Lettere aperte ai dirigenti del DAP di famigliari di detenuti in Alta Sicurezza a Padova Ristretti Orizzonti, 16 luglio 2015 Sono Francesca Romeo, la figlia di un detenuto, Tommaso Romeo, che è in attesa di risposta sulla declassificazione, visto che la sezione Alta Sicurezza di Padova è stata chiusa, ad oggi dopo qualche mese stiamo ancora aspettando o per meglio dire siamo appesi ad un filo, aspettando una decisione che potrà migliorare la nostra vita o peggiorarla, se sarà negativa. Vorrei raccontarvi un po' della mia storia: ho 24 anni e purtroppo da 23 vivo senza mio padre, non è stato facile né per me né per mia madre che ha dovuto crescere due figlie da sola. Fin da bambina mi sono sentita diversa da tutti i miei coetanei, perché non ho mai avuto il mio papà accanto a me come avrei voluto, purtroppo non ho neanche un ricordo di lui dentro casa, perché quando è stato arrestato ero troppo piccola e di conseguenza ho dei ricordi della nostra famiglia unita soltanto all'interno di un carcere. È stato molto difficile crescere senza questa figura così importante, anche un banalissimo disegno della mia famiglia era molto difficile farlo, in quanto uno dei primi ricordi di mio padre è dentro un carcere, non ci sono state né feste né compleanni felici per me, perché il solito posto a capotavola era ed è sempre vuoto. Penso e ripenso a quanti anni sono passati senza di lui e mi domando quando mai verrà uno spiraglio di luce che possa dare una svolta alla nostra vita. Penso anche che la mia famiglia ne ha proprio passati di brutti momenti, come quello del 41bis, che è stato applicato a mio padre e di conseguenza abbiamo vissuto anche noi questo momento così traumatico. Facevamo dei colloqui con mio padre senza neppure poterlo toccare né sentirlo né vederlo bene, in quanto c'era un grosso vetro a dividerci, purtroppo è stato traumatico perché tutti i legami di una famiglia se non sono ben stretti si rischia di perderli. Anche se da 23 anni sono senza un padre, io ancora oggi credo nella giustizia italiana e concordo che ogni errore va pagato, ma penso che debba essere pagato con un'equa misura. Tutti possono sbagliare e di conseguenza pagare, ma è giusto dare una seconda possibilità che a mio padre ad oggi è stata negata. Tutti questi anni di reclusione io penso che fanno cambiare una persona, non è gettando la chiave, come purtroppo hanno fatto con mio padre, che si può aiutare una persona a credere nella giustizia, anche perché mio padre non è lo stesso uomo di 23 anni fa e il suo percorso all'interno del carcere ce lo conferma. Io credo che la giustizia deve aiutare il detenuto, in quanto ha uno strumento molto fondamentale e cioè il carcere. Il carcere per me dovrebbe essere una casa riabilitativa che dà aiuto per il detenuto al reinserimento all'interno della società, ma a volte non è così perché dopo 23 anni di lontananza dalla propria casa, dalle proprie figlie che non hai potuto crescere e di un percorso ottimo all'interno del carcere, ti vedi ancora una volta condannato senza speranza, senza la speranza d uscita. La condanna più grave e più difficile che un uomo possa affrontare è vivere solo senza le proprie figlie e di conseguenza le figlie subiscono la condanna. Con la chiusura della sezione Alta Sicurezza di Padova ci è rimasta però una speranza a tutti noi, di poter beneficiare della declassificazione che può aiutarci a vivere meglio questa condizione famigliare così difficile, noi tutti speriamo nella declassificazione, perché i detenuti grazie ad essa possono avere delle agevolazioni come la vicinanza e qualche colloquio in più per stare con i propri cari e delle attività che permettono di occupare il tempo e soprattutto di fare un percorso importante di responsabilizzazione. Purtroppo il mio vuoto più grande non potrà mai colmarlo nessuno, ma chiedo a chi decide il destino di mio padre di mettersi una mano sul cuore e decidere, tenendo conto che le persone possono cambiare, e nelle vostre mani non c'è solo il destino di un uomo, ma di un'intera famiglia. Spero che tutto il vuoto e il tempo perso con noi figlie un giorno mio padre possa recuperarlo con i propri nipoti, che purtroppo non ha visto nascere. Concludo porgendovi i miei saluti e lasciandovi una domanda: non pensate che per un uomo a cui siano stati negati i suoi affetti più cari per così tanto tempo, 23 lunghi anni siano sufficienti per far cambiare una persona e di conseguenza una vita? Grazie dell'attenzione. Francesca Romeo Buon giorno, mi chiamo Sara Papalia e mio padre, Antonio, è uno dei tanti detenuti della Casa di reclusione di Padova che in questi giorni vedono la loro vita, i loro percorsi e i rapporti con i loro famigliari appesi a un filo. Sono cresciuta senza mio padre, ho imparato a conoscerlo attraverso le sue poesie, i suoi racconti. Ho visto la sua fragilità e la sua forza, lui è stato la mia fragilità e la mia forza. Quando hai un padre detenuto è dura, ma quando tuo padre ha un fine pena mai, vivi con una spina nel cuore con la quale devi imparare a convivere! In questi anni ho collaborato con lui alla pubblicazione di due libri: "Liberare l'anima" e "Navigando tra favole e commedie", un modo per sentirci vicini nonostante le mura! A Padova, mio padre come molti altri è riuscito a dare un senso alla sua vita, ha intrapreso un percorso rieducativo, partecipando a un gruppo di catechesi, collaborando con la redazione di Ristretti Orizzonti, e la settimana scorsa si è anche diplomato. Nonostante la gioia per questo traguardo sono però molto preoccupati per il suo futuro. So che in questi giorni sarete voi a decidere o meno della sua declassificazione e mi auguro che lo farete senza pregiudizi, tenendo conto della sua buona condotta, degli anni che sono trascorsi e soprattutto tenendo conto del percorso intrapreso a Padova! Mi auguro davvero con tutto il cuore che almeno questa volta ci sia qualcuno che si prenda la responsabilità di fare una scelta, con la consapevolezza che sta decidendo della vita di una persona e non di un nome scritto su un fascicolo di chissà quale anno! In fede, distinti saluti. Sara Papalia Sono Palma Lentini, sorella del detenuto Agostino Lentini, che attualmente si trova in stato di detenzione al carcere di Padova. Abbiamo saputo del suo imminente trasferimento per la chiusura della sezione A.S. e ancora una volta ci troviamo assieme alla nostra anziana madre in angoscia, senza sapere dove andrà a finire nostro fratello. Purtroppo noi non facciamo un regolare colloquio con lui, così come sua moglie e i suoi figli, che tra l'altro non vivono neanche in Italia, e proprio per questo siamo noi che scriviamo anche per loro. Siamo angosciati per il fatto dei trasferimenti ma anche perché sono quasi dieci anni che si trova in questi reparti A.S.1 e non credo che nostro fratello abbia dato modo di rendersi così pericoloso che non meriti la declassificazione, anzi, credo che né lui né noi tutti abbiamo avuto alcunché con la Giustizia, ma soprattutto lui che di sua iniziativa ha volutamente fatto crescere i suoi figli lontano dalla Sicilia per non far ricadere su di loro i pregiudizi. Dopo venti anni di carcere, vogliamo evidenziare che né lui né noi famigliari siamo stati colpiti da nessun atto restrittivo legato alla criminalità, a cosa potrebbe servire un ulteriore accanimento in queste sezione così restrittive? Inoltre sappiamo che nostro fratello è sempre impegnato con la scuola, il lavoro e altre attività. Questa è la pericolosità di nostro fratello? Eppure credo che lo sanno anche i bambini che, se un giorno lui tornasse libero, il suo desiderio è quello di andare a ricongiungersi con la sua famiglia in Ungheria, e allora, perché non provate ad un graduale reinserimento iniziando con una declassificazione piuttosto che trasferendolo in giro per l'Italia senza che nulla abbia commesso per meritare questo calvario. Cordiali saluti. La famiglia del detenuto Agostino Lentini "Magari qualcosa succederà" di Giovanni Donatiello (Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 16 luglio 2015 Il Provveditore dell'Amministrazione penitenziaria dell'Emilia Romagna, Pietro Buffa, nella sezione Alta Sicurezza 1 di Parma. L'1 luglio presso il carcere di Parma c'è stato un incontro con il Provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria, Pietro Buffa, il direttore Carlo Berdini, presente anche una folta rappresentanza di commissari ed ispettori della Polizia penitenziaria e una delegazione di detenuti delle sezioni AS1, della quale faccio parte. Preliminarmente il dottor Buffa ha esordito sostenendo che persone all'isolamento non ce ne dovrebbero stare, ma a me pare che quella dell'isolamento sia una pratica in questo istituto abbastanza usuale, basta poco, come sta accadendo, basta che un detenuto non accetti di condividere la cella con un altro detenuto, in spazi davvero miseri per persone con pene alte o con l'ergastolo, e si viene allocati alle celle d'isolamento con un rapporto disciplinare e immancabile sanzione. Tuttora in questo stato si trova Domenico Morelli già da due giorni. L'incontro si è svolto in un clima sereno e costruttivo, merito secondo me del dottor Buffa, che ha compreso fin da subito l'esasperazione nella quale si sta vivendo in questo periodo qui dentro, con l'ansia di trovarsi di fronte ad un bivio: condividere la cella in condizioni veramente degradanti o essere allocato in isolamento a cella liscia, ciò vuol dire che non si ha nulla a propria disposizione, solo una branda e un materasso, per giunta sudicio, e questo è già un eufemismo! Abbiamo esposto tutti i problemi esistenti in questo carcere, e non sono pochi. Dopo aver preso atto delle nostre istanze, il dottor Buffa ha preso impegni su due fronti. Il primo, di relazionare fedelmente al Dap la situazione esistente, come richiesto dai suoi superiori. Il secondo, di affrontare insieme alla direzione del carcere di Parma il problema del trattamento, che in questo carcere è pressoché inesistente, e su questo punto ho avuto l'impressione che abbia voluto mettersi in giuoco spingendosi a dire per ben due volte che in questo "lavoro" ci metteva la sua faccia. Dopo il confronto, che si è tenuto in un ufficio, tutto il gruppo di dirigenti è salito nella sezione e il Provveditore ha voluto verificare e ascoltare le condizione di vita in cui si vive in questa struttura. Credo che ne sia rimasto impressionato ed in modo particolare quando si è affacciato anche davanti alla mia cella, che condivido con un altro detenuto, gli ho fatto notare che la mancanza di spazi mi costringeva da quasi un mese a tenere molti dei miei effetti personali in un grosso sacco nero, uno di quelli che si usano per la raccolta dei rifiuti. Abbiamo avuto un altro breve colloquio, mi ha salutato dandomi rassicurazioni e invitandomi alla pazienza. Ho imparato che dietro le istituzioni ci sono delle persone, che le rappresentano a volte degnamente, a volte no. Sono certo che il dottor Buffa si adopererà affinché si trovi una soluzione che possa soddisfare le esigenze portate alla luce. Un compito non facile, soprattutto quando si ha a che fare con istituzioni "fredde", come alcuni dirigenti del DAP che perseguono esclusivamente gli obiettivi dell'amministrazione, come l'ottimizzazione delle risorse in nome di una maggiore efficienza del sistema anche a discapito della dignità di noi detenuti, e molto spesso, come mi pare accada a volte in questo carcere, ci si dimentica che siamo persone, siamo portatori di diritti universalmente riconosciuti ed inviolabili. Senz'altro il Provveditore ha voluto anche spronare l'attuale direzione ad un cambiamento di rotta. Infatti, durante l'incontro ha fatto un'osservazione abbastanza forte, e cioè si poneva un quesito, di come a una distanza di circa 150 km esistessero due realtà penitenziarie completamente in antitesi: ovvero Padova, per molti aspetti una delle eccellenze italiane, e Parma di ben altra fama. Sono stato tentato di chiedergli se non gli dicesse qualcosa il concetto di "potere discrezionale" di tanti direttori penitenziari, troppo discrezionale direi, che fa sì che ogni carcere sia un mondo a sé, ma ho desistito perché sono certo che, come impegno preso, il dottor Buffa avrà la volontà, insieme al direttore, di affrontare seriamente la situazione di questo carcere, affinché si muova da quel pantano in cui mi pare che da troppo tempo sia incagliato. Pantano che fa marcire l'animo delle persone detenute, portandole all'annientamento psico-fisico, e infischiandosene di quel senso di umanità che ogni persona dovrebbe possedere nel proprio bagaglio culturale. Noi saremo testimoni fedeli pronti a riconoscergli eventuali interventi positivi e a dargliene atto, ma altrettanto critici e combattivi qualora come nel "Gattopardo" tutto cambi solo perché tutto rimanga com'è. Il nostro auspicio sarebbe quello di poter dare atto di interventi positivi sostanziali, e per raggiungere questo siamo pronti ad un confronto continuo, propositivo e costruttivo. Pratica che noi tutti reclamiamo con forza. Stati Generali dell'Esecuzione Penale senza rappresentanza dei detenuti di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 16 luglio 2015 Avevo molto fiducia quando il Ministro della Giustizia aveva istituito gli Stati Generali dell'Esecuzione della Pena. Ed ero contento che si tornasse a discutere di galera, a fare ricerca e a pensare ad alternative migliori che murare vive le persone in una cella. Adesso un po' meno, perché non ci può essere nessuna "rivoluzione" se sono esclusi, o relegati in un cantuccio, i prigionieri dalle discussioni sulle riforme carcerarie. Ebbene, sono stati formati diciotto tavoli. Sono stati nominati i responsabili che coordineranno i lavori. E scelte le persone che faranno parte di questi gruppi. E i detenuti? Si vocifera che saranno "ascoltati". Provo rammarico per questa scelta di partecipazione passiva che è toccata ai prigionieri. Eppure c'è già una legge che prevede una costituzione della rappresentanza dei detenuti (articolo 31 dell'ordinamento penitenziario) chiaramente diretta a promuovere forme di partecipazione e di responsabilizzazione dei prigionieri. Penso che questa norma, per analogia, poteva essere applicata per coinvolgere in modo ufficiale e attivo la popolazione detenuta sui lavori degli Stati Generali dell'Esecuzione della Pena. Credo che i detenuti non si dovrebbero accontentare solo di vedere i loro diritti spesso calpestati nelle polvere, ma li dovrebbero pretendere proprio per migliorarsi e crescere. Penso che il carcere dovrebbe valorizzare le energie, l'intelligenza, le capacità e la disponibilità dei suoi detenuti. Credo che l'importante evento degli Stati Generali sul carcere e sulla pena avrebbe potuto dare l'occasione ai prigionieri di migliorare e portare legalità nelle nostre "Patrie Galere". Penso che, con la partecipazione diretta e con un ruolo ben definito, i prigionieri avrebbero potuto spiegare meglio di altri cosa si prova a non poter scambiare un bacio, una carezza in intimità, con la propria compagna, la propria madre e con i propri figli, per anni e anni. I prigionieri avrebbero potuto spiegare perché per molti detenuti vale di più la morte che la vita quando alcuni preferiscono impiccarsi tra le sbarre della loro tomba piuttosto che vivere. E perché sia così difficile rimanere umani quando ti chiudono dentro una cella, per un quarto di secolo, a doppia mandata e buttano via le chiavi. Gli ergastolani avrebbero potuto raccontare com'è faticoso per loro vivere con una pena sulle spalle che finisce con la morte. I detenuti deportati avrebbero potuto spiegare cosa si prova ad essere "impacchettati", messi in un blindato e sbattuti lontano dalla propria terra, dalla propria famiglia, che per ovvie ragioni di distanza e finanziari vedranno raramente. Alcuni detenuti avrebbero potuto rivelare che hanno costruito molti carceri in Sardegna per dare la territorialità del lavoro (e non della pena ai detenuti) alla polizia penitenziaria, perché la maggioranza di loro è sarda. Poi è ovvio che per un prigioniero è difficile, molto complicato, avere fiducia in uno Stato ed in una giustizia che non rispetta le sue stesse regole. Io credo che il senso di giustizia possa cambiare in meglio un prigioniero, ma l'odio e la vendetta lo fanno diventare più cattivo. Buon lavoro a tutti i protagonisti degli Stati Generali dell'Esecuzione Penale e a quei pochi detenuti che forse verranno "ascoltati" come si fa con i topolini negli esperimenti scientifici. Giustizia: riforma procedura penale, dopo 25 anni di sperimentazione un bilancio triste di Maurizio Tortorella Tempi, 16 luglio 2015 E dire che ci avevano promesso una giustizia "all'americana". L'annunciato equilibrio tra accusa e difesa resta un'utopia. Basti pensare che il 73 per cento dei penalisti italiani si dice convinto che le procure intercettino e trascrivano perfino le telefonate tra l'indagato e il suo avvocato difensore, cosa proibita rigidamente dalla legge. Forse, dall'alto di un quarto di secolo di sperimentazione, è venuto il momento di dire che il "nuovo" processo penale italiano è stato un clamoroso fallimento. Chi c'era si ricorda bene quanto veniva gridato ai quattro venti nell'ottobre 1989, quando (evviva!) entrò in vigore la riforma del codice di procedura. Si dice va; ora basta con la prevalenza dell'accusa, finalmente avremo processi equilibrati, "all'americana", meglio ancora "alla Perry Mason". Si inneggiava: i riti alternativi faranno presto breccia e ridurranno l'intollerabile carico dei processi. Si assicurava: finiamola con l'inutile diarchia tra giudice istruttore e pubblico ministero, ora le indagini preliminari concederanno al pm, finalmente libero di agire entro regole severe e continui controlli del gip (il mitico giudice per le indagini preliminari), un tempo ragionevole per indagare; comunque dopo un massimo di due anni tutto finirà sul tavolo di un giudice terzo, che eviterà abusi, eccessi, lungaggini. In un'orgia di ottimismo positivistico, pareva a tutti che la rinnovata dialettica tra accusa e difesa avrebbe schiuso le porte a un'era di perfetta giustizia. Ebbene, quasi 25 anni dopo si può dire che purtroppo non è stato così. Le indagini preliminari sono spesso una mostruosa macchina da guerra, priva dì un controllo legale, se non addirittura di quello democratico. Troppi gip firmano automaticamente e a raffica i prolungamenti delle indagini (tant'è che il 65 per cento delle prescrizioni avviene in questa fase) e non hanno un potere effettivo né sulla registrazione dei reati, né sulle inchieste che ne derivano: possono respingere un'archiviazione, per esempio, ma non imporre al pm la chiusura di un'indagine sballata. I faldoni girati ai giornali Quanto all'equilibrio tra accusa e difesa, bè, resta un'utopia. Basti pensare che il 73 per cento dei penalisti si dice convinto che le procure intercettino e trascrivano perfino le telefonate tra indagato e difensore, rigidamente proibite per legge. Non parliamo poi degli effetti mediatici del nostro "processo all'americana": alla fine delle indagini preliminari il pm, dotato di ultra poteri e incontrollato, passa ai giornali faldoni carichi di intercettazioni e interrogatori, e di prove a senso unico che ogni volta vengono assunte quali verità assolute. Il processo "vero", quello che fa più male all'imputato anche quando è innocente, di solito finisce a quel punto. Alla faccia della parità con il povero avvocato, disarmato e silenziato. E Perry Mason? È ancora lì che osserva e se la ride. Ma anche i riti alternativi (patteggiamento, rito abbreviato, processo immediato e direttissimo) non sono mai decollati e purtroppo servono a molto poco. Si calcola che chiudano meno del 10 per cento dei 2 milioni di procedimenti aperti ogni anno. Oggi il governo Renzi pensa di reintrodurre il patteggiamento anche in appello, dimenticando che quel sistema dette vita a clamorose incongruenze nell'equità della pena (nel caso di Ruggero Jucker, l'omicida milanese, nel 2005 servì a dimezzargli la condanna da 30 a 16 anni di reclusione). L'idea, per ora ventilata, dimostra una volta di più che il legislatore non agisce in base a criteri logici né basandosi sulla sperimentazione, ma da troppo tempo improvvisa. Per questo in campo penale si continuano a produrre false riforme, da infilare sulle lance dell'opinione pubblica: pene più severe, prescrizione allungata, nuovi reati. Ogni volta è un inutile bla-bla. In realtà, un governo o un Parlamento che volessero governare davvero e con coraggio la giustizia penale dovrebbero prendere il "nuovo" codice di procedura del 1989 e... fare un 48. Ma con questi ritmi, con questi governi, e con questi Parlamenti, ci vorrà ancora un secolo. Giustizia: i reati e la faccia cattiva del fisco, la riforma a tempo delle sanzioni tributarie di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 Durante un dibattito in Parlamento, nel 1950, a un parlamentare che sosteneva che il "contribuente è imputato e come tale ha diritto a mentire", Ezio Vanoni rispondeva: "Il contribuente non è imputato: è il cittadino che deve compiere il suo dovere". Vanoni non poteva ammettere che quando fa la dichiarazione il contribuente ha diritto a mentire. In questa vicenda trova la sua spiegazione quella concezione della sanzione penale come strumento dell'accertamento, come predisposizione a un concordato il più favorevole possibile. Il tema torna attuale perché lo schema di decreto di attuazione della delega fiscale prevede una modifica "a tempo" (per soli due anni) del sistema sanzionatorio fiscale, sia in ambito penale che amministrativo. Il che, specie per i reati, suscita più di una perplessità e offre lo spunto per una riflessione sul ruolo della sanzione penal-tributaria. L'efficacia per soli due anni del nuovo regime sanzionatorio penale nasce dalla preoccupazione del governo di orientare il comportamento dei contribuenti. Non occorre ricordare che nella legge delega si propone il rafforzamento del concordato. La norma chiave per comprendere questa concezione distorta della sanzione penale è l'articolo 13 del Dlgs 74/2000 secondo il quale "Le pene previste di cui al presente decreto sono diminuite e non si applicano le pene accessorie (...) se prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado i debiti tributari relativi ai fatti costituiti dei delitti medesimi sono stati estinti mediante il pagamento, anche a seguito delle procedure conciliative o di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie. A tale fine il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all'imputato". La legge penale è la faccia feroce del fisco propenso ad accordarsi poi con il contribuente. Io ritengo che la legge penale dovrebbe essere qualcosa di più della lotta all'evasione se questa viene intesa come accertamento della materia tassabile. La legge penale è tutela di un bene collettivo che si può ricondurre all'ordine pubblico come stabilità dello Stato. Questa concezione della sanzione penale dovrebbe far collocare le norme incriminatrici nel codice penale, e stabili nel tempo con una elaborazione che veda come protagonista il ministero della Giustizia e non quello delle Finanze. La frode fiscale diventerebbe un delitto di diritto comune (come in Francia), autonomo dalle vicende dell'accertamento. L'autonomia del processo penale da quello tributario è oggi teoricamente prevista dalla legge ma concretamente il giudicato penale non potrà non influenzare il giudizio tributario e viceversa. Se è vero che l'amministrazione deve trasmettere gli atti al giudice penale senza che questi ne sia vincolato è altrettanto vero che in sede penale non si potranno ignorare i giudizi dell'amministrazione e del giudice tributario. I due processi si coordinano sul piano pratico. L'inserimento dei reati fiscali nell'accertamento e nel processo tributario non favorisce un rapporto tributario in buona fede. Paradossalmente la legge penale tributaria rallenta l'evoluzione del sistema come valutazione condivisa sui doveri del cittadino, conoscenza e conoscibilità delle leggi tributarie, sulla chiara nozione della frode come ribellione all'ordinamento. Inoltre vengono svuotate tutte le procedure sull'accertamento. La disciplina attuale mantiene il contribuente nella situazione di possibile imputato che però non sarà mai condannato e favorisce un contenzioso artificioso. La proposta del governo di introdurre delle sanzioni a tempo determinato si muove dunque in una logica sbagliata ma è perfettamente coerente con essa. Lo scopo è quello di venire incontro ai contribuenti ma soltanto per un periodo determinato. È chiaro che si vogliono incrementare i concordati ma è una politica sbagliata perché induce il contribuente a non dichiarare tutto e punisce coloro che in buona fede dichiarano tutto. Il concordato non può diventare una scelta obbligata, per evitare la galera. Ma la legge sembra inutile perché come legge ordinaria il Parlamento può sempre cambiarla. Sotto questo profilo essa è anche irragionevole. La critica è prevalentemente politica. Emerge la strumentalità e la irragionevolezza. Difatti non si applica per il passato (e sotto questo profilo come legge penale appare incostituzionale) è limitata arbitrariamente per il futuro e crea incertezza per i contribuenti. C'è un eccesso di delega in quanto il limite temporale non è previsto dalla delega. Giustizia: nel decreto sul civile spunta il credito d'imposta per negoziazioni e arbitrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 Emendamento del relatore al decreto legge giustizia civile. Rispunta il credito d'imposta per incentivare negoziazioni e arbitrati. Al decreto legge sulla giustizia civile, in discussione in commissione alla Camera, il relatore David Ermini, responsabile giustizia Pd, d'intesa con il ministero della Giustizia, ha presentato un emendamento per il riconoscimento di un credito d'imposta fino a 250 euro per compensare le parcelle degli avvocati, in caso di negoziazione, o i compensi agli arbitri, in caso di arbitrati. Ilo beneficio spetta però solo in caso di successo della negoziazione e di conclusione dell'arbitrato con lodo. L'agevolazione è concessa in via sperimentale e solo per il 2015 fino a una capienza di budget di 5 milioni. Elementi questi che fanno già la differenza rispetto a quanto previsto in una prima versione del decreto legge. In quel testo la disposizione sul credito d'imposta era sì introdotta per lo stesso importo e alle medesime condizioni (successo o lodo), ma non si definiva un orizzonte di tempo limitato e la capienza era raddoppiata (10 milioni). La norma venne poi stralciata e non approdò mai in "Gazzetta", probabilmente per problemi di copertura. Adesso, evidentemente, il ministero della Giustizia ci riprova, anche perché il ministro Andrea Orlando si è più volte sbilanciato promettendo misure indirizzate a incentivare il ricorso alle soluzioni alternative alla giurisdizione. Ma lo fa in una versione semplificata, in attesa di avere un puntuale monitoraggio sui costi effettivi dell'agevolazione. Intanto, l'emendamento prevede che con decreto del Ministro della giustizia, da adottare entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto, sono stabilite le modalità e la documentazione da esibire a corredo della richiesta del credito di imposta e i controlli sulla sua autenticità. Il ministero della Giustizia comunicherà poi all'interessato, entro il 30 aprile dell'anno 2016, l'importo dei credito d'imposta effettivamente spettante in relazione a ogni procedimento, di cui ai citati Capi I e II, determinato in misura proporzionale alle risorse stanziate e trasmette, in via telematica, all'Agenzia delle entrate, l'elenco dei beneficiari e i relativi importi comunicati a ciascuno. Intanto, le votazioni sugli emendamenti proseguiranno a ritmo serrato nel corso della notte, con l'obiettivo di arrivare entro stasera a licenziare il provvedimento, in maniera tale da farlo approdare in aula nella prossima settimana. Tra le correzioni votate, va segnalata quella proposta di Ermini che fissa al 30%, nel caso di concordato con continuità aziendale, la percentuale di soddisfazione dei crediti chirografari che impedisce la proposizione di proposte di concordato concorrenti. E tra gli emendamenti del relatore, con sponda del ministero della Giustizia, trovano posto anche le norme per favorire il passaggio di personale amministrativo ai tribunali e la definizione di un percorso di riqualificazione. In vista, e si tratterebbe di una delle modifiche di maggiore spessore, anche la soppressione del principio del silenzio assenso nel calcolo delle maggioranze per i concordati. Giustizia: il primo Comune che recupera la morosità col lavoro "volontario" dei debitori di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 Quando i tempi si fanno duri rispunta il baratto. E al Comune di Invorio, in provincia di Novara, con lodevole senso pratico, devono aver compreso che se un cittadino non ce la fa a pagare imposte e debiti comunali la soluzione è quella di prestare il proprio lavoro. Così, dopo due anni di lavorio in consiglio comunale, ecco una decisione che, ripescando una norma, già dimenticata, del decreto legge Sblocca Italia, punta al sodo e permette ai cittadini di presentare un progetto di pubblica utilità, realizzarlo e scontare il suo impegno dal debito tributario con il municipio. Lo stabilisce la delibera del 2 luglio 2015, che in sostanza, autorizza a fornire "in corresponsione del mancato pagamento dei tributi comunali già scaduti, ovvero di contributi per inquilini morosi non colpevoli, offrendo all'ente comunale, e quindi alla comunità territoriale, una propria prestazione di pubblica utilità, integrando il servizio già svolto direttamente dai dipendenti e collaboratori comunali". Il tutto viene chiamato ufficialmente "baratto amministrativo" e parte da un progetto che i cittadini devono presentare e che deve venir approvato. Forse alcuni giuristi, segnatamente civilisti e amministrativisti ma anche lavoristi, storceranno il naso (con qualche ragione) di fronte a una soluzione così semplice: ma per fortuna, almeno a prima vista, la legge che autorizza scelte del genere si presenta con un testo abbastanza ampio. E, una volta tanto, la genericità fa premio. Secondo l'articolo 24 del Dl 133/2014 i Comuni possono deliberare i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In cambio i Comuni possono esentare i cittadini volontari dalle imposte, per un periodo limitato e definito. Già in passato, quando nei Comuni la spesa pubblica non si era dilatata, i proprietari degli appezzamenti attraversati dalle strade municipali godevano di esenzioni se provvedevano al loro mantenimento in buono stato. Un'abitudine perduta nel caos dello spreco generale di soldi pubblici, di tempo e di lavoro. A Invorio, insomma, hanno visto giusto e, anche se con un'interpretazione un po' estensiva del Dl 133, ora il Comune potrà recuperare il debito che un cittadino aveva accumulato sui canoni non pagati di una casa popolare. Il suo lavoro consisterà nel dare manforte a chi pulisce le strade e durerà circa due mesi, per quattro ore al giorno. E l'esempio potrebbe estendersi facilmente in tutta Italia, con regolamenti tagliati su misura e in massima libertà in ciascun comune. Sì alla condanna per diffamazione a tutela dei giudici di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 European Court of Human Rights - Arret - 30 giugno 2015. La condanna per diffamazione di un l egale che accusa un magistrato, attraverso una lettera circolare, di atti arbitrari è conforme alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La Corte di Strasburgo, con sentenza del 30 giugno (n. 39294/09) dà ragione all'Italia, salvaguardando l'autorevolezza e l'imparzialità del sistema giudiziario. Alla Corte europea si era rivolta un avvocato che aveva inviato una lettera al Consiglio superiore della magistratura con la quale si lamentava del comportamento di un giudice che si era occupato di una causa di divisione ereditaria nella quale il legale assisteva alcune parti. Successivamente, la lettera circolare era stata inviata ai giudici del tribunale nel quale il magistrato lavorava. Quest'ultimo lo aveva denunciato e il legale era stato condannato in primo grado a una pena privativa della libertà personale e, in secondo grado, al pagamento di una sanzione pecuniaria pari a 400 euro, nonché a risarcire il magistrato. Di qui il ricorso a Strasburgo da parte del legale che sosteneva di aver agito nel contesto della sua attività professionale e che le critiche da lui formulate riguardavano il funzionamento della giustizia. Una tesi del tutto respinta da Strasburgo. Prima di tutto, la Corte ha constatato che la lettera richiamava la vicenda nella quale il magistrato aveva svolto la sua attività e non questioni generali sul funzionamento della giustizia. In secondo luogo, poi, le critiche non erano state formulate nel corso dello svolgimento del procedimento e, quindi, nel contesto dell'attività del legale, ma successivamente. Non solo. Il legale aveva accusato il magistrato di aver adottato decisioni ingiuste ed arbitrarie e di aver agito con dolo o colpa. Critiche che, inoltre, non avevano alcuna base fattuale tanto più che il legale non aveva atteso la chiusura del procedimento dinanzi al Csm. La Corte europea riconosce che i limiti di critica ammissibili nei confronti dei magistrati che agiscono nell'esercizio delle proprie funzioni sono più ampi rispetto ai privati, ma i magistrati non possono in ogni caso essere equiparati ai politici per i quali la critica è ancora più ampia. Nei confronti dei magistrati, poi, è necessario assicurare che non sia compromessa la fiducia che la collettività deve avere nell'amministrazione della giustizia. Elementi che portano la Corte a concludere nel senso della piena conformità alla Convenzione europea della condanna per diffamazione decisa dai giudici nazionali. Inoltre, la sanzione comminata dai giudici di appello al legale è stata proporzionale proprio tenendo conto che era in gioco non solo la reputazione del magistrato, ma anche l'autorevolezza e l'imparzialità del sistema giudiziario. Niente diffusione di materiale pedopornografico se manca il dolo di condividerlo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 luglio 2015 n. 30465. Non sussiste il reato di diffusione di materiale pedopornografico per il soggetto che si sia procurato materiale "scottante" e lo abbia lasciato nelle cartelle del proprio computer di emule/incoming. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 30465/2015. La Corte in particolare ha chiarito che l'imputazione non era sostenibile in quanto non era stato dimostrato l'elemento del dolo, ossia di voler condividere le immagini con altre persone. Gli Ermellini, poi, hanno considerato alcuni elementi quali l'inesperienza dell'imputato che di certo non consentiva la condivisione di tale materiale. I due orientamenti giurisprudenziali - A fronte di tale decisione è utile ricordare come in materia ci siano due differenti orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo, infatti, è condannabile colui che effettivamente e che con qualsiasi mezzo anche per via telematica distribuisca, divulghi, diffonda o pubblicizzi il materiale pedopornografico. Deve quindi sussistere un facere piuttosto evidente (si veda la sentenza della Cassazione n. 47820/2013). Secondo altra parte della giurisprudenza - con orientamento decisamente più restrittivo - per procedere all'imputazione sarebbe sufficiente la sola volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo emule o simili, in quanto ciò implicherebbe da solo sempre e necessariamente la volontà di diffonderlo. Si tratterebbe in questo secondo caso di una vera e propria presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto stia usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (si veda la sentenza n. 11082/2010). Nel caso di specie la Corte d'appello di Milano, condividendo questo secondo orientamento, ha ritenuto provata la sussistenza del reato di diffusione di materiale pedopornografico esclusivamente in considerazione del tipo di software utilizzato. Conclusioni - La Cassazione ha rilevato, però, come un tale percorso argomentativo basato cioè sull'ingente quantità di materiale scaricato e sull'utilizzo dello specifico di emule come programma di file sharing, non apparisse corretto né esauriente "perché avrebbe dovuto essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la condotta e la volontà dell'imputato fossero di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale che in precedenza il soggetto con autonomo comportamento si era procurato o aveva creato (ad esempio non limitandosi a lasciarli nella cartella iniziale di arrivo (incoming) ma selezionando i file scaricati e copiandoli in apposita cartella di condivisione personalizzata". Annullata, pertanto, la sentenza di condanna e rinviata la decisione ad altra sezione della Corte d'Appello milanese. No all'uso di impianti sequestrati all'impresa senza autorizzazioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 15 luglio 2015 n. 30482. No alla possibilità di usare gli impianti di un'industria sequestrata perché priva di qualsiasi abilitazione a operare, in quanto ciò vanifica la tutela garantita dalla misura cautelare. E l'attività non può essere ripresa neppure in vista di un'imminente regolarizzazione. La Corte di cassazione con la sentenza 30482 depositata ieri, respinge il ricorso del legale rappresentante di un'impresa di calcestruzzi messa "sotto chiave" perché operava senza alcuna abilitazione. Il ricorrente negava che il suo comportamento potesse ricadere nel raggio d'azione dell'articolo 256 del Dlgs 152/06 che sanziona la gestione dei rifiuti non autorizzata. Secondo l'amministratore non poteva rientrare nella nozione di gestione dei rifiuti la sola operazione di lavaggio delle betoniere svolta nel tempo tecnico necessario alla successiva fase di recupero attraverso un impianto di riciclaggio. I giudici di merito avevano però chiarito che senza autorizzazione non era possibile ipotizzare neppure un deposito temporaneo dei rifiuti. Il vero problema, perso di vista dal ricorrente, era l'assenza dei presupposti di legge per svolgere qualunque attività non soggetta alla disciplina generale sui rifiuti. L'assenza di condizioni era già stata rilevata dalla polizia giudiziaria e posta alla base di un'ordinanza dirigenziale con la quale si vietava l'uso dello stabilimento privo di agibilità. Il mancato rispetto dell'atto (articolo 650 del Codice penale) era costato al rappresentante dell'Srl un'ulteriore contestazione. Inutile il tentativo di trovare un supporto della Cassazione contro il no opposto alla richiesta di facoltà d'uso dell'impianto senza considerare l'impegno assunto dal ricorrente di evitare rischi ricorrendo alle migliori tecnologie disponibili. La Suprema corte precisa che la richiesta di facoltà d'uso dell'impianto "è ontologicamente incompatibile con le finalità del sequestro". Il sequestro dell'industria che opera senza titolo consente, infatti, di interrompere la condotta vietata impedendo ulteriori conseguenze per la salute e l'integrità dell'ambiente. Secondo i giudici della terza sezione penale non c'è ragione per non estendere all'azienda lo stesso principio valido per le violazioni edilizie: la possibilità di utilizzare il manufatto sottoposto a sequestro preventivo senza lacuna particolare prescrizione contrasta con lo scopo della misura cautelare. La Cassazione esclude che in tal modo si possa porre il problema del rispetto o meno del principio di proporzionalità e adeguatezza (articolo 275 Cpp). L'obiettivo non è, infatti, di raggiungere lo stesso risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, ma di non rendere vana la misura applicata. Infortuni: comportamento "abnorme" del lavoratore esclude la responsabilità del datore Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2015 Lavoro - Infortuni sul lavoro - Prevenzione -Infortunio - Carenze nel sistema di sicurezza - Condotta colposa del lavoratore - Responsabilità o corresponsabilità del lavoratore - Esclusione. Non sussiste la responsabilità o la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza predisposto dal datore di lavoro presenti evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche sono finalizzate a tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 28 maggio 2015 n. 22813. Lavoro - Infortuni sul lavoro - Prevenzione - Condotta omissiva del datore di lavoro - Comportamento "abnorme" del lavoratore - Interruzione del nesso causale - Condizioni. Non integra un "comportamento abnorme" idoneo ad escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l'evento lesivo o mortale patito dal lavoratore il compimento da parte di quest'ultimo di un'operazione che quantunque sia inutile e imprudente non risulti eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell'ambito del ciclo produttivo. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 19 febbraio 2015 n. 7955. Infortuni sul lavoro - Responsabilità penale del datore di lavoro - Comportamento abnorme e imprevedibile del lavoratore - Colpa del prestatore - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio subito. Il comportamento abnorme del lavoratore, ovvero esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute e, dunque, come tale del tutto imprevedibile, a cui sia conseguito un infortunio sul luogo di lavoro, esclude la responsabilità del datore di lavoro per causa sopravvenuta. In circostanze siffatte, invero, deve ritenersi configurabile la colpa del lavoratore nella produzione dell'evento, con esclusione, in tutto o in parte, della responsabilità degli imprenditori, dei dirigenti e dei preposti, per aver egli posto in essere una condotta inopinabile, esorbitante dal procedimento di lavoro ed incompatibile con il sistema di lavorazione, oppure non osservante delle precise disposizioni antinfortunistiche ricevute. • Tribunale Padova, sentenza 21 gennaio 2015 n. 99. Reato - Rapporto di causalità - Concorso di cause - Comportamento "abnorme" del lavoratore. La colpa del lavoratore eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni non esime costoro dalle proprie responsabilità, considerato che l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento-morte - o lesioni - del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa solo nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 9 giugno 2011 n. 23292. Comportamenti negligenti lavoratori - Responsabilità penale datore di lavoro - Non esclusa - Comportamento "abnorme" del lavoratore - Responsabilità penale del datore di lavoro - Esclusa - Designazione responsabile servizio prevenzione protezione (RSPP) - Responsabilità penale del datore di lavoro - Non esclusa - Scelta del RSPP - Delega funzioni - Esclusa. La responsabilità penale a carico del datore di lavoro non è esclusa nei comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito al verificarsi dell'infortunio. Il comportamento "abnorme" del lavoratore, che esclude la responsabilità del datore di lavoro, va inteso come la "consapevolezza" dell'osservanza delle cautele impostegli, ponendo in essere una situazione di pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può evitare. La designazione del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) non esclude la responsabilità penale del datore di lavoro in caso di infortunio sul lavoro. I Rspp sono soltanto dei "consulenti" e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda, vengono fatti propri dal vertice aziendale che li ha scelti sulla base di un rapporto liberamente instaurato. Tale designazione non equivale a "delega delle funzioni" ai fini dell'esenzione del datore di lavoro da responsabilità per violazioni nella materia antinfortunistica. • Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 26 agosto 2010 n. 32357. Lettere: ferie dei giudici, la demagogia e l'impopolarità di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2015 Il Tar del Lazio ha stabilito che le ferie dei magistrati sono di 30 giorni, come dice Renzi, e non 45 come dice l'Anm. Va bene così, 45 più le cosiddette festività soppresse davano un totale di 51 giorni, effettivamente un po' tanti. Si prestavano a una diluizione delle ferie nel corso dell'anno che rendeva difficile la gestione degli uffici giudiziari: tra vacanze estive, e natalizie, settimane bianche e ponti vari talvolta non si riusciva a comporre collegi o succedeva che il pm non fosse in servizio quando il processo da lui istruito era celebrato in Tribunale. Toccava rinviare i processi, insomma un discreto casino. Del tutto contrario ai principi di buona amministrazione. La legge dice che le ferie devono coincidere con la sospensione dei termini nel periodo feriale, quando si fanno solo le cose urgenti e non si possono celebrare processi salvo quelli con detenuti. Il che è ovvio, servono pochi magistrati; gli altri si riposino e, a settembre, tutti al lavoro. Quelli che hanno lavorato in estate devono godere le ferie a settembre e ottobre. Per ineliminabili ragioni di servizio - così prevede la norma - ne possono usufruire anche in periodo successivo, fino a dicembre; e, per specialissime ragioni di servizio, nel primo semestre dell'anno successivo. Manco a dirlo, è uno stillicidio, ognuno si spezzetta i suoi 51 giorni quando gli fa più comodo, con le conseguenze di cui sopra. Detto questo, resta il fatto che la riduzione delle ferie a 30 giorni (in realtà 36) non cambierà nulla. Altro provvedimento demagogico, di pura propaganda. Prima di tutto niente è stato detto su sentenze e altri provvedimenti che scadono in periodo feriale. Se un magistrato va in ferie e però deve scrivere sentenze perché il termine di deposito scade mentre lui è in vacanza, è ovvio che quelle non sono ferie, sono giorni di lavoro. Dunque bisognerebbe prevedere la sospensione dei termini di scadenza dei provvedimenti giudiziari per ogni singolo magistrato in relazione al suo personale periodo di ferie: un casino mai visto ma i computer possono fare questo e altro. Oppure prevedere una settimana di pre-ferie durante la quale il magistrato scriverà i provvedimenti che scadono. Siccome questo lo si può fare benissimo a casa propria senza andare in ufficio, si ritornerebbe di fatto alla situazione precedente: il giudice va in vacanza con il borsone pieno di fascicoli e lavora fra un bagno in mare e una partita di tennis. In secondo luogo, fare il giudice non è come stare alla catena di montaggio: i processi vanno studiati prima di celebrarli. Sicché non è possibile che, tornati dalle ferie, il giudici si trovino catapultati in udienza: un po' di tempo per studiare i fascicoli lo devono avere, altrimenti si ritorna alla situazione precedente, quando li si studiava sotto l'ombrellone una settimana prima di tornare a casa. Anche qui però, c'è lo stesso problema: non c'è bisogno di stare in ufficio per studiare, lo si può fare anche in vacanza. Infine c'è il problema della retribuzione. Non è giusto pagare lo stesso stipendio se riduci le ferie al lavoratore e lo fai lavorare 15 giorni in più. Qui un ricorso al Tar dovrebbe avere esito favorevole. In conclusione, i magistrati si potevano risparmiare una battaglia molto impopolare. 30 giorni di ferie, va bene; però sto a casa (o al mare) una settimana prima per scrivere sentenze e una dopo per studiare i processi. E questo lo poteva stabilire il Csm con una circolare. Come direbbe Shakespeare, molto rumore per nulla. Verona: dopo il carcere, un progetto di lavoro, siglata una convenzione con Confindustria L'Arena di Verona, 16 luglio 2015 Un'iniziativa dell'Associazione "La Fraternità" che può interessare anche chi è ancora in carcere, ma ha idonei requisiti. Siglata una convenzione con Confindustria. La legge prevede sgravi fiscali per chi assume ex detenuti. Dignità, non assistenzialismo: è quanto viene reclamato dal mondo della detenzione. D'ora in avanti, a Verona, i carcerati a fine pena troveranno la giusta ricetta per ritornare in società partendo con il piede giusto. A prescriverla, con il nuovo progetto "Sprigiona Lavoro", è la storica associazione La Fraternità. Che non si tratti di un programma di mero assistenzialismo è chiaro fin da subito, anche solo dando uno sguardo ai firmatari della convenzione sottoscritta ieri mattina nel convento di San Bernardino. Il progetto, pilota in tutta Italia, avrà infatti come interlocutore preferenziale l'associazione degli industriali scaligera, per incrociare domanda e offerta sul mercato del lavoro. Il vicepresidente per gli Affari sociali di Confindustria, Franco Zanardi, spiega: "Il nostro non è un atteggiamento buonista, né chiediamo agli imprenditori di farsi carico di disagi sociali. Abbiamo aderito al progetto per verificare il profitto che ne può derivare alle imprese. Se si contribuisce a realizzare condizioni di convenienza economica si possono raggiungere numeri significativi, altrimenti ci si limiterà a pochi casi di qualche imprenditore illuminato". "La legge Smuraglia prevede sgravi fiscali importanti", fa presente il presidente della Fraternità, Francesco Sollazzo. "Il nostro impegno sarà proprio evidenziare i vantaggi per le aziende nell'assume-re delle persone prossime all'uscita dal carcere". Il bacino più idoneo a Montorio è quello dei cosiddetti dimittendi, che al momento sono 60. Poi ci sono un centinaio di reclusi con condanne di più di cinque anni che, se hanno i requisiti idonei, possono varcare le sbarre per lavorare. Altri 200 detenuti, dei poco più di 500 complessivi, stanno già lavorando dentro il carcere. Per servire al meglio aziende e detenuti, le Acli hanno elaborato un software in cui inserire i curriculum. Il database sarà a disposizione delle aziende perché possano individuare la risorsa più adatta alle loro necessità. "Vogliamo valorizzare le capacità dei detenuti responsabilizzandoli fin da subito con la stesura personale dei propri curriculum", fa presente il direttore del patronato Acli scaligero, Marco Ge-miniani. "In questo modo possiamo anche fare delle formazioni mirate". "Questo accordo si riassume nella parola dignità", commenta la direttrice del carcere di Montorio, Maria Grazia Bregoli. "Il carcere va visto come una risorsa economica per il territorio. Non importa quali saranno i risultati immediati in termini di numeri, ciò che importa è invece il messaggio chiaro trasmesso da tale lavoro di squadra". L'iniziativa, nata due anni fa con una ricerca realizzata dall'università di Verona sulle possibilità offerte ai detenuti dal mercato del lavoro della provincia, coinvolge anche la Cisl, l'Agenzia sociale Lavoro & Società, il Progetto esodo e il Provveditorato per l'amministrazione penitenziaria per il Triveneto. Dichiara Angela Venezia, direttore dell'Ufficio detenuti e trattamento di quest'ultimo: "Il carcere è un'opportunità e chi ci vive è l'ultimo degli assenteisti, tanta è la voglia di uscire dalle celle per tenersi attivi e reintegrarsi". Roma: a Rebibbia nasce uno sportello di consulenza legale gratuita per i detenuti di Marco Salfi telejato.it, 16 luglio 2015 Uno sportello legale gratuito per i detenuti che non hanno avuto i mezzi per difendersi. Ce ne parla Michele Bonetti avvocato dell'unione degli universitari. Vincitore di tante battagli contro il numero chiuso, contro il Miur e con una forte vocazione etica e morale vista la grande propensione del suo studio a fornire assistenza legale anche a chi non se lo può permettere. Quando e come è nato lo "Sportello Legale Sandro Pertini" lo sportello di consulenza gratuita in carcere portato avanti da ex Magistrati, Avvocati e Professori? Il progetto "Sportello Legale Sandro Pertini" mi vede coinvolto da circa un mese insieme al Presidente Onorario Aggiunto della Suprema Corte di Cassazione Ferdinando Imposimato, ai Magistrati oggi in pensione Dott. Elio Michelini, Dott. Franco Cecconi e Dott.ssa Nunzia Cappuccio, il docente delle Istituzioni scolastiche all'interno del carcere Dott. Giovanni Iacomini, il Professore di Diritto Costituzionale Avv. Federico Sorrentino e l'Avv. Pietro Sarrocco. Uno sportello "misto" dunque con Giudici, Avvocati, Professori Universitari e di Scuole Superiori con un profilo non solo legale, ma anche culturale, realizzato grazie al sostegno del Direttore Dott. Stefano Ricca e delle Istituzioni carcerarie unitamente a tutti i suoi educatori. L'obiettivo che lo Sportello vuole perseguire, fondamentalmente, è quello di vivere da vicino le criticità, elaborando attività di natura culturale con i detenuti per garantire agli stessi la possibilità di esperienze costruttive volte alla crescita personale. Inoltre, grazie all'ausilio dell'Istituto "John von Neumann", nonché di gruppi di studenti della "Sapienza - Università di Roma", tentiamo di armonizzare la nostra tutela legale a messaggi di natura formativa in linea con i dettami dell'art. 27 della Costituzione, che stabilisce il principio secondo cui la pena deve mirare al recupero del reo. Con quali modalità è gestito lo Sportello e che impatto ha avuto tra i detenuti? Ogni settimana, con incontri con i detenuti, rendiamo consulenza legale gratuita ai detenuti meno abbienti, ma realizziamo anche seminari ed attività culturali sugli importanti temi della legalità, sulla tutela dei diritti fondamentali, sulla funzione rieducativa della pena, sul senso di giustizia ampiamente inteso, il tutto con la preziosa collaborazione delle Istituzioni scolastiche. L'impatto che lo Sportello ha avuto all'interno della Casa di Reclusione di Rebibbia è stato fortissimo. Sin dai primi colloqui i detenuti si sono dimostrati collaborativi ed interessati a tutte le attività che venivano proposte. Ognuno di loro, ha avuto modo di raccontare le proprie esperienze ed il motivo che li vedeva costretti alla reclusione. Mi ha colpito in particolare il temperamento di coloro che sono soggetti al "fine pena mai" e l'entusiasmo che hanno dimostrato in seguito ai colloqui effettuati. Ricordo che in occasione della presentazione del progetto innanzi alla platea di detenuti, tutti hanno accolto me e il Giudice Imposimato con un caloroso applauso. Sono rimasto per un attimo interdetto. Non avevo ancora parlato e quindi non capivo il motivo del loro applauso che non cessava a finire. Quando ho preso la parola e ho ascoltato i loro interventi, ho finalmente capito il significato di quell'applauso: mi conoscevano, conoscevano le mie battaglie, quelle per il diritto allo studio, quelle per l'accesso libero alle università a ai percorsi di formazione. Tutti la conosciamo come l'Avvocato degli studenti specializzato nel diritto allo studio. Come è possibile coordinare tale specializzazione ed esperienza giuridica con le esigenze dei detenuti? Il tema del diritto allo studio, che è il tema della mia vita non solo professionale, è una questione alla quale i detenuti sono molto sensibili. E non c'è da meravigliarsi se pensiamo che la rieducazione passa per prima dalla cultura. "I nostri libri e le nostre penne sono le nostre armi più potenti", come affermato da Malala premio Nobel per la Pace e questo i detenuti lo sanno, perché la cultura li aiuta a guardare oltre e a viaggiare altrove, dal chiuso delle loro celle. Da questa esperienza nasce in me la considerazione che molto spesso non vengono applicate le pene alternative in quanto prevale la politica della carcerazione e purtroppo sono perfettamente consapevole del fatto che molte di queste persone potrebbero stare fuori dal carcere. È il caso ad esempio di L.N. che, poco più che maggiorenne, si dichiarò colpevole per spaccio di sostanze stupefacenti. Mentre gli altri coimputati sono fuggiti dall'Italia, L.N. è rimasto ad affrontare il processo nel nostro Paese; è diventato uomo, lavoratore e padre di famiglia. E uomo libero sino a quando poi non è arrivata la sentenza di condanna definitiva dopo quasi 20 anni da quella ammissione di colpevolezza. Oggi L.N. è in carcere e per il suo caso abbiamo avanzato una richiesta di grazia al Presidente della Repubblica Mattarella. Lo sportello è un progetto concreto che concretamente riesce ad opporsi alla cultura della morte civile dei detenuti. Quali sono le problematiche per le quali i detenuti si rivolgono allo Sportello? All'interno della Casa di Reclusione di Rebibbia ho avuto modo di colloquiare anche con coloro che sono stati condannati per furto, rapina, spaccio, estorsione, ricettazione, ed ogni genere di reato contro il patrimonio. Dovevamo renderci conto della tipologia e quantità di reati da affrontare e così, in modo molto diretto e pratico, il Presidente Imposimato chiese loro: "Tutti coloro che sono stati condannati per truffa, rapina, spaccio, ecc. alzino la mano!". Ancora sorrido al ricordo di quel primo incontro con tutti i detenuti quando, dopo un silenzioso imbarazzo, intervenne il Presidente Imposimato con tono fermo: "Allora!? chi è coinvolto nel reato di corruzione? Alzate questa mano!"; si levò una voce forte e rauca da lontano che affermò "Avvocà, quelli stanno tutti fuori!". Ho potuto anche constatare che a causa della mancata applicazione dell'istituto del reato continuato, tante persone che ad esempio hanno emesso assegni scoperti si sono trovati a dover scontare una pena anche di 54 anni, non essendosi applicata la continuazione dei reati. Questa è la realtà del carcere italiano, un codice penale di matrice fascista, stravolto nella misura delle pene edittali nel tempo da una classe politica che ha scelto di incidere fortemente sui reati minori e comuni, ma non su quelli di corruzione e concussione, che ci si vede bene dal colpire. Anche le età dei detenuti variano, dai ventenni agli ultrasessantenni. I detenuti sono non solo persone che hanno iniziato a commettere reati in età adolescenziale o che non potevano fare altro, ma anche persone che hanno perso il lavoro e che perciò si avvicinano con facilità alla delinquenza. Sono sempre e comunque persone con i loro racconti e le loro motivazioni. I miei colleghi ed io, nello svolgere tale dura ma soddisfacente attività, abbiamo notato sin da subito la grandissima presenza di persone condannate a pene eccessive rispetto al reato commesso. La nostra iniziativa nasce, infatti, dalla triste consapevolezza che gran parte dei detenuti risultano provenire da realtà difficili. Spesso si tratta di persone che non hanno avuto i mezzi o le possibilità per difendersi adeguatamente. Milano: nel carcere di Bollate una lezione di legalità tra i segreti dei computer di Enrica Roddolo Corriere della Sera, 16 luglio 2015 "Il computer? La maggior parte dei detenuti quando entrano in aula confessano che loro, i computer, li hanno rubati, altro che programmarli. Qualcuno, pochi, al massimo ci ha giocato". Lorenzo Lento, un volontario, li aiuta a trovare una strada, e talvolta un futuro, nel mondo dell'Ict. "Insegno loro a interagire con la macchina e poi anche a installare e gestire un server...adesso stiamo creando una cloud nel nostro laboratorio - racconta al Corriere. La storia che hanno alle spalle va dagli omicidi alle rapine finite nel sangue, al traffico di droga, fino alle truffe con le carte di credito". Già, nessuno scrupolo di formare dei potenziali hacker? "Infatti, l'insegnamento del coding viene dopo l'insegnamento della legalità, a vivere secondo i codici della società e non quelli della strada: lo dico subito ai detenuti quando arrivano: "Qui si fanno a turno le pulizie una volta la settimana, si aiuta il compagno di banco e si lavora assieme". Poi, metto subito in chiaro che non si installano copie piratate dei programmi. Solo a quel punto inizio a insegnare a interagire con il computer. E i ragazzi capiscono. Alcuni sono diventati dei professionisti molto qualificati". Per esempio? "Due ragazzi che ho impiegato in una piccola Onlus che ho creato: un italiano, trent'anni, solo la terza media come diploma d'istruzione, diventato così esperto da superare i test della Ccna Security. Risultato, di giorno lavora in una multinazionale dove segue la sicurezza informatica, per tutta l'area europea. Poi, ogni sera, rientra in carcere. Un percorso simile a quello che fa un compagno di carcere, 34-35 anni, nordafricano, che si occupa della security in un'azienda italiana. Credo che in nessun carcere al mondo siano mai stati formati, a livelli così alti, dei detenuti". Lento da quindici anni lavora con i detenuti del penitenziario di Bollate. Un lavoro di formazione reso possibile da Cisco attraverso il suo Networking Academy Program, l'iniziativa per ridurre il gap tra domanda e offerta di posti di lavoro nel settore It. "Le Networking Academy offrono a tutti l'opportunità di formarsi su competenze che sono sempre molto richieste nel mondo del lavoro - spiega Luca Lepore, Csr Program Manager. Questo è ancora più importante per chi deve affrontare un percorso di reinserimento. E sapere poi che tra le persone che hanno frequentato i nostri corsi mentre si trovavano in carcere la percentuale di recidiva è pari a zero, è per noi fonte di grande soddisfazione e ci spinge a lavorare per diffondere il più possibile questa opportunità". Ad oggi, sono più di 10.000 le Networking Academy nel mondo con oltre 1 milione di studenti che frequentano corsi in 162 Paesi. In Italia, ce ne sono quasi 300. Appunto, come quella del carcere di Bollate (o di Castrovillari, in provincia di Cosenza). "Ma non è facile - aggiunge Lento. Basti pensare alla complessità di far interagire dei detenuti con il web: firmo, sotto la mia responsabilità, per le connessioni web...siamo riusciti anche a far laureare dei detenuti, senza che uscissero dal carcere". Come? "Creando delle Vpn filtrate sulle quali i detenuti dialogano con i docenti universitari, studiano, si laureano. Adesso stiamo lavorando per estendere l'esperienza ai detenuti del carcere di Opera". Quale età hanno i detenuti che cercano una via di riscatto, attraverso l'informatica? "Dai 20 ai 65-70 anni, adesso si è appena iscritto un omicida settantenne... e in genere occorrono due-tre anni di corso per creare una vera competenza professionale, che poi è anche esperienza culturale". Una scommessa, sul futuro. A ogni età. Milano: Biblioteca Vivente, a Bollate i detenuti diventano libri umani di Giulia Mengolini lettera43.it, 16 luglio 2015 Il 17 luglio è possibile entrare nella casa di reclusione per "sfogliarli". Ognuno ha un titolo e una storia da raccontare. L'obiettivo? Abbattere i pregiudizi. Foto. Rocco è un uomo. Un uomo e un detenuto. La sera del 17 luglio diventerà un "libro umano", quando il carcere milanese di Bollate in cui è recluso si trasformerà per quattro ore, dalle 19 alle 23, in Biblioteca Vivente. Uomini e donne come lui racconteranno loro stessi a perfetti sconosciuti, estranei alla realtà della prigione. Tutti i detenuti avranno il nome di un libro, e una quarta di copertina che in poche righe descriverà qualcosa della loro storia. Per partecipare all'evento basta iscriversi, scegliere dal catalogo quello che più incuriosisce, e sedersi ad ascoltarli. Nella quarta di copertina del libro di Rocco si legge: "È il giorno del compleanno di mio figlio. Non essere a casa, non compiere quei gesti normali di ogni padre: impotenza, vuoto, sentirsi sospeso, sterile, è questo il carico aggiuntivo della pena". Il titolo del suo libro è Il definitivo. Nella casa di reclusione di Bollate vivono detenuti che si sono macchiati di reati gravi (pene superiori ai 25 anni), ma che vogliono ricordarci che sono ancora, e comunque, uomini e donne. E per abbattere gli stereotipi sul mondo del carcere daranno vita alla Biblioteca Vivente. Albert Einstein diceva che "è più difficile spezzare un atomo che un pregiudizio". "Il carcere è un'accademia del crimine, chi ci entra ci ritorna sempre, loro, quelli che stanno dentro, sono violenti di natura, escono sempre troppo presto, vivono a nostre spese come se fossero in albergo, e alla fine stanno meglio di noi", sono tra i tanti pregiudizi che il progetto vuole affrontare e spezzare, pregiudizi che si incontrano e si scontrano con scorci di autobiografie. Il progetto mutua l'esperienza della Human Library danese. La Biblioteca Vivente è sbarcata a Milano con ABCittà nel 2011 mutuando l'esperienza danese di Human Library, un'organizzazione no profit di Copenaghen, con più di 50 Paesi partner nel mondo e la missione di sviluppare una più forte coesione sociale e una maggiore comprensione della diversità nella comunità. La casa di reclusione di Bollate, attiva dal 2000, si è caratterizzata fin dalla sua apertura come istituto "con l'obiettivo di realizzare su grande scala un progetto a custodia attenuata, volto alla graduale inclusione sociale dei detenuti". Il carcere offre ai detenuti ampi spazi di libertà, in cambio si chiede loro di essere protagonisti attivi della vita di comunità: si tratta del Patto Trattamentale che, come obbliga la direzione dell'istituto a garantire un'opportunità di reinserimento, impone ai detenuti di sperimentarsi in percorsi individuali che gradualmente li aiuteranno a reinserirsi nel contesto sociale esterno. Anche la gestione della sicurezza ha una mission precisa: il modello è fondato sulla conoscenza dei detenuti e non su una costante vigilanza fisica da parte della polizia. Criminali, ma anche uomini: chiunque voglia conoscere le loro storie e sfogliare le pagine dei loro "libri" può partecipare iscrivendosi all'evento sul sito carceredibollate.org. Salerno: il calvario dei detenuti che hanno bisogno di cure sanitarie di Marta Naddei Cronache del Salernitano, 16 luglio 2015 Finalmente operato Sorrentino: asportata la vescica. In carcere non credevano al suo tumore. Morire di pena detentiva. È il rischio che ha corso, e che ancora oggi corre, Francesco Sorrentino. È il rischio che corre un altro detenuto salernitano, rinchiuso nella casa circondariale di Parma, e quello che ha corso Giuseppe Danise. Ed è stato il triste destino di Carmine Tedesco, la cui morte chiede ancora giustizia. Solo dopo un lungo calvario, Francesco Sorrentino - che per 36 anni ha vissuto in cella - potrà finalmente usufruire del regime degli arresti domiciliari (sarà ospitato presso la casa dell'anziana sorella nella natia Sant'Egidio del Monte Albino). Due settimane fa, a Sorrentino, è stata asportata la vescica: un intervento d'urgenza all'ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona, che ha scongiurato la morte certa verso la quale il detenuto si stava avviando. Quel tumore che lo ha colpito - ma che il personale medico del carcere di Fuorni si rifiutava di "riconoscergli", nonostante le relazioni di diverse strutture ospedaliere - lo stava mangiando vivo, tanto che Sorrentino, come racconta la nipote Antonietta Ferraioli, è arrivato a pesare poco più di 40 chilogrammi a fronte degli 80 iniziali. Un "traguardo", quello degli arresti domiciliari, cui il legale dell'uomo, Bianca De Concilio, è riuscito a giungere dopo un percorso tanto tortuoso quanto paradossale, fatto di trattamenti a dir poco discutibili, spesso sfociati in umiliazioni, da parte dei sanitari della casa circondariale di Fuorni, così come del tribunale di sorveglianza di Salerno. "Si vedeva che stava male - ha detto l'avvocato De Concilio nel corso di una conferenza stampa tenutasi su iniziativa del segretario dei Radicali di Salerno, Donato Salzano - Sarebbe bastata un'ecografia per evitargli dolore e sofferenza. È vero che in alcuni casi, con l'aiuto di medici compiacenti, molti detenuti fingono dei malori per ottenere dei vantaggi, ma nel caso di Sorrentino erano palesi le precarie condizioni di salute. È una vicenda triste soprattutto dal punto di vista umano: nelle altre strutture detentive presso le quali Sorrentino è stato ristretto ha ricevuto le idonee cure, qui a Salerno no. Non gli credevano quando diceva di essere malato: atteggiamenti di questo tipo, per chi lavora in una struttura che dovrebbe essere di riabilitazione e reinserimento in società, non fanno altro che aumentare, livore, rabbia e voglia di ribellione nei detenuti. Le condizioni di salute di Sorrentino lo rendevano e lo rendono incompatibile con il regime carcerario". A dire la sua è stata anche la nipote di Sorrentino, Antonietta che ha lanciato un messaggio ben preciso: "È vero che sono detenuti e che hanno commesso degli sbagli ma questo non significa che debbano essere abbandonati solo perché devono pagare. Sono persone e come tali vanno rispettate". Ben presto sarà depositata la querela e l'avvocato De Concilio avrebbe già richiesto il sequestro delle cartelle cliniche di Francesco Sorrentino. Ma quello del detenuto di Sant'Egidio non è certamente l'unico ed ultimo caso di trattamenti "inumani" nelle carceri. Dopo gli ormai numerosi casi registrati alla casa circondariale di Fuorni ed alla sezione detentiva del Ruggi, pur cambiando città la situazione non cambia. Protagonista, suo malgrado, è un carcerato originario di Campagna, attualmente ristretto a Parma. L'uomo, assistito sempre dall'avvocato Bianca De Concilio, pare versi in condizioni fisiche al limite. Trapiantato sia di rene che di pancreas, è affetto da diabete - circostanza che gli ha cagionato la perdita delle dita dei piedi che lo costringe a spostarsi in sedia a rotelle - ed ha un occhio di vetro. Nel corso dell'ultimo colloquio, il legale si è anche reso conto che le medicazioni non venivano sostituite da diversi giorni. È stata chiesta una relazione sullo stato di salute dell'uomo alla direzione della casa circondariale di Parma ma, allo stato, è rimasta lettera morta. Insomma, un altro caso ai limiti dell'umana sopportazione. Nel corso della conferenza stampa, il segretario dei Radicali salernitani Donato Salzano ha inteso ringraziare il sindaco di Salerno Vincenzo Napoli che, nei giorni scorsi, ha inviato una lettera ai direttori di Asl e Ruggi, nonché a quello del carcere di Fuorni proprio per sollecitare in merito alla tutela del diritto alla salute dei detenuti della casa circondariale provinciale. "La speranza c'è - ha detto Salzano - Napoli ha preso una posizione netta e politica sulla questione, confermandosi in prima linea nella lotta per la difesa dei diritti umani". Massa: il Sappe scrive al ministero "non si possono aprire nuove sezioni senza organico" Ansa, 16 luglio 2015 "La decisione di aprire una nuova sezione detentiva nella Casa di reclusione toscana è una decisione assurda, alla quale non segue parallelamente un adeguato incremento dell'organico". Lo afferma il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) Donato Capece. "E mi dispiace constatare - aggiunge - che l'impegno del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri di incrementare il reparto di polizia penitenziaria del carcere di Massa tale è rimasto, ossia una semplice dichiarazione di impegno. Il previsto piano nazionale di trasferimenti del personale di polizia Penitenziaria vedrà infatti sì assegnate a Massa 12 nuove unità, ma contestualmente saranno trasferiti ben 9 agenti: il saldo attivo per il reparto di Polizia penitenziaria di Massa è quindi 3 unità. Si può dunque pensare di aprire un nuovo padiglione del carcere con soli 3 poliziotti?". "Com'è possibile pensare di aprire un reparto detentivo in carcere senza avere gli agenti di polizia penitenziaria in grado di fare fronte alle inevitabili ricadute sull'organizzazione del lavoro dei poliziotti?", denunciano Pasquale Salemme, segretario regionale Sappe della Toscana, e Mario Novani, segretario provinciale Sappe di Massa. "La Casa di reclusione di Massa non è un carcere semplice, operativamente parlando: stiamo parlando di una realtà con una presenza media di 180/200 detenuti, con le sue criticità e problematiche. Basta leggere gli eventi critici accaduti nei dodici mesi del 2014: 4 tentati suicidi di detenuti sventati per fortuna in tempo dalla polizia penitenziaria, 36 episodi di autolesionismo, 4 colluttazioni". Per queste ragioni il Sappe ha già inviato una dettagliata relazione al "ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Che essendo di Spezia, a poca distanza da Massa, potrebbe venire a constatare personalmente la fondatezza delle nostre rivendicazioni". Avellino: Sappe; manca l'acqua nel carcere di Bellizzi, nella notte la rivolta dei detenuti irpiniaoggi.it, 16 luglio 2015 Attimi di terrore questa notte nel carcere di Avellino, dove il Personale di Polizia Penitenziaria ha sedato sul nascere una sorta di rivolta che ha coinvolto tre o quattro celle del reparto Alta Sicurezza della Casa Circondariale. Ne da notizia il Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "La mancanza d'acqua sarebbe la causa scatenante. Un sovrintendente della Polizia Penitenziaria ha avuto la peggio ed è stato accompagnato d'urgenza con l'ambulanza al Pronto soccorso di Avellino per aver inalato fumi all'interno della sezione nella quale i detenuti hanno incendiato stracci imbevuti di olio e carta, bottiglie di plastica e bombolette vuote e dato fuoco creando una specie di cappa", spiega il segretario generale Sappe Donato Capece. "Il Sovrintendente, a cui va la nostra solidarietà, è accorso tempestivamente per evitare il propagarsi del fumo che, a causa delle già alte temperature climatiche, avrebbe sicuramente arrecato danni alla salute di altri detenuti che non hanno aderito alla protesta, nonché al Personale accorso immediatamente sul posto. Come detto, la mancanza d'acqua sarebbe la causa scatenante e sicuramente i detenuti fautori di detta protesta non hanno perso l'occasione per creare confusione e solo grazie al tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria si è potuto assicura l'ordine e la sicurezza". "Ad oggi la situazione sembra tranquilla", aggiungono il segretario nazionale Sappe Emilio Fattorello ed il segretario provinciale Sappe di Avellino Attilio Russo, "ma l'emergenza idrica che coinvolge la città di Avellino, un problema tecnico delle pompe idriche del penitenziario di Bellizzi Irpino, potrebbe compromettere ancora l'ordine e la sicurezza visto che qualche testa calda di detenuto avrebbe già giurato il ripetersi della protesta. Ci auguriamo un immediato intervento da parte delle autorità cittadine nell'auspicio che saranno presi provvedimenti da parte del Dap per assicurare l'immediato allontanamento di tutti i detenuti coinvolti nella vicenda in quanto non si escludono ulteriori e simili proteste". Modena: Sappe; risse tra detenuti, ancora caos e feriti al carcere di Sant'Anna modenatoday.it, 16 luglio 2015 Dopo gli episodi delle scorse settimane, quando alcuni agenti sono stati feriti, questa volta è toccato a due regolamenti di conti fra detenuti. La situazione nel carcere modenese resta esplosiva. Si susseguono - apparentemente senza sosta - gli episodi violenti fra le mura del carcere di Sant'Anna. Dopo le aggressioni agli agenti dei giorni scorsi, è ancora una volta il sindacato della Polizia Penitenziaria Sappe a dare notizia di due risse che si sono verificate a breve distanza l'una dall'altra e che hanno coinvolto alcuni detenuti, in evidente conflitto tra di loro. La prima ha coinvolto quattro detenuti, tre albanesi e un nigeriano, che si sono affrontati con oggetti vari ed armi improprie, tanto da dover successivamente fare ricorso alle cure dei medici dell'Ospedale. Non si conoscono, al momento, i motivi che avrebbero scatenato la lite. Un'altra rissa, con conseguenze meno gravi, si è verificata tra tre detenuti ristretti in un altro reparto. Si tratta di reparti tutti aperti, dove si applica la sorveglianza a distanza, senza la presenza degli agenti di Polizia Penitenziaria che sono intervenuti comunque prontamente. "La situazione nel carcere modenese è diventata ormai ingestibile - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale - proprio a causa del regime aperto nei reparti detentivi, senza la previsione di un reparto chiuso, dove contenere coloro che si rendono responsabili di gravi infrazioni disciplinari. Ormai i detenuti sono convinti di poter fare tutto ciò che vogliono. Ciò rappresenta sicuramente un fallimento per l'istituzione penitenziaria, poiché il mancato rispetto delle regole, da parte dei detenuti, costituisce un presupposto negativo per ogni ipotesi di recupero e reinserimento sociale". Nuoro: Uil-Pa; a Badu e Carros medico del carcere pestato da un detenuto nell'infermeria L'Unione Sarda, 16 luglio 2015 Brutale aggressione oggi nel carcere nuorese di Badu e Carros dove il dirigente medico è stato pestato da un detenuto all'interno dell'infermeria. A dare la notizia è il Coordinatore regionale della Uil penitenziari, Michele Cireddu. "L'aggressione è stata improvvisa - spiega il sindacalista, durante una visita medica il detenuto appartenente al circuito AS3 ha aggredito con dei violenti pugni al volto il Dirigente sanitario nel reparto infermeria, solo dopo alcuni minuti si è riusciti a bloccare l'azione violenta che poteva avere dei risvolti drammatici". Cireddu poi denuncia: "Purtroppo episodi come quelli segnalati si ripetono con troppa frequenza, di recente il Dipartimento dopo le sollecitazioni della UIL ha ribadito la necessità di allocazione dei detenuti responsabili di aggressioni agli operatori Penitenziari, in sezioni più stringenti. Nonostante questo, il Provveditorato della regione Sardegna non ha ancora intimato alle Direzioni di ottemperare alle disposizioni". Nuoro: "Nuova Jobia", è nata la prima compagnia teatrale stabile di Badu e Carros di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 16 luglio 2015 Nella Casa circondariale barbaricina nasce la prima compagnia teatrale stabile nei penitenziari della Sardegna. In principio era la trilogia di Pinter, Harold Pinter, tanto complesso quanto tosto. Poi arrivò l'assurdo Ionesco, Eugène Ionesco. E poi ancora l'immenso William Shakespeare. Così è nata "Nuova Jobia", la prima compagnia teatrale stabile di Badu e Carros. La prima nelle carceri della Sardegna riconosciuta dal ministero della Giustizia. Nata attorno a un laboratorio teatrale e a un educatore di prossimità (quello che una volta veniva chiamato educatore di strada). "Era il 2013" racconta Pietro Era, formato dal Gruppo Abele, ora a sua volta formatore, sempre al lavoro per conto dei Servizi sociali del Comune di Nuoro, ma anche regista, volontario, diventato direttore artistico di questa compagnia teatrale che mette insieme dieci detenuti e cinque "colleghe volontarie sempre con il sorriso nonostante i sacrifici enormi che fanno. Senza di loro non ce l'avrei fatta" sottolinea Era. Prestato dal Comune al penitenziario nuorese due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, più una da volontario, il sabato. "Avevamo cominciato nel gennaio 2013, a giugno è arrivata la firma del protocollo d'intesa tra l'amministrazione comunale e l'amministrazione penitenziaria". Giugno. Il mese del teatro: "Si lavora tutto l'anno, poi si va in scena a giugno, nel cortile esterno di Badu e Carros" va avanti l'educatore-regista nuorese che se necessario indossa anche i panni dell'attore. "Loro sì, i ragazzi, sono grandi attori" dice senza mai usare il termine detenuti. E quelli che per lui sono ragazzi, in realtà sono suoi coetanei, 56 anni, o trentenni o quarantenni. "Hanno dimostrato di essere grandi attori tanto che non hanno niente da invidiare agli attori professionisti. Hanno sviluppato una sensibilità che va ben oltre il professionismo". È risaputo, del resto, che i detenuti crescono di pari passo con la capacità comunicativa, necessaria. "Ora facciamo anche molta tecnica" spiega Pietro Era. "Con il teatro non puoi barare, ma ci si diverte molto". Proprio come è il significato del verbo inglese to play, ossia: recitare, suonare, giocare. I testi, le pièce, i personaggi sono sempre rielaborati, adattati, riletti, innestati con brani originali scritti e riscritti dagli attori della compagnia Nuova Jobia. Jobini, così si chiamano fra di loro. "Senza pensare troppo alla dizione, anzi! Mi piacciono le contaminazioni dialettali, il napoletano strettissimo, una bellezza estetica". "Mi piace operare in maniera orizzontale" sottolinea Era, lui che nei primi anni del Duemila fece esperienza teatrale con il gruppo Jobia. "Un nome che è piaciuto ai ragazzi di Badu ‘e Carros, e visto che avevamo iniziato di giovedì allora hanno deciso di chiamarsi Nuova Jobia" racconta il direttore artistico, protagonista con il resto della compagnia di quest'isola felice, nonostante i numerosi conflitti interni, "anello di congiunzione tra la società libera e quella chiusa". "È da ipocriti far finta che Badu e Carros non esista" chiude. Per questo non si stanca mai di ringraziare il Comune di Nuoro e le volontarie che lo seguono nella sfida, oltre che i detenuti, la direttrice Carla Ciavarella e l'amministrazione tutta. La favela dei rom: 450 persone costrette a vivere in tenda a 50 gradi di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti Il Manifesto, 16 luglio 2015 Parcheggiate nella tendopoli dopo essere state sgomberate dalla stazione. David e Marius frequentano il liceo scientifico di Cosenza. A scuola ottengono voti alti. Sono entrambi rom. Vanno su e giù per le spiagge delle coste calabresi, ma non sono in vacanza. Ogni mattina si alzano alle 5. Alle 7 sono già operativi insieme ai loro genitori: rivendono i prodotti che comprano all'ingrosso dai cinesi. Si alzano presto per necessità lavorative e per cause di forza maggiore. Nelle tende dell'accampamento in cui vivono da poche settimane, infatti, è difficile sostare, perché la temperatura interna supera i 50°. Sono in tutto 45, ognuna di 10 posti, cosa che rende impossibile ogni forma di privacy familiare. I fornelli per la cottura dei cibi sono 14 per 450 persone e funzionano in modo alternato, a causa della periodica mancanza di corrente elettrica. Alcuni fra i Rom hanno provveduto a modo loro, allestendo angoli di cottura estemporanei fuori dalla tendopoli, nell'area di parcheggio sottostante la stazione ferroviaria. Circa 150 i bambini, molti dei quali affetti da febbre e dissenteria. Ma in questa situazione può accadere di tutto: dal tifo alla salmonella e via dicendo. Nessuna possibilità di installare un frigorifero che permetta la conservazione di alimenti o medicinali specifici. I singoli nuclei familiari, sistemati al loro interno, sono poi separati semplicemente da un lenzuolo, cosa che rende impossibile ogni forma di intimità. La tendopoli dei Rom cosentini di Vaglio Lise è una piccola Korogocho di Calabria, una favela dove umanità e buon senso non albergano. Tutto è dettato da logiche securitarie ed emergenziali. Si ragiona con la pancia, non con il cervello: a seguito di una sentenza del Tar che ordinava lo sgombero dei locali della stazione ferroviaria dove i rom erano stati alloggiati dopo l'incendio della primavera 2014, quasi 500 persone, parte delle quali provenienti dalla vicina baraccopoli rasa al suolo, sono state deportate e parcheggiate, senza formale preavviso, in un'area sottoposta a quotidiana sorveglianza a motivo di una loro presunta pericolosità. Le associazioni (Sentiero Non Violento, San Pancrazio, Scuola del Vento, Ercolino Cannizzaro, Lav Romanò, Moci, La Spiga, Amnesty International, Piccole Sorelle di Gesù, Circolo Culturale Popilia, Ambulatorio senza confini "A. Grandinetti" - Auser e La Kasbah) inveiscono con rabbia contro il Comune: "La tendopoli è recintata e vigilata quotidianamente dalla polizia municipale, ed è attrezzata con apposite telecamere adibite al controllo di ogni attività". Insomma, una prigione a cielo aperto, "dove si contravviene ad ogni indicazione governativa che invita, in questa estate torrida, a tutelare la salute con accorgimenti precauzionali opportuni e tempestivi. E invece le brandine fornite sono simili a quelle da spiaggia, le docce erogano per buona parte della giornata solo acqua fredda". D'altronde, l'assunzione dello stato d'emergenza è un classico nella gestione della questione Rom. Così come la collocazione dei campi in "non luoghi", in prossimità di frontiere, vicino ai cimiteri, accanto a stazioni, nei pressi di discariche, tra gli svincoli di autostrada. L'escamotage di chiamare i campi "zone di transito", come anche nel caso della tendopoli di Vaglio Lise (che il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto (Fi) ha definito "una soluzione provvisoria") risponde a pieno al presunto, e mai dimostrato, luogo comune sul nomadismo dei Rom: "Se sono nomadi girano; se girano, non sono legati a un territorio, per cui possono ben vivere in roulotte, container e tende". Sul presunto carattere "temporaneo" di questa sistemazione, emergono le maggiori perplessità delle associazioni antirazziste. Se infatti si confermasse la linea di totale immobilismo mantenuta in questi anni dai locali uffici preposti ai servizi sociali ed alla salute, è chiaro che la situazione odierna è destinata a divenire definitiva, a meno che nei piani di prefettura e digos non sia già prevista una nuova raffica di espulsioni su base etnica, che riproporrebbe uno strumento già sperimentato nel 2009 a Cosenza. All'epoca furono i tribunali a bloccare i fogli di via, rilevando una serie di vizi procedurali. La procura aprì pure un fascicolo per invasione di suolo pubblico, non solo a carico degli occupanti rom. Pare ci fosse pure un capitolo riservato alle responsabilità di quanti, all'interno delle istituzioni, non fecero il proprio dovere in termini di accoglienza e controllo del territorio. Ma di quel capitolo non si parla più, nelle stanze del tribunale di Cosenza. Negli anni successivi sono cadute nel vuoto tutte le proposte avanzate dal mondo dell'associazionismo. Le autorità locali hanno ignorato l'Agenda Rom, un corposo documento condiviso all'unanimità dagli abitanti del villaggio di lamiere e cartone sorto sul fiume Crati che indicava le possibili tappe per giungere senza traumi al superamento della baraccopoli. Intanto negli ultimi giorni centinaia di rom tra quelli sgomberati, in totale autonomia, hanno provveduto a trovare case e mansarde in affitto. Numerose le famiglie alloggiate nel centro storico e in periferia. Il nucleo più consistente si è insediato a Bisignano, in provincia di Cosenza, dove da anni decine di migranti vivono perfettamente integrati con la popolazione locale, al riparo dalla spettacolarizzazione negativa che scaturisce dalla propaganda xenofoba dei media mainstream. Cannabis, se è legale fa meno male di Massimo Russo La Stampa, 16 luglio 2015 Diceva Victor Hugo che "Niente è più forte di un'idea il cui tempo sia venuto". Per la proposta di legge di legalizzazione della cannabis presentata alla Camera da 220 parlamentari di diversi schieramenti, questa potrebbe davvero essere la volta buona. Di regolamentare l'uso delle droghe leggere in Italia si parla da molto tempo, fin dalle battaglie radicali sull'antiproibizionismo degli Anni 70. Non è un caso se il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova e il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, due tra i nomi di spicco dei 220, provengono da quella diaspora. Ma, a differenza dal passato, oggi esistono evidenze che permettono di sgombrare il campo dalle considerazioni ideologiche. Non per sostenere che le droghe leggere non facciano male, questione pacifica. Ma perché - in un'ottica di riduzione del danno - è dimostrato che la legalizzazione è la strategia più efficace per affrontare il problema. Una consapevolezza fatta propria anche dalla Direzione nazionale antimafia. I numeri presentati lo scorso febbraio nella relazione annuale dal procuratore nazionale Franco Roberti, mostrano "un'eccezionale espansione dei consumi di hashish". Tra 2013 e 2014, si legge nel rapporto, i sequestri di cannabis sono aumentati del 120%, per un totale di 147 tonnellate, "un picco che appare altamente dimostrativo della sempre più capillare diffusione di questo stupefacente". Secondo le stime i sequestri riguardano tra il 5 e il 10 per cento di quanto consumato. Il che porta a dire che esiste un mercato tra le 1500 e le 3000 tonnellate. Una quantità equivalente a 25/30 grammi pro-capite, vecchi e bambini inclusi. Oltre 100 dosi l'anno per ogni cittadino italiano. Dati che, commenta la Direzione antimafia, dimostrano "il totale fallimento dell'azione repressiva". E, poiché non è "pensabile né auspicabile" impegnare ulteriori mezzi e uomini, conclude la relazione, "spetterà al legislatore valutare se sia opportuna una depenalizzazione della materia". Ma che succede dove l'approccio è differente? Non molto lontano da noi, in Portogallo, dal 2001 esiste una legislazione che ha decriminalizzato il consumo di stupefacenti, spostando il 90% della spesa pubblica dalla repressione al trattamento delle dipendenze. Ciò ha portato a dimezzare i tossicodipendenti, mentre i decessi sono calati dell'80%: tre persone ogni milione di abitanti, contro una media europea di 17,3. Un vento diverso soffia ormai anche negli Stati Uniti. Barack Obama qualche giorno fa ha promulgato un provvedimento di clemenza nei confronti di 46 persone detenute per reati di droga, mentre la sua amministrazione ha da poco reso più semplice la ricerca scientifica sulla marijuana a scopo terapeutico. In quattro stati - Alaska, Colorado, Oregon, Washington - e nel distretto amministrativo della capitale, oggi la cannabis è legale. In Colorado, dove il consumo è regolamentato dopo un referendum del 2012, un anno e mezzo fa sono stati aperti i primi negozi. I dati: il consumo tra gli studenti delle scuole superiori è leggermente calato, il commercio di droghe leggere e dei loro derivati come olii e alimenti ha totalizzato un giro d'affari legale di 700 milioni di dollari, con la creazione di 16mila posti di lavoro. I ricavi da tassazione sono stati di 76 milioni nel 2014 e supereranno i 90 quest'anno, reinvestiti in forze dell'ordine e nella costruzione di scuole. Si stima che il mercato illegale riguardi ancora il 60% del consumo, ma di sicuro le sue dimensioni si sono ridotte. Certo, gli effetti andranno valutati nel lungo periodo, ma ce n'è già abbastanza. Come ha dichiarato il mese scorso all'Economist César Gaviria, che da presidente della Colombia negli Anni 90 guidò la lotta ai narcotrafficanti e non è dunque sospettabile di intelligenza con il nemico, "il mondo si sta muovendo verso la regolamentazione invece del proibizionismo. Si tratta di abbandonare qualcosa che non ha funzionato". "Cannabis libera, ma mai all'aperto", battaglia sulla proposta di legge di Tommaso Ciriaco la Repubblica, 16 luglio 2015 Testo bipartisan di 218 parlamentari. No dei centristi. Salvini: "La prostituzione non fa male, la droga sì". Canne libere e polemiche. La campagna per la legalizzazione della marijuana parte ufficialmente da Montecitorio. Dopo mesi di trattative, duecento diciotto parlamentari sottoscrivono il disegno di legge per regolarizzare la vendita della cannabis. Una pattuglia trasversale e agguerrita. Tra loro, sessantacinque dem, un centinaio di grillini, l'intero gruppo di Sel, qualche centrista e pure due berlusconiani di estrazione liberale: Antonio Martino e Monica Faenzi. Un attimo dopo la conferenza stampa dell'intergruppo guidato da Benedetto Della Vedova, però, l'area di governo si spacca. Con il Nuovo centrodestra che avverte Palazzo Chigi: "È inaccettabile procedere con maggioranze trasversali". Il progetto propone un'autentica rivoluzione nella galassia delle droghe leggere. Con la nuova legge, i maggiorenni potranno possedere tra le quattro mura domestiche fino a quindici grammi di cannabis per uso ricreativo (solo cinque grammi fuori dal proprio domicilio), mentre le canne continueranno a essere off limits per i minorenni. E sempre a casa sarà possibile coltivare - non venderne il "raccolto", però - fino a cinque piantine di marijuana, a patto che si comunichi il possesso all'ufficio dei Monopoli. Il vero colpo grosso degli antiproibizionisti è però un altro. Il ddl dell'intergruppo parlamentare introduce la vendita al dettaglio. Veri e propri negozi, con tanto di licenza. Un'impresa commerciale, insomma, con un ciclo che parte dalla coltivazione, passa per la lavorazione autorizzata dai Monopoli e si conclude dietro al bancone del coffee-shop. Vietato pero l'import-export della sostanza, così come il consumo di marijuana in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Come fumare liberamente, allora? In poltrona nella propria abitazione, oppure iscrivendosi a un "Cannabis social club", un'associazione senza fini di lucro. Cinquanta associati, duecentocinquanta piantine e la comune passione per le canne. Con il provvedimento si punta anche a favorire la prescrizione dei farmaci a base di cannabis. Tra i divieti, invece, resta in piedi quello della guida in stato di alterazione da marijuana. Quanto ai proventi della legalizzazione, il 5% sarà destinato a finanziare il Fondo nazionale per la lotta alla droga. La trasversalità della proposta è la forza e insieme il rischio del progetto dell'intergruppo dell'ex radicale Della Vedova. Il sogno è di avviare alla Camera la discussione in commissione prima della pausa estiva. Difficile però convincere i centristi governativi della bontà dell'operazione, impossibile conquistare il blocco di destra che si oppone al via libera alle canne. E infatti le resistenze del Nuovo centrodestra non tardano ad arrivare, per bocca di Maurizio Lupi: "La legalizzazione? Per quanto mi riguarda se la possono scordare". Gli argomenti sono già noti e tocca comunque al capogruppo alfaniano ribadirli: "Nessuno ci assicura che l'accesso facile alle sostanze cosiddette "leggere" scongiurerebbe il salto verso le droghe più pesanti". Poi arriva la minaccia contro l'esecutivo, anche se per adesso solo implicita: "Non è pensabile che su tematiche che hanno evidenti implicazioni sociali ed etiche si proceda a strappi, cercando maggioranze trasversali che non saranno mai quella che sostiene il governo". Anche Pino Pisicchio, presidente del Misto, si preoccupa: "Il Parlamento si esprima liberamente, ma attenzione a non trascurare la tutela dei minori". Mettono agli atti la propria contrarietà anche Fratelli d'Italia e la Lega. Con Matteo Salvini che azzarda un parallelo bizzarro: "Personalmente sono favorevole alla legalizzazione della prostituzione. Fino a prova contraria il sesso non fa male, la cannabis sì". Guinea Equatoriale: Roberto Berardi è libero, ma altri 5 italiani sono bloccati in carcere di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 16 luglio 2015 A processo un gruppo di lavoratori nell'edilizia: sono accusati di truffa, estorsione e riciclaggio. Rischiano un calvario come quello di Roberto Berardi, scarcerato martedì dopo 30 mesi in cella. Ci sono altri cinque italiani che rischiano una lunga, infernale detenzione in Guinea Equatoriale. La loro storia somiglia moltissimo a quella di Roberto Berardi, tornato a casa martedì dopo essere stato per 30 mesi nel carcere di Bata, nel Paese centro-africano, in condizioni disumane, accusato di truffa dopo uno screzio con il figlio del Presidente-dittatore Theodoro Obiang. Ieri si è aperto il processo, anche questa volta apparentemente pretestuoso, che si prevede lungo, complesso e dall'esito incerto per Fabio e Filippo Galassi, Daniel e Fausto Candio e Andrea. Tre di loro sono già nelle carceri di Bata, mentre agli altri due sono stati ritirati i passaporti e messi ai domiciliari. Sono tutti e 5 romani, arrivati in Guinea in cerca di fortuna nel settore edile. Il dramma della famiglia Galassi inizia nel 2010, quando Fabio, uno dei tanti cinquantenni cassaintegrati italiani, con un passato di amministrativo in varie aziende edili della Capitale, grazie d un passaparola viene a sapere di un'opportunità di lavoro nel Paese africano. Servono soldi e nuovi stimoli, non ci pensa due volte e va. Ignaro di quello che gli succederà cinque anni dopo. Entusiasmo a mille, affari a gonfie vele, tanto da chiamare il figlio Filippo (24 anni) e convincerlo a raggiungerlo. Ma la General Work, la ditta per cui lavora, non è un'azienda qualsiasi. È stata fondata da Igor Celotti, un imprenditore friulano, morto nel 2007 in un incidente aereo mentre si trovava nel Paese. Un caso mai chiarito, dato che il pilota ne uscì indenne. Ora la società è guidata dalla moglie, e fonti interne ai servizi hanno fatto trapelare che la regia sarebbe stata del presidente Obiang, che sospettava Celotti di aver finanziato i suoi oppositori politici. Da allora, il 45% della società è nelle mani del padre-padrone del Paese con cui bisogna scendere a patti per ottenere i grandi appalti pubblici. Un elemento essenziale ignoto alla famiglia Galassi. E Dopo Fabio e il figlio Filippo, arrivano anche Daniel Candio (24), migliore amico di quest'ultimo e il padre Fausto (55). Si buttano a capofitto nella costruzione di Oyala, una città futuristica nel mezzo della foresta, voluta dal dittatore Obiang per trasferire i 720 mila abitanti del Paese dalla costa all'interno. Un decisione presa dopo l'uragano Katrina, che nel 2005 aveva devastato New Orleans e impressionato il presidente. Obiang temeva che lo stesso potesse ripetersi in Guinea e pensava così di "mettere in salvo" i suoi cittadini. Ma dopo pochi anni la crisi petrolifera comincia a pesare sulle casse pubbliche e i fondi per la costruzione della città vengono congelati. I quattro italiani, raggiunti intanto da un quinto, Andrea, non ricevono più gli stipendi. A cascata anche i lavoratori locali alle loro dipendenze non vengono più pagati. Lo scorso 21 marzo alcuni operai della General Work si appostano nei pressi della casa dei Galassi e li vedono uscire con delle valigie. Credendo siano piene di soldi chiamano la polizia che, quasi miracolosamente, si trovava già sul posto. Una volta in commissariato gli agenti notificano che le valigie non avevano denaro, ma con uno stratagemma li arrestano andando a prendere anche gli altri tre colleghi italiani. Ingenui? Inesperti? Davvero colpevoli? Più probabilmente uno schema che li vede come capri espiatori di una crisi che crea malcontento. In ogni caso "i loro diritti sono già stati violati e vanno tutelati", spiega Andrea Spinelli Barrile, giornalista freelance che da tempo lavora sulla delicata vicenda con Amnesty International. Gran Bretagna: 239 morti in un anno, le prigioni dove neanche un cane dovrebbe entrare di Ivano Abbadessa west-info.eu, 16 luglio 2015 Violenza, mancanza di personale, sovraffollamento e celle nelle quali "non si vorrebbe tenere neanche un cane". Non stiamo parlando delle prigioni di un paese del Terzo Mondo, bensì della drammatica situazione in cui versano nientedimeno che le carceri d'Inghilterra e Galles. Che, secondo l'ispettore capo delle prigioni di Sua Maestà, hanno raggiunto il loro livello peggiore degli ultimi 10 anni. I dati mostrano che 239 reclusi sono morti dietro le sbarre lo scorso anno: il 29% in più rispetto a cinque anni fa. C'è stato anche un aumento costante di episodi di autolesionismo. Mentre gli assalti al personale sono saliti del 28% rispetto al 2010. Tra le varie misure da adottare l'Ispettore propone pene alternative alla detenzione che devono essere considerati se si vuole far calare la popolazione carceraria che attualmente è pari a oltre 86mila detenuti. Stati Uniti: oggi visita di Obama in un carcere, la prima di un presidente Askanews, 16 luglio 2015 Per denunciare un sistema tra i più costosi e affollati al mondo. Barack Obama visiterà oggi il carcere El Reno, in Oklahoma, diventando il primo presidente americano in carica a recarsi in una prigione degli Stati Uniti. Il suo obiettivo è puntare i riflettori sulle falle di un sistema carcerario fra i più costosi e i più affollati al mondo, davanti anche a quelli di Cina e Russia. Con 2,2 milioni di prigionieri in tutto il Paese, gli Stati Uniti tengono dietro le sbarre più uomini e donne di 35 Paesi europei messi insieme: un quarto della popolazione carceraria mondiale è concentrata nelle carceri americane mentre gli Stati Uniti rappresentano solo il 5% della popolazione mondiale. "Il tasso di carcerazione è quattro volte più alto di quello della Cina", ha denunciato il presidente. La prima causa di tali numeri è la durata delle pene. Secondo Human Rights Watch, le leggi adottate a partire dal 1980 per garantire "più severità contro la criminalità" hanno riempito le prigioni federali e statali di delinquenti in maggioranza non violenti. "Le pene carcerarie di questo Paese sono molto più lunghe di qualsiasi altro Paese", ha confermato Michele Deitch, professore di diritto dell'Università del Texas secondo cui è giunto il momento "di riconoscere che non è la stessa cosa essere coinvolto in una rissa in un cortile della scuola (...) o essere responsabile di un omicidio collettivo". Lo stesso Obama ha più volte criticato pene "sproporzionate rispetto ai reati", come nel caso dei piccoli trafficanti di droga che vengono condannati a lunghi anni di carcere. "In troppi casi, la punizione semplicemente non corrisponde al crimine - ha detto il presidente - se sei un piccolo trafficante di droga o se violi la libertà vigilata, tu devi pagare il tuo debito con la società, devi essere ritenuto responsabile e pagare una multa, non avere 20 anni, non devi passare la tua vita in carcere". Nelle carceri Usa sono detenuti quasi 71.000 minorenni e Obama ha anche denunciato spesso come gli afroamericani abbiano "maggiori probabilità di essere arrestati e di esseri condannati a pene più pesanti rispetto ai bianchi per gli stessi reati". I neri e gli ispanici rappresentano infatti il 60% della popolazione carceraria, mentre sono solo il 30% della popolazione degli Stati Uniti. Un nero su 35 e un ispanico su 88 sono in carcere, contro un bianco su 214, e un bambino nero su nove ha il padre in prigione, ha denunciato Obama. L'incarcerazione di massa costa anche 80 miliardi di dollari l'anno, pari a un terzo del bilancio del ministero della Giustizia, e ogni Stato spende in media un miliardo di dollari l'anno per i centri detentivi. Questo non impedisce però che le condizioni di detenzione peggiorino: una ricerca condotta dall'Università Columbia Journalism ha riferito della presenza di parassiti, di scantinati allagati, della mancanza di servizi sanitari in alcuni penitenziari dell'Illinois, di dormitori affollati, con persone detenute solo perché avevano guidato con la patente scaduta. Stati Uniti: in California i carcerati spengono gli incendi boschivi, risparmi per 80 milioni di Andrea Indiano Il Giornale, 16 luglio 2015 Il governo della California ha risparmiato circa 80 milioni di dollari in tasse ai cittadini. Inoltre le sezioni dei pompieri possono sopperire alla cronica mancanza di personale. La California ha due grandi problemi: gli incendi e il sovraffollamento delle carceri. Negli ultimi tempi, complice la siccità più duratura che si ricordi e l'incremento della disoccupazione nei ceti poveri della popolazione, le due questioni hanno visto crescere ancora di più il loro peso sulla politica sociale ed economica dello stato americano. Senza piangersi addosso o scervellarsi troppo in soluzioni burocratiche e perditempo, il governo californiano ha fatto la cosa più logica che si potesse pensare: mettere i carcerati a spegnere gli incendi. Abituati spesso da questa parte dell'oceano a politici e forze dell'ordine un po' troppo assuefatti a burocrazia e lungaggini amministrative, risulta quasi difficile concepire la semplicità della decisione presa dallo sceriffo della contea di Los Angeles e dai sindaci locali. Ad alcuni dei meno pericolosi carcerati della California viene data la possibilità di imparare un lavoro e di aiutare la comunità. Dotati di ascia e uniforme, i detenuti si occupano di liberare campi e montagne o di arginare i luoghi considerati più a rischio. Per questo lavoro ricevono anche una paga di 1 dollaro all'ora, oltre alla possibilità di lasciare la prigione durante la giornata. "Lavorano al fianco dei vigili del fuoco e da loro imparano le basi del mestiere - spiega il capitano Jorge Santana del Dipartimento di riabilitazione della California - durante l'estate può capitare che dormano anche all'aperto per coprire turni di 24 ore. Mettono a rischio le loro vite per proteggere gli altri cittadini". Altri stati degli Usa hanno progetti simili, ma quello della California è il più diffuso. Circa quattromila i detenuti, fra uomini e donne, che hanno preso parte al progetto negli ultimi anni. Si tratta di volontari che una volta venuti a conoscenza di essere arruolabili per questo impiego, possono decidere di accettare o meno. È molto difficile che qualcuno rinunci e finora in pochissimi hanno tentato di fuggire una volta giunti al campo. "Scaliamo le montagne con 45 chili di attrezzatura sulle spalle, ma il tempo scorre via così velocemente che è un piacere" ha detto uno dei detenuti coinvolto nel programma. Possono entrare a far parte del progetto i carcerati che stanno scontando una pena fra uno e otto anni e che non siano dentro per omicidio, incendio doloso, rapimento e crimini sessuali. I casi di furto e rapina vengono considerati di volta in volta. Il governo della California ha stimato che in questo modo ha fatto risparmiare circa 80 milioni di dollari in tasse ai cittadini dello stato. Inoltre grazie a tutto ciò le sezioni di pompieri possono sopperire alla cronica mancanza di volontari che affligge le centrali soprattutto durante l'estate, quando il rischio di incendi è più alto. "Non posso comunicare dati ufficiali, ma so per certo che alcuni dipartimenti di vigili del fuoco hanno assunto ex detenuti che avevano preso parte al programma" rivela Santana. Messico: diffuso video dell'evasione del boss El Chapo, era sorvegliato a vista 24 ore su 24 Agi, 16 luglio 2015 Le autorità messicane hanno diffuso un video dell'audace evasione dal carcere di Joaquin "El Chapo" Guzman, il boss del narcotraffico fuggito domenica da un penitenziario vicino a Città del Messico. Le immagini di due minuti riprese dalle due telecamere a circuito chiuso, monitorate 24 ore su 24 dalle guardie, lo mostrano mentre passeggia nervosamente in cella, andando più volte dal bagno al letto e viceversa. Un comportamento che le autorità giudicano normale per chi è confinato in uno spazio ristretto e che quindi non poteva destare allarme. Poco dopo, non ripreso, Guzman si infila nel buco del diametro di mezzo metro scavato dietro la doccia da cui ha raggiunto la galleria lunga un chilometro e mezzo percorsa con una moto incardinata su binari che lo ha reso nuovamente libero. Non si vede nemmeno il momento in cui il 58enne boss si sfila il braccialetto elettronico di sorveglianza. Una telecamera si trovava all'angolo di una parete esterna alla cella e l'altra all'interno puntata verso la doccia, ma avevano due punti ciechi per rispettare la privacy del detenuto. Un'imprudenza che è fra i motivi alla base del licenziamento del direttore dalla prigione di massima sicurezza di Altiplano. Il governo messicano, in evidente imbarazzo per la seconda evasione del Chapo in 14 anni, ha offerto una taglia di 60 milioni di pesos, pari a tre milioni e 400 mila euro. Il 58enne "El Chapo", soprannome che viene da "chaparro", bassotto, per via del suo metro e 64 di altezza, era già evaso nel 1993 dalla prigione di Guadalajara nascosto tra la biancheria sporca, dopo aver corrotto le guardie carcerarie. In pochi anni era arrivato a dominare il traffico di droga verso gli Usa e nel 2009 era stato inserito nella lista degli uomini più ricchi del mondo di Forbes con un patrimonio stimato in un miliardo di dollari. Dopo che sulla sua testa erano state messe taglie da 5 milioni di dollari dagli Usa e di 2 milioni dal Messico, Guzman era stato arrestato nuovamente nel febbraio 2014 in un hotel di Mazatlan, sulla costa pacifica del Messico, con un blitz delle autorità messicane e dei servizi segreti Usa.