Gli Stati Generali dell'Esecuzione della Pena e la partecipazione dei detenuti di Mauro Palma, Marco Ruotolo e Adolfo Ceretti Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2015 Egregio Signor Musumeci, abbiamo letto con un poco di sconcerto la sua riflessione apparsa l'altro ieri nella preziosa rassegna quotidiana di Ristretti Orizzonti. Lo sconcerto non nasce, naturalmente, dalla sua presa di posizione, che esprime compiutamente le sue legittime idee circa il senso e l'operato sugli Stati Generali dell'Esecuzione della Pena appena istituiti dal Ministro Orlando. Le nostre perplessità hanno a che fare con l'atteggiamento - incomprensibilmente vittimistico - laddove lei annota: "[…] sono stati formati diciotto tavoli. Sono stati nominati i responsabili che coordineranno i lavori. E scelte le persone che faranno parte di questi gruppi. E i detenuti? Si vocifera che saranno "ascoltati". Provo rammarico per questa scelta di partecipazione passiva che è toccata ai prigionieri". Sa bene, Signor Musumeci, che lo spirito che anima il progetto degli Stati Generali non è quello che lei descrive. Il Ministro, il suo Consigliere Prof. Mauro Palma e il Coordinatore del Comitato Scientifico Prof Glauco Giostra hanno tenuto, in numerose circostanze, a testimoniare pubblicamente che la voce dei detenuti - e non solo la loro - sarà seriamente ascoltata, al fine di coordinare in modo razionale e concreto gli obiettivi che ogni singolo tavolo andrà a costruire. E ciò è tanto vero che proprio il giorno 11 luglio 2015, dalle ore 9 alle ore 12, abbiamo deciso - Mauro Palma, Marco Ruotolo e Adolfo Ceretti, in qualità di componenti del comitato scientifico degli Stati Generali - di venire personalmente a Padova per incontrare la Redazione di Ristretti Orizzonti, coordinata come sempre dalla Dott.ssa Ornella Favero. Questo incontro, a nostro giudizio molto proficuo, ha raccolto la presenza di una quarantina di appartenenti alla Redazione - tra i quali Lei, signor Musumeci - dando a tutti i presenti la possibilità di prendere la parola e di esprimere quali siano, a vostro giudizio, le tematiche più urgenti da riferire ai coordinatori dei tavoli, affinché possano iniziare i loro lavori forti di queste conoscenze. Non solo. Nel corso della mattinata si è discusso su come poter concretamente coinvolgere i detenuti degli oltre duecento istituti di pena in tutta Italia, e poter così soddisfare appieno la coralità delle riflessioni. A noi è sembrato un buon modo per dare il calcio d'inizio e per testimoniare che il senso di questo lavoro sarà "dall'alto al basso" e "dal basso verso l'alto". Ci è spiaciuto molto non trovare, da parte sua, neppure una parola che abbia testimoniato questa iniziativa, avvenuta di sabato e solo sulla base di una premura che noi componenti del Comitato Scientifico abbiamo sentito come irrinunciabile. Proviamo, per una volta tanto, a costruire qualcosa assieme, vista la grande e unica opportunità creata con questo cammino, e a non rimanere chiusi, come accade quotidianamente, nel proprio ruolo - qualunque esso sia. Cordialmente. Economia e giustizia: il bilanciamento possibile di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2015 "Chi pensa al peso di dolori umani affidato alla coscienza dei giudici, si domanda come, con un così terribile compito, essi riescano la notte a dormire sonni tranquilli", scriveva Piero Calamandrei più di 50 anni fa, rifiutando, qualche riga oltre, il modello del giudice burocrate, "bocca della legge", che sembra "fatto apposta per togliergli il senso della sua terribile responsabilità e per aiutarlo a dormire senza incubi". La giustizia, sosteneva, è "creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana" e il giudice deve "saper portare con vigile impegno umano il grande peso dell'immane responsabilità che è il rendere giustizia". Il buon giudice, insomma, è destinato a notti insonni, agitate da incubi. Ancora più in tempi di crisi economica, quando dalla doverosa tutela di diritti fondamentali possono derivare conseguenze pesantissime sull'esercizio d'impresa, sull'occupazione, sui conti pubblici, sul sistema produttivo, al punto da ritorcersi, qualche volta, sugli stessi soggetti che ai giudici hanno chiesto tutela. Purtroppo, nella perdurante inerzia legislativa e inefficienza della pubblica amministrazione - che spesso scaricano sulle toghe ampie fette di politiche economiche, sociali, ambientali, salvo poi accusarle di supplenza e tentare di correre ai ripari quando il danno è fatto - quell'incubo notturno può togliere il respiro. E non dare tregua se la crisi economica perde la connotazione emergenziale e si presenta, di fatto, come strutturale, "giustificando" sempre più deroghe, eccezioni, strappi, che rischiano di soppiantare la regola di diritto. Incubi e conflitti Accade, allora, che l'incubo diventi conflitto: istituzionale, politico, sociale. I giudici lo hanno già conosciuto negli anni 60 e 70 con "l'ingresso nelle fabbriche" a tutela della sicurezza e della salute, ma oggi lo stanno rivivendo in un contesto ben più complesso e difficile, che rischia di far saltare gli equilibri di uno Stato democratico di diritto. L'oggetto del contendere è se, quanto, e come, le "compatibilità economiche" debbano pesare sulle decisioni dei giudici, delle procure della Repubblica, della Corte costituzionale. In ballo ci sono sempre diritti fondamentali, alcuni incomprimibili come quello alla vita e alla salute. Dopo le sentenze "sfonda bilancio" della Consulta a tutela dei diritti sociali, ora è la volta dei provvedimenti cautelari con cui pm e giudici chiudono impianti industriali o fermano cicli produttivi a tutela della salute dei lavoratori e della cittadinanza o dell'ambiente(dall'Ilva a Fincantieri passando per l'Aeroporto di Fiumicino). La parola magica per uscire dal conflitto sembra essere "bilanciamento": ma qual è il luogo naturale, primario, del bilanciamento? Si deve bilanciare a monte (sede politica) oppure a valle (sede giudiziaria)? E in questo secondo caso, "come" si può bilanciare? Interrogativi che i magistrati si stanno ponendo, non solo in chiave difensiva. Il "grande peso" (inevitabile) della loro responsabilità rischia infatti di andare ben oltre l'immane se si pretende di trascinarli sul terreno di altri poteri. Che così possono dormire sonni tranquilli e senza incubi. Dibattito aperto In questi giorni, giudici e pm sono stati rimproverati di protagonismo, di condizionare la discrezionalità politica, di pregiudizio anti-impresa, di scarsa cultura economica, di mancanza di un'adeguata professionalità nell'affrontare questioni cruciali per la competitività del Paese. Il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli, di rimando, ha puntato l'indice contro il declino della legislazione e l'inadeguatezza della pubblica amministrazione, ricordando che "non può essere l'economia a dettare le regole all'azione giudiziaria, che ha per faro solo e soltanto la Costituzione". Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, però, ha esortato i magistrati "a saper cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie" perché "il loro impatto sull'economia e sulla società non può più essere considerato un tabù". Per la verità, il tabù è caduto già un anno fa, quando l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano raccomandò alle giovani toghe che entravano in servizio di "prospettarsi le conseguenze dei propri provvedimenti e di misurarne le ricadute" perché questo, spiegò, è un aspetto cruciale della "responsabilità del moderno magistrato che opera in un contesto lacerato da difficoltà economiche e sociali e pervaso da inquietudini, paure e diffidenze crescenti". Parole indirettamente confermate mercoledì scorso, in un'intervista al Sole 24 ore, dal ministro della giustizia Andrea Orlando, secondo cui "gli antidoti" contro il conflitto sulle "compatibilità economiche" sono la "formazione e la specializzazione del magistrato", per "evitare decisioni superficiali"; anche se, ha aggiunto, "non è questo il caso di Monfalcone e di Taranto, dove c'è una consapevolezza dei temi industriali e ambientali di lunga data". "Le compatibilità economiche non sono un'opinione", ha aggiunto Orlando, perché "è la legge a prevedere la proporzionalità delle misure cautelari adottate dal giudice". Massimo Donini, ex magistrato ora ordinario di diritto penale all'Università di Modena, che nell'attività di avvocato si occupa prevalentemente di diritto penale dell'economia, invita a distinguere il ruolo delle Procure da quello dei giudici. "È giusto che i Pm pongano il tema di un sequestro preventivo, di una possibile confisca, di una misura cautelare, anche se coinvolgono un'impresa importante, ma inquinante. Le conseguenze economiche non sono mai state previste tra i criteri per la scelta delle misure cautelari, almeno non prima dei decreti legge sull'Ilva. Semmai - osserva, il problema è un altro: se cioè le Procure possano intervenire, o se siano sempre intervenute, "a tutela" di diritti fondamentali che non sono davvero sottoposti a pericoli attuali e certi, quanto a effetti lesivi, o in presenza di effetti ormai consumati e irrecuperabili". In sostanza, se i pericoli sono "incerti in base alle conoscenze scientifiche, una misura cautelare penale è destituita di fondamento; così come lo è la contestazione di fattispecie giganti di avvelenamento in assenza di leggi scientifiche di copertura. E se i pericoli sono ormai "danno consumato", non è certo forzando le garanzie probatorie che si potrà legittimamente intervenire o recuperare nulla, né in sede di indagini né di sentenza". Da questa incertezza sul riparto delle responsabilità tra poteri pubblici e privati deriva, secondo Donini, "l'implosione del sistema e il ricorso addirittura a dei decreti legge per "bilanciare" azioni giudiziarie, tutela della salute e interessi economici dei lavoratori, come l'ultimissimo dl 92/2015". Diversa, almeno in parte, è la posizione dei giudici, perché, spiega sempre Donini, "i giudici devono essere i castigamatti delle accuse infondate fin da subito, non dopo anni di processi. Tuttavia, essi devono non solo controllare, in posizione di terzietà, le diverse posizioni processuali, ma effettuare anch'essi bilanciamenti. Il che è possibile anche quando applicano le regole, perché le regole vanno rilette attraverso i princìpi e tra questi ci sono sia diritti come la salute di tutti sia diritti come la libera iniziativa economica o la tutela dei lavoratori. Il tempo presente - osserva - è quello del bilanciamento, ma se il legislatore non risolve questioni urgenti di conflitti sociali ed economici non causati ma aggravati dall'operatività della legge penale, la soluzione giudiziaria diventa inevitabile. Perciò la responsabilità primaria, anche a fronte di devianze giudiziarie, a me pare sempre della politica". "Quando parliamo di bilanciamento dobbiamo intenderci" premette Renato Rordorf, giudice di Cassazione, dove presiede la prima sezione civile, uno dei massimi esperti di diritto commerciale, già componente della Consob e ora presidente della commissione ministeriale per la riforma del diritto fallimentare. "Non porrei il bilanciamento in termini di contrapposizione tra l'utile, come finalità dell'agire economico, e il giusto, come finalità dell'agire giudiziario. Per un magistrato la contrapposizione non può essere posta in questi termini perché egli deve operare nel quadro delle regole date: l'applicazione di quelle regole è la sua funzione ineludibile. Opzioni interpretative Detto questo - aggiunge - è evidente che nel quadro delle regole giuridiche (che nessun bilanciamento gli consentirebbe di varcare) c'è una serie di opzioni interpretative o di scelte discrezionali che le regole consentono di effettuare. È all'interno di questo limite di elasticità del quadro normativo che si possono, e si devono, porre anche problemi di bilanciamento tra esigenze diverse". Rordorf è convinto che, nel penale come nel civile, un magistrato debba avere "la capacità di rendersi conto delle conseguenze economiche delle sue decisioni" e ciò perché - spiega - l'applicazione delle regole "non è un'operazione burocratica, meccanica, non si esaurisce in una sorta di liturgia procedimentale, ma richiede la consapevolezza anzitutto delle ragioni - in questo caso economiche - per cui la regola è stata posta nonché degli effetti che una certa applicazione della regola astratta al caso concreto comporta. Ciò, ovviamente, non per disapplicarla ma per interpretarla e applicarla nel modo più ragionevole alle esigenze del caso concreto". Dunque, solo in questo caso "ha senso parlare di compatibilità e di bilanciamenti". Tutto ciò sta in piedi, però, a due condizioni. La prima è che vi sia un'adeguata formazione professionale e specializzazione del magistrato, "affinché possa svolgere la sua funzione non in modo burocratico ma con la consapevolezza degli effetti delle sue decisioni", altrimenti si crea uno "scollamento" tra la regola e la realtà. La seconda ha invece a che fare con la creazione della regola. "Se si vuole che un magistrato sia in grado di fare bilanciamenti ragionevoli - avverte Rordorf, occorre che la regola giuridica, soprattutto nel campo dell'economia, abbia un grado di elasticità sufficiente a consentirne un'applicazione equilibrata, considerata l'estrema varietà e mutevolezza della realtà economica cui è destinata". Regole rigide Invece, "negli ultimi anni è accaduto il contrario: c'è stata una diffidenza del legislatore verso l'interprete e la tendenza a dettare regole molto dettagliate per ridurre il margine di discrezionalità, e quindi di elasticità interpretativa che compete al giudice. Ciò rende molto difficile, se non impossibile, il bilanciamento di valori e di interessi in fase di applicazione della regola". In sostanza, se la regola è troppo rigida, si finisce per applicarla in modo altrettanto rigido e il bilanciamento diventa impossibile. Il giudice, per tener conto delle esigenze da bilanciare, "dovrebbe solo disapplicare la regola, ma questo non può farlo". Di qui la conclusione: "Un legislatore che diffida troppo della discrezionalità dei giudici chiamati ad applicare le sue leggi rischia di fare cattive leggi". Giustizia e imprese l'equilibrio c'è già di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 luglio 2015 Già da anni la Corte costituzionale e la Cassazione danno le coordinate per decisioni ispirate ai principi di "adeguatezza", "proporzionalità" e "gradualità". Diverso è pretendere sentenze "compatibili" con l'economia. "Il fattore-costo non viene in considerazione sotto nessun riguardo quando si tratta di zone particolarmente inquinate o per specifiche esigenze di tutela ambientale": scapestrato pretore d'assalto sull'Ilva di Taranto nel 2015? No, Corte costituzionale del 1990, a proposito del decreto che due anni prima consentiva alle imprese di non adottare le migliori misure tecniche anti inquinamento nel caso in cui fossero state troppo costose per le aziende. E chi è a dire che gli interessi dell'impresa sono "certamente recessivi a fronte di un'eventuale compromissione del limite assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell'ambiente", sicché l'esigenza di tutelare le aspettative dell'impresa "non può prevalere sul perseguimento di una più efficace tutela di tali superiori valori ove la tecnologia offra soluzioni i cui costi non siano sproporzionati rispetto al vantaggio ottenibile"? Non oggi una toga impermeabile al "dialogo" tra giustizia e impresa, ma nel 2009 la Consulta. Che anche nel via libera del 2013 al decreto legge del governo Monti sul caso Ilva non ha affatto scritto che tra diritto al lavoro e diritto alla salute uno dei due possa tiranneggiare l'altro in un ordine gerarchico assoluto, ma che in un rapporto di integrazione reciproca debbano essere bilanciati secondo criteri che non ne sacrifichino il nucleo essenziale. Principi di "adeguatezza", "proporzionalità" e "gradualità" che, già previsti dall'articolo 275 del codice di procedura quali criteri di scelta delle misure cautelari personali (gli arresti), e già evocati nel 2007 dalla sentenza della Corte di Strasburgo "Lelièvre contro Belgio", nel 2013 la Cassazione ha indicato debbano essere applicati anche alle misure cautelari reali (come i sequestri di impianti) in base al principio del "minore sacrificio necessario", allo scopo di "evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata". Eppure, chi sulla scia del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi annuncia finito per i magistrati il tempo di considerare tabù il prefigurare l'impatto delle decisioni giudiziarie sull'economia, e addita come futuribile rimedio quella "specializzazione" delle toghe in realtà ormai diffusa nei tribunali italiani e ampiamente coltivata nei corsi di formazione della Scuola della magistratura e del Csm, sembra sorvolare su questa pregressa robusta elaborazione giurisprudenziale di Consulta e Cassazione sul tema tutt'altro che nuovo. Un'amnesia che rivela il non detto dietro le apparenze. Se infatti è giusto, e persino banale, domandare ai magistrati di minimizzare le inevitabili ricadute delle iniziative giudiziarie imposte dalla legge, pensando alle conseguenze dei propri provvedimenti come ulteriore palestra di riflessione sull'esattezza dell'interpretazione della norma che stanno per adottare nel caso concreto, tutt'altro conto è sdoganare invece l'idea che ogni volta sia ormai "normale" intervenire per decreto legge a sterilizzare ex post un provvedimento giudiziario; che grandi complessi industriali possano essere zone franche a motivo della loro rilevanza strategica per il Paese e occupazionale per i lavoratori; che la Corte costituzionale debba badare a modulare il ripristino di un diritto violato a seconda del diametro del buco di bilancio che aprirebbe nelle casse dello Stato; o che i ritmi di un'indagine su tangenti e appalti siano da scandire in modo da non interferire con i tempi di marcia di una grande opera pubblica o di un evento come Expo. Lo si era qui intuito già dalle avvisaglie di un anno fa: con la crisi che morde e sembra rendere un lusso i diritti, ciò che per motivi diversi vorrebbero una parte del mondo delle imprese, larghi settori della politica e taluni ambiti sindacali è in realtà che i magistrati subordinino le proprie decisioni alle supposte "compatibilità" della contingenza economica, che assumano come parametro la "sostenibilità" dei propri provvedimenti, che si facciano carico della inaccettabilità o accoglibilità sociale dei loro atti. È come un linguaggio doppiato da un sotto testo implicito. Si dice di anelare al giusto valore della "prevedibilità" delle decisioni, in realtà si vuole che sia la cautela a pervadere i giudici. Li si sprona alla "sobrietà", ma in verità li si pretende intimoriti dai possibili contraccolpi personali delle proprie decisioni. Li si esorta a essere "responsabili" nelle scelte, ma con ciò si pretende in realtà che stiano bene attenti a considerare, più dei torti e ragioni, i rapporti di forza tra chi ha torto e chi ha ragione. Gli si addita il corretto criterio della "proporzionalità" dei mezzi di ripristino della legalità, ma quel che davvero si vuole è che agiscano condizionati dalla ricerca di sintonia con le aspettative dei cittadini. E proprio chi critica la "supplenza" delle toghe non si rende conto di creare le premesse per toghe che più "politiche" di così non si potrebbe. Giustizia: Ferranti (Pd) "un archivio riservato per conversazioni senza rilevanza penale" intervista di Francesca Schianchi La Stampa, 18 luglio 2015 "Già oggi, se tutti - avvocati, magistrati, giornalisti - usassero equilibrio, buon senso e rispetto delle norme, non ci sarebbe bisogno di una nuova legge sulle intercettazioni", sospira la presidente della Commissione giustizia della Camera, la Pd Donatella Ferranti, che sulla legge delega al governo che riguarda gli ascolti sta lavorando in questi giorni, in Aula probabilmente a fine mese: "Il fatto è che in alcuni casi c'è stato un uso improprio della normativa". Ad esempio nel caso Crocetta? "Il caso Crocetta è altra cosa: il procuratore Lo Voi ha escluso che ci sia quell'intercettazione nei procedimenti". L'Espresso però insiste di aver sentito la registrazione. "E allora forse bisogna chiedersi se si tratta di qualcosa costruito ad arte e da chi. Questo però ad oggi non lo sappiamo". Ma è davvero necessario intervenire sulle intercettazioni? "Per quanto attiene alla loro validità come strumento investigativo no: vige una disciplina efficace che non mi sembra abbia bisogno di interventi. Il problema si pone sulla pubblicabilità degli ascolti durante la fase delle indagini". E qual è la vostra risposta? "Il punto è come si può evitare che nell'equilibrio tra attività di indagine, diritto alla privacy e diritto-dovere di cronaca, conversazioni che riguardano persone terze non indagate e quelle manifestamente irrilevanti vengano divulgate. Il principio della delega è di farle confluire in un archivio riservato". Come saranno separate quelle rilevanti da quelle no? "Attraverso un'apposita selezione fatta in una "udienza filtro", che oggi non ha una collocazione sistematica. Vogliamo introdurre una maggiore regolamentazione: il pm indicherà le conversazioni rilevanti, la difesa potrà dire la sua, e a decidere sarà un giudice terzo. In caso di richiesta di custodia cautelare in carcere, forse già nell'ordinanza del giudice vi potrà essere questa selezione". Ma ci possono essere conversazioni non rilevanti per l'inchiesta che però hanno un interesse per l'opinione pubblica. "L'asticella della rilevanza, secondo la mia opinione personale, potrà essere più alta per persone che rivestono un ruolo pubblico, ma non tutto quello che viene intercettato è pubblicabile: l'ascolto telefonico è un'invasione della privacy legittimo, per Costituzione, solo in presenza di ipotesi di reato o di un fatto connesso". Dopo questa legge l'intercettazione di Crocetta, ammesso che esista, sarebbe pubblicabile? "Non posso valutare la pubblicabilità di un'intercettazione di cui non si ha nemmeno la conferma se sia reale e autentica". E quella tra Renzi e Adinolfi? "Mi pare che il giudice cui erano stati trasmessi gli atti l'abbia ritenuta irrilevante ai fini dell'indagine, quindi già in base all'attuale normativa poteva essere stralciata". Presidente, c'è il rischio di una legge bavaglio per i giornalisti? "No, non sarei preoccupata di questo. Regolamentare meglio l'udienza filtro serve anche a garantire il diritto di cronaca e a evitare di demonizzare uno strumento importante di indagine. E mi spiacerebbe che questo principio di delega oscurasse, attraverso interpretazioni demagogiche, il significato ben più ampio del provvedimento di riforma del processo penale". Vi diranno che fate questa legge per Renzi, dopo le sue intercettazioni. "Non è così: il principio dell'udienza filtro adeguatamente regolamentata il Pd lo ha sostenuto da tempo, già dalla scorsa legislatura". Ncd la pensa come voi? "Il progetto di legge è governativo, e porta anche la firma di Alfano, direi che le eventuali divergenze sono già state limate. Al momento, dalle forze di maggioranza non sono arrivati emendamenti che incidano in maniera determinante sui principi della delega". Non è un argomento troppo delicato da delegare al governo? "Ma non è una delega in bianco, ci sono principi molto chiari". Prevedete sanzioni per i cronisti? "No, nella delega al governo non ne facciamo cenno". Però anche durante l'udienza filtro varie persone verranno a conoscenza di tutti gli ascolti: basta che uno di loro li racconti fuori, e siamo da capo. "Infatti, il problema è che non bastano le norme penali: a monte di tutto, c'è una questione di deontologia di avvocati, magistrati, polizia giudiziaria, giornalisti. Se non c'è rigore anche nell'applicazione del codice deontologico da parte di tutti, la legge non può bastare". Giustizia: "agente, restituisca gli straordinari", il Ministero rifà i conti alle guardie di Marco Galvani Il Giorno, 18 luglio 2015 Polizia penitenziaria sul piede di guerra, chiesti soldi di due anni fa. Il legislatore nella Legge di Stabilità ha modificato il criterio di conteggio. Contrordine, dopo due anni il ministero della Giustizia si riprende i soldi pagati agli agenti del carcere per gli straordinari. "Provvedimenti legittimi, per carità, ma è paradossale e assurdo che cambino le regole con effetto retroattivo", la denuncia di Angelo Urso, segretario regionale della Uil. Oggetto del contendere, il pagamento della giornata di lavoro quando un agente viene richiamato in servizio dal riposo settimanale. Nel 2012 una sentenza del Consiglio di Stato aveva stabilito che "il dipendente dev'essere retribuito sia con l'indennità giornaliera sia con l'applicazione della misura stabilita per il lavoro straordinario sul presupposto che la prestazione lavorativa ecceda le 36 ore settimanali". A quel punto il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria con una circolare ha invitato tutti gli istituti ad adeguarsi alle decisioni del giudice amministrativo. Disposizione ribadita dal Ministero anche in una nota del marzo 2013. Poi, però, nella Legge di Stabilità per il 2014, il legislatore ha cambiato le carte in tavola interpretando le norme su cui il Consiglio di Stato aveva costruito la sua sentenza in maniera restrittiva: il rientro al lavoro nella giornata di riposo, quindi, non va pagato come straordinario ma come un normale turno di servizio. E che il giorno di riposo può essere usufruito in un altro periodo. Con la stessa tempestività con cui aveva disposto il pagamento, il Dipartimento ha distribuito le nuove regole sottolineando l'importanza di "procedere al recupero delle somme liquidate e pagate a titolo di lavoro straordinario nel 2012 e nel 2013". Il risultato è che oggi "ci chiedono indietro i soldi - sbotta il segretario regionale della Uil penitenziari, Domenico Benemia. È stato il ministero della Giustizia a stabilire le regole, su quelle gli agenti hanno prese le loro decisioni di rinunciare al giorno di riposo per guadagnare qualcosa in più e adesso ci ritroviamo a dover restituire anche 600 euro. Se lo Stato si rende conto di aver sbagliato, non può farlo pagare a noi". Giustizia: giornali online non oscurabili; regole differenti per blog, forum e social network di Dario Ferrara Italia Oggi, 18 luglio 2015 Sentenza Cassazione, sez. unite penali: quotidiani telematici assimilati a quelli cartacei. Il quotidiano online è assimilato in tutto e per tutto al giornale cartaceo e non può essere sottoposto a sequestro preventivo mediante oscuramento per un articolo ritenuto passibile di diffamazione. Ma le garanzie costituzionali che valgono per la stampa non possono essere applicate a blog, forum e tutti "i generici siti internet" che appartengono all'ambito "vario ed eterogeneo" della diffusione di notizie in rete. Ne consegue che invece ben si può ricorrere al sequestro preventivo del semplice sito web o della singola pagina telematica quando ricorrono i presupposti indicati dall'articolo 321 cpp. Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza 31022/15, pubblicata il 17 luglio. Evoluzione tecnologica Sono annullati senza rinvio l'ordinanza del tribunale impugnata e il decreto di sequestro preventivo adottato dal gip. La vicenda nasce dall'articolo ritenuto diffamatorio a carico di un magistrato di Cassazione: l'oscuramento colpisce la pagina telematica con il pezzo "incriminato" pubblicato sulla versione online del quotidiano Il Giornale (Il Giornale.it), diretto da Alessandro Sallusti, indagato assieme al collega Luca Fazzo. Ma anche la testata giornalistica telematica che non è l'avamposto su Internet del giornale tradizionale ben può ottenere le garanzie costituzionali previste per la stampa. E ciò grazie a un'interpretazione delle norme che sta al passo con l'evoluzione tecnologica. In proposito deve ricordarsi che i casi nei quali il giornale può essere sottoposto al sequestro preventivo sono tassativamente indicati dalla legge e fra essi non rientra il reato di diffamazione a mezzo stampa. Informazione qualificata. Non c'è alcun dubbio, poi, che soltanto il vero giornale online possa essere equiparato al quotidiano cartaceo quanto alle garanzie previste per la stampa. È un prodotto editoriale, con una propria testata identificativa, diffuso con regolarità in rete; ha la finalità di raccogliere, commentare e criticare notizie di attualità dirette al pubblico; ha un direttore responsabile, iscritto all'albo dei giornalisti; è registrato presso il Tribunale del luogo in cui ha sede la redazione; ha un hosting provider, che funge da stampatore, e un editore registrato presso il registro degli operatori della comunicazione. Insomma: l'assimilazione fra testata su internet e su carta vale sul piano "ontologico" e "funzionale". Pesano infatti le responsabilità civili, penali e amministrative collegate alle pubblicazioni nelle testate registrate e che risultano legate a doppio fi lo alle garanzie costituzionali. Natura cautelare Diverso è il caso di blog, forum e social network: si tratta di forme di comunicazione che costituiscono certamente espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero ex articolo 21 della Costituzione, ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa: rientrano infatti nell'area vasta che non è soggetta a tutele e obblighi previsti dalla normativa sull'informazione. Il decreto legislativo 70/2003 ha recepito la direttiva 200/31/Ce regolamentando determinati aspetti giuridici della società dell'informazione. Dalle norme emerge che nel mondo digitale il sequestro preventivo - emesso perché c'è il fumus del reato e bisogna scongiurare il pericolo che continui - investe direttamente la disponibilità delle risorse telematiche informatiche, che sono equiparate a "cose", e solo come conseguenza si traduce in inibizione di attività: ecco allora che il provvedimento non tradisce la sua connotazione cautelare né si pone dunque al di fuori della legalità. Lettere: 3 anni dalla morte di Alfredo Liotta, le indagini preliminari sono ancora in corso di Simona Filippi Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2015 La denuncia del Difensore civico di Antigone, Simona Filippi. Era il 26 luglio del 2012, quando Alfredo Liotta, a soli 41 anni, veniva trovato cadavere nella sua cella della C.C. di Siracusa. Secondo lo psichiatra dei familiari, Alfredo era affetto da "epilessia tonico clonica temporale con aura ad espressività comportamentale caratterizzata da perdita percettiva spazio-temporale, deliri e allucinazioni, aggressività, rotture comportamentali". In un esposto depositato a luglio 2013, il Difensore civico di Antigone denunciava i molti aspetti oscuri e contraddittori delle cause che hanno portato alla morte di Alfredo: cosa è stato fatto per i problemi fisici e psichici del detenuto, considerati "strumentali" dal personale penitenziario, quando nel giro di sei mesi aveva perso circa 40 chili e non riusciva più neanche a camminare? Arriviamo a novembre 2013, quando la Procura della Repubblica di Siracusa iscrive dieci persone nel registro degli indagati tra Direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dal Tribunale. Da allora è stata fatta una nuova perizia medico legale e poi di nuovo un silenzio assordante. Eppure secondo lo psichiatra dei familiari la "evidente inadeguatezza delle cure offerte" è stata, assieme a "misure trattamentali" inadeguate in quanto ignare della malattia, la causa che ha portato alla morte di Alfredo. Chiediamo con forza la chiusura delle indagini per evitare che ancora una volta quando parliamo di ingiuste morti dentro alle carceri sia la parola "prescrizione" a mettere fine alla vicenda. Lettere: Renzi e l'armistizio con i magistrati di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 luglio 2015 La deroga sulle pensioni dei magistrati e i giusti sospetti di Giachetti. Roberto Giachetti è il vicepresidente della Camera, è un deputato del Pd, e il politico che Renzi vorrebbe schierare a Roma nel caso di elezioni anticipate e nonostante la sua fedeltà assoluta alla dottrina renziana ieri pomeriggio non ha potuto fare a meno di notare un pasticcio clamoroso e quantomeno sospetto combinato dal governo guidato dall'amico Rottamatore. Il caso in questione riguarda una norma particolare contenuta nella legge sulla Pubblica amministrazione, in discussione in questi giorni in Parlamento, che permette ai magistrati di rinviare ancora di un anno, dopo una proroga già ottenuta nel 2014, l'uscita dagli uffici giudiziari. Una mossa che, stando a quanto suggerito dallo stesso Giachetti, lascerebbe quasi intendere che il governo Renzi, in questa fase in cui il Pd sente in modo minaccioso il fiato sul collo da parte delle procure, abbia scelto di proporre alla magistratura un piccolo armistizio politico. "Avevamo stabilito solo un anno fa nel decreto sulla Pubblica amministrazione - dice Giachetti - che i magistrati non potessero restare in attività oltre i 70 anni (e già questo la dice lunga su come vanno le cose in Italia). A distanza di qualche mese scopro che si fa una deroga per un anno per i magistrati ordinari perché, altrimenti, ci è stato spiegato che ci sarebbe la paralisi della giustizia. Ma cosa c'è di più paralizzante di un processo penale che mediamente dura 5 anni e uno civile, nella migliore delle ipotesi, 10? Va bene, ma questa ormai è andata. Scopro ora che nei giorni scorsi è stata approvata una norma ad hoc che consente la proroga al pensionamento dei magistrati della Corte dei Conti". Lo sfogo di Giachetti sintetizza bene una contraddizione importante della dottrina renziana che riguarda il rapporto con i magistrati: annunciare grandi rotture salvo poi ricucire all'ultimo le rotture per evitare rotture. Finora, spesso, è andata così. Si è giocato molto con i simboli senza raggiungere risultati concreti. I simboli sono importanti, ovvio, ma ciò che conta è la sostanza dei provvedimenti. E purtroppo, dopo un anno e mezzo, sul fronte giustizia l'approccio del governo, tranne alcune eccezioni nel lavoro sulle carceri fatto dal ministro Orlando, ancora non raggiunge neppure lontanamente la sufficienza. Lettere: ragazzi di Nisida, chiude la comunità di Serena Capozzi Il Mattino, 18 luglio 2015 Siamo abituali a distinguere tra buoni e cattivi senza mezze misure; ho imparato invece grazie al mio lavoro da educatore presso la comunità pubblica "Il Ponte" di Nisida che le persone etichettate come "cattive", in fondo sono solo le più sfortunate. Il procuratore antimafia Roberti denunciava che contro i clan ci sono "cittadini inermi e istituzioni inadeguate". Samuele Ciambriello ha detto: "La camorra risucchia i giovani quando abbandonano il carcere". I minori giudicati e condannati hanno un loro vissuto, una storia, a volte una famiglia alle spalle. Soprattutto, vivono in un contesto sociale disgregato e altamente a rischio di devianza. Come educatore condividi ogni giorno con loro, come in una grande famiglia. C'è un riconoscimento reciproco in cui non c'è timore ad aprirsi all'altro poiché si è in assenza di giudizio. Da questa esperienza mi sento arricchita. Ho preso parte alla vita di ognuno dei ragazzi, compresa quella di Emanuele Sibilio ucciso a Forcella, senza mai mettermi su un piedistallo, ma ascoltando, sostenendo. In quei momenti hanno messo in pausa una vita da "cattivi" ragazzi, scoprendo possibilità di vita alternative. E ora che la Comunità ha chiuso le porte siamo rimasti fuori anche io e il gruppo che per anni ha creduto nella missione educativa. Non sappiamo cosa riserverà il futuro a questi "cattivi" ragazzi e a noi operatori. Le istituzioni della Giustizia minorile sono oramai inadeguate. Io credo che occorra liberare i minori ed educare gli adulti. Risponde Pietro Gargano La lettrice è della cooperativa Il Quadrifoglio. Le vicende in corso di tanti ragazzi vittime e carnefici nei vicoli di Napoli dovrebbero bastare a darle ragione. Reggio Emilia: all'ex Opg restano ancora 34 internati, sono provenienti da altre Regioni di Luciano Salsi Gazzetta di Reggio, 18 luglio 2015 L'ultimo paziente residente in Emilia-Romagna è stato trasferito nella Rems parmense. Ma altre regioni latitano. Il resto dell'Italia arranca, ma l'Emilia-Romagna è arrivata al traguardo. Ieri l'ultimo internato residente nella nostra regione è stato trasferito dall'ex-ospedale psichiatrico giudiziario di via Settembrini alla Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza Rems) aperta provvisoriamente a Casale Mezzani, in provincia di Parma. Se non fosse per le trentaquattro persone di altre regioni che vi sono ancora rinchiuse, l'ex-Opg reggiano potrebbe essere davvero soppresso. Invece vi si trovano ancora ventitré internati del Veneto, per i quali quella regione è ancora lontana dal realizzare la Rems, sei della Lombardia, due della provincia di Trento, uno delle Marche, uno della Sicilia e uno della Toscana. Così, dei cinque reparti di cui era composto, l'ex-Opg è costretto a mantenerne attivi tre, in attesa che questi internati siano accolti nelle Rems o dimessi. Di questo passo, però, si prevede che alla fine del 2015 sarà ancora nella struttura reggiana almeno la maggior parte di quelli del Veneto. La situazione è ancora peggiore negli altri Opg (Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Secondigliano e Aversa) di cui la legge numero 9 del 7 febbraio 2012 aveva sancito il "definitivo superamento". Nonostante la proroga di due anni della sua applicazione, la maggior parte delle regioni è giunta impreparata al 31 marzo 2015, la data della chiusura formale degli Opg. Il fatto che centinaia di internati continuino ad esservi richiusi ha spinto Vanna Iori, deputata reggiana del Pd, a rivolgere al ministro della Salute Beatrice Lorenzin un'interrogazione per sollecitare il processo di effettiva cancellazione delle strutture eredi degli antichi manicomi criminali. "Dopo il 31 marzo - sottolinea Vanna Iori - in vista della chiusura vi è stata sospesa l'ordinaria manutenzione. Quindi in queste strutture fatiscenti le condizioni degli internati sono diventate ancora più disumane e si stanno verificando disordini ed eventi gravissimi, nonché episodi di violenza ed autolesionismo". La parlamentare reggiana cita un tentativo di suicidio e l'aggressione a due poliziotti verificatisi a Montelupo Fiorentino, dove sono rinchiuse ancora novanta persone, e i danneggiamenti e gli atti autolesivi commessi a Secondigliano, dove rimangono cinquantaquattro internati. Ne trae argomento per sollecitare un intervento tempestivo del governo per scongiurare il ripetersi di questi episodi e accelerare la definitiva chiusura degli Opg. "L'Emilia-Romagna - sottolinea Vanna Iori - è all'avanguardia in questo processo, ma Reggio, dovendo ospitare persone di altre regioni, ha a che fare con gli stessi problemi". Alla data del 31 marzo scorso l'Opg di via Settembrini aveva 85 internati, a cui si dovevano aggiungere 44 reclusi, cioè carcerati a cui è riconosciuta la seminfermità mentale o che hanno accusato patologie psichiatriche dopo la condanna. Questi ultimi, divenuti da allora 45, di cui sette emiliano-romagnoli, devono rimanere reclusi fino all'esaurimento della pena nelle stesse celle trasformate in sezione psichiatrica del carcere ordinario. Degli 85 internati, ben 51 sono stati dimessi o trasferiti nelle Rems. Gli emiliano-romagnoli sono stati distribuiti fra le Rems provvisorie di Bologna, che ha quattordici posti, e di Casale Mezzani, che ne ha dieci, in attesa che nel 2017 siano completate le due Rems definitive per dieci più venti posti a Reggio, in via Montessori. "Gli Opg - rileva Gaddo Maria Grassi, direttore del dipartimento di salute mentale dell'Ausl - esistevano da oltre un secolo ed erano ormai luoghi strutturalmente non compatibili con gli orientamenti della psichiatria. Nella struttura di via Settembrini continuerà ad operare almeno il personale necessario per i detenuti. Attualmente vi sono impiegati cinque psichiatri, tre psicologi, quattro tecnici della riabilitazione e una cinquantina di infermieri e operatori dei servizi sanitari". Ferrara: visita ispettiva in carcere di Ausl e Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno telestense.it, 18 luglio 2015 Desi Bruno: "Segnalate alcune criticità come infiltrazioni o intonaci danneggiati. Manutenzione ordinaria affidata anche a detenuti". 314 ristretti a fronte di una capacità di 467 posti. Un giudizio "positivo nel complesso", perché "non sono stati rilevati profili di sovraffollamento", "non sono emerse situazioni di rischio per la sicurezza" e perché "le condizioni igieniche e strutturali dei locali e delle attrezzature sono risultate idonee": arrivano buone notizie per la Casa circondariale di Ferrara dopo la visita ispettiva semestrale dell'Ausl locale, come riferisce la Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Desi Bruno. Come emerge dal verbale dei funzionari, "al momento dell'ispezione erano presenti 314 detenuti, di cui 128 stranieri, a fronte di una capacità ricettiva tollerabile di 467 posti". I ristretti sono distribuiti su 10 sezioni detentive: collaboratori di giustizia, sezione protetti, due sezioni penali, tre sezioni circondariali, nuovi giunti, semiliberi e alta sicurezza. Due detenuti godono del regime di semilibertà e cinque sono ammessi al lavoro esterno, mentre sono presenti 85 soggetti tossicodipendenti. Da segnalare, riporta la Garante, come "la manutenzione ordinaria delle aree esterne e degli impianti di riscaldamento ed elettrico viene eseguita da personale interno, non solo personale della Polizia penitenziaria ma anche detenuti". Pur in un contesto che non denota particolari criticità, l'Ausl sottolinea comunque alcune carenze, riferisce Bruno: "In alcune parti all'interno dei fabbricati sono presenti infiltrazioni di acqua meteorica dai tetti e dalle pareti esterne", "alcuni servizi igienici sono vetusti", "non è ancora perfezionato il piano di sorveglianza per la prevenzione della legionellosi" e in cucina "iniziano ad essere presenti distacchi degli intonaci con il conseguente rischio di caduta sui tavoli di lavorazione degli alimenti". Cucina che, eccezione fatta per questo problema, passa a pieni voti l'esame: "Sono stati effettuati lavori di manutenzione alla pavimentazione delle celle frigorifere, oltreché della zona lavaggio, che appaiono di facile pulizia e sanificazione- scrive l'Ausl-. Tutto il personale operante in cucina indossava abbigliamento idoneo così come è idonea la modalità di conservazione degli alimenti". Prato: le telecamere entrano alla Dogaia e documentano le condizioni di vita dei detenuti La Repubblica, 18 luglio 2015 Viaggio dentro al carcere della Dogaia della tv fiorentina Tvr 7 Gold che sta mandando in onda un ciclo di interviste e di approfondimenti realizzati in presa diretta nel penitenziario di Prato. La trasmissione intitolata "Liberamente" (Percorsi liberi di vita carceraria), in 20 puntate, è stata ideata da Elisangelica Ceccarelli per mostrare, come spiega lei stessa, "aspetti sconosciuti ma estremamente importanti del mondo della detenzione, aspetti che hanno uno scopo essenziale: reintrodurre il detenuto nella società nel modo migliore". Le riprese nella Dogaia sono state autorizzate dal ministero di Grazia e giustizia e "Particolare attenzione sarà rivolta al detenuto", dice Ceccarelli. "Racconteremo le sue giornate, lo scandire lento e inesorabile delle ore, il rapporto che si instaura fra i detenuti stessi. Cercheremo anche di conoscere meglio il loro mondo interiore. Non solo, attraverso interviste "ad hoc" sentiremo dalla loro viva voce quali sono gli aspetti del carcere che più li affliggono e cosa si aspetterebbero da una struttura che ha il compito principale di provvedere alla loro riabilitazione e al conseguente reinserimento nella società". Al termine del racconto, uno psicologo, il dottor Loris Pinzani, farà un commento sulla vicenda del detenuto intervistato. Parleranno anche il direttore, gli psicologi, gli assistenti sociali, i volontari che lavorano in carcere. "Cercheremo anche di far capire come si svolge la giornata del singolo detenuto. Quanto sia difficile vivere in un mondo parallelo, lontano dai propri affetti e dalla realtà. Tuttavia non dimenticheremo mai che quelle persone sono lì rinchiuse perché hanno commesso gravi errori e quindi stanno espiando la loro pena". La trasmissione va in onda su Tvr 7 Gold (canale 77) ogni mercoledì alle 23.15 e la domenica alle 11.30. Il venerdì alle 22 va in onda su Tvr Più (canale 13). Enna: detenuto seviziato in cella da cinque compagni, la Procura apre un'inchiesta Ansa, 18 luglio 2015 Lui tace per timore, poi madre dà allarme. Procura apre inchiesta. È una storia di sevizie atroci quella che arriva dal carcere di Enna, dove un detenuto è stato torturato per oltre un mese dai compagni di cella. Lui, un trentenne accusato del furto di un motorino, ha taciuto per paura. Ad accorgersi dei segni che il figlio portava su di sé è stata la madre durante un colloquio in carcere. E sono scattate le verifiche. Il giovane ora rischia di perdere un piede. La Procura ha aperto un'inchiesta e il ministero della Giustizia avrebbe disposto un'indagine interna per accertare la dinamica dei fatti e perché nessuno, tra chi opera nella struttura penitenziaria, si sia accorto di nulla. L'uomo è stato torturato per più di un mese: i compagni di cella gli versavano l'acqua bollente della pasta sui piedi; e poi sulle ustioni spalmavano detersivi, sale, aceto. L'hanno stuprato, hanno spento cicche di sigarette nell'ano. I cinque gli impedivano di uscire dalla cella nel timore che altri notassero le ferite. E i timori di ritorsioni verso i suoi familiari hanno indotto la vittima a non dire nulla. È stata la madre del detenuto, infatti, a dare l'allarme durante un colloquio nel carcere e grazie a lei nei giorni scorsi la vicenda è finalmente emersa. La donna ha notato la gravissima tumefazione che il figlio aveva ad un orecchio e ha cominciato a urlare. Immediatamente l'uomo è stato sottoposto ai controlli medici e sono stati scoperti i segni di sevizie indicibili. Il giovane rischia di perdere un piede. La Procura di Enna ha aperto un fascicolo e già sono stati effettuati i primi accertamenti sulla vittima. I responsabili delle sevizie sono tutti catanesi, come la vittima, e sono detenuti comuni per reati vari, ma nessuno a sfondo sessuale. Il più giovane ha 20 anni, il più grande ne ha 46, gli altri tre sono trentenni. Ora, in relazione a quanto accaduto, sono accusati di violenza sessuale di gruppo, lesioni gravissime, sevizie. Tre sono stati trasferiti in un altro carcere, mentre altri due sono ancora, in isolamento, a Enna. Isernia: detenuto epilettico rischia vita, salvato da Polizia penitenziaria e da un'infermiera Il Sannio, 18 luglio 2015 Un detenuto del carcere di Isernia ha rischiato di morire per una forte crisi epilettica, ma è stato salvato dal pronto intervento del personale di Polizia Penitenziaria e dell'infermiera di turno. A darne notizia è il sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che denuncia come, ad Isernia e nelle altre case di pena molisane, il medico sia di turno solamente dalle 8 alle 14. "Durante il turno pomeridiano, - racconta il segretario provinciale del Sappe, Luigi Frangione - il personale di polizia penitenziaria, insieme all'infermiera di turno, è dovuto intervenire per un detenuto alle prese con una forte crisi epilettica. Portato nell'infermeria del carcere, in attesa del medico reperibile (perché il dottore e presente solo dalle 8 alle 14 per i tagli determinati alla sanità regionale), poliziotti e infermiera hanno stabilizzato il ristretto attraverso le varie tecniche di pronto soccorso, tenendolo cosciente. Ciò nonostante è andato in shock e ha subito una crisi respiratoria, perdendo totalmente coscienza per almeno 10/15 secondi. Solo grazie al nostro repentino intervento e alla nostra caparbietà si è potuto evitare il peggio. Nel frattempo altri colleghi avevano allertato il 118. I sanitari una volta giunti in Istituto hanno semplicemente appurato che i parametri vitali si erano ristabiliti e che non necessitava il trasporto in ospedale. Credo proprio di poter dire che gli abbiamo salvato la vita". Frangione contesta "i tagli spropositati dello Stato e della Regione Molise in materia di sanità, che portano gli istituti penitenziari regionali ad avere il medico in carcere solamente in mattinata, mentre il servizio dovrebbe essere garantito almeno fino alle 24". Aggiunge da Roma il segretario generale Sappe, Donato Capece: "Ai poliziotti penitenziari di Isernia va un grande plauso per quel che hanno fatto. La situazione nelle carceri resta allarmante. Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Questo fa capire come il servizio medico in carcere debba essere garantito sempre; altro che dalle 8 alle 14, come a Isernia! Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici". Avellino: D'Agostino (Sc) interroga ministro "in carcere manca persino l'acqua potabile" Ansa, 18 luglio 2015 Interrogazione su Bellizzi Irpino, guasto rete idrica da 6 anni. "Il ministro della Giustizia dica quali provvedimenti intenda adottare nell'immediato per risolvere definitivamente il problema della cronica mancanza di acqua potabile nell'Istituto di pena di Bellizzi Irpino, come intenda garantire la sicurezza di chi vi lavora e le condizioni minime di dignità dei detenuti". È quanto chiede in un'interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il deputato di Scelta Civica, Angelo Antonio D'Agostino. "Lo scorso 15 luglio - si legge nell'atto di sindacato ispettivo - alle 3.00 del mattino, l'istituto penitenziario di Bellizzi Irpino è stato interessato da una violenta protesta posta in essere dai detenuti a causa della mancanza d'acqua. Secondo Sappe e Uil penitenziari, i detenuti hanno incendiato effetti personali, stracci e lenzuola imbevuti di olio e carta, bottiglie di plastica, e hanno provocato lo scoppio di alcune bombolette di gas. Un sovrintendente della Polizia Penitenziaria ha dovuto ricorrere d'urgenza alle cure del pronto soccorso di Avellino per aver inalato fumi all'interno della sezione nella quale i detenuti hanno incendiato stracci imbevuti di olio e carta, bottiglie di plastica e bombolette vuote". "A quanto è dato sapere - rileva il parlamentare - si tratta di un problema che deriva dal malfunzionamento delle pompe idriche installate nell'Istituto. Un problema, questo, che si protrae ormai da molto tempo, almeno 6 anni, senza che chi di dovere abbia provveduto alla riparazione delle pompe garantendo il corretto funzionamento dell'impianto di distribuzione dell'acqua potabile". "È evidente - conclude D'Agostino - che occorre evitare che altri problemi si sommino alla condizione di difficoltà nelle quali versano gli istituti di pena a causa del sovraffollamento e della carenza di personale. Orlando, attento alla realtà penitenziaria italiana, darà senz'altro una risposta soddisfacente e risolutiva alla nostra interrogazione". Santa Maria C.V.: la Garante Tocco "grave problema di mancata erogazione dell'acqua" Ansa, 18 luglio 2015 Ieri mattina il Consigliere regionale del Pd, Enza Amato, e il Garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, hanno visitato il carcere di S. Maria Capua Vetere, "riscontrando immodificato il grave problema di mancata erogazione dell'acqua". "In questa Casa Circondariale - ricordano Amato e Tocco - attualmente ci sono 1100 detenuti. E con il personale sono 1300 le persone che vivono quotidianamente tale disagio. L'impianto idrico di questa sede - spiegano Amato e Tocco - non è mai stato allacciato alla rete dell'acquedotto comunale, come l'intera area limitrofa, per cui l'acqua erogata viene prelevata da un pozzo semi-artesiano e filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione. È del tutto evidente che una soluzione di questo tipo è insufficiente in particolar modo nel periodo estivo e per i piani più elevati dei reparti detentivi dove l'acqua praticamente c'è solo nelle prime ore del mattino". "C'è una situazione tesa e difficile e circa 200 detenuti hanno chiesto il trasferimento, pur avendo le famiglie vicino S. Maria. Alcuni li abbiamo incontrati - continuano Amato e Tocco - e ci hanno raccontato che non possono lavarsi tutti i giorni, che l'acqua è razionata, che c'è un problema igienico per le cucine, questo nonostante gli sforzi che la Direzione ha messo già in atto per far fronte all'emergenza ed alleviare i disagi dei detenuti. "Occorre allacciare in tempi rapidi l'impianto alla rete idrica comunale - affermano Amato e Tocco. "Chi non conosce i disagi che comporta la mancanza d'acqua in una normale abitazione anche per un solo giorno proviamo ad immaginare cosa accade quando questo disagio perdura da circa venti anni e in un luogo dove convivono oltre 1.000 persone". "Interesseremo della questione anche la Regione Campania - concludono Amato e Tocco - per tentare di sbloccare questa situazione così incresciosa e di mettere in atto tutte le iniziative possibili per far si che un'opera, per cui esiste già un progetto esecutivo, possa essere realizzata in tempi rapidi". Livorno: Donzelli (Fdi); il nuovo reparto di massima sicurezza è pericoloso per gli agenti Adnkronos, 18 luglio 2015 "Il reparto di massima sicurezza del carcere de Le Sughere di Livorno, di recente apertura, ha già gravi problemi strutturali e carenze che pongono a serio rischio la sicurezza degli agenti di polizia penitenziaria". È quanto denuncia il capogruppo di Fratelli d'Italia in Regione Giovanni Donzelli, che questa mattina ha fatto visita al penitenziario dopo le aggressioni di cui sono stati oggetto nei giorni scorsi alcuni agenti. "È incredibile che non sia stato costruito un cancello divisorio fra detenuti e agenti e che l'impianto di videosorveglianza non funzioni - sottolinea Donzelli - mentre i carcerati vivono in celle che sembrano stanze d'albergo, gli agenti sono relegati in locali totalmente inadeguati, che cadono letteralmente a pezzi, e la presenza di una palestra è grottesca, se si considera che versa in condizioni pietose. Il reparto che ospita i detenuti più pericolosi, inoltre, perde acqua dal tetto anche quando fuori non piove". Donzelli ha incontrato i rappresentanti del sindacato di polizia penitenziaria Sinappe e la direzione del carcere stesso, "che hanno dimostrato grande attaccamento al proprio lavoro e che abbiamo ringraziato per il grande lavoro che svolgono ogni giorno", dice l'esponente di Fratelli d'Italia. "La carenza del personale crea a Le Sughere una situazione ancor più grave che altrove - fa notare ancora Donzelli - perché nonostante che gli agenti siano costretti a rinunciare ai turni di riposo per sopperire alle carenze, capita che a sorvegliare resti anche un solo uomo per ogni piano, fattore che mette in pericolo l'incolumità di chi lavora. È una vergogna che lo Stato lasci in queste condizioni persone addette a garantire la sicurezza di tutti i cittadini - conclude Donzelli - ci occuperemo seriamente del problema ed interverremo in ogni sede per restituire dignità a chi lavora nei penitenziari". Spoleto: Sappe; due agenti aggrediti e feriti, sindacato chiede uso di spray anti aggressione Ansa, 18 luglio 2015 Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha denunciato "un'aggressione tanto violenta quanto ingiustificata" che ha avuto come conseguenza il ferimento di due poliziotti penitenziari del carcere di Spoleto. Il Sappe chiede quindi che il corpo sia dotato di spray anti aggressione. "I poliziotti penitenziari - ha spiegato il segretario Donato Capece - erano intervenuti nella cella di un detenuto, un italiano ristretto per reati comuni, per altro non nuovo a fatti del genere, che stava tentando di appiccare un incendio nella cella. È solo grazie all'ausilio di altri colleghi, intervenuti immediatamente sul posto, che si è riusciti a contenere il detenuto stesso e a evitare ulteriori complicazioni per gli agenti, che sono comunque dovuti ricorrere alle cure del nosocomio cittadino le lesioni subite. A loro va la nostra vicinanza e solidarietà". Il Sappe, in una nota, rinnova al ministro della Giustizia Orlando e ai vertici dell'Amministrazione centrale la richiesta "di dotare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray anti aggressione già assegnato, in fase sperimentale, a polizia di Stato e carabinieri". "Sono decine e decine - sostiene il sindacato - le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall'inizio dell'anno. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli Agenti di Polizia Penitenziaria che lavorano in carcere?". Capece torna poi ad evidenziare come l'aggressione nel carcere di Spoleto sia "sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti". "E che a poco serve - sottolinea ancora - un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale". Fabrizio Bonino e Loreno Scerna, segretario e vice segretario regionale Sappe per l'Umbria, evidenziano che, nel 2014, nelle carceri umbre si sono contati "69 episodi di colluttazione e 29 ferimenti". "Nel carcere di Spoleto - proseguono - le colluttazioni sono state 23 e due i ferimenti, mentre i suicidi di detenuti sventati dai poliziotti penitenziari sono stati 4e 44 gli episodi di autolesionismo". Rossano (Cs): Sappe; un detenuto extracomunitario ha dato fuoco alla cella Ansa, 18 luglio 2015 Nel carcere di Rossano un detenuto extracomunitario ha dato fuoco alla cella, determinando, così, un vasto incendio che ha distrutto tutto e provocato una coltre di fumo all'interno della sezione detentiva. Solo grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria è stato scongiurato il peggio. L'incendio si sarebbe potuto estendere a tutta la sezione detentiva e provocare danni ulteriori alle cose e, soprattutto, alle persone. Lo rende noto il Sappe. "A Rossano, come abbiamo più volte denunciato - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale - c'è una forte carenza di personale di polizia penitenziaria, mancano mezzi e risorse economiche. Si tratta di un istituto la cui gestione è particolarmente complessa, anche per la presenza di detenuti islamici condannati per reati di terrorismo internazionale". Napoli: favori al boss in cella, condannato a 3 anni e 6 mesi agente di Polizia penitenziaria di Franco Coppola Roma, 18 luglio 2015 Tre anni e sei mesi di galera ad un agente di polizia penitenziaria che favori gli incontri di un boss del clan Cesarano con l'amante. Paradossale ma vero. I giudici del collegio della prima sezione penale (presidente Maria Laura Ciollaro) del tribunale di Torre Annunziata hanno inflitto la pesante condanna per corruzione a Vincenzo Orlando. Il 47enne di Scafati era in servizio presso il carcere di Secondigliano nella struttura penitenziaria durante il periodo di detenzione del "colonnello" del clan Cesarano, Antonio Inserra, conosciuto con il soprannome di "Tonino o guerriero". Duro verdetto anche per il fratello del ras della cosca di Ponte Persica. Salvatore Inserra (49 anni), che ha incassato 9 anni e 6 mesi per associazione a delinquere e concorso in corruzione. Il pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, Pierpaolo Filippelli, aveva chiesto per entrambi, rispettivamente difesi dagli avvocati Salvatore Tecce ed Antonio Cesarano, 16 anni complessivi di carcere. Vincenzo Orlando e Antonio Inserra sono gli unici imputati ad aver scelto di essere giudicati con rito ordinario, nell'ambito del processo stralcio nato dall'inchiesta "Easy mail", condotta dalla Dda di Napoli nel 2009. Inchiesta che ha già portato a 14 condanne in abbreviato nei confronti di altrettanti imputati. Tra questi un altro secondino. Pasquale Cipollaro, il secondo agente della penitenziaria condannato a 4 anni per aver favorito Tonino o guerriero, facendogli arrivare in cella droga e schede sim da inserire nel telefono cellulare. Cellulare che il boss del clan che controlla il mercato dei fiori di Pompei usava regolarmente in carcere, nonostante avesse il divieto di comunicare con l'esterno. Il piccante particolare fu rivelato a processo da uno degli inquirenti che condusse l'interessante inchiesta "Easy Mail". "Gli incontri - raccontò il teste in aula nello scorso febbraio - avvenivano grazie agli agenti della polizia penitenziaria corrotti. In cambio dei piaceri ricevevano soldi". Un processo, quello chiuso in primo grado e con le ultime condanne in ordinario, che ha in pratica svelato come i vertici del clan, nonostante fossero in "gabbia", impartissero comunque coi classici pizzini istruzioni ai familiari per gestire gli affari illeciti della cosca. Novara: la scuola "Rodari" rimessa a nuovo dai detenuti della Casa Circondariale oknovara.it, 18 luglio 2015 È stato presentato ieri a lavori ultimati l'intervento di tinteggiatura degli interni effettuato alla Scuola Primaria Rodari di Via Cavigioli dai detenuti della Casa Circondariale, accompagnati dagli agenti della Polizia Penitenziaria e sotto il coordinamento e il supporto operativo e logistico di Assa. Il tutto nell'ambito dell'estensione del protocollo delle "Giornate di recupero del patrimonio ambientale". Firmatari del protocollo sono Comune di Novara, Magistratura di Sorveglianza, Casa Circondariale, Ufficio esecuzioni penali esterne e Assa. Soddisfazione è stata espressa dalla dirigente scolastica dell'Istituto Comprensivo "Fornara Ossola", Fabia Scaglione, che ha presentato l'intervento insieme al sindaco, Andrea Ballarè, alla direttrice della Casa Circondariale, Rosalia Marino, al presidente di Assa S.p.A., Marcello Marzo, all'assessore ai lavori pubblici ed edilizia scolastica, Nicola Fonzo, e al comandante della Polizia Penitenziaria, commissario Rocco Macrì. "Come era previsto - ha illustrato la dirigente scolastica - i detenuti hanno proseguito i lavori, fatti al secondo piano durante le vacanze pasquali, con la tinteggiatura di aule, laboratori, spazi comuni e bagni di primo piano e seminterrato. Siamo contenti che ora anche la nostra scuola Rodari, come lo scorso anno scolastico era stato per la Scuola Primaria Don Milani di Via Premuda, sia stata rimessa a nuovo, con la ritinteggiatura e i lavori di manutenzione divenuti ormai estremamente necessari, tramite questo progetto che è molto utile alla collettività e che persegue il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. Al ritorno sui banchi scolastici, ai nostri alunni e alle loro famiglie sottolineeremo ancora una volta la valenza del progetto di cui ha potuto beneficiare la nostra scuola e rinsalderemo ulteriormente l'amicizia che è ormai nata tra il nostro Istituto e la Casa Circondariale". Il sindaco Andrea Ballarè ha ribadito il grande valore di questo tipo di iniziativa di rilievo nazionale "che - ha detto - vogliamo riproporre e ancora potenziare. Si tratta infatti di un modo intelligente di combinare un obiettivo che dovrebbe essere intrinseco all'attività del carcere, cioè il valore rieducativo della pena, con una esigenza sempre più sentita in tempi di crisi e di tagli ai bilanci dalle amministrazioni locali, cioè quella di dare vita a modalità alternative per rispondere alle diverse esigenze che si manifestano in città". "Sono molto soddisfatto dei risultati dell'iniziativa che Assa sta promuovendo dal 2014 attraverso il protocollo delle "Giornate di recupero del patrimonio ambientale", che prevede l'impiego dei detenuti per lavori di pulizia e riordino di aree e strutture pubbliche e che sta consentendo la realizzazione di importanti interventi per la comunità", ha sottolineato il presidente di Assa, Marcello Marzo. I lavori si sono svolti impiegando il materiale necessario acquistato dal Comune di Novara. "La qualità della scuola passa anche dalle condizioni dei locali che quotidianamente accolgono i ragazzi - ha sottolineato l'assessore Fonzo. Inoltre questo intervento ha ben evidenziato come, facendo ognuno la propria parte, vengano messe in circolazione importanti sinergie e competenze che permettono di raggiungere grandi risultati". "I nostri detenuti sono contenti quando vengono impiegati in lavori come questi, in quanto contribuiscono a migliorare gli ambienti scolastici di bambini e ragazzi - ha esordito la direttrice della Casa Circondariale, Rosalia Marino, insieme al commissario Macrì e alla educatrice Patrizia Borgia - Per noi questa attività a beneficio delle scuole ha una valenza trattamentale educativa molto importante. Attraverso finanziamenti regionali è nostro intento ampliare l'offerta formativa per i detenuti anche a filoni espressamente rivolti all'apprendimento della piccola manutenzione edile". Da gennaio a oggi sono stati una quarantina i detenuti complessivamente impiegati nelle "Giornate di recupero ambientale", appuntamento quindicinale finalizzato in particolare alla pulizia e bonifiche ambientali ed esteso ad interventi di recupero e manutenzione di strutture pubbliche. Alla scuola Rodari hanno prestato lavoro volontario otto detenuti, in "uscita premio" dal carcere, per tre giornate lavorative continuative, con il supporto dei detenuti impegnati nei "cantieri di lavoro" del Comune in forza ad Assa. "L'iniziativa conferisce forma e sostanza al valore rieducativo connesso all'espiazione penale - è il commento del magistrato di sorveglianza, Monica Cali. I Magistrati di Sorveglianza non possono che sostenere esperienze lavorative come quelle effettuate e auspicare il loro ripetersi in futuro. Da iniziative di questo tipo e soprattutto dal credere in iniziative di questo tipo, che offrono vere opportunità di lavoro serio a chi è in carcere, dipende il futuro della espiazione penale che solo così riesce ad avere una valenza concretamente positiva. Un grazie a tutti coloro che ci hanno creduto e che hanno impiegato le proprie energie e la propria professionalità al servizio dell'esecuzione penale". Genova: dal carcere di Marassi al palco, detenuti in scena in "Angeli con la pistola" ivg.it, 18 luglio 2015 Lunedì 20 luglio al Festival di Borgio Verezzi andrà in scena "Angeli con la pistola", con gli attori detenuti del carcere di Marassi eccezionalmente in "trasferta" nel comune rivierasco. Lo spettacolo, con la regia di Sandro Baldacci, verrà poi replicato il giorno successivo. Giunta al suo decimo anno di attività, per la realizzazione del suo ottavo spettacolo, la Compagnia Teatrale "Scatenati" della Casa Circondariale di Genova - Marassi, dopo aver affrontato nel corso degli ultimi anni la messa in scena delle più conosciute tragedie shakespeariane (Romeo e Giulietta e Amleto), torna alla commedia musicale con lo spettacolo di nuova produzione "Angeli con la pistola", tratto dal breve racconto di Damon Runyon "Madame La Gimp", che già ispirò Frank Capra per il suo primo film, "Lady for a day", girato nel 1933, del quale il famoso regista fece poi un noto remake nel 1961, con Glenn Ford e Bette Davis protagonisti, dal titolo "Pocketful of miracles". Ambientate a New York al tempo del proibizionismo, le divertenti vicende di Dave "lo sciccoso" e di Apple Annie, mendicante alcolizzata venditrice di mele, ben si attagliano alla nostra compagnia di attori detenuti, come altrettanto bene si prestano a farne una commedia musicale dai toni ironici e scanzonati. Ancora una volta la scelta del testo cade su temi che, sebbene con la leggerezza della commedia, sono vicini alle storie, così come alle vite, dei nostri insoliti interpreti: truffe, corruzioni e loschi affari sono il quotidiano di Dave "lo sciccoso" e della sua banda che però, delinquenti dal cuore tenero, si adopereranno per realizzare, attraverso indicibili vicissitudini, il sogno della povera Annie: riuscire a sposare la figlia Louise con il discendente del conte spagnolo Alfonso Romero. Una favola: un po' ingenua, forse, sotto la cui semplicità serpeggia però una sorta di morale: ognuno di noi ha una sua propria storia alle spalle più o meno difficile ma, volendolo e con l'aiuto degli amici, può anche avere l'opportunità di sentirsi "signore" per un giorno, come recita il titolo del primo film di Capra, indistinguibile da quei cosiddetti veri "signori" che spesso hanno alle spalle storie molto più imbarazzanti da raccontare. Immigrazione: Roma, scontri e saluti romani contro l'arrivo dei profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 18 luglio 2015 La presenza di 19 migranti scatena la rivolta degli abitanti di Casale San Nicola, periferia di Roma. Casa Pound si scontra con la polizia, 14 agenti feriti, due persone arrestate. "Vuole sapere se sono razzista? Si, lo sono, ma non perché loro sono neri. Davanti al vu cumprà che sulla spiaggia si guadagna la vita vendendo tappeti io mi tolgo il cappello, ma questi vengono qui e ci rubano il lavoro e le case. Con i 35 euro al giorno che spendiamo per loro sai quanti italiani si potrebbero aiutare?". Alle quattro del pomeriggio, con un caldo che toglie il respiro, la signora Giulia, arrabbiatissima residente di Casale San Nicola, mette da parte la diplomazia. "Ho tre bambini piccoli, che vanno in bicicletta proprio lungo questa strada - dice - che ne so io che tra quelli non c'è un pedofilo?". I quelli in questione sono una ventina di profughi arrivati tre ore prima nell'ex scuola Socrate che il prefetto di Roma Franco Gabrielli ha deciso di adibire a centro di accoglienza. Per richiedenti asilo, ovvero profughi, ovvero gente spesso fuggita da una dittatura o da una guerra e che per arrivare fin qui, in questo bellissimo angolo della campagna romana, periferia nord della capitale, ha rischiato la pelle. Non proprio pedofili, insomma. Ma per le 250 famiglie che abitano la zona sono un pericolo. "Qui non li vogliamo", dicono. E non solo a parole. Tira un brutto vento veneto a Roma. L'arrivo della ventina di ragazzi africani non è infatti dei più tranquilli. Il pulmino bianco che li trasporta trova ad attenderli gli abitanti organizzati ormai da mesi in presidio e intenzionati a fermarli a tutti i costi. Grazie anche all'aiuto fornito da Casa Pound, che non ha perso l'occasione di cavalcare la protesta e che ieri si è presa il palcoscenico. Quando il pullman fa la sua apparizione in cima alla strada che conduce alla vecchia scuola, ad accoglierlo trova la solita scenografia fatta di braccia tese, sventolii di tricolori e inni nazionali. Oltre a qualche decina di uomini e donne seduti a terra per bloccare la strada. Comincia una trattattiva con le forze dell'ordine, che però non approda a nulla. "Non faremo nessun passo indietro", fa sapere il prefetto Gabrielli confermando l'ordine di trasferire i migranti nella struttura prescelta. Gli agenti cominciano a spostare le donne sedute a terra, poi i residenti si fanno indietro e lasciano il posto a militanti di Casa Pound. Lo scontro dura pochi minuti, ma è violento. Vanno a fuoco cassonetti e balle di fieno, contro le forze dell'ordine vengono lanciati sassi e bottiglie. Bottiglie volano anche contro il pullman con i migranti a bordo. Il bilancio finale fa contare 14 agenti feriti, due persone arrestate, una denunciata e 15 identificate. Sugli scontri è stata aperta un'inchiesta. "Abbiamo contenuto i militanti di Casa Pound e riaperto la strada", spiega la polizia, mentre gli abitanti accusano gli agenti di aver usato violenza contro donne anziane sedute a terra: "Abbiamo foto e video che provano quanto diciamo - affermano - e li mostreremo a tutti". Di Casale San Nicola si potrà dire tutto, tranne che si tratti della solita periferia degradata. Ex zona agricola situata lungo la strada per Bracciano, appena alla periferia di Roma, è abitata da circa 400 persone distribuite in una sere di belle case circondate da ettari di terreno cosparsi in questi giorni da covoni di fieno. L'ex scuola Socrate è formata da tre strutture del 700 disposte a ferro di cavallo e circondate da un giardino. Su una cosa i residenti hanno ragione. Intorno ai vecchi casali che formano il centro di accoglienza non c'è niente: per trovare un bar o un negozio in cui fare la spesa bisogna camminare a piedi per almeno tre chilometri, lo stesso dicasi per la prima fermata d'autobus. E di notte si cammina al buio, visto che non c'è neanche un lampione a illuminare la strada. Insomma, sistemazione abitativa a parte, anche per i migranti soggiornare da queste parti non sarà facile. Da quando, tre mesi e mezzo fa, si è saputo che era stata scelta dalla prefettura per diventare un centro di accoglienza, i 400 residenti hanno cominciato ad avere paura di un aumento dei furti in casa e di, e di possibili aggressioni e si sono costituiti in presidio per bloccare il trasferimento dei migranti: 100 in tutto, dei quali i 19 di ieri rappresentano una piccola avanguardia. "Quella struttura non è neanche norma per ospitare 100 persone", spiega Giulia, 37 anni, seduta sotto un albero davanti l'ex scuola. "Abbiamo fatto ricorso contro il sequestro, ma nessuno ci ha ascoltati. Però noi non ci fermiamo", prosegue. "Questo è un contesto privato e le istituzioni non hanno mai aperto un tavolo di concertazione", spiega invece Francesca Sanchietti, la portavoce del comitato di Casale San Nicola. "Siamo cittadini italiani che hanno subito un sopruso". Gli scontri di ieri hanno avuto uno strascico di numerose reazioni. "Indignazione" per quanto accaduto è stata espressa dall'Unhcr: "Alimentare consapevolmente la retorica xenofoba e razzista nei confronti dei rifugiati è pericoloso poiché fomenta tensioni sociali di difficile gestione", afferma l'Alto commissariato, mentre l'Arci legge gli scontri di ieri come la conseguenza "di un paese sempre più incattivito chiuso in se stesso". Nel pomeriggio una delegazione del M5S guidata da Alessandro Di Battista ha incontrato alla Camera alcuni rappresentanti del comitato Casale San Nicola "per comprendere le ragioni della protesta", hanno spiegato i parlamentari grillini. Non risulta, però, che abbiano chiesto un analogo incontro con i migranti per ascoltare anche le loro ragioni. I quali migranti rischiano di vedere trasformata l'ex scuola che li ospita in un bunker sorvegliato 24 ore al giorno della polizia, senza avere neanche la possibilità di uscire. "Noi non molleremo", ripetono infatti i residenti di casale San Nicola. "Quelli da lì se ne devono andare". Immigrazione: Treviso, dopo il rogo dei mobili, migranti in caserma di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 18 luglio 2015 La Marca del governatore Luca Zaia (che parla di "africanizzazione del Veneto") non è più serenissima. Anzi, assomiglia terribilmente al fascio-leghismo che Matteo Salvini aveva battezzato a Roma, in piazza del popolo con i tricolori della destra estrema fra il verde "padano". Salvini è annunciato stasera, al termine di 72 ore di "guerra" sulla pelle di 101 migranti. Non li volevano a Quinto nei condomini di via Legnago, dove la protesta di residenti più Forza Nuova è culminata nel rogo notturno dei mobili, nelle minacce agli operatori della coop, nelle scintille con i carabinieri che consegnavano il pane. E così ieri intorno alle 13 i profughi sono saliti a bordo del bus che li ha "traslocati" nell'ex caserma Serena, al confine tra Casier e Treviso. Ma sarà arduo archiviare il "caso Quinto". In particolare, quando la protesta è degenerata prima nell'intrusione all'interno degli appartamenti ancora vuoti. E poi nel "pan e vin" in versione razzista: divani, mobili e quant'altro dato alle fiamme in strada davanti al condominio di via Legnago. Sotto il fuoco incrociato delle polemiche resta il prefetto Maria Augusta Marrosu, tanto più che è previsto l'arrivo di altri 63 migranti nel fine settimana. Zaia è stato il primo a puntare l'indice, ma anche i sindaci direttamente coinvolti sono di fatto d'accordo con il presidente della Regione. In trincea, nel solco del melting pot e dell'assoluta difesa dei diritti, i centri sociali mentre il mondo cattolico si riconosce nella "scomunica" dell'Avvenire nei confronti di Zaia. E ieri mattina nel cuore di Treviso gli attivisti dei centri sociali hanno presidiato la prefettura: tutti seduti fra il cancello e il portone, mentre arrivavano il questore Tommaso Cacciapaglia e il comandante dei carabinieri Ruggero Capodivetro. Parapiglia con "sollevamento pesi" ma soprattutto manganellate della celere: alla fine, cinque arrestati e 28 denunce. "Alimentare la "guerra fra poveri" come stanno facendo istituzioni e forze politiche è una strategia volta all'esasperazione. Bisogna invece avere il coraggio di attaccare proprio quelle istituzioni responsabili del patrimonio residenziale pubblico che deve essere assegnato a chi ne ha bisogno, coloro che continuano a speculare sulle nostre terre, regalando centinaia di migliaia di euro ai vari mafiosetti del business edilizio" insistono i ragazzi del centro sociale Django che continuano a battersi per una Treviso "solidale e accogliente". Clima incandescente anche per il Pd. Antonella Tocchetto, consigliere comunale, è stata "salvata" dalle forze dell'ordine mentre cercava di dialogare con le famiglie di Quinto. Circondata da esponenti di Lega e Forza Nuova, se l'è vista davvero brutta. E il sindaco Giovanni Manildo ha perso l'anima da boy scout e se la prende con il governo Renzi: "Il prefetto ha creato il problema e invece di risolverlo continua ad esacerbarlo. Emerge con forza una verità schiacciante: i sindaci della Marca sono al fronte, lasciati soli dal ministro Alfano a gestire l'emergenza. Non è possibile replicare le scene di Quinto. Alfano venga qui e al più presto". La miccia sulla santa barbara, a Nord Est, è accesa da più parti. A Eraclea (Venezia) in piena stagione turistica i 200 profughi - ospiti in 63 unità di un residence, affittato dalla onlus - si sono riversati in strada con i materassi. Chiedevano un medico, pasti decenti, la possibilità di lavarsi… A Padova, invece, è annunciata per martedì la manifestazione dei commercianti sintonizzati con la giunta di centrodestra. Pretendono lo sgombero della tendopoli, allestita all'interno dell'ex caserma Prandina a ridosso delle mura cinquecentesche del centro storico. Il sindaco leghista Massimo Bitonci aveva sollecitato una verifica igienico-sanitaria della struttura da parte dell'Usl. È risultata "idonea" ad ospitare i profughi. Ma il sindaco non si arrende: prima tuona contro "l'accoglienza dei clandestini che governo e prefettura non sanno più dove mettere", poi si prepara a replicare la protesta di piazza. In Friuli, la soluzione è identica: nell'ex caserma Cavarzerani di Udine con 170 mila euro si sta ristrutturando la palazzina: 80 posti letto per chi vive in tenda. Singolare, invece, la situazione a Fernetti, frazione di Monrupino (Trieste) a ridosso dell'ormai ex valico di frontiera. I residenti sono 66, mentre i richiedenti asilo afghani arrivati in autunno 70. Così gli sloveni si regalano una battuta: "Siamo diventati minoranza anche quassù". Immigrazione: a Mineo in 4.000 parcheggiati per anni in attesa di ricevere il diritto d'asilo italiannetwork.it, 18 luglio 2015 Delegazione Forum Nazionale Terzo Settore visita il Cara di Mineo. "Abbiamo trovato quasi 4.000 persone, per lo più giovani, per lo più maschi, parcheggiati per anni nel pieno della campagna catanese, lontano dai centri abitati, in attesa di poter ricevere il diritto di asilo. Ragazzi che sono fuggiti da condizioni drammatiche, e che già hanno alle spalle viaggi durati anni". Questo il primo commento della delegazione del Forum composta da: Pietro Vittorio Barbieri, portavoce nazionale; Pippo Di Natale, portavoce regionale; Gianfranco Cattai, Enzo Costa, Maurizio Gubbiotti, Maurizio Mumolo e Stefano Tassinari del Coordinamento nazionale del Forum Terzo settore; Mohamed Saady, della Consulta Welfare e Giovanni Lattanzi della consulta Affari europei e internazionali presso il Forum. "Così concepiti, i Centri di accoglienza non possono essere la soluzione, ma possono diventare un potenziale altro problema. Diventano infatti grandi spazi di raccolta per numeri molto ampi di persone, che si trovano però sempre ad una certa distanza dai centri abitati. L'integrazione ed una accoglienza degna di questo nome non ci sembrano essere garantite. È urgente realizzare micro strutture di accoglienza, utilizzando risorse già presenti sui territori, già impegnate nel lavoro con i migranti, senza disperdere quanto di positivo fatto, ma creando condizioni di maggiore umanità e più gestibili. Ci vuole un percorso di uscita da questa situazione con date certe di chiusura dei Cara così costituiti, e di costruzione di un nuovo paradigma dell'accoglienza. Il nostro Paese è stato capace di chiudere i manicomi, i brefotrofi e gli Opg. Prenda il coraggio di fare altrettanto con i Cara. Abbiamo in Italia delle questioni urgenti da affrontare, che sono parallele a quelle europee. Molte cose devono ambiare. A partire da politiche di prevenzione, che prevedano anche la capacità di mettere in campo ulteriori meccanismi di cooperazione allo sviluppo con i paesi di provenienza, prima di tutto per combattere la fame, che è uno dei primi motivi per il quale tante persone fuggono, all'approccio con il quale si accoglie, che non può essere quello dell'emergenza sempre. Dobbiamo avere politiche nazionali a tutto campo e più efficaci. Bisogna creare corridoi umanitari e già in alcuni paesi organizzare dei presidi che permettano l'arrivo in condizioni umane. È necessario affrontare meglio la questione dell'attesa e dei tempi, che non possono essere così lunghi, facilitando le operazioni burocratiche e potenziando gli uffici competenti se necessario, per garantire diritti fondamentali. Allo stesso tempo, costruire dei reali percorsi di inclusione e integrazione. Crediamo che sia necessario cambiare le politiche in maniera rapida e che il Ministero dell'Interno non sia la struttura più adatta ad occuparsi di queste tematiche". In conclusione della giornata la delegazione ha incontrato il sindaco di Catania, Enzo Bianco, che ha mostrato interesse a stabilire con il Forum ulteriori forme di collaborazione, ed ha proposto un incontro per il mese di settembre, insieme ai sindaci interessati e con il presidente dell'Anci, per discutere insieme di politiche migratorie, accoglienza, inclusione, gestione dell'emergenza. Stati Uniti: carceri e droghe, se Obama sembra Pannella di Valter Vecellio Il Garantista, 18 luglio 2015 Non sarà facile, per i futuri storici, inquadrare la presidenza di Barack Obama, che, piaccia o no, ha già conquistato un suo posto nella storia. È infatti il primo nero ad aver messo il suo spazzolino da denti alla Casa Bianca. Anche se una retorica a noi cara, quella del Frank Capra di "Mister Smith va a Washington", dice che quello è il paese dalle mille opportunità. Come dimenticare che solo sessant'anni fa Rosa Louise Parks viene incarcerata per essersi seduta nella fila dell'autobus riservata ai bianchi? Obama è riuscito a essere presidente due volte, e questo è già storia. Si può obiettare che "essere" storia non equivale a essere "buona storia". Verissimo; e anche la Presidenza Obama è segnata da una quantità di episodi e fatti discutibili, che saranno discussi; e non è detto che quello che oggi appare positivo lo sia davvero. Contraddittorio, fumoso, indeciso al massimo, per esempio, è stata (e continua a essere), la posizione assunta per quel che riguarda la crisi in Siria. Per quel che riguarda la lotta al terrorismo di matrice islamica, anche qui: tante le indecisioni, molti gli errori. Lo sdoganamento dell'Iran, per esempio: dal punto di vista tattico forse si può parlare di successo; ma la tattica senza una robusta strategia e una "visione" non porta lontano. A fronte dei tanti entusiasmi, meglio optare per una più pragmatica prudenza; nutrire speranza non significa "essere" speranza. Comunque, visto che si è guadagnato tempo, si dovrebbe cercare di mettere a frutto questa opportunità per aiutare e sostenere tutti i movimenti che nei paesi del Medio Oriente e nella parte africana del Mediterraneo si battono per i diritti umani e lo Stato di diritto. Se è vero che è illusorio, velleitario, pericoloso voler "esportare" la democrazia alla George W. Bush, è anche vero che si può nutrirla, aiutarla a crescere, la democrazia: là dove germoglia (e non accade solo in Tunisia). Obama, e chi gli succederà, non dovrebbero sciupare questa opportunità. Lo stesso discorso può essere fatto per Cuba: il ripristino delle relazioni diplomatiche, la fine dell'embargo non dovrebbe comportare solo business, anche se solo gli affari, il motore del tutto (oltre al ruolo che gioca e intende giocare il Vaticano: a Cuba e in tutto il Sud e Centro America). Yoani Sanchez, forse, è di umore eccessivamente nero quando osserva che le organizzazioni per i diritti umani non sono state minimamente coinvolte in questo processo, e mette in guardia dal rischio che si affermi un capitalismo militare di stato, il cui controllo sarà ferreo quanto lo è stato il castrismo. Però, al momento, non si registrano grandi novità. Avremo tempo e modo di misurare tutto ciò, e verificare se le speranze dell'oggi diverranno "fatti" o si tramuteranno in illusioni. Subito, però, si può riconoscere che i "gesti", per quanto simbolici, hanno un loro peso, una loro importanza. Giunto al crepuscolo della sua presidenza, non più oberato dal problema di doversi garantire la rielezione, Obama, evidentemente, si sente più libero, "leggero"; e si pone un obiettivo ambizioso: riformare il sistema della giustizia penale del suo paese. È noto che le prigioni americane sono affollate come nessun altro paese democratico al mondo; gli Stati Uniti "ospitano" il 5 per cento della popolazione mondiale, e contemporaneamente il 20 per cento di quella carceraria: 2,2 milioni di detenuti. Una vasta letteratura e cinematografia documentano come le prigioni americane siano il regno di ogni tipo di abuso, violenza e brutalità. Eppure, sembra incredibile: di tutti i 44 presidenti degli Stati Uniti, solo Obama ha compiuto il passo simbolico di visitare un carcere, di andare a toccare con mano quella tremenda realtà. Neppure un "padre" come Abramo Lincoln, un presidente "caritatevole" come Jimmy Carter, un presidente di fiuto come Bill Clinton, l'hanno fatto. Nessuno. Vero è che noi italiani per primi possiamo dare, al riguardo, lezioni a nessuno: di tutti i presidenti italiani, solo Giorgio Napolitano ha visitato le carceri italiane (e mandato al Parlamento un messaggio costituzionale che andrebbe diffuso nelle scuole, nei palazzi di Giustizia). Per tornare a Obama: al Congresso, a chi si candida alla sua successione, al suo Paese il Presidente dice che si perdono intere generazioni, che migliaia e migliaia di giovani finiscono in galera, e non vengono più recuperati. "Io non ho simpatia per chi commette crimini violenti", sillaba Obama. "Però dobbiamo riflettere se queste condanne così lunghe, spesso a vita, siano la maniera migliore di affrontare i reati di altro genere"; e ha fatto quello che tanti politici italiani pur potendolo fare, non fanno: entrare in una cella. Dopo averla vista si è chiesto: "È lì che dovrebbero vivere tre adulti?". Lo ha toccato con mano. Tardi, certo; ma alla fine lo ha fatto. Al Congresso manda la richiesta di approvare una legge che abbassi le sentenze minime per i reati non violenti; annuncia programmi di prevenzione della criminalità e di recupero; chiede la fine alla tolleranza per gli abusi, le violenze e gli stupri nelle prigioni. Impresa non facile: il Congresso è a maggioranza repubblicana, già si respira aria di campagna elettorale, demagogia e populismo la fanno da padrone: basta vedere la "presa" della demenziale campagna di un Donald Trump, al cui confronto Matteo Salvini e Marine Le Pen sono mammolette. Però, questa volta Obama fa quello che è giusto fare, quello che da una democrazia come quella americana è giusto, doveroso attendersi. Detto ciò, una domanda ai miei colleghi (non di questo giornale, che costituisce una rara, felice eccezione), ai commentatori di pronto e sagace intervento; agli editorialisti e ai pensatori distillatori di gemme di riflessione: se vi preparate ad applaudire quello che dice e propone Obama, perché lo stesso applauso non lo riservate a quanti le stesse cose, da tempo, le dicono e cercano di farle in Italia? Sì, avete capito bene: vi chiedo perché applaudite Obama, e non applaudite Marco Pan-nella, Rita Bernardini, i radicali. Medio Oriente: Freedom Flotilla; sarà rivista decisione Cpi di non procedere contro Israele di Michele Giorgio Il Manifesto, 18 luglio 2015 Per i giudici della Corte penale internazionale il procuratore Fatou Bensouda nel 2010 fece "errori materiali nella sua determinazione della gravità del caso" e ora deve rivedere al più presto la sua decisione. Un commando israeliano uccise 10 passeggeri turchi a bordo del traghetto diretto a Gaza. "I militari israeliani mi hanno dato l'impressione di voler sparare per uccidere… avevano una lista con nomi e fotografie delle persone a bordo", raccontò cinque anni fa il giornalista greco Aris Chatzistefanou, di Radio Skai, che si trovava a bordo della nave Mavi Marmara abbordata da un commando israeliano a circa 130 km dalla costa, quindi in acque internazionali, nella notte tra il 30 e il 31 maggio del 2010. I militari israeliani fecero fuoco e uccisero nove passeggeri turchi, un altro, ferito gravemente, è deceduto dopo una lunga agonia. La Mavi Marmara navigava assieme ad altre imbarcazioni verso Gaza, nel quadro di una iniziativa della Freedom Flotilla volta a rompere il blocco navale imposto da Israele intorno al quel lembo di territorio palestinese. Sempre in quei giorni uno spagnolo, Manuel Tapial, una delle centinaia di attivisti a bordo delle navi della Freedom Flotilla, dichiarò che gli israeliani "hanno cominciato a sparare, prima dall'elicottero, poco dopo che i primi soldati si erano calati a bordo". Ci fu resistenza, confermò Tapial ai microfoni della CadenaSer, ma, aggiunse, "era una resistenza difensiva, con bastoni, cui si poteva rispondere in maniera non così violenta". Sono soltanto due delle innumerevoli testimonianze raccolte nei giorni successivi all'assalto della Mavi Marmara e all'arresto di centinaia di attivisti a bordo delle imbarcazioni della Freedom Flotilla, tra di essi anche quattro italiani: Angela Lano, Manolo Luppicchini, Manuel Zani e Joe Fallisi. L'abbordaggio fece precipitare al punto più basso le relazioni tra Turchia e Israele. Tel Aviv ha sempre negato l'uso intenzionale della forza e ripete che i suoi soldati "furono aggrediti" e "costretti a sparare per difendersi". Una tesi contraddetta dalle testimonianze dei passeggeri ma che convinse subito gli Stati Uniti di Barak Obama e anche l'Italia che nelle settimane e mesi successivi nelle sedi internazionali si oppose alla condanna di Israele. Un quotidiano italiano, Il Giornale, applaudì alla strage con un titolo indimenticabile: "Israele ha fatto bene a sparare. Dieci morti tra gli amici dei terroristi". Ma quella tesi convinse anche il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Fatou Bensouda, che, nell'autunno del 2010, decise di non aprire un procedimento contro Israele perché non ritenne l'accaduto "sufficientemente grave". A conclusione dell'indagine preliminare, Bensouda scrisse che c'erano "basi ragionevoli" per parlare di "crimini di guerra", ma non tanto gravi da giustificare un intervento della Cpi. Non è questa l'opinione dei giudici della stessa corte che due giorni fa, accogliendo un ricorso presentato delle Isole Comore (la Mavi Marmara era turca ma durante la missione per Gaza batteva bandiera delle Comore), ha invitato Bensouda a riconsiderare la sua decisione di non indagare l'assalto israeliano al convoglio della Freedom Flotilla. I giudici hanno stabilito che Bensouda ha fatto "errori materiali nella sua determinazione della gravità del caso" e ora deve rivedere al più presto la sua decisione e comunicarla all'organo del Tribunale che decide sull'ammissibilità dei casi, alle famiglie delle 10 vittime turche e alle Isole Comore. La vicenda che sembrava chiusa ora è di nuovo in primo piano, mentre i rapporti tra Turchia e Israele sembrano ritornati ad una "quasi normalità". Per la Freedom Flotilla è una rivincita, che giunge poche settimane dopo l'ennesimo abbordaggio di una delle sue imbarcazioni dirette a Gaza, la "Marianne", avvenuto sempre in acque internazionali, da parte della Marina israeliana. Rabbiosa la reazione del governo israeliano. Il premier Netanyahu ha ribadito la tesi che i soldati spararono per difendersi e che l'azione della Marina israeliana avvenne nel rispetto delle leggi internazionali. Secondo Netanyahu la Cpi dovrebbe occuparsi di ciò che accade in Siria e non della Mavi Marmara. Iran: Segretario di Stato americano John Kerry fiducioso su rilascio detenuti americani di Giusy Regina arabpress.eu, 18 luglio 2015 Il Segretario di Stato americano John Kerry ha detto di aver sollevato il tema degli americani detenuti in Iran ad ogni incontro tenutosi durante le ultime settimane di negoziati nucleari. Kerry sembra fiducioso che Teheran li libererà al più presto. L'amministrazione Obama ha dovuto affrontare le critiche per non aver assicurato il rilascio degli americani come parte della transazione sul nucleare, in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. "Non c'è stato nemmeno un incontro che ha avuto luogo, in cui non abbiamo sollevato la questione dei nostri cittadini americani detenuti", ha detto Kerry, concludendo: "Restiamo molto, molto fiduciosi che l'Iran prenderà la decisione giusta, cioè quella di far tornare quei cittadini negli Stati Uniti. Noi continuiamo a lavorare su questo". Norvegia: il pluriomicida Breivik iscritto all'università di Oslo, corso di Scienze politiche Askanews, 18 luglio 2015 Fa discutere in Norvegia la decisione dell'Università di Oslo che ha accettato l'iscrizione di Anders Behring Breivik a un corso di Scienze politiche. Ma l'estremista di destra, in carcere per aver ucciso 77 persone a Oslo e sull'isola di Utoya nel 2011, non potrà comunque sostenere tutti gli esami, poiché per alcuni è richiesta al frequenza obbligatoria. "Ha ottenuto un posto a un corso di laurea poiché risponde ai criteri di ammissione", ha dichiarato Marina Tofting, portavoce dell'Università, cui tutti i detenuti con il grado di istruzione necessario hanno diritto ad iscriversi. Ma il diploma per Breivik resta una prospettiva lontana poiché cinque delle nove materie obbligatorie prevedono la frequenza e le attuali condizioni detentive del pluriomicida gli impongono un isolamento de facto totale. Il 22 luglio del 2011, Breivik, fanatico ultranazionalista ed oppositore del multiculturalismo, fece esplodere una bomba nei pressi della sede del governo nella capitale norvegese, poi si recò nell'isola di Utoya, che ospitava un campus dei giovani socialdemocratici, e, travestito da poliziotto, uccise a sangue freddo decine di ragazzi. Oggi sconta una condanna a 21 anni di carcere, il massimo previsto dal codice penale norvegese, ma la condanna può essere prolungata all'infinito fin tanto che il detenuto viene considerato pericoloso per la società. Sudan: iniziativa umanitaria locale porta alla liberazione di 200 detenuti Nova, 18 luglio 2015 Un'iniziativa umanitaria locale chiamata "Jana", condotta da attivisti e giornalisti sudanesi impegnati nel volontariato, ha permesso la liberazione di 200 detenuti. Gli attivisti hanno avviato una raccolta di fondi riuscendo a pagare la cauzione necessaria per permettere a 200 detenuti in stato di indigenza di uscire dal carcere. Alcuni di questi detenuti, che si trovavano nel carcere di Khartoum, potevano uscire col il pagamento di una cauzione di poche decine di dollari ma le loro famiglie non erano in grado di pagarla. Il gruppo di attivisti si impegnerà anche al reintegro nella società di questi detenuti scarcerati.