa, nella misura di massimo cinque piantine, e che possa essere consumata in luoghi privati. Impantanarsi nel magma dei "si" o dei "no", spesso meramente ideologici e fini a se stessi, è come volersi lavare le mani e di Ponzio Pilato è piena la terra, dunque, meglio abbozzare un ragionamento finalizzato alla tutela dei minori. Chi li educa al consumo della sostanza? Serve un'agenzia educativa in grado di parlar loro del processo di assuefazione e dipendenza che le droghe comportano. O occorre illustrare loro le ricadute sociali del "fumo" per evitare che le morti del "sabato sera" lievitino a dismisura e, soprattutto, vi è la necessità di far comprendere, stavolta agli adulti, che scrivendo "nuoce gravemente alla salute" sui pacchetti si ottiene l'effetto contrario, perché opporre tabù agli adolescenti è come invitarli a nozze. La scuola italiana è attrezzata a spiegare le ricadute del fumo della cannabis ai ragazzi? No! Già non spiega gli effetti dell'eccesso di alcol, cosa si vuole che insegni sulle droghe? Si, troviamo qua e la qualche dirigente scolastico che organizza il convegno con gli esperti, ma avete mai visto un'assemblea di studenti al cospetto degli specialisti? Io si, prima da una parte del banco, poi dall'altra. Un tempo, mentre il dottore di turno parlava, ci si distraeva disturbando i compagni più vicini, oggi si chatta su Facebook. Ah... che lezione, che apprendimento. E se la scuola non è preparata, lo è la famiglia? Si, e come no!? Se una figlia domandasse alla madre il significato di una pratica sessuale, la signora risponderebbe: "Ma che domande sono queste? Sei piccola per capire". Magari, togliamo il condizionale. Succede così. Volete mettere che se la bimba è piccola per parlare di sessualità si possa trattare di droga? Tranquilli, però, perché se le due agenzie educative non funzionano, ci pensa lo Stato. Ricordiamo l'oncologo Umberto Veronesi nelle vesti di Ministro della Salute, che recandosi in un istituto scolastico disse ai ragazzi di non temere, perché anche i loro professori e i loro genitori fumano. Magistrale, unico, immenso! Ma, l'ha avuto il Premio Nobel? No? È uno scandalo! Tirando le somme, i pericoli esistono e non v'è dubbio che non è il proibizionismo ad evitare che i più piccoli si facciano male. Personalmente sono per il "no" e certe piante le lascerei solo alla scienza farmacologica, magari per procurare agli ammalati sollievo e guarigione. La chiave di lettura è l'informazione, meglio ancora se l'educazione. Ai ragazzi il mondo va mostrato nella sua bellezza e bruttezza: è l'unico modo per abituarli a non avere paura e a scegliere. Ed è proprio quest'ultimo punto che mi mette paura al pensiero della liberalizzazione di sostanze psicotrope, perché i minori non sono "educati" a scegliere e non certo per colpa loro. Venezuela: viaggio nelle viscere di "La tumba", prigione che sta cinque piani sotto terra di Mariana Atencio dagospia.com, 19 luglio 2015 La paura dell'opposizione venezuelana è palpabile nella piazza di fronte al nuovo quartier generale dell'intelligence, il "Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional" (Sebin), dove sta la più nota e blindata prigione sotterranea, sorta al posto della stazione metropolitana. Le guardie monitorano la zona in superficie di quella che tutti, agenti di governo compresi, chiamano "La Tumba". Non ci sono finestre, né aria fresca, il rumore dei vagoni metropolitani che sfrecciano lì accanto è intollerabile. Le celle sono minuscole e non hanno il bagno. Per fare i bisogni, i detenuti devono avere un permesso speciale e l'attesa può durare ore. Due volte a settimana Yamile Saleh emerge in lacrime dalle viscere, dopo aver fatto visita al figlio ventiseienne Lorent, in cella a cinque piani sottoterra: "Sono terrorizzata per ciò che può accadergli. Praticamente è sepolto vivo, in attesa di morire. Lo danneggiano psicologicamente e temo che non si possa recuperare. Continuo a dirgli che l'obbedienza civile, che il combattere per il Venezuela, questo paese non se lo merita". Lorent ha già tentato il suicidio là sotto. È uno studente attivista, nel 2013 è stato visto parlare in Colombia ad un evento legato a una organizzazione neo-nazi, lo hanno rimpatriato e condannato per cospirazione. A niente è valsa la sua difesa: non conosceva la natura di quel gruppo. I detenuti de "La Tumba" spesso soffrono di vomito, diarrea, febbre e allucinazioni, ma vengono negate loro le cure mediche. Camere e microfoni sono dappertutto, per analizzare ogni parola e pensieri dei prigionieri. Dalle violente proteste in strada che l'anno scorso hanno lasciato a terra 43 persone, il governo ha optato per il polso duro contro gli oppositori, trattandoli in modo crudele e disumano. L'ufficio dei diritti umani dell'Onu ha scoperto che 3.300 persone, inclusi minori, sono stati incarcerati solo tra febbraio e giugno 2014. Almeno 150 sono morti a seguito di torture. Si hanno notizie di pestaggio, elettrochoc, bruciature, asfissia, stupro e minacce sessuali. Gerardo Guerrero è stato prelevato dalla polizia dal presidio "Occupy" di Caracas e ci ha passato sei mesi lì sotto. Ne è uscito pieno di segni, gli occhi gialli, la pelle bianca. E lui è scuro di carnagione. Non ha mai visto il sole in quel periodo. Trasferito a "El Helicoide", le torture sono continuate. Lo hanno colpito alle gambe con assi di legno duro, finché non si sono rotte. Lo hanno appeso per 12 ore. Marco Coello, 19 anni, è stato arrestato durante una manifestazione, accusato di cospirazione e detenuto per sette mesi. Ottanta persone hanno testimoniato per la sua innocenza. È stato legato, picchiato con gli estintori e minacciato con una pistola per costringerlo a firmare una confessione. Lo hanno cosparso di benzina e hanno minacciato di dargli fuoco. Ora il ragazzo è sotto trattamento psichiatrico. A febbraio la Guardia Nazionale ha sparato al quattordicenne Kluiver Roa. A inizio 2015 il Ministro della Difesa venezuelano ha passato una risoluzione che permette l'uso di armi mortali durante le manifestazioni, senza fare differenze fra i pacifici e i facinorosi. Il pilota González, detenuto a "El Helicoide" per dieci mesi, con l'accusa di aver organizzato una protesta, si è impiccato in cella. Era stato denunciato da un vicino, che sospettava la sua vicinanza al movimento studentesco che si oppone al governo. Questi segreti gruppi di spie civili si fanno chiamare "patriotas cooperantes", patrioti cooperanti. Maria Magalis è stata arrestata per aver postato un tweet contro il governo, che di lei sapeva tutto: indirizzo ip, provider di internet, provenienza del segnale wifi. Come mai? La Sebin si era piazzata a casa del vicino. Insieme a lei, sono state arrestate altre otto persone, per aver twittato messaggi di critica al governo. Per porre fine a tutto questo è partita la campagna #sosvenezuela. Siria: Bashar al Assad rilascia oltre 200 prigionieri la festa per la fine del Ramadan Agi, 19 luglio 2015 In occasione delle celebrazioni dell'Eid al Fitr, la festa per la fine del Ramadan, il governo siriano di Bashar al Assad ha rilasciato oltre 200 prigionieri, molti dei quali incarcerati a causa delle leggi contro il terrorismo e oppositori politici che hanno preso parte alle manifestazioni antigovernative iniziate nel marzo 2011. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione con sede nel Regno Unito, sarebbero invece circa 350 i detenuti rilasciati ieri dal carcere di Adra, penitenziario situato nei pressi di Damasco. Fra le persone liberate, vi è Hussein Ghreir, blogger siriano arrestato nel febbraio 2012 insieme agli attivisti Mazen Darwish e Hani Zaitani con l'accusa di promuovere atti terroristici. La notizia della sua liberazione è stata confermata all'Osservatorio siriano per i diritti umani da una persona vicina all'attivista, il quale ha sottolineato che Ghreir è tornato nella sua casa di Damasco e gode di buona salute. L'Osservatorio siriano per i diritti umani stima in almeno 200 mila i prigionieri detenuti nelle prigioni del regime. Fra essi vi sarebbero diverse persone scomparse dopo il loro arresto da parte delle autorità, le cui famiglie non hanno mai ricevuto alcuna informazione o dichiarazione formale da parte delle autorità. Per gli attivisti sarebbero invece circa 13 mila, fra cui decine di bambini, le persone torturate a morte nelle carceri del regime dal marzo 2011. Nel 2014 il governo Assad aveva annunciato un'amnistia per consentire il rilascio di decine di migliaia di persone incarcerate per motivi politici, ma secondo gli attivisti ad oggi solo poche centinaia sono state effettivamente liberate. Arabia: arrestati 431 presunti miliziani Is, tra di loro anche cittadini di 9 paesi stranieri Ansa, 19 luglio 2015 Le autorità saudite hanno annunciato l'arresto di 431 presunti membri del sedicente Stato islamico (Is). È quanto si legge in una nota del ministero dell'Interno di Riad, nella quale si spiega che le persone finite in manette sono sospettate di appartenere a cellule dell'organizzazione terroristica. Secondo la nota, citata dall'agenzia di stampa ufficiale Spa, tra i detenuti figurano anche cittadini di 9 paesi stranieri, senza precisare quali. Le autorità hanno anche annunciato di aver sventato 6 attacchi suicidi contro moschee nell'est del paese, "complotti terroristici contro una missione diplomatica ed edifici del governo nella provincia di Sharurah" e "tentativi di omicidio di uomini della sicurezza". È del 22 maggio scorso la strage in una moschea sciita dell'Arabia Saudita. Un episodio di terrorismo che ha pochissimi precedenti in un paese in cui è in vigore uno stretto controllo delle autorità statali su luoghi e persone. L'Arabia Saudita è tra i principali alleati degli Stati Uniti nel Golfo ed è impegnata direttamente nel conflitto in corso in Yemen a sostegno delle milizie filo-governative che combattono i ribelli sciiti huthi, sostenuti dall'Iran. Gambia: presidente Jammeh revoca moratoria pena di morte, che era in vigore dal 2012 Askanews, 19 luglio 2015 Il presidente del Gambia, Yahya Jammeh, ha revocato la moratoria sulle condanne a morte in vigore da tre anni, giustificando la decisione con l'aumento degli omicidi nel Paese. Secondo i dati delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani attualmente vi sono una trentina di detenuti nel "braccio della morte" in attesa di esecuzione. La pena di morte è prevista dal codice per i reati di omicidio e di avvelenamento: un referendum per aumentare il numero dei reati punibili con la pena capitale è stato annunciato nello scorso giugno dal governo, senza tuttavia che sia ancora stata fissata una data per il voto. Messico: evasione di "El Chapo", arrestati sette agenti del carcere di Altiplano Adnkronos, 19 luglio 2015 Sette agenti del carcere di massima sicurezza di Altiplano, da dove la scorsa settimana è evaso Joaquin "El Chapo" Guzman, sono stati arrestati con l'accusa di aver aiutato la fuga del leader del cartello di Sinaloa. Il procuratore generale del Messico ha annunciato che i sette sono stati trasferiti in un carcere dello stato di Guanajuato mentre continua l'indagine per scoprire altri complici che hanno reso possibile la seconda clamorosa evasione del re dei narcos il cui arresto lo scorso anno era stato considerato un importante successo della politica del presidente Enrique Pena Nieto. Giovedì scorso il ministro dell'Interno messicano, Miguel Angel Osorio Chong, aveva già fatto capire che si stava indagando nella direzione di evidenti connivenze all'interno del carcere, sottolineando che la notte dell'evasione le guardie di turno impiegarono ben 18 minuti per arrivare alla cella di Guzman dopo che il detenuto era scomparso dal monitor che sorvegliava 24 ore su 24 la cella. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il narcotrafficante è scappato usando un tunnel scavato sotto la doccia della sua cella. Dopo l'evasione, un duro colpo per la credibilità dell'impegno del governo messicano nella lotta ai narcos, è stata messa una taglia di 3,8 milioni di dollari per informazioni che possano permettere la nuova cattura di Guzman. La fuga dal carcere messicano è avvenuta poche settimane dopo che gli Stati Uniti avevano formalmente presentato la richiesta di estradizione per il leader del cartello di Sinaloa.