Giustizia: detenuti o pedine da spostare come in gioco? di Francesca De Carolis comune-info.net, 17 luglio 2015 Se ne parlava, se ne parlava da qualche tempo. La parola "trasferimento" aleggiava qua e là, anche quando non pronunciata, tra le righe. Poi mi arriva la lettera di Pasquale De Feo, che già a prenderla in mano si capisce che qualcosa non va. Non arriva più dal carcere di Catanzaro. Il mittente scrive da Massama. Oristano, per intenderci. Profonda Sardegna. "Cara Francesca, mi scrive, temo che quando verrai a Catanzaro per "l'incontro con l'autore" non mi troverai. Mi hanno deportato in Sardegna. Da una settimana sono solo in sezione, dovrebbero arrivare altri prigionieri. Non me l'aspettavo, anche perché non ho fornito pretesti". No, sono certa che Pasquale De Feo pretesti non ne abbia forniti. Ma certo inquieta non poco, il fatto che la prima cosa che abbia pensato sia una "punizione", di cui non trova logica spiegazione. Come è difficile trovare una logica, che sia accettabile, nei trasferimenti che si stanno compiendo in questi giorni. Per radunare tutti insieme i "cattivissimi" delle sezioni di Alta Sicurezza, chiudendo alcune sezioni AS1 sparse qua e là per l'Italia. Qualcuno è già andato a infoltire le fila dei "cattivi" di Opera. Qualcun altro è già stato spedito a Sulmona, il carcere dei suicidi, come lo chiamano. Molti, se il programma va avanti, finiranno in Sardegna, a riempire quelle carceri costruite apposta per loro, dalla nostra malsana italietta, in un periodo piuttosto discutibile. Il piano carceri del 2002-2003 del governo Berlusconi, ricordate? E il filo rosso che, niente di penalmente rilevante, per carità, ma teneva insieme alcune società nella realizzazione dei più rilevanti interventi pubblici in Sardegna degli ultimi anni. E dacché sono stati costruite, adesso andranno ben riempite, quelle carceri… a fare della Sardegna una grande Asinara, mi viene da pensare. E i detenuti? L'impressione è che siano semplicemente delle pedine da spostare in un disumano gioco per riempire caselle. Come pacchi, come cose. Tutto molto coerente, a dire la verità, con il processo di reificazione delle persone che, parole a parte, di fatto tende a incarnare il sistema carcerario. E invece ci sono i nomi, i volti, e le storie. A qualcuno dovrà pure importare di questi nomi, di questi volti, di queste storie. Dovrà pure importare sapere che si tratta di persone in carcere da decenni e che spesso un percorso in questi anni l'hanno pure compiuto. Come accade a Padova, ad esempio. Dove si sono compiuti percorsi molto interessanti, dove c'è un polo Universitario, dove qualcuno si è laureato, dove grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti è stato possibile ricominciare a tessere relazioni, basta pensare agli effetti positivi degli incontri con le scuole. Dove, in una parola, si cerca di realizzare quello che pure la Costituzione chiede, ossia il famoso "recupero". Che altro non può essere che riavvicinamento alla società. Alcuni di questi "cattivissimi" dell'Alta Sicurezza li ho conosciuti, con alcuni, qua e là per l'Italia, ci scambiamo lettere. Mi raccontano dei loro percorsi, delle difficoltà, delle letture, degli studi che comunque portano avanti. Nulla a che vedere, vi assicuro, con l'immagine stereotipata su cui insistono (ahinoi) i media, del delinquente rozzo e analfabeta. Molti, a volte, mi mettono in difficoltà, perché tante cose io non le ho studiate e non è facile confrontarsi con la nuova forza di chi nello studio ha scoperto nuove dimensioni, di chi nella storia cerca anche le ragioni della propria vicenda esistenziale. Perché in AS1 si incontra anche questo e non necessariamente, come ho letto in uno sbrigativo articolo sui futuri ospiti delle carceri sarde, "pericolosi criminali". Ma per i più rimane la condanna all'Alta sicurezza. Eppure, c'è qualcosa che non va, mi sono sempre detta, se dopo decenni di carcere le procure continuano a negare declassificazioni, inchiodando le persone al momento del reato. Ci sarebbe da chiedersi, se dopo lunghissime carcerazioni queste persone sono ancora così pericolose, se sono esattamente quello che erano quando sono entrate, cosa ha mai fatto il carcere? Non è questo un dichiarare il suo stesso fallimento? La sua inutilità? Personalmente penso che a volte le mancate declassificazioni siano anche il risultato di un'attività, e di una pigrizia, del tutto burocratica, che, per non assumersi responsabilità in merito, inchioda al passato persone che oggi nulla hanno a che vedere con quello che sono state, indipendentemente dal fatto che siano state o no collaboratori di giustizia. Che, diciamoci la verità, è scelta processuale e non testimonianza di vero pentimento. "Il problema rimane sempre lo stesso - mi scrive da Padova Giovanni Zito, sono convinti che se le persone non diventano collaboratori di giustizia non potranno cambiare, comunque sono ancora vivo e fiducioso". Giovanni Zito… che qualche anno fa ha scritto un bellissimo racconto, dal titolo "Sono Giovanni e cammino sotto il sole". Oggi, nella lettera che mi manda annota: "Giovanni ha smesso da tempo di camminare sotto il sole". La verità, permettetemi, da quello che vedo, da quello che so, è che il carcere non vuole rieducare. Ma punisce e vessa. E continuo a pensare che tutto quello che non è privazione della libertà (non è in questo, e scusate se è poco, che deve consistere la pena carceraria?), tutto quello che vi si aggiunge è solo tortura. E non è tortura spezzare percorsi faticosamente ricostruiti? Non è tortura dire, senza guardare in faccia nessuno, non mi interessa capire se sei cambiato, se recido i rapporti ricostruiti, se rendo ancora più difficile, allontanandoti, i rapporti con i familiari. Già, i familiari, ad esempio. Che fine faranno i rapporti familiari, già difficili e tormentati, per chi dovrà essere inseguito fino in Sardegna, ad esempio? E non è questa punizione che si aggiunge a punizione? Eppure l'ordinamento stesso riconosce l'importanza dei legami familiari e il principio della territorialità della pena e bla bla bla… eppure, a Mario Trudu, sardo, in carcere da 36 anni, che chiede di avvicinarsi ai suoi in un carcere della Sardegna, il trasferimento non è concesso. Ma come può mai insegnare la legalità uno stato che viola le sue stesse norme? Che riesce, mi ha scritto qualcuno, "ad essere più cattivo di noi". "Ma cosa deve fare un uomo per dimostrare che non è più ciò che è stato un tempo? (…) avevo incominciato a pensare, a sognare, e soprattutto a sperare, dando a mia volta speranza alla mia famiglia che da ormai ventiquattro anni mi segue in questo inferno senza fine". Queste sono le parole di Giuseppe Zagari, trasferito qualche settimana fa da Padova al carcere dei suicidi, Sulmona, appunto. Scusate le tante domande e il tono da predica, ma da quando ho conosciuto qualcosa della realtà del carcere, me ne vergogno, e molto. Oggi mi vergogno molto di quest'ultima violenza che viene fatta a persone che con un colpo di penna rischiano di essere ributtate nel nulla. Giustizia: salviamo i nostri amici Radicali di Valter Vecellio Il Garantista, 17 luglio 2015 I Radicali si impegnano nella conquista del diritto umano alla conoscenza, da portare aventi nella sede dell'Onu e nelle diverse giurisdizioni. Una iniziativa importante, che fa venire a galla i tanti "segreti" di Stato. Ma a chi giova il silenzio? Chi può essere interessato, per esempio, ad occultare la verità suda tragedia della Moby Prince che il 10 aprile del 1991 entrò in collisione con una petroliera? Due inchieste e due processi non sono bastati a spiegare nulla. Sveliamo i segreti. E salviamo gli amici radicali. Moby Prince", ricordate? La "Moby Prince" alle 22 del 10 aprile del 1991 salpa da Livorno diretta a Olbia; a bordo 140 tra passeggeri ed equipaggio. Poco dopo entra in collisione con una petroliera che trasporta greggio altamente infiammabile. Una strage: a parte un mozzo, muoiono tutti. I familiari attendono ancora chiedono verità e giustizia. Due inchieste e due processi non sono bastati a chiarire cos'è accaduto. Qualcosa di anomalo è certamente accaduto. La tesi ufficiale parla di nebbia, di una partita di calcio in tv che avrebbe distratto l'equipaggio... ma come spiegare che il my day è lanciato alle 22 e 26 minuti, e il traghetto viene individuato solo alle 23 e 35? Un comandante della Guardia di finanza, racconta di aver visto in rada imbarcazioni che movimentavano armi, operazione vietata di notte e vicino a rotte commerciali. Testimonianza consegnata e protocollata agli atti dell'inchiesta, ma inspiegabilmente sparita dal fascicolo. E per quel che riguarda la nebbia: l'avvisatore marittimo, il pilota di porto, militari di vedetta unanimi dicono che la petroliera era perfettamente visibile, la serata chiara e limpida. Dopo la collisione si registrano movimenti di altre imbarcazioni, si allontanano a grande velocità: chi sono quelle navi? Perché si trovavano lì? Perché fuggono senza prestare soccorso? Il processo si conclude due anni dopo la tragedia, con una assoluzione generale perché "il fatto non sussiste". La sentenza in appello è parzialmente riformata: gli eventuali reati sono prescritti. Pare ci siano atti che potrebbero aiutare a capire come la tragedia si è consumata. Ma dovrebbero essere desecretati. Non lo sono, nonostante da tempo e da più parti lo si chieda. È un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare. Si vive in un paese dove il "segreto di Stato" è di casa, o almeno così si dice. Se però si chiede, ufficialmente, formalmente, quanti siano i segreti di Stati apposti dalla proclamazione della Repubblica a oggi, e su quali materie, mica ti viene risposto. Segreto anche questo: anche un semplice elenco, i "titoli"; solo questo si chiede. È la democrazia reale, ragazzi; quella che viviamo e patiamo tutti i giorni in corpore vili. Tempi in cui siamo perennemente connessi: salite su un treno o un autobus, non vedrete che persone di ogni sesso, età, provenienza, incollati a uno smart fone o un cellulare, febbricitanti nel loro compulsare qualcosa: un fluire - chissà - di informazioni, "notizie", ormai anche quando ti parlano l'occhio scivola sul video, una dipendenza da fare invidia a un qualsivoglia stupefacente. Al tempo stesso, cosa sappiamo, in realtà? Che circolazione reale c'è di notizie, di fatti, di conoscenza? Faccio un paio di esempi a proposito di questa apparente, "inutile" conoscenza, per rubare l'espressione di molti anni fa di Jean-Frangois Revel. Prendete Claudio Scajola, l'ex braccio destro di Silvio Berlusconi, finito impigliato in una serie infinita di procedimenti giudiziari (quasi tutti, va detto, finiti in assoluzioni); protagonista di indiscutibili gaffe (quella su Marco Biagi non è solo una gaffe, è una cialtronata), e quantomeno tonto-Ione, se si vuole dar credito alla versione fornita a proposito della casa vista Colosseo pagata a sua insaputa. Ebbene Scajola chiede l'iscrizione al Partito Radicale, puntualmente accolta, e non potrebbe essere diversamente: lo statuto radicale parla chiaro. Un tempo la cosa avrebbe fatto "clamore"; e chi vuole fare un po' di archeologia, vada a vedere cosa si scrisse e disse quando chiesero la tessera furono Armando Plebe o Vincenzo Andraous, Giuseppe Piromalli o Cesare Chiti. Chi scrive è assolutamente d'accordo che l'iscrizione sia accolta, chiunque la chieda; e chiunque significa chiunque; ma mi aspettavo un Catone in sedicesimo che ergesse il suo mignolo da inquisitore per censurare, ridicolizzare, cercare di mettere alla berlina. Niente; e neppure una riflessione sui pregi e i rischi di uno statuto davvero aperto, libertario, che prefigura un modello di partito non "liquido" (che non ne conosco di altri, più "solidi"), ma con una struttura "coleottero": vola a dispetto di tutte le leggi della fisica. Hanno assunto tutti una visione liberale dei rapporti con un e di un partito? Più credibile che abbiano compreso che piuttosto della polemica, del confronto, sia più pagante il silenzio, l'apparente indifferenza. Secondo esempio: il tesoriere del Partito annuncia con una lettera pubblica e pubblicata, che è costretto a licenziare l'ultima decina di dipendenti sopravvissuta; e lo fa perché non ha alternative: il partito che è stato ed è ancora protagonista di mille battaglie di libertà e di liberazione per tutti, non ha le casse vuote; non ha proprio più le casse. Ma come, una quantità di persone, chiamiamoli per comodità Vip dicono dei radicali che sono il sale detta terra; che guai se non ci fossero, pur con i loro eccessi, manie, esibizionisti; che se Pannella non ci fosse bisognerebbe inventarlo, che sono "matti" necessari, e via dicendo; e nel momento in cui chiedono aiuto, ti urlano che il gorgo li sta portando sotto, invece di lanciare salvagenti, correre in soccorso con scialuppe, si voltano dall'altra parte e ti lasciano annegare? Che modo di fare è mai questo? Se si è amici di qualcuno lo si dimostri, nel momento cruciale del bisogno. Tutto questo accade proprio nel momento in cui Marco Pannella e i radicali sono impegnati in quella che è forse l'iniziativa più ambiziosa tra le tante che li hanno visti e vedono impegnati: la conquista del diritto umano alla conoscenza, al "sapere", da incardinare in sede Onu e nelle giurisdizioni; e qui conviene rifarsi al testo di convocazione della "Seconda Conferenza su Stato di Diritto e Diritto alla Conoscenza", il cui scopo e obiettivo, tra l'altro "è di proseguire l'iniziativa intrapresa un anno e mezzo fa approfondendo il percorso per l'affermazione del diritto alla conoscenza in sede Onu e promuovendo la comune transizione verso lo Stato di Diritto del mondo europeo e del mondo a maggioranza arabo-musulmana. La Conferenza ha ricevuto il Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri italiano e si terrà il prossimo 27 luglio alla sala della Commissione Difesa. Previsto l'intervento del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, i saluti di Pannella, le relazioni del sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, del Ministro della Giustizia del Niger Marou Amadou, della Segretaria di Stato presso il Ministero delle Finanze della Tunisia Boutheina Ben Slimane, dell'ex Primo Ministro algerino Sid Ahmed Ghozali, dell'ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi, della parlamentare islandese Birgitta Jonsdottir, di Furio Colombo, Aldo Masullo e altri ancora". È una iniziativa che giorno dopo giorno prende corpo in modo autorevole e corposo; ha come obiettivo un qualcosa certamente di ambizioso, ma non di velleitario; mira a dare corpo a una "visione" che nel tempo che viviamo è probabilmente l'unico progetto realistico e perseguibile con possibilità di successo, a onta delle innumerevoli e inconcludenti realpolitik circolanti, ebbene: cosa si aspetta a discuterla, a "raccontarla", a vederne e indicarne pregi e lacune, difetti e possibili vantaggi? Non un commentatore, un editorialista, uno studioso, anche per semplice curiosità? La cosa più banale, se si vuole: cosa passa per la mente del ministro degli Esteri di dare ragione e sostenere quel "matto" di Pannella? È "matto" anche Gentiloni, o vedi mai che ancora una volta, il "matto", quello che anagraficamente da pluri-rottamazione, ancora una volta quello più lucido e saggio? Ci ha portato lontano, questo discorso cominciato con i "segreti di Stato", e che arriva al cuore del problema, il diritto alla conoscenza e la comune transizione verso lo Stato di Diritto del mondo europeo e del mondo a maggioranza arabo-musulmana. Ma alla fine, non sono queste le questioni, i "fatti" su cui conviene avviare un confronto, discutere e ragionare? E se è così è, perché questo confronto, questa discussione, questo "ragionare" stenta e non decolla? Alla fine una domanda a tutti noi: a chi giova questo silenzio? Giustizia: la roulette delle intercettazioni vere o false, ma Crocetta è al capolinea di Enzo Vitale Il Garantista, 17 luglio 2015 È evidente che Crocetta abbia sempre dovuto pagare a caro prezzo la fragilità iniziale della propria posizione politica, arrancando a destra e a manca alla ricerca di voti e di appoggi. Oggi poi vien fuori questa storia della intercettazione telefonica fra il dottor Tutino, medico personale di Crocetta, e lo stesso presidente, ove il primo augura alla figlia di Borsellino di fare la stessa fine del padre e tutti gridano allo scandalo per la mancata risposta di Crocetta in termini di dura replica, quale ci si sarebbe aspettata da un esponente dell'antimafia. Crocetta si difende asserendo di non aver sentito quella espressione: sarà vero? Sarà falso? Non si saprà mai. La Procura ha smentito l'esistenza di tale intercettazione telefonica e questo significherà pur qualcosa. Certo, si rimane basiti per il proliferare di pubblicazioni di presunte intercettazioni telefoniche, seguendo un malcostume tale che non si capisce più quali siano vere e quali false: oggi, sembra siamo tutti intercettati, ma se anche non lo fossimo, uno spregiudicato modo di fare giornalismo potrebbe far credere vero ciò che è falso: come sembra appunto essere nel caso di Crocetta. I] problema di Crocetta è uno soltanto: Crocetta. Con ciò non voglio dire che il presidente della Regione Sicilia sia antipatico o umanamente deplorevole: al contrario. Per certi aspetti, Crocetta è un simpaticone, pronto alla battuta, estroverso, perfino sagace. Qui non si tratta per nulla di questo: si tratta invece di capacità politica, strettamente politica, di governare una regione difficile come la Sicilia, soprattutto in tempi come questi. Cominciamo col dire che Crocetta è stato eletto, circa due anni e mezzo or sono, riportando un numero di consensi largamente inferiore a quello con il quale, cinque anni prima, Anna Finocchiaro, contendendo l'elezione a Raffaele Lombardo, aveva tuttavia riportato una sonora sconfitta. Insomma, Crocetta è stato eletto con appena il 15% dei voti degli aventi diritto, grazie al fatto che circa metà degli elettori preferì protestare disertando le urne. Ed è evidente che egli abbia sempre dovuto pagare a caro prezzo la fragilità iniziale della propria posizione politica, arrancando a destra e a manca alla ricerca di voti e di appoggi, che, messi a disposizione dal Pd in funzione anti-grillina, tuttavia erano sempre a rischio di essere ritirati alla prima burrasca, per il semplice motivo che il Pd nazionale con Renzi e quello isolano con Faraone (uomo di Renzi) non si son mai fidati completamente di lui. Oggi poi vien fuori questa storia della intercettazione telefonica fra il dottor Tutino, medico personale di Crocetta, e lo stesso presidente, ove il primo augura alla figlia di Borsellino di fare la stessa fine del padre e tutti gridano allo scandalo per la mancata risposta di Crocetta in termini di dura replica, quale ci si sarebbe aspettata da un esponente dell'antimafia. Crocetta si difende asserendo di non aver sentito quella espressione: sarà vero? Sarà falso? Non si saprà mai. Tuttavia, anche prendendo per buone le affermazioni del presidente, il punto non è questo. Fra l'altro, la Procura ha smentito l'esistenza di tale intercettazione telefonica e questo significherà pur qualcosa. Certo, si rimane basiti per il proliferare di pubblicazioni di presunte intercettazioni telefoniche, seguendo un malcostume tale che non si capisce più quali siano vere e quali false: oggi, sembra siamo tutti intercettati, ma se anche non lo fossimo, uno spregiudicato modo di fare giornalismo potrebbe far credere vero ciò che è falso: come sembra appunto essere nel caso di Crocetta. Ma se l'esperienza del presidente attuale della regione sembra giunta ormai al capolinea non è certo per una telefonata fantasma che sembrava esserci, ma che invece non c'era. Il punto Invece è che non è più possibile fare oggi antimafia coma la fa Crocetta, cioè ammantandosi di una tale etichetta che si è autoassegnato e sperando che alla fine tale status privilegiato serva a coprire l'incapacità politica di governare. Oggi, l'unico modo serio e socialmente apprezzato di fare antimafia esige che la si faccia ciascuno facondo possibilmente bene ciò che è chiamato a fare: il politico, l'amministratore, il giornalista, il professionista. Non c'è altro modo, ma Crocetta non lo ha capito. Infatti, pur godendo di un consenso esiguo, Crocetta avrebbe avuto tutto il tempo e le maggioranze necessario per governare: non è stato in grado di farlo ed allora è quasi fatale che egli cada rovinosamente insieme alla sua antimafia ormai priva di credibilità. Si rammenti, fra l'altro, che Crocetta vanta il primato mondiale del numero di assessori dimessi e sostituiti in circa trentatré mesi di governo regionale: ben trentasei assessori lo hanno salutato, costringendolo a sostituirli, vale a dire più di uno al mese. Segno questo di un grave disagio diffuso a tutti i livelli politici, sociali, umani, ma al quale Crocetta non ha saputo prestare ascolto cercando di comprenderne il significato. Invece, ha davvero tirato a campare, privo di un progetto efficace e complessivo, cercando di ridurre la spesa a casaccio e senza capire gli effetti devastanti di alcuni provvedimenti. Tristemente celebre quello con cui, mettendo in liquidazione i Consorzi delle aree di sviluppo industriale, ridusse d'imperio le pensioni degli operai già in quiescenza da anni. Per capire: un ottantenne che godeva da 15 anni - e dopo una vita di duro lavoro - di una pensione di circa 1.400 euro, l'ha vista dimezzarsi dall'oggi al domani e, in alcuni casi, scomparire del tutto. Da qui una marea di ricorsi in virtù dei quali i Tribunali hanno dato ragiono ai pensionati, condannando inoltre la Regione a restituire il maltolto, oltre alle spese di giudizio. Bel risultato davvero! E questa sarebbe antimafia? Prendersela con i più deboli di tutti, i pensionati? Ecco perché il problema di Crocetta è uno soltanto: Crocetta. Giustizia: buffetto della Cassazione al pm che ha dimenticato due detenuti in carcere di Stefano Zurlo Il Giornale, 17 luglio 2015 Solo la sanzione della censura per averli lasciati dietro le sbarre per oltre 200 giorni. Aveva "dimenticato" due detenuti in cella. Il primo per 208 giorni, il secondo solo, si fa per dire, per 116 giorni. Per questo un pubblico ministero di Lecco è stato condannato, in sede disciplinare, alla sanzione della censura. O meglio, le Sezioni unite civili della cassazione hanno confermato la pena stabilita nel procedimento di primo grado. Il caso può andare in archivio, anche se resta tutta l'inquietudine che una storia del genere suscita. Come può essere che un pm si scordi di due imputati anche se i termini della custodia cautelare sono scaduti da mesi? Eppure queste sono le storie portate a giudizio, prima davanti alla Sezione disciplinare del Csm, poi alle Sezioni civili unite delle Cassazione. Il capo d'incolpazione parla chiaro: il magistrato "in grave violazione di legge, aveva ammesso" il doppio errore: aveva controllato la situazione di due detenuti, in due distinte vicende, con un clamoroso ritardo. E aveva dunque chiesto la scarcerazione con mesi e mesi di ritardo: 116 giorni in un caso, addirittura 208 nell'altro. Si potrebbe obiettare che la responsabilità non è solo dell'accusa. Anzi, il pm è una parte, è il giudice che decide e dov'era il gip? Purtroppo l'errore, già di per inammissibile, diventa ancora più incredibile se si pensa che sono almeno tre i soggetti che dovrebbero controllare il countdown: il pm, il giudice e poi l'avvocato difensore. Qui se possibile la situazione si fa ancora più imbarazzante. Come fa un penalista che abbia a cuore non tanto la dignità del cliente ma la propria professionalità a non accorgersi di quel che sta accadendo? Dobbiamo immaginare un avvocato non di fiducia, ma d'ufficio, e svogliato, ma così svogliato da trascurare il minimo sindacale. E da meritare, a sua volta, un procedimento davanti all'Ordine. O agli Ordini perché parliamo di due capitoli non collegati, se non dagli svarioni del pm. Al peggio purtroppo non c'è limite. E questa sciatteria vergognosa è una ferita nel decoro della giustizia. Al Csm arrivano trame che hanno dell'incredibile. Del resto, giusto tre giorni fa, il Giornale ha raccontato un'altra storia poco edificante, conclusa con la stessa sanzione davanti alle Sezioni unite civili della Cassazione: un altro magistrato, un pm di Potenza, aveva chiamato per ben 65 volte dal cellulare di servizio maghi e previsioni del lotto. Per questo le era stata inflitta la censura. Si può dire che in quel caso il magistrato aveva ceduto ad una debolezza sacrificando il rigore dell'istituzione per catturare la sorte. Qua il problema è ancora più grave: è inammissibile dimenticare una persona in cella per giorni e giorni e questo a prescindere dalla sua eventuale innocenza. Il magistrato ha cercato di lasciare il cerino nelle mani del giudice, anche perché in uno dei casi esaminati c'era già stata la richiesta di rinvio a giudizio e dunque il pm non aveva più la disponibilità del fascicolo processuale. Non importa. E nemmeno conta, a scusante almeno parziale, il fatto che nell'altro caso il fascicolo incriminato appartenesse ad un blocco di 900 procedimenti originariamente assegnati ad un'altra toga. Il pm, lo stesso che l'anno scorso nel salotto di Bruno Vespa protestava contro il taglio delle ferie ventilato per la corporazione da Renzi, doveva vigilare. Il pm, spiegano gli ermellini, deve "costantemente verificare la sussistenza delle condizioni che giustificano la privazione della libertà personale". Non c'è un prima e un dopo, una fase più o meno importante e nemmeno conta la mole di lavoro che pesa sulle spalle di quel magistrato. L'ingiusta privazione della libertà è un fatto "estremamente grave". Di qui la censura. Senza se e senza ma. Giustizia: dopo l'inchiesta sui corrotti Roma criminale fa più notizia di Grazia Longo La Stampa, 17 luglio 2015 Ma nel 2014 le rapine sono calate del 10% rispetto al 2013. Roma città corrotta e violenta? Dal terremoto politico-giudiziario di Mafia Capitale, che ha scoperchiato l'allungamento dei tentacoli della Piovra negli appalti pubblici, alle collusioni mafiose di alcuni ristoratori nella zona del Pantheon e di alcuni gestori dei lidi ad Ostia, fino agli episodi di criminalità comune, la fotografia della città rivela più di una crepa sul fronte sicurezza. Anche se non va dimenticato che un conto è la sicurezza reale e un altro quella percepita. La drammatica rapina al gioielliere di Prati finita nel sangue alimenta inevitabilmente la polemica, ma dai dati depositati alla Procura generale presso la Corte d'Appello, emerge che nell'ultimo anno sono state denunciate 5013 rapine, un dato che è sensibilmente più basso rispetto a quello dell'anno precedente: 5.453 denunce. Non a caso il presidente dell'Authority anti-corruzione, Raffaele Cantone, riflette sull'acuirsi delle polemiche in materia di sicurezza "perché i terribili fatti di cronaca di questi giorni si inseriscono sullo sfondo di una realtà corruttiva, di un marcio finora mai emerso". Secondo Cantone, la delinquenza comune della capitale "rispetta il trend di quella nazionale, ma fa più notizia a causa delle grandi inchieste in corso. Con Mafia Capitale sono emersi reati di corruzione e di infiltrazioni mafiose per troppo tempo trascurati. Episodi che risalgono al passato, ma che per troppo tempo sono stati ingiustamente sottovalutati. Roma è stata ritenuta per troppo tempo indenne da fenomeni di mafia e di corruzione all'interno della macchina amministrativa". La speranza è che "la scoperta della realtà emersa rappresenti un'occasione di reale cambiamento". La piaga della corruzione è talmente profonda da mettere a rischio anche la durata della giunta Marino, nonostante il sindaco risulti estraneo alle indagini di Mafia Capitale. E infatti il prefetto Franco Gabrielli, nella relazione inviata al ministro dell'Interno Angelo Alfano, non sollecita lo scioglimento del Comune. Ribadisce che la giunta Marino ha "posto in essere sforzi per marcare una discontinuità rispetto al passato, evidentemente percepito come connotato da pericolose anomalie e disfunzionalità". E ancora: "In assenza di precisi segnali di allarme che sarebbero dovuti provenire da organi terzi e che avrebbero ben potuto indirizzare l'azione di ripristino della legalità verso percorsi più decisi. La giunta Marino ha dato alcuni precisi e non trascurabili segnali seppure per dovere di obiettività va precisato che, almeno all'inizio della gestione, si tratta di scelte non dettate da una precisa e consapevole volontà di contrastare l'illegittimità e il malaffare, quanto piuttosto di comportamenti ispirati agli ordinari parametri di regolarità". La città, intanto, fa i conti la paura per l'omicidio del gioielliere. Il presidente di Confcommercio Roma, Rosario Cerra, propone un progetto di "sentinelle" nei negozi contro il dilagare della violenza ."Ho avanzato al prefetto Gabrielli l'idea delle sentinelle - spiega Cerra: dai bar ai ristoranti ai tabaccai, possiamo contare su circa 24.600 esercizi legati a Confcommercio localizzati tra Roma e provincia e ognuno di loro, su base volontaria, potrebbe diventare un utile presidio nelle attività di controllo del territorio". Giustizia: gratuito patrocinio per le vittime di amianto, c'è un disegno di legge bipartisan di Mario Pierro Il Manifesto, 17 luglio 2015 Gratuito patrocinio ai familiari delle vittime di amianto. Lo prevede una proposta di disegno di legge, prima firmataria la presidente della commissione di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, Camilla Fabbri (Pd), depositata ieri al Senato. Il Ddl è stato sottoscritto da una cinquantina di senatori di maggioranza e opposizione. Secondo il provvedimento, lo Stato dovrà sostenere le spese giudiziaria delle famiglie che sono costrette ad affrontare lunghi e incerti processi contro le multinazionali del settore. La legge esistente garantisce il pagamento delle spese processuali alle famiglie con un reddito inferiore a 13 mila euro e viene applicata anche alle vittime di violenza sessuale, pedofilia o pedopornografia. Un intervento legislativo risalente a due anni fa ha esteso questo benefici anche alle vittime di chi è stato vittima di maltrattamenti familiari, mutilazione degli organi genitali femminili. Partendo da questo norma il Ddl prevede che lo Stato si assuma l'onere delle spese legali per le vittime da esposizione ad amianto coinvolte nei processo a carico dei responsabili di disastro doloso, reato di rimozione o omissione dolosa di cautele antinfortunistiche; reato di disastro colposo; reato di omicidio doloso; lesioni dolose e omicidio colposo. Lo Stato dovrebbe pagare le spese legali indipendentemente dal reddito dei familiari delle vittime di questi reati. Il costo economico di questo provvedimento è stato calcolato in due milioni e mezzo di euro annui che potrebbero essere prelevati da un "Fondo taglia-tasse". Il Ddl dovrebbe inoltre un effettivo esercizio del diritto di difesa per le vittime tutelato dall'articolo 24 della Costituzione. Ampio è lo schieramento parlamentare che ha sottoscritto il provvedimento. Ci sono 40 senatori del partito Democratico; quattro senatori di Area popolare (Aiello, Conte, Langella e Marinello), due ex esponenti del Movimento Cinque Stelle (Battista e Romani), due autonomisti (Laniece e Panizza), l'ex Ncd Caridi, il forzista Floris, l'ex montiano Romano e il fittiano Zizza che conferma: "La proposta di legge prevede l'ammissione delle vittime dell'amianto che si costituiscono parti civili o persone offese, al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, in deroga all'attuale normativa". "Il Ddl nasce da un obbligo morale che sentiamo verso le vittime di amianto e le loro famiglie - sostiene Camilla Fabbri che annuncia anche una conferenza nazionale sull'amianto il prossimo 30 novembre - Abbiamo il dovere di mitigare, per quanto è possibile, il loro dolore e di sostenere la loro richiesta di giustizia". La senatrice Fabbri ha ricordato che "sono passati 23 anni dalla legge con cui l'amianto è stato bandito, ma complice una normativa complessa e farraginosa e una mappatura ancora incompleta, la sfida è tutta aperta". "Il ddl per il patrocinio alle spese legali - aggiunge Daniele Borioli (Pd) può essere uno strumento importante di sostegno per le famiglie impegnate nel processo Eternit bis". "O per le famiglie degli ex operai del cantiere navale di Monfalcone che aspettano ancora giustizia" sostiene Laura Fasiolo (Pd). Una relazione pubblicata dall'Inail relativa al 2014 sostiene che le denunce di malattia professionale sui lavoratori affetti da malattie asbesto-correlate sono state 1700. I lavoratori deceduti per tali patologie sono stati 414 su 1488 decessi per malattie professionali. Quasi due morti al giorno per malattie asbesto-correlate. L'85% riguarda persone di età superiore ai 74 anni. A tali dati vanno aggiunti numeri equivalenti relativi agli anni precedenti. Per il futuro l'Inail ipotizza un aumento delle malattie asbesto-correlate che toccherà il picco nel 2020. Magistrati, la Corte Costituzionale dice "no al trasferimento automatico" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015 Corte Costituzionale - Sezioni Unite - Sentenza 15 luglio 2015 n. 170. Stop della Corte costituzionale al trasferimento in automatico del magistrato, che viene meno ai suoi doveri. La Consulta con la sentenza 170 depositata ieri, bolla come incostituzionale l'articolo 13 comma 1, secondo periodo, della disciplina sugli illeciti disciplinari dei magistrati (Dlgs 109/2006) che prevede lo spostamento di sede di default per la toga che, violando i doveri imposti dalla funzione (imparzialità, correttezza ecc.) procura un danno o un ingiusto vantaggio a una delle parti. Il cambio di sede obbligatorio scatta anche quando viene inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni. Previsioni che inducono la Cassazione a sollevare, a sezioni unite, una questione di costituzionalità della norma per irragionevolezza e disparità di trattamento. Secondo la Corte remittente l'articolo equipara in maniera irragionevole e sanziona allo stesso modo un'ampia gamma di illeciti, accomunati dal solo elemento del danno o dell'ingiusto vantaggio, che possono risultare di ben diversa gravità. Nel "calderone" finiscono, infatti, i comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi che riguardano l'inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Al giudice disciplinare viene di fatto impedito - ignorando il principio di gradualità della pena - di tenere conto di volta in volta delle differenze. Impossibile anche verificare se la sanzione accessoria sia davvero necessaria allo scopo: evitare il contrasto con il buon andamento dell'amministrazione della giustizia che deriva dalla permanenza del magistrato nella sede o nell'ufficio. La Cassazione sottolinea che la sua giurisprudenza è consolidata nell'affermare i principi di proporzione e di uguaglianza che presuppongono l'adeguatezza della sanzione tarata sul caso concreto: obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso il procedimento disciplinare che consente di analizzare i comportamenti specifici. Un orientamento generale che va applicato certamente anche alle toghe, considerando anche che lo stesso legislatore ha disegnato un procedimento disciplinare che segue paradigmi giurisdizionali. Inoltre le ipotesi trasgressive previste configurano illeciti di "evento" che, al pari di quanto avviene nel penale, non si esauriscono con la condotta ma richiedono la verifica sul campo dell' effettivo danno o ingiusto vantaggio, rifuggendo dalle presunzioni. La conseguenza è un vulnus al principio di uguaglianza, che deriva dal diverso e più grave trattamento sanzionatorio riservato, senza nessun riferimento concreto alla gravità dell'elemento materiale o psicologico, all'illecito funzionale indicato dalla norma finita esaminata. L'articolo, precisa ancora il giudice delle leggi, deroga alla regola in maniera irragionevole "giacché la ratio della soluzione normativa scrutinata non sembra potersi rinvenire neppure in una particolare gravità dell'illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal rango dell'interesse protetto". Il trasferimento si aggiunge alla sanzione tipica aumentando la sua portata afflittiva anche sul piano del prestigio personale, non separato da quello professionale, che il magistrato condannato vedrà significativamente compromesso, senza sottovalutare l'eco che il trasferimento potrebbe avere in una piccola o media sede giudiziaria. La Consulta avverte poi che la misura, non supportata da valide ragioni, potrebbe sollevare dubbi di compatibilità con lo stesso principio di inamovibilità dei giudici tutelato dalla Carta. È nulla la notifica della sentenza all'avvocato e non anche all'imputato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 16 luglio 2015 n. 30898. È nulla la notifica della sentenza se effettuata a un solo difensore e non anche all'indirizzo dell'imputato, quando quest'ultimo abbia indicato un proprio domicilio. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 30898/2015. Vicenda - Alla base della decisione un giudizio di condanna nei confronti di un soggetto che, a seguito di un'ordinanza di sequestro giudiziario di un immobile, si era rifiutato (andando così contro quanto previsto nel provvedimento) di consegnare le chiavi di accesso alle parti in comune delle unità abitative in contestazione al custode. A seguito di tale comportamento era intervenuta una sentenza di condanna ex articolo 388, comma 2 del cp e il pagamento di una somma di 700 euro. L'imputato in sede di legittimità non ha sollevato alcun rilievo sull'intera vicenda e sulle conclusioni. Ha eccepito, invece, un vizio procedurale nella mancata comunicazione della sentenza di condanna a lui e all'altro difensore. La Corte a tal proposito ha sottolineato come la notifica eseguita a norma dell'articolo 157, comma 8-bis del cpp presso il difensore di fiducia sia nulla qualora l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni. La notifica al solo difensore - Solo nell'ipotesi in cui non sia possibile effettuare la notifica di un atto all'imputato presso il domicilio eletto per il mancato reperimento, nonostante l'assunzione di informazioni sul posto e presso l'ufficio anagrafe del destinatario, che non risulti risiedere o abitare in quel Comune, il relativo adempimento deve essere eseguito mediante consegna al difensore e non mediante deposito nella casa comunale con i relativi avvisi, risolvendosi tale situazione in un caso di inidoneità dell'elezione del domicilio. La Cassazione, peraltro, ha accolto anche il secondo motivo poiché l'avviso di deposito era stato notificato a uno solo dei difensori dell'imputato, così impedendo all'altro di esercitare appieno il suo mandato, con il conseguente mancato decorso del termine per impugnare la sentenza d'appello. Conclusioni - Si legge nella sentenza, per concludere, che la mancata notifica dell'avviso a uno dei difensori rende inoperante nei suoi confronti la decorrenza del termine per l'impugnazione, con la conseguenza che quest'ultima sarà possibile attraverso la presentazione di autonomi motivi di appello. È stato disposto pertanto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per un nuovo giudizio. Sanzione disciplinare all'avvocato che fa "carte false" per il risarcimento di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015 Corte di cassazione - sezioni Unite civili - Sentenza 16 luglio 2015 n. 14905. Legittima la sanzione disciplinare inflitta all'avvocato di due mesi di sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per aver proposto alla propria assistita - per rimediare all'intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivatole da un sinistro stradale - di utilizzare un avviso di ricevimento relativo ad altra richiesta risarcitoria. Vicenda - Questo il principio espresso dalle sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 14905/2015 . La Corte pertanto ha ulteriormente condannato l'escamotage trovato dalla professionista per rientrare nei tempi del risarcimento ormai scaduti. Si legge nella sentenza, infatti, che l'utilizzo di un avviso di ricevimento relativo ad altra richiesta risarcitoria indirizzata alla medesima compagnia avrebbe documentato falsamente di avere interrotto il termine di prescrizione. L'avvocato, a sua discolpa, ha eccepito come in base all'articolo 56 della legge 247/2012 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense) l'azione disciplinare nel caso concreto sarebbe prescritta essendo decorsi sette anni e mezzo dalla commissione del fatto. E la professionista ha ritenuto che la nuova disciplina in quanto più favorevole all'incolpato dovesse essere applicata anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della nuova disciplina e ha posto la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 65, comma 5, della legge 247/2012 nella parte in cui non prevede l'applicabilità di tutte le norme deontologiche ai procedimenti in corso. Sul punto la risposta delle sezioni Unite è stata secca. La sentenza della Consulta - Secondo quanto già stabilito dalla Consulta con la sentenza n. 236/2011 il principio di retroattività della mix mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee nell'ambito di operatività del principio le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità. Conclusioni - Quindi il principio di retroattività in mitius non può riguardare le norme sopravvenute che modificano in senso favorevole al reo la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l'effetto estintivo del reato. Tributario: le presunzioni legali non sono prove ma semplici indizi di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015 Cassazione - Terza sezione penale - Sentenza 16 luglio 2015 n. 30890. Le presunzioni legali previste in campo tributario non sono prova della commissione del reato, ma semplici indizi che devono essere valutati dal giudice penale unitamente ad altri elementi. A confermare questo importante principio è la Corte di Cassazione, III sezione penale, con la sentenza nr. 30890 depositata ieri. Due contribuenti, residenti all'estero, venivano indagati per una serie di reati tra cui l'emissione di fatture per operazioni inesistenti ed l'omessa dichiarazione dei redditi. I soggetti risultavano percettori di compensi e sponsorizzazioni sportive, quando in realtà l'effettiva erogatrice di tali prestazioni era una associazione italiana a loro riconducibile. Nei primi due gradi di giudizio venivano ritenuti responsabili e condannati per i reati loro ascritti. Avverso la sentenza della Corte di appello proponevano ricorso per cassazione, lamentando tra i diversi motivi, che il Giudice territoriale aveva desunto la responsabilità degli imputati da una mera presunzione di natura tributaria. In particolare, nella decisione di merito era affermato che le presunzioni che avevano sorretto l'attribuzione di redditi, apparivano logiche ed accettabili e gli imputati non avevano formulato al riguardo alcun rilievo. La Cassazione ha ritenuto fondata la doglianza dei contribuenti, offrendo sul punto interessanti chiarimenti. Innanzitutto i giudici di legittimità hanno rilevato che gli imputati, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, avevano contestato dal punto di vista fattuale, tecnico contabile e giuridico l'attribuzione dei redditi e pertanto andavano valutate le argomentazioni indicate. La quantificazione delle somme evase, secondo i giudici di legittimità, sembrava frutto di una semplice operazione aritmetica con la quale era stata calcolata, per presunzioni, la media ponderale degli imponibili sottratti a tassazione negli anni precedenti. Tale ricostruzione però non era idonea, in assenza di altri riscontri, a dimostrare la responsabilità penale. Per la Suprema Corte, infatti, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato. Si tratta, di elementi che unitamente ad altri devono essere valutati liberamente dal giudice penale al fine di avere certezza della condotta criminosa. In tema di reati tributari, ai fini della prova, il giudice può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla GdF o dall'Agenzia delle entrate, ma deve estendere il proprio esame ad ogni altro eventuale indizio acquisito. L'autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che egli possa avvalersi degli stessi elementi, a condizione però che siano assunti non con efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione probatoria. Ne consegue che poiché le presunzioni hanno il valore di un indizio, per assurgere a prova devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni gravi, precise e concordanti. Diversamente, invece è stato chiarito che per il provvedimento cautelare, le presunzioni tributarie, possono essere poste a fondamento della decisione poiché è sufficiente che esistano elementi anche indiziari del reato. Emergenza rifiuti in Campania, nuova condanna per l'Italia di Alessandro Vitiello Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015 Corte Giustizia Ue, sentenza C-653/13. La questione dei rifiuti in Campania torna d'attualità. Ieri, infatti, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha condannato l'Italia a pagare 20 milioni come una tantum e 120mila euro al giorno per non aver eseguito correttamente la sentenza del 4 marzo 2010 n. C-297/08, che aveva accertato irregolarità e inadempienze della Regione nel recupero e nello smaltimento dei rifiuti. Così causando pericoli per la salute dei cittadini e per l'ambiente, in violazione della direttiva 2006/12/Ce. La penalità giornaliera di 120mila euro è formata da tre parti, ciascuna di 40mila, calcolate per categoria di impianti (discariche, termovalorizzatori e impianti di trattamento dei rifiuti organici). L'una tantum di 20 milioni, invece, è stata motivata dalla corte di Lussemburgo tenendo conto del fatto che più di venti sono state le infrazioni a carico dell'Italia sui rifiuti, i cui inadempimenti quindi giustificano una misura dissuasiva come il pagamento di una somma forfettaria. Per la gravissima emergenza vissuta dalla Regione Campania nel 2007, tra interessi della criminalità organizzata e incapacità amministrative locali, la Commissione europea aveva aperto una procedura di infrazione verso l'Italia per non aver saputo assicurare la raccolta dei rifiuti e non aver creato una rete integrata e adeguata di impianti che garantisse l'autosufficienza nello smaltimento "in prossimità geografica". Principio previsto dalla "direttiva rifiuti" (2006/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio), in base alla quale gli Stati membri devono anche limitare la loro produzione, promuovendo tecnologie pulite e prodotti riciclabili e riutilizzabili, così tutelando la salute dei propri cittadini e l'ambiente. La condanna era arrivata puntuale con la sentenza del 4 marzo 2010 n. C-297/08, da eseguire entro il 15 gennaio 2012. La mancata esecuzione della sentenza del 2010 è ora sanzionata dalla Corte di giustizia. Bruxelles, infatti, dopo aver valutato negativamente le misure adottate dall'Italia e il piano regionale per la gestione dei rifiuti solidi urbani della regione Campania, aveva proposto una seconda procedura d'infrazione contro il nostro Paese dopo aver verificato nuovi disagi nella raccolta dei rifiuti tra il 2010 e il 2011, soprattutto nelle zone periferiche di Napoli e di altre importanti città, nonché il mancato smaltimento di sei milioni di tonnellate di vecchie "eco balle". Temi sui quali è arrivata la nuova sentenza della Corte di giustizia Ue, che in particolare dà ragione alla Commissione sull'eliminazione delle "eco balle" e sul numero insufficiente di impianti con la capacità necessaria per il trattamento dei rifiuti urbani nella Regione. Incapacità che tra l'altro potrebbe compromettere la rete nazionale di impianti di smaltimento dei rifiuti e la capacità dell'Italia di raggiungere l'obiettivo dell'autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti. Proprio sul principio dell'autosufficienza, la Commissione Ue ha precisato nella sentenza di ieri che "i tentativi della Repubblica italiana di spostare la discussione dal livello regionale a quello nazionale sono inutili, in quanto tale questione è già stata chiarita nella sentenza Commissione/Italia C 297/08, secondo la quale, tenuto conto della scelta di procedere a una gestione dei rifiuti a livello regionale, le regioni devono dotarsi, in una misura e per un periodo significativi, di infrastrutture sufficienti per soddisfare le proprie esigenze in termini di smaltimento dei rifiuti. Se ciascuna regione facesse affidamento sulla cooperazione delle altre regioni e su quella dell'insieme del sistema nazionale di smaltimento dei rifiuti, il rischio di crisi di tale sistema aumenterebbe". Lettere: la mutazione criminale di Paolo Frascani La Repubblica, 17 luglio 2015 Giovani senza futuro. Senza sosta si susseguono gli episodi di violenza nelle strade del centro storico e si aggrava un'emergenza inedita e inquietante. Il giudice minorile Pietro Avallone ha osservato che le bande giovanili sono animate da un senso di vendetta: "Vivono in quartieri dove non c'è nulla" e si confrontano apertamente con un "mondo borghese" che ha contribuito a determinare lo sfascio, civile e culturale, in cui vivono. È saltato, dunque, l'equilibrio tra le classi sociali e ci troviamo di fronte a una profonda trasformazione sociale e culturale. Sembra di riviere il clima agghiacciante di un film spagnolo degli anni 60/70. Raccontava l'improvvisa e inspiegabile mutazione dei bambini di un' isola al largo della Costa Brava in spietati assassini degli adulti della piccola comunità. Una parabola che, mischiando candore e crudeltà, preannunciava le lotte e i conflitti tra generazioni dei decenni a venire, inducendo a interrogarsi, allora come oggi, sulla condizione dell'infanzia nelle nostre società. Siamo colti di sorpresa dall'esplodere degli spari che sentiamo intorno a noi ma sappiamo poco di quanto accade ai piani bassi della nostra casa comune. Bisogna contrastare le faide criminali e tutelare il diritto alla sicurezza dei cittadini ma, come ceto politico e collettività, dobbiamo assumerci la responsabilità, finora rifiutata, di affrontare la "questione sociale" napoletana. Parliamo di diseguaglianze economiche e culturali che continuano a incidere sulle condizioni di vita di una ben definita parte della popolazione. Un'area sociale che vive in una "zona franca di degrado e di illegalità diffusa" ed è deformata dagli stereotipi di una "napoletanità" sempre eguale a se stessa. Considerata nelle sue articolazioni, costituisce, piuttosto, il focus di contraddizioni storiche irrisolte e, contemporaneamente, lo spazio di conflitti che il lungo periodo della crisi comincia a rendere visibili. È questo il convitato di pietra, ignorato e disconosciuto, nel dibattito, passato e presente, sul destino della città. Napoli sembra aver conservato le antiche distinzioni cetuali, entro gli spazi "storici" della sua geografia sociale. Il teatro della "miseria" si rappresenta ancora, e in larga parte, nel contesto delle periferie nella morsa dell'economia sommersa e criminale o si cela negli spazi del centro antico e nelle enclave di povertà e arretratezza inglobate, da tempo immemorabile, nell'alveo dei quartieri benestanti. La situazione è in evoluzione e bisogna tener conto del "piovere sul bagnato" di una crisi che tocca attori e trame di un'antica rappresentazione. Le nuove forme della criminalità infantile ne modificano i ruoli e i caratteri e richiedono un impegno capace di coglierne l'autentico significato. È una chiamata alle armi intorno al tema della rigenerazione sociale della Napoli marginale: la scuola, il welfare pubblico, le famiglie al centro delle politiche sociali. Si riducono le energie e gli strumenti destinati a lenire vecchie e nuove emergenze e si disperde un patrimonio di esperienze e di sensibilità maturate sulla frontiera del contrasto al disagio urbano. Soprattutto manca la percezione della complessità e dell'estensione di questi fenomeni da parte della politica e dell'opinione pubblica. Una irresponsabile ventata populista ha dato corpo all'immagine della Napoli libertaria, schierata in difesa dei diritti e felicemente coesa nel culto di nuove e vecchie mitologie sportive o musicali. La realtà è ben più complessa: le "due città" che si fronteggiano nelle cronache di questi giorni si sono economicamente e culturalmente allontanate e, paradossalmente, rischiano, per la prima volta, di entrare in rotta di collisione per il venire meno delle ragioni della loro coabitazione. Una preoccupazione che non turba i sonni di chi ci governa, né affanna le menti di quanti cominciano a scaldarsi, a bordo campo, per gareggiare nella prossima competizione elettorale. Si dovrebbe guardare alla capacità di colmare i vuoti e le omissioni di una politica "ignara", forse irresponsabile, guardando in faccia la realtà e facendosi guidare da un'idea di città più giusta e omogenea. Un obiettivo che dovrebbe proporsi anche chi si accinge a governare la Napoli metropolitana. Qui gli equilibrismi della politica debbono fare posto alle esigenze dei cittadini, chiamati a riflettere sulla possibilità di ricomporre antiche e mai sanate fratture, culturali e sociali. Lettere: se vale solamente la legge del più forte di Massimo Cacciari L'Espresso, 17 luglio 2015 Niente giustizia, niente solidarietà. E, soprattutto, nessuna idea di un destino comune. Ecco il bilancio devastante della crisi greco-europea. Quale che siano le conseguenze del compromesso raggiunto sulla crisi greca, o al quale la Grecia è stata costrettaci messaggio generale che le élite politiche ed economiche europee hanno mandato ai popoli del vecchio continente minaccia di essere devastante. Chissà se tra le loro letture vi è mai stato Tucidide, quel discorso degli ambasciatori ateniesi ai Melii, che il padre della storiografia europea ci riferisce: è legge di natura che il più forte comandi e razionale per il più debole obbedire al suo volere. Si poteva pensare che tale legge non valesse all'interno della "famiglia" delle nazioni europee, che altri "pilastri" ne sostenessero la costruzione. Che nei prescrivere anche i farmaci più amari a chi versa in condizioni disperate, il rispetto della volontà e dignità di quest'ultimo rimanesse presupposto di ogni intervento. Ora i popoli europei sanno che il pensiero che si incarna nei programmi che l'Unione detta al governo greco è pre-potente rispetto ad ogni considerazione fondata su principi di sussidiarietà e solidarietà. Aristotele insegnava che l'essenza della giustizia consiste nel volere il bene dell'altro; le élites europee insegnano che "legge di natura" è l'obbedienza al pensiero unico del liberismo della deregulation, delle privatizzazioni-svendita, del mercato del lavoro "libero" da protezioni e ammortizzatori. Se i capi della "Comunità" avessero programmato di sostenere le tesi anti-euro delle Le Pen e dei Salvini, dei nazionalismi e dei populismi di ogni sorta, non avrebbero potuto più efficacemente operare. Il dramma che stiamo vivendo va perciò ben oltre la crisi greca. Questa testimonia un crollo verticale di auctoritas da parte della leadership europea. Poiché autorità significa capacità di far crescere, e non certo solo in senso economico. Anche i più pesanti sacrifici possono essere richiesti e ottenuti, se si è in grado di indicare comuni destinazioni. Non è possi bile, in vece, alcuna politica autorevole se manca una idea da perseguire, se una classe dirigente gestisce la situazione di fatto, estrapolando da esperienze passate senza alcun "rischio" sul futuro da costruire. Irrealismi? Utopismi? L'esatto opposto: proprio la precarietà della situazione economica, di un'Europa dove mancano ancora politiche fiscali e sociali non dico comuni, ma convergenti, dove i meccanismi di sostegno ai Paesi in difficoltà ignorano ogni efficace automatismo, proprio questa condizione così critica dovrebbe spingere a ripensare e rimotivare le idee-cardine, le idee-guida, la decisione etica, direi, che debbono guidarci nella costruzione della potenza politica europea. Se le classi dirigenti non saranno in grado di dar forma e contenuti a questa prospettiva, di convincere i popoli europei intorno alla sua necessità, il realismo politico equivarrà ad arte del rammendo e del sopravvivere. E come sarà possibile, di grazia, in simili condizioni, affrontare le crisi geo-politiche in cui anche quella europea deve per forza essere collocata? Deficit di autorità significa anzitutto, infatti, incapacità di comprendere il nesso tra politiche economico-finanziarie e scenari internazionali. Ora è a tutti evidente come soltanto un grande piano di interventi approntato insieme alla moneta unica avrebbe permesso all'Europa di affrontare da protagonista le crisi mediterranee e medio-orientali di cui stiamo subendo le tragiche conseguenze. Altrettanto evidente è oggi come l'allargamento a Est della Unione non sia avvenuto discutendo con serietà lo scenario possibile di un immenso blocco continentale euro-asiatico, in risposta al sogno imperiale americano-atlantico seguito alla caduta del Muro. E pensiamo, infine, che destabilizzare la Grecia socialmente e politicamente non abbia alcuna conseguenza su immagine e operatività della Nato? Il "riduzionismo" domina sovrano tra i signori di Bruxelles; la loro fede che la tecnica (economica) sia la sola arma valida per superare i problemi che essa stessa ha generato, è incrollabile. E se i suoi dogmi sono quotidianamente smentiti dalla storia, tanto peggio per questa e per i miseri mortali costretti a viverci. Calabria: suicidi in carcere e sanità penitenziaria, una situazione disperata di Ilaria Calabrò strettoweb.com, 17 luglio 2015 Che le carceri italiane e calabresi siano un inferno lo scriviamo da tempo. Recentemente nel carcere di Arghillà si è tolto la vita, suicidandosi, Giuseppe Panuccio di 53 anni a cui era stato comminato l'ergastolo per un triplice omicidio. Per avere idea delle condizioni di vita e di " prevenzione" del carcere bisogna porsi alcune domande e cercare di ricevere risposte. Innanzi tutto il detenuto Giuseppe Panuccio, era in un carcere di " media sicurezza", quello di Arghillà, mentre il detenuto era di " massima sicurezza" e doveva soggiornare in un carcere con questa qualifica, dove sicuramente si prestano più attenzioni per evitare che questa scia di sangue caratterizzi la vita e la storia carceraria, come mai questo non è accaduto a Reggio Calabria? A questa va legata una vicenda che sembra di comune "malasanità" ma che riguarda un regolare bando di concorso per coprire dei turni di specialistica, compresa la "Psichiatria", per il Carcere di Arghillà che da poco aveva aperto i battenti dopo una lunga "telenovela" di rinvii. Espletato il concorso ed individuati gli aventi diritto a ricoprire i relativi turni, anzi, alcuni di questi regolarmente formalizzati, per una lettera quasi anonima proveniente da quel pianeta chiamato Locri, la Regione, attraverso il Generale Pezzi, interessa il Commissario della ASP 5 dell'epoca il dr. Tripodi invitandolo a procedere che non ha trovato di meglio, invece, che sospendere gli incarichi. La norma giuridica è questa: "meglio non fare che fare". Anche perché i vincitori di concorso uscivano da graduatorie inoppugnabili di merito e non dovevano togliere il cappello a nessuno. Una lotta di comune faida politica tra forza italioti e scopellitiani che ha caratterizzato gli ultimi scampoli di legislatura di CDX. Quest'ultimi accusati di avere banditi i turni che non erano utili, tra cui quelli di Psichiatria del Carcere di Arghillà. Qualcuno, all'interno del palazzo padronale dell'Istituto ha probabilmente dato anche una manina per non far nominare qualche specialista particolarmente non "simpatico", indipendente dai poteri che nulla hanno a che fare con i servizi da fornire come servitori dello Stato. Storie anche queste di sanità "padronale" di cui avevamo perduta la memoria. Ma si sa, la precarietà e l'inerzia dei commissari ha creato in Calabria una lunga stagione di incertezze. Si sarebbe potuto evitare questo Suicidio con un servizio responsabile di psichiatria, come aveva ben visto l'ASP 5 con il dott. Franco Sarica, invece di un servizio "part time" costituito dalle cosiddette visite "extra moenia" specialistiche. Di chi sono le colpe, se dovessimo trovare un colpevole per il fallimento del servizio sanitario penitenziario reggino, dovremmo iniziare a domandarcelo da questa triste storia anche perché a tutt'oggi, con i palleggiamenti dell'ASP 5 il diritto alla salute dei detenuti è negletto e forse non è un caso e qualcuno dal suo dorato e super controllato ufficio potrebbe anche compiacersi a danno dei pazienti che tali sono anche se detenuti. Firenze: i detenuti dell'Opg denunciano la violazione dei loro diritti… chiamateli matti di Valter Vecellio Notizie Radicali, 17 luglio 2015 "Giornata storica". Anzi: "rivoluzionaria". Così nei giornali il 30 marzo scorso. I il giorno in cui chiudono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Una chiusura slittata già tre volte in due anni. Ma ora, finalmente ci siamo, i pazienti ricoverati negli Opg, finalmente vengono sostituiti dai Rems, le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza. Era ora. I Rems sono gestiti dai Dipartimenti di salute mentale che devono garantire assistenza e adeguati programmi terapeutici ai soggetti con patologie mentali. È stata dura, arrivarci. Lo stato, per evitare ulteriori tentennamenti, minaccia di commissariamento le Regioni che non organizzano l'assistenza alternativa. A questo si deve arrivare per chiudere i sei Opg ancora operativi, sparsi in cinque regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Ci siamo, dunque. Poi, apri il giornale e leggi dell'Opg di Montelupo Fiorentino. Si legge che non cambierà nulla, nell'immediato almeno: "Domani", il commento della direttrice Antonella Tuoni, "lavorerò come sempre, sabato scorso c'è stato l'ingresso di una persona proveniente da una comunità e non ho indicazioni su provvedimenti di trasferimento con l'assegnazione delle persone attualmente all'Opg nelle strutture individuate dalle Regioni. La Regione Toscana ha individuato le strutture, ma ancora non è pronta, quindi la chiusura dell'Opg toscano sicuramente il primo aprile non ci sarà". Quattro mesi dalla giornata "storica", anzi "rivoluzionaria"? Il progettato e annunciato Rems di Volterra non è ancora agibile, e Montelupo Fiorentino è ancora in funzione, pur se "illegittimo e in violazione dell'articolo 13 della Costituzione che sancisce l'inviolabilità della libertà personale". Basandosi su questo principio il Centro di documentazione sul carcere "L'Altro diritto" ha deciso di avviare una campagna per la raccolta e la compilazione dei modelli di ricorso, e 58 su 85 internati nell'Opg toscano lo hanno sottoscritto. Chiamateli matti. Gli internati degli Ospedali psichiatrici giudiziari considerati folli dimostrano invece di essere molto più sani e capaci di intendere quali sono i loro diritti. Si prevede che il Rems di Volterra sarà pronto per agosto. Fino ad allora si protrae questa situazione illegittima. Problemi anche in Emilia Romagna. Quarantuno psichiatri dell'Ausl attraverso una lettera aperta denunciano le insufficienti misure di sicurezza nella Rems di Bologna, che ha aperto le porte a quattordici ospiti dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio, considerati "i soggetti ad alta pericolosità" a cui devono garantire l'assistenza. Nella lettera si sottolinea "l'assoluta inopportunità" della struttura prescelta (una casa colonica su due piani), che "non consente un controllo del reparto". I medici inoltre denunciano l'inadeguatezza della dotazione di due operatori durante il turno di notte; e segnalano che "il turno di reperibilità del personale medico, potendo essere temporalmente coincidente con la reperibilità in altre strutture, è potenzialmente foriero di un vuoto di tutela". Questione da tener d'occhio. Se ne dovrà riparlare. Napoli: il cappellano di Poggioreale contro il Comune "non si interessa dei detenuti" di Gaia Bozza fanpage.it, 17 luglio 2015 Il cappellano del carcere di Poggioreale, don Franco Esposito, scrive una durissima lettera aperta all'assessore al Welfare del Comune di Napoli Roberta Gaeta, con la quale - sostiene - "sembra impossibile parlare". Il Comune di Napoli, che ospita due tra le carceri più grandi d'Italia, non ha ancora un Garante per i diritti dei detenuti. È quasi un'impresa impossibile farsi ascoltare dalle istituzioni, soprattutto quando ci si occupa degli ultimi. Questo è quanto denuncia la lettera aperta diffusa da don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale che da tanti anni svolge importantissime attività per i detenuti, in un istituto che ha attraversato momenti di grande problematicità: dall'assistenza spirituale ai progetti con l'associazione di volontariato che presiede, "Liberi di volare Onlus". La lettera di don Franco Esposito all'assessore Roberta Gaeta Signora assessore Roberta Gaeta, sono don Franco Esposito cappellano del carcere di Poggioreale, presidente dell'associazione di volontariato carcerario "Liberi di volare Onlus" ormai e da circa un mese che cerco di ottenere un appuntamento con lei tramite la sua segreteria, dopo varie telefonate mi hanno fatto parlare con il suo capo staff. Ma niente di fatto… parlare con lei sembra impossibile. Questo è il motivo per cui ho deciso di mandarle una lettera aperta, affinché anche gli altri cittadini sappiano di come, quando si occupano posti di "potere", non solo ci si sente in diritto di snobbare chi lavora quotidianamente affianco di quelle realtà di cui l'assessore dovrebbe occuparsi (come i detenuti e le loro famiglie) ma non si ha nemmeno l'accortezza di rispondere con un rifiuto alla richiesta d'incontro. Questo a mio modesto parere dimostra un totale disinteresse e rasenta la maleducazione. La mia richiesta d'incontro nasceva dal fatto di costatare di come il Comune di Napoli da oltre 10 anni (tempo del mio servizio nelle carceri) non si sia mai interessato delle carceri cittadine, ne delle problematiche dei detenuti ne delle loro famiglie. Eppure nella nostra città ci sono due carceri tra le più grandi d'Italia che attualmente ospitano circa 3.500 detenuti. Avrei voluto informarla, se mai non se ne fosse accorta, che la stragrande maggioranza di questi detenuti proviene dai quartieri della nostra Napoli e che ritornerà dopo l'esperienza carceraria nei quartieri dai quali proveniva, sicuramente non migliorati dal carcere e con problemi esistenziali e di reinserimento sociale che li porterà a diventare manodopera a basso costo della criminalità organizzata, o cosiddetti "cani sciolti" destinati a ritornare nelle patrie galere. Come Associazione "liberi di Volare" da anni facciamo volontariato nel carcere di Poggioreale e di Secondigliano dove abbiamo attivato circa 10 progetti: scrittura creativa, formazione all'igiene, liberi con i libri, prevenzione all'autolesionismo e al suicidio, prevenzione all'alcool dipendenza, dentro e fuori, laboratorio di bigiotteria, orientamento lavorativo, famiglie con le famiglie dei detenuti, colloqui di sostegno, distribuzioni di generi di prima necessità. Anche sul territorio siamo impegnati in collaborazione con la pastorale carceraria della diocesi di Napoli per l'accoglienza dei detenuti ex detenuti e famiglie dei detenuti. Nel mese di maggio 2014 e stata anche inaugurata una casa di accoglienza per detenuti agli arresti domiciliari ed ex detenuti, all'inaugurazione era presente il Cardinale Crescenzio Sepe che ha messo a disposizione la struttura e la sostiene e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Il centro attualmente ospita circa 30 detenuti in affido e semilibertà e 7 ai domiciliari inoltre sosteniamo mensilmente cica 300 famiglie di detenuti con generi di prima necessità. Mi permetto di metterla al corrente del nostro servizio pensando di farla cosa gradita visto che le nostre attività, tutte gratuite, si svolgono nel nostro comune. Infine volevo metterla a conoscenza che il nostro comune pur avendo, come dicevo prima 2 carceri tra le più grandi d'Italia, manca della figura del Garante dei diritti dei detenuti presente in quasi tutti i comuni d'Italia dove vi sono istituti penitenziari. Mi permetto di farle conoscere i comuni nei quali è presente ormai da anni la figura del garante: • Comune di Bergamo - Pietro Semeraro • +Comune di Bologna - Elisabetta Laganà • +Comune di Bolzano - Franca Berti • +Comune di Brescia - Emilio Quaranta • +Comune di Ferrara - Marcello Marighelli • +Comune di Firenze - Franco Corleone - coordinatore dei garanti territoriali dei detenuti • +Comune di Gorizia - in attesa di nomina • +Comune di Ivrea - Armando Michelizza • +Comune di Livorno - Marco Solimano • +Comune di Milano - Alessandra Naldi • +Comune di Nuoro - Gianfranco Oppo • +Comune di Pescara - Fabio Nieddu • +Comune di Piacenza - in attesa di nomina • +Comune di Pisa -Andrea Callaioli • +Comune di Pistoia - Antonio Sammartino • +Comune di Reggio Calabria - Giuseppe Tuccio • +Comune di Roma - Filippo Pegorari • +Comune di Rovigo - Livio Ferrari • +Comune di Salerno - carica vacante • +Comune di San Severo (Fg) - Maria Rosa Lacerenza • +Comune di Sassari - Cecilia Sechi • +Comune di Sondrio - Francesco Racchetti • +Comune di Sulmona (AQ) - carica vacante • +Comune di Torino - Maria Pia Brunato • +Comune di Trieste - Rosanna Palci • +Comune di Udine - Maurizio Battistutta • +Comune di Venezia - in attesa di nomina • +Comune di Verona - Margherita Forestan • +Comune di Vicenza - Federica Berti. Spero che almeno questa lettera la legga, dopo ne faccia quello che vuole. Cordialmente la saluto e la ringrazio del tempo concessomi. Avellino: Uil-Pa; porteremo l'emergenza idrica del carcere all'attenzione del ministro ilciriaco.it, 17 luglio 2015 "Auguriamo al collega una pronta ripresa esprimendo i sensi della nostra più totale vicinanza, parimenti intendiamo far giungere al personale il nostro plauso per aver gestito con professionalità ed intelligenza, e senza ricorso alla forza, una situazione che poteva degenerare", afferma Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, che da Roma ricorda come quella dell'emergenza idrica nelle carceri irpine sia una questione insoluta da diversi anni. Proprio lo scorso anno con il Presidente dell'Alto Calore, Raffaello De Stefano, ed il Provveditore Regionale - ricorda Sarno - abbiamo affrontato il tema della carenza idrica nelle carceri irpine. Proprio grazie a quell'intervento Alto Calore e Prap ebbero a pianificare un percorso di soluzione non ancora completato per carenza di fondi. Per quanto concerne Bellizzi l'Alto Calore ha già messo in campo interventi atti a migliorare la fornitura idrica. Ma l'Amministrazione Penitenziaria deve trovare le risorse per adeguare la rete idrica ad una nuova esigenza di maggiore portata dovuta anche alla recente apertura del nuovo padiglione. Purtroppo ad Ariano Irpino si registra la vera emergenza ed occorre intervenire con immediatezza altrimenti si rischia l'impossibilità di continuare l'erogazione idrica. Meno allarmante la situazione a Sant'Angelo dei Lombardi dove Direzione del carcere, Comune e Alto Calore hanno provveduto agli interventi necessari. Voglio sperare - prosegue il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari - che il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, ma lo stesso Ministero della Giustizia, si facciano carico con immediatezza dell'emergenza idrica e includano nell'agenda dei lavori urgenti i lavori di adeguamento delle reti idriche delle carceri di Avellino ed Ariano Irpino. Sabato - chiosa Sarno - sarò a Bellizzi per verificare di persona la situazione , mentre martedì 21 luglio porterò la questione direttamente all'attenzione del Ministro Orlando considerato che è previsto un incontro con le rappresentanze sindacali. Nel cuore di questa notte, verso le 3.00, i detenuti della sezione Alta Sicurezza del carcere avellinese di Bellizzi Irpino hanno incendiato alcune lenzuola ed effetti personali nonché fatto scoppiare qualche bomboletta di gas. La protesta è stata conseguente alla sospensione della fornitura idrica. I disordini sono stati brillantemente gestiti dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio coordinati dal Direttore del carcere, paolo Pastena, sopraggiunto immediatamente. Nel corso dell'operazione per riportare la situazione alla normalità un Sovrintendente dei baschi blu ha dovuto ricorrere alle cure ospedaliere per un intossicazione dovuta all'inspirazione dei fumi sprigionatisi dal materiale incendiato nella sezione detentiva. Salerno: detenuti ammalati, si mobilita il Sindaco ma non può visitare il carcere di Fabrizio Ferrante blastingnews.com, 17 luglio 2015 Il sindaco di Salerno, per conoscere i livelli di assistenza in carcere, è "costretto" a scrivere una lettera. L'estate sta esplodendo e, per chi vive dietro le sbarre, la stagione calda diventa foriera di sofferenze solo in parte mitigate da un sovraffollamento in calo ma ancora non sufficientemente abbattuto. Pene patite a causa del caldo torrido e, in taluni casi, diventa problematico perfino avere accesso all'acqua corrente o respirare aria pura, come avviene nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che non è raggiunto dalle forniture idriche se non mediante autobotti e, d'estate, è invaso dai miasmi di un sito dove si lavorano i rifiuti, a San Tammaro. Sempre in Campania è forte l'attenzione sul carcere salernitano di Fuorni. Oltre all'azione incessante di Donato Salzano e della sua associazione radicale "Maurizio Provenza" di Salerno, si aggiunge la lettera che il sindaco, Vincenzo Napoli, ha inviato al manager dell'Asl, Dottor Antonio Squillante, al direttore degli ospedali riuniti San Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona, Vincenzo Viggiani, e al direttore del penitenziario di Fuorni, Stefano Martone. Napoli, dando seguito alla lettera aperta e alle iniziative intraprese da Donato Salzano (in particolare con riferimento ai detenuti ammalati, Giuseppe Danise e Francesco Sorrentino) si è rivolto ai destinatari sopra citati per chiedere lumi circa il livello di assistenza che viene erogato (se viene erogato) ai cittadini ammalati e tuttora ristretti nelle carceri salernitane, in particolare a Fuorni. La lettera, inviata dal sindaco alcuni giorni fa, al momento non ha ancora ricevuto risposta. A darne notizia, nella giornata del 16 luglio, Donato Salzano che ha ricordato l'importante novità costituita dal gesto del sindaco di Salerno, definito "compagno socialista sensibile e intransigente". Secondo Salzano, Vincenzo Napoli, chiedendo lumi circa l'assistenza ai detenuti ammalati, non solo si fa portatore della tutela dei diritti umani (violati dai trattamenti inumani e degradanti) ma anche del diritto umano alla conoscenza, ultima battaglia in ordine di tempo del Partito Radicale che ne chiede la codifica in sede Onu. A proposito dei Radicali, l'azione del sindaco di Salerno fa tornare alla memoria la proposta di legge del 2011 a prima firma Rita Bernardini che, negli ultimi tempi, è stata rilanciata: estendere le visite ispettive nelle carceri anche ai sindaci, come previsto in un testo che includeva anche i presidenti delle province. Ad oggi, ricordiamo, nei penitenziari possono accedere unicamente parlamentari, consiglieri regionali (per le visite ispettive) e poche altre categorie scelte, come alcune associazioni (Antigone su tutte) accreditate per svolgere attività di controllo. Se tale possibilità fosse data anche ai sindaci, evidentemente, Vincenzo Napoli e altri sindaci interessati come lui, potrebbero trovare risposta a tutti i loro dubbi sull'assistenza sanitaria come su altre questioni, recandosi in prima persona, nella fattispecie, presso il carcere di Fuorni. Facoltà, al momento, preclusa a lui e a tutti gli altri primi cittadini d'Italia da una legislazione, probabilmente, da ritoccare. Parma: via Burla, il bancomat per trasferire i soldi ai detenuti è rotto da una settimana parmatoday.it, 17 luglio 2015 Il bancomat interno al carcere di via Burla a Parma, che consente periodicamente ai famigliari dei detenuti di trasferire i soldi sul conto corrente interno degli stessi, è rotto da circa una settimana. Il bancomat interno al carcere di via Burla a Parma, che consente periodicamente ai famigliari dei detenuti di trasferire i soldi sul conto corrente interno degli stessi è rotto da circa una settimana. La segnalazione ci è arrivata da alcuni famigliari che, periodicamente, si recano presso il carcere di via Burla a Parma per trasferire i soldi destinati ai parenti che si trovano all'interno del carcere per acquistare generi alimentari e non che non sono compresi nel vitto del carcere. In questi giorni di grande caldo, i soldi servono per comprare l'acqua e i generi di prima necessità dallo "spesino" all'interno del carcere. I soldi sono necessari anche per comprare le bombole per il fornelletto a gas e tutti i beni essenziali. "In assenza di questo bancomat siamo costretti a fare un vaglia postale: in questo modo si allungano i tempi e i soldi che oggi trasferiamo con il vaglia arriveranno tra alcuni giorni" Augusta (Sr): i detenuti della Brucoli Swing Band in concerto al Centro "Utopia" siracusanews.it, 17 luglio 2015 Dopo i concerti estivi nell'arena "gattabuia" della casa di reclusione di Augusta, il coro del carcere formato dai detenuti, la Brucoli Swing band, si è recato "in trasferta" al Centro "Utopia", luogo di aggregazione religiosa, culturale e ricreativa che si trova a pochi chilometri dalla casa di reclusione. Sono usciti per l'occasione, grazie ad un permesso orario concesso dai Magistrati di sorveglianza, dieci dei trenta detenuti che formano il coro; quelli che avendo scontato già una certa parte della pena possono avere accesso a questo tipo di beneficio, l'uscita dal carcere per alcuni giorni o , come in questo caso per alcune ore. Così, accompagnati da alcuni dei tanti volontari che frequentano il carcere si sono recati ieri mattina al centro, frequentato da tanti augustani, e gestito da padre Angelo Saraceno, per trascorrere prima la mattinata assieme ai familiari. Nel pomeriggio hanno preso parte ad un dibattito nel quale hanno reso la loro testimonianza di vita, ed infine, alle 20, diretti da Maria Grazia Morello, hanno fatto la loro performance, fatta di brani del oro repertorio, intermezzati dalle poesie napoletane di S.C., ergastolano, che da anni ha intrapreso un percorso di reinserimento svolgendo anche attività lavorativa nel territorio di Augusta. Tanti gli spettatori presenti, fra questi il direttore della casa di reclusione dottor Antonio Gelardi, alcuni degli educatori che lavorano nel carcere, ed i familiari dei coristi, che si sono trattenuti per vedere i loro cari esibirsi. "Si tratta di una esperienza che si ripete - afferma Gelardi, già due anni fa il centro aveva ospitato il coro. Alla fine del concerto, nel salutare il pubblico, Maria Grazia Morello ha dato appuntamento a tutti ai concerti che si svolgeranno come da tradizione nel mese di Dicembre presso la casa di reclusione. I detenuti hanno fatto poi rientro, prima della mezzanotte, ora di scadenza del permesso in carcere". Immigrazione: "via i neri da qui". La rivolta di Treviso contro i profughi, roghi e scontri di Jenner Meletti La Repubblica, 17 luglio 2015 Assalto ai 101 ospitati in due palazzine. Forza Nuova ruba i mobili: bottino di guerra. I residenti decidono di passare la notte in tenda: "Non siamo razzisti, ma questa è casa nostra". Le due ragazzine con la schiuma da barba scrivono "Italia" sull'erba del prato e accanto disegnano una freccia che indica una palazzina bianca di cinque piani. "Sono ancora bimbe - spiega una signora - ma hanno le idee chiare. Col disegno dicono che sono state costrette a lasciare la loro casa, che è un pezzo d'Italia, perché la palazzina è stata invasa da 100 africani, per la precisione 101. I neri in casa e loro qui sul prato, costrette a dormire in tenda". Le ragazzine hanno ancora schiuma nella bomboletta. "Non siamo razzisti. Vogliamo solo casa nostra", scrivono ancora. È iniziata una storia brutta e pesante, in questo paese che è periferia della città. L'arrivo improvviso di un centinaio di richiedenti asilo africani non ha provocato solo urla di protesta e scritte sulle lenzuola. C'è stato un incendio, con tv al plasma con decoder dati alle fiamme, c'è stato il furto di tutti gli oggetti che dovevano "arredare le case dei neri", sono volati pugni quando è arrivato "il pranzo per quelli là". "Ma poi abbiamo lasciato passare il cibo, il diritto di mangiare vale per tutti". Poliziotti e carabinieri davanti all'ingresso della palazzina. Al di là della strada, uno strano campeggio. Sei tende, tavoli, sedie, materassi sull'erba, ancora avvolti nel cellophane. "Sì, sono quelli portati qui per gli africani. Così alcuni li abbiamo presi anche noi". Non si vedono, i ragazzi arrivati da Nigeria, Ghana, Mali e Gambia. Tapparelle abbassate, come se temessero un assalto. Nella palazzina di 28 appartamenti abitavano 10 famiglie italiane che quando due pullman hanno portato qui gli africani mercoledì alle 9.30, sono subito uscite di casa. "Ma se lei avesse tre figli, di cui due gemelle adolescenti - racconta l'uomo che sceglie di chiamarsi Giovanni - resterebbe in un palazzo come questo? Con uno degli appartamenti dei neri abbiamo anche un balcone in comune, con un tramezzo di mezzo metro". Giovanni è uno dei tanti a dichiararsi "non razzista". "Questi africani sono giovani, non hanno un lavoro. Nulla da fare tutto il giorno e mio padre poliziotto mi spiegava che chi sta sempre con le mani in mano può decidere di fare cose non buone. E questi, appena arrivati, si sono messi ai balconi a filmare noi qua sotto, a scattare foto. Come per dire: protestate pure, siamo arrivati qui e non andiamo più via. E poi, tutto quel ben di Dio per arredare gli appartamenti... Avevano davvero bisogno di tv satellitari che non abbiamo nemmeno noi?". Alle due della notte il primo blitz. Un gruppo di Forza Nuova ("Con noi c'erano anche dei residenti nel palazzo", dicono) sfonda una recinzione, spacca una finestra ed entra in un appartamento a piano terra, dove ci sono gli oggetti ancora non portati negli appartamenti. Almeno 6 tv al plasma vengono ammucchiate in mezzo alla strada e date alle fiamme. Il resto viene portato nel prato accanto al campeggio improvvisato. C'è di tutto: ciabatte, carta igienica, magliette, specchi, altre tv, creme Gillette, dentifrici, rasoi. È uno strano pezzo d'Italia, questo. Quelli di Forza Nuova raccontano infatti che "questo è un bottino di guerra". "Porteremo il tutto - annunciano Davide Visentin, segretario regionale e Sebastiano Sartori, dirigente - ai veneti che sono stati colpiti dalla tromba d'aria a Dolo e Mira. Noi siamo qui per difendere gli italiani ed i nostri confini. Questa è Italia, non Africa. E ci sembra un bel modo per ricordare la vittoria della Prima guerra, quando questi confini sono stati fissati". Tante voci, nel neonato campeggio. "Combattiamo il business che c'è dietro a questa cosiddetta accoglienza. Fra un paio di anni scopriremo che anche la cooperativa che ha in gestione gli immigrati fa parte di qualche cosca. È nata soltanto il 15 giugno, a Grosseto, appena in tempo per fare l'affare". Per tutto il giorno il mucchio di beni pagati dallo Stato resta nel prato, sotto il sole. Poco lontano gli uomini in divisa. Alle 11.30 arriva il governatore del Veneto, Luca Zaia. Forza nuova e leghisti si alternano davanti alle telecamere per raccontare la loro solidarietà ai cittadini veneti. "Questa - dice Federico Caner, assessore regionale leghista - è una bomba pronta a scoppiare. I cittadini si ribelleranno e la colpa non sarà loro". Anche l'arrivo degli africani è stato un blitz. Il sindaco di Quinto, Mauro Dalzilio, leghista, è stato avvertito nemmeno mezz'ora prima. È difficile pensare a una vera integrazione, anche momentanea, quando si mettono 101 nuovi ospiti in un condominio senza avvertire chi già ci abita. Un affare per chi aveva gli appartamenti vuoti da anni. Marco Merciai, che guida la Nuova Marghera facility, collegata alla Xenia ospitalità di Grosseto, si difende. "Non abbiamo fatto annunci per non sollevare proteste. Certo, non ci aspettavamo questa reazione. Il furto della roba in magazzino? Questa è devastazione, è saccheggio. E subito dopo l'arrivo c'è stata un'aggressione vera e propria. Un nostro collaboratore assunto come portinaio, 65 anni, è stato colpito da una testa e da calci e pugni. È stato mandato all'ospedale. Abbiamo individuato uno di Forza Nuova e anche un giovane militare dell'esercito". Scende la sera, si prepara la cena come in campeggio. Le finestre degli africani restano chiuse. "Ormai - dice Marcello Bassetto, uno dei residenti - il disastro è fatto. Sono qui e non andranno più via. E noi che abbiamo fatto il mutuo che finiremo di pagare fra dieci anni ci troveremo con un appartamento svalutato, perché questo sarà per sempre il quartiere dei neri". Si accendono lampade, si raccontano storie. "Sono stato in Germania a cercare lavoro, con un visto di tre mesi. Al 91° giorno mi hanno fermato per strada: no lavoro? Venga con noi. Mi hanno messo su un treno per l'Italia". Si sparge la voce che oggi arriveranno altri 60 migranti. "Faremo le barricate. Io mi sdraierò per terra davanti ai pullman". Un'altra notte in tenda, per chi non vuole "dormire assieme ai neri". La palazzina è a duecento metri dal confine con un altro Comune che si chiama Paese. E un cartello annuncia: "Paese, città della speranza". Droghe: dieci ragioni per dire sì alla legge sulla legalizzazione della cannabis di Giovanni Valentini La Repubblica, 17 luglio 2015 Ha un doppio valore la proposta di legge bipartisan per la legalizzazione della cannabis, presentata alla Camera da 218 parlamentari di partiti diversi: oltre cento del Partito democratico, un altro centinaio del Movimento 5 Stelle e tutta Sinistra ecologia libertà. In primo luogo, rappresenta un approccio concreto e non più ideologico a una questione sociale di grande rilevanza e attualità, diciamo pure una "piaga" della società contemporanea. E poi perché questo schieramento trasversale può costituire il nucleo di un fronte più vasto, in Parlamento e nell'opinione pubblica, per superare i pregiudizi e gli steccati che finora hanno impedito di affrontare il problema in modo efficace e decisivo. Vediamo in sintesi dieci "buoni motivi" per procedere su questa strada, senza avere naturalmente la pretesa di essere depositari della verità. 1) La droga fa male, come l'alcool e il fumo, ma può fare meno male se è legale. Dipende anche dalla quantità e dalla qualità. Vale qui il principio della "riduzione del danno". Posto che il consumo di droga non verrà mai debellato, si tratta - appunto - di limitarne il più possibile gli effetti e le conseguenze negative: anche sul piano sociale, per tutta la collettività. 2) Un argomento classico degli anti-proibizionisti è che "la droga non è vietata perché fa male, ma fa male perché è vietata". E ciò perché le condizioni di clandestinità in cui solitamente viene confezionata, "tagliata", spacciata e consumata accrescono i rischi per la salute personale e per la sicurezza collettiva. 3) Un'altra tesi a favore della legalizzazione sostiene che questo è un mercato dell'offerta più che della domanda. Vale a dire un mercato alimentato e "promosso" dai trafficanti e dagli spacciatori. Una miniera d'oro per tutta la criminalità organizzata internazionale: nel nostro Paese, il traffico di droga genera la maggior parte dei ricavi illegali, circa 24 miliardi di euro ("Libro bianco" del Consiglio italiano delle Scienze sociali). 4) Ai tempi del proibizionismo contro l'alcol in America, a cui s'ispirano tanti film ambientati nella Chicago degli anni Trenta, il whisky veniva spesso alterato e subiva "sofisticazioni" dannose per l'organismo. Se oggi - per esempio - fosse improvvisamente impedita per una qualche ragione la vendita della liquirizia, o di qualsiasi altra sostanza alimentare, quel prodotto diventerebbe immediatamente oggetto di traffico clandestino e di spaccio. È il meccanismo psicologico della "mela proibita". 5) In Italia, il proibizionismo contro la droga c'è già. Ed evidentemente non funziona. La repressione non basta. Tant'è che l'apparato statale non riesce a impedire lo spaccio neppure all'interno delle carceri, dove può controllare il cittadino detenuto 24 ore su 24. Il potere di corruzione e di penetrazione della droga, assicurato dagli alti margini di profitti che possono arrivare fino a mille e più volte il capitale inizialmente investito, scavalca anche le mura di cinta dei penitenziari. 6) La legalizzazione della droga produrrebbe, fra gli altri, anche l'effetto di ridurre l'affollamento carcerario, arrivato in Italia a livelli intollerabili e disumani. Secondo i dati forniti dall'associazione Antigone, impegnata nella difesa dei diritti negli istituti di pena, il 40% degli oltre 60mila detenuti, e la metà di quelli stranieri, è in cella per reati - spesso anche minori - legati al commercio di droga. 7) La lotta alla droga non è né di destra né di destra. È una battaglia liberale. Tant'è che a suo tempo è stata lanciata dal Premio Nobel per l'Economia, Milton Friedman, sostenuta da settimanali come The Economist e, in Italia, da L'Espresso. Si tratta di prendere atto realisticamente del fallimento del proibizionismo per utilizzare strumenti diversi, più mediatici e funzionali: l'informazione, l'educazione, la dissuasione. 8) Nella "società della comunicazione", uno spot o un manifesto può risultare anche più efficace in questo caso di una retata della polizia o di un'irruzione dei carabinieri. La riduzione del tabagismo, per effetto delle campagne sanitarie contro il fumo, lo dimostra. E le ingenti risorse, economiche e umane, che ora vengono impiegate nella lotta alla droga potrebbero essere utilizzate più proficuamente a questi scopi. 9) È chiaro che una campagna del genere deve estendersi su scala sovranazionale. Non c'è mercato più globale di quello della droga. Se la legalizzazione fosse attuata in un solo Paese, questo rischierebbe di diventare il "paradiso dei drogati". Occorre una mobilitazione generale, ma non si può aspettare che tutti gli Stati siano d'accordo per cominciare a rompere il tabù. 10) Per motivi analoghi, anche la prostituzione dovrebbe essere legalizzata. Altrimenti, il "mestiere più antico del mondo" continuerà a essere esercitato nelle condizioni peggiori, per strada, nelle piazze o nei parchi pubblici, compromettendo l'igiene, il decoro e l'ordine pubblico. Questo, però, non è un "buon motivo" per non fare altrettanto con la droga. India: caso marò; i media protestano contro Italia per "abuso" dell'iter legale Ansa, 17 luglio 2015 Il ministero dell'Interno indiano si accinge a chiedere a quello degli Esteri di presentare preliminarmente una protesta davanti al tribunale di arbitraggio internazionale, a cui si è rivolta l'Italia all'Aja nella vicenda dei suoi due Fucilieri di Marina bloccati in India, per sostenere che la stessa Italia ha "abusato del processo legale" indiano. Lo scrive oggi il quotidiano The Economic Times. Il senso di questa tesi, aggiunge il giornale che cita un'alta fonte ministeriale anonima, è che l'Italia si sarebbe rivolta alla Corte permanente di arbitraggio (Cpa), prevista dalla Convenzione dell'Onu sul diritto del mare (Unclos), senza aver esaurito prima le opzioni legali esistenti in India. "Dato che l'incidente in cui sono morti due pescatori indiani è all'esame della Corte Suprema di Delhi - ha spiegato la fonte - può configurarsi come un abuso del sistema legale l'aver deciso di optare per un arbitrato internazionale senza avere prima esaurito le opzioni locali, come richiesto dal diritto internazionale e specificato nell'articolo 295 dell'Unclos". Se il tribunale internazionale fosse d'accordo con questa tesi, sottolinea il giornale, si asterrebbe da qualsiasi altra azione, rispettando la sostanza dell'articolo invocato. Nel caso che questa strategia non avesse successo, indica poi la fonte ministeriale, e l'arbitraggio andasse avanti, al ministero degli Esteri sarebbe richiesto di fondare la propria strategia sull'incidente conosciuto come Lotus, presentato nel settembre 1927 alla Corte permanente di Giustizia internazionale della Lega delle Nazioni. In quella circostanza il tribunale stabilì che spettava alla Turchia la giurisdizione penale dopo che otto suoi cittadini erano affogati il 2 agosto 1926 a seguito di una collisione in alto mare, a nord della città greca di Mitilene, fra il piroscafo a vapore francese S.S. Lotus e quello turco S.S. Boz-Kourt. Stati Uniti: la nuova frontiera di Obama "basta pene e carceri ingiuste" di Paolo Mastrolilli La Stampa, 17 luglio 2015 Trionfi internazionali e riforme interne: è il primo Presidente a visitare un carcere. "Quando vedo questi ragazzi, vedo me, anche io avrei potuto fare gli stessi errori". Barack Obama ha ritrovato l'audacia, dicono i commentatori. Sarà che la sua presidenza sta finendo, e non può più candidarsi, oppure è la reazione alla frustrazione di non aver potuto realizzare molti dei suoi obiettivi, bloccato in patria dal Congresso a maggioranza repubblicana, e all'estero da crisi come quella ucraina o dalla rinascita del terrorismo sotto i vessilli dello Stato islamico. Questa audacia della speranza, promessa nel libro con cui aveva lanciato la sua campagna presidenziale, lo ha portato ieri in un luogo dove nessun capo della Casa Bianca era mai stato prima: un carcere federale. Obiettivo: riformare il sistema della giustizia penale, che ha affollato le prigioni americane come nessun altro Paese sviluppato al mondo. Una campagna che, a differenza dell'accordo nucleare con l'Iran, la fine dell'embargo a Cuba o la stessa riforma sanitaria, potrebbe portare ad un raro successo bipartisan. Gli Stati Uniti ospitano il 5% della popolazione mondiale, e il 20% di quella carceraria. Nel 1980 avevano 500.000 detenuti, che ora sono saliti a 2,2 milioni. Questo ha provocato ovvi problemi di sovraffollamento, abusi, violenze, e naturalmente la perdita di intere generazioni, perché molti dei giovani che finiscono in prigione non vengono più recuperati. L'emergenza colpisce in maniera sproporzionata le minoranze, soprattutto quella ispanica e quella nera, dove un uomo afroamericano su 12 di età compresa fra 25 e 54 anni è in carcere, contro uno su 60 nel totale di tutti gli altri gruppi. Il motivo principale di questo fenomeno, secondo Obama ma non solo, sta nel sistema della giustizia penale, che è stato tarato per imporre le punizioni più severe possibili. "Io - ha detto il capo della Casa Bianca - non ho simpatia per chi commette crimini violenti. Però dobbiamo riflettere se queste condanne così lunghe, spesso a vita, siano la maniera migliore di affrontare i reati di altro genere". Per attirare l'attenzione sul problema, il Presidente ieri è andato in Oklahoma a visitare la El Reno Federal Correctional Institution, una prigione di media sicurezza dove sono rinchiusi molti detenuti per crimini legati soprattutto alla droga. È entrato nella cella numero 123, restando sorpreso: "E qui dentro dovrebbero vivere tre adulti?". Quindi ha incontrato sei condannati per reati non violenti, come i 46 a cui ha commutato le sentenze questa settimana proprio per dare un segnale. "Quando vedo questi ragazzi - ha detto Obama - vedo me. Io avrei potuto fare gli stessi errori e ritrovarmi nelle stesse condizioni. L'unica differenza tra me e loro è che io sono cresciuto in un ambiente più comprensivo, che offriva sempre una seconda possibilità, mentre il loro margine d'errore è zero". Il Presidente ha notato che "negli altri Paesi non è così. La norma comune a tutti è che gli adolescenti fanno stupidaggini, ma poi il modo di gestirle è diverso". Lui perciò ha mandato al Congresso la richiesta di approvare una legge che abbassi le sentenze minime per i reati non violenti. Poi vuole sviluppare tanto i programmi di prevenzione della criminalità, quanto quelli per il recupero e l'addestramento professionale dei condannati mentre sono in carcere. Chiede di mettere fine alla tolleranza per gli abusi, le violenze e gli stupri nelle prigioni, e di restituire il diritto di voto a chi ha saldato il proprio conto con la giustizia. È una campagna difficile, ma stavolta non è solo. Diversi repubblicani, come i senatori Paul, Cornyn, Grassley, Lee, e i loro finanziatori come i fratelli Koch, sono d'accordo. L'audacia ritrovata di Obama, quindi, potrebbe continuare a pagare. Diamo loro seconda possibilità Per la prima volta, un presidente americano ha visitato un carcere federale. Barack Obama ha scelto il penitenziario El Reno, in Oklahoma, per ribadire che bisogna dare una "seconda possibilità" ai detenuti e che la situazione delle carceri americane è insostenibile. Obama ha percorso i corridoi, è entrato in una delle celle e ha incontrato sei detenuti, in carcere per reati di droga. "Sono giovani che hanno fatto errori che non sono diversi da quelli che ho fatto anch'io", ha commentato il presidente, che in una sua autobiografia svelò di aver fatto uso di droghe da giovane. "La differenza è che loro non hanno avuto una struttura di sostegno, una seconda possibilità, risorse che avrebbero permesso loro di sopravvivere a questi errori". Il presidente ha insistito sulla necessità di riformare la giustizia e di distinguere i criminali violenti dai giovani che provengono da famiglie disagiate e che vengono arrestati per reati di droga. Ungheria: detenuti impiegati per costruzione del muro anti-migranti lungo 175 chilometri Adnkronos, 17 luglio 2015 L'Ungheria utilizzerà detenuti delle sue carceri per costruire il controverso muro anti immigrati al confine con la Serbia. Il ministro degli Interni Sandor Pintor ha dichiarato che saranno i detenuti a preparare il materiale per la costruzione della barriera "temporanea", che sarà materialmente eretta da 900 soldati, ha riferito l'agenzia stampa Mti. La barriera, alta quattro metri ed estesa su 175 chilometri, dovrebbe essere pronta per il 30 novembre, ha detto Pintor, spiegando che l'intero progetto costerà 6,5 miliardi di fiorini ungheresi (21 milioni di euro). Il ministro ha sottolineato che quest'anno sono entrati nel paese 81mila immigrati illegali, più del doppio dell'anno scorso, e che sono quasi passati tutti dalla Serbia. Secondo i dati dell'Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati, l'80% dei migranti che arriva in Ungheria intende proseguire verso altri paesi europei. Medio Oriente: Hamas denuncia; 261 prigionieri politici palestinesi nelle carceri dell'Anp infopal.it, 17 luglio 2015 Il movimento di resistenza islamica, Hamas, ha divulgato un report statistico sul numero di prigionieri politici detenuti nelle carceri dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) in Cisgiordania dall'inizio del mese di Ramadan fino al 14 luglio: si tratta di 261 persone, 16 delle quali sono state arrestate prima del 2 luglio. Le restanti 245 sono state arrestate durante una campagna iniziata il 2 luglio. Tra queste ci sono 42 studenti universitari, 33 dei quali ancora imprigionati. Soltanto 59 dei 261 prigionieri politici sono stati rilasciati. Nel documento, Hamas sottolinea che 13 prigionieri nelle carceri dell'Anp hanno iniziato lo sciopero della fame. Iran: Khamenei concede la grazia a oltre 900 detenuti per la Festa di fine Ramadan Aki, 17 luglio 2015 La Guida Suprema iraniana, Ali Khamenei, ha concesso la grazia e la commutazione della pena a un gruppo di 930 detenuti. Lo riferisce l'agenzia di stampa ufficiale iraniana Irna. La decisione di Khamenei è arrivata su richiesta del capo della magistratura iraniana, Sadeq Amoli Larijani, alla vigilia dell'Eid al-Fitr, la festa che segna la fine del mese sacro di Ramadan. L'agenzia di stampa Tasnim sottolinea come tra i detenuti che beneficeranno della grazia non vi siano prigionieri condannati per lotta armata, traffico di droga, stupro, rapina a mano armata, contrabbando di armi, sequestro, corruzione e truffa. Cina: almeno 11 avvocati incriminati e oltre 200 sospettati di "attività criminali" Ansa, 17 luglio 2015 Undici avvocati cinesi sono detenuti perché sospettati di "attività criminali" e di 14 degli oltre 200 fermati e interrogati nei giorni scorsi dalla polizia si ignora la sorte. Lo afferma l'organizzazione umanitaria di Hong Kong China Human Rights Lawyers Group. Willy Nee, esperto di Amnesty International per la Cina, ha precisato che almeno tre di loro - Xia Yang, Sui Muqing e Gou Hongguo - sono stati accusati di "incitamento a sovvertire il potere dello Stato", un reato che può essere punito con la reclusione fino a 15 anni. Gli avvocati che sono stati arrestati, fermati o che semplicemente sono spariti negli ultimi sette giorni sono almeno 215, secondo fonti del dissenso. "La scala e la severità' di questo giro di vite non hanno precedenti. Le autorità' sembrano voler distruggere la crescente rete di avvocati e attivisti per i diritti umani e diffondere il terrore tra coloro che sono pronti a battersi per quei diritti", ha aggiunto Nee. Arresti e fermi sono avvenuti in almeno 20 città' cinesi, secondo una mappa pubblicata oggi dal quotidiano South China Morning Post di Hong Kong. Messico: quasi 10mila uomini mobilitati per dare la caccia a El Chapo Askanews, 17 luglio 2015 Sono quasi 10mila i poliziotti mobilitati in Messico per tentare di catturare il super narcotrafficante Joaquin "El Chapo" Guzman, evaso sabato scorso da un carcere di massima sicurezza ad Ovest del Paese. Il ministero dell'Interno messicano ha precisato i numeri di questa caccia all'uomo senza precedenti. Centouno posti di blocco sono stati allestiti lungo le principali strade e autostrade dei 21 Stati del Paese e nella capitale. Più di 100.000 volantini con foto recenti di "El Chapo" sono stati distribuiti da un capo all'altro del Paese. Circa 1.250 agenti della polizia federale sono stati sguinzagliati, inquadrati in delle unità speciali di ricerca, nella zona intorno alla prigione di Altiplano da cui Guzman è fuggito, situata 90 chilometri ad Ovest di Città del Messico. Più di 180 uomini delle forze speciali della gendarmeria sono stati mobilitati per per cercare di mettere le mani sul capo del potentissimo cartello di Sinaloa. Più di 8,200 poliziotti sono in "massima allerta" in tutti gli Stati messicani. "Perquisizioni speciali sono in corso negli alberghi, negli ospedali e finanche nelle pompe funebri", ha fatto sapere il ministero. "Ogni singolo volo privato viene passato al vaglio degli inquirenti negli aeroporti del Paese, con una "rigorosa ispezione dei passeggeri". Il ministro dell'Interno, Miguel Angel Osorio Chong, ha convocato urgentemente l'ambasciatore del Guatemala per rivedere le misure adottate congiuntamente dai due Paesi per tenere sotto controllo la loro comune frontiera che spesso viene superata senza difficoltà dai boss del narcotraffico. Guzman, 58 anni, era finito nelle reti della polizia una prima volta in Guatemala nel 1993. Rinchiuso in un carcere di massima sicurezza in Messico, ne era evaso nel 2001. Ricatturato nel febbraio del 2014, sabaro scorso si è reso protagonista di una seconda spettacolare evasione attraverso un tunnel di un chilometro e mezzo scavato sotto la doccia della sua cella, mettendo in grande imbarazzo l'amministrazione del presidente Enrique Pena Nieto.