Carcere, figli e sofferenza Il Mattino di Padova, 13 luglio 2015 Una grossa insufficienza che ha il sistema penitenziario italiano riguarda il tema degli affetti. Seduti a scrivere questo testo siamo in due, Gaetano e Lorenzo, e accumulando i nostri anni di detenzione, arriviamo a circa 40 anni di vita carceraria. Vogliamo precisare questo perché crediamo fortemente che solo le nostre esperienze detentive potranno far capire al lettore di quanto siamo stati privati nei nostri affetti più cari. Gaetano: "Era il 2001, mi ritrovavo ristretto al carcere di Cuneo, nel regime di 41 bis. Arrivavo dai circuiti di alta sicurezza, dove i colloqui si effettuavano in salette allestite con tavoli e sedie da giardino. Svolgendo dei colloqui con queste modalità avevo la possibilità di fare gesti che qualsiasi genitore fa difronte a un proprio figlio in tenera età, potevo tenere mia figlia in braccio, portarle dei piccoli giocattoli per passare un'oretta assieme a giocare, avevo un contatto fisico, diretto con la persona che amo. In quei pochi momenti riuscivo anche a trasmettere sicurezza e serenità per affrontare le difficoltà che una lunga carcerazione comporta. Ero presente, per poco, ma ero presente! Era un giorno del mese di luglio quando la guardia mi disse "Fiandaca deve andare in matricola". In quei brevissimi attimi pensai a diverse cose, nuovi mandati di cattura, qualche rigetto a istanze, o anche qualche consiglio disciplinare visto che la mia condotta non era delle migliori, ma arrivato nell'ufficio matricola mi ritrovai difronte il vertice della direzione penitenziaria. Mi furono dette poche parole, poche ma pesanti come macigni: "Fiandaca deve firmare la notifica dell'applicazione al 41 bis". Rimasi scioccato, continuavo a ripetermi perché a me, alla fine non avevo un passato da mafioso o altro che mi potesse condurre in queste sezioni. Era inutile chiedere spiegazioni a loro, non mi avrebbero detto niente. Mi spiegarono solamente che questo regime doveva essere applicato immediatamente, quindi questo voleva dire che sarebbero saliti nella mia cella e mi avrebbero tolto tutto quello di cui non potevo più beneficiare, fornello, un lettore cd per la musica, pentole e tante altre cose. Fecero la perquisizione alla cella, e una volta finito mi fecero entrare e mi chiusero sia il cancello che il blindo, assicurandosi di chiudere anche il piccolo spioncino. Non potevo più avere uno scambio di parole con i detenuti che fino a quel giorno erano i miei compagni. Lo spioncino mi veniva aperto solo in tarda serata per far circolare un filo d'aria. Non voglio soffermarmi sulla sofferenza che passai in quel periodo, voglio narrare la sofferenza di persone che non c'entravano niente con quello che avevo fatto io, la mia famiglia! Primo colloquio con mia figlia Gaia. Aveva due anni e mezzo, e non dite che essendo piccola non capiva, queste cose segnano i nostri figli, li segnano al punto che mia figlia oggi ha 17 anni e mezzo e non riesce più a entrare nel carcere per trovare suo padre. Provate a immaginare vostra figlia di qualche anno, presa in braccio durante il colloquio da un estraneo lasciandosi alle spalle la madre, fare una decina di metri assieme a questa persona, che la porta in uno stanzino, la appoggia vicino a uno sgabello e se ne va. Una bambina di pochi anni chiusa in una stanza da sola ad aspettare il proprio padre. È umanità? Poi arrivavo io, la raccoglievo subito da terra e la tenevo stretta a me, Gaia continuava a ripetermi "Ma la mamma è di là?", ripeteva in continuazione queste parole. Tutta questa tortura durava dieci minuti. Poi stessa scena, ma questa volta ero io che dovevo voltare le spalle a mia figlia e lasciarla nello stanzino sola, ad aspettare il solito uomo estraneo che la riconducesse da sua madre. Cosa c'era di male se mia figlia me l'avesse portata mia moglie con il controllo di una guardia? Oggi mia figlia la posso vedere una volta ogni sei mesi, fuori dal carcere, ma sempre scortato dalla polizia penitenziaria, perché lei non riesce più ad entrare, e non solo ad entrare, non riesce neanche a vedere la struttura carceraria dal di fuori, si è chiusa in se stessa, è poco comunicativa, non socializza come dovrebbe fare una normalissima ragazza di 17 anni, ha sempre il timore che qualcuno le parli di qualcosa che le possa ricordare il carcere. Voglio fare una domanda a voi che siete dietro a queste mie righe, cosa ha fatto Gaia per avere questo trauma che si porterà a vita? Non credo che esistano risposte oltre a "niente". Non esistono giustificazioni al male che ho commesso io con i miei reati, ma scuse non ne hanno neanche le istituzioni nei confronti del male che hanno rivolto alla mia famiglia. Situazioni come la mia sono sempre presenti, anche in questo momento che vi scrivo. Ci sono figli traumatizzati e che lo rimarranno per sempre, non avranno più la possibilità di una vita sociale normale per conseguenze che esulano da una loro responsabilità, l'unica colpa è di amare il proprio padre, è giusta una condanna di questo genere?". Lorenzo: "Gaetano ha passato la palla a me. Ho anche bei ricordi nella mia vita, ricordi di attimi di vera gioia, ma per cercare di far comprendere come funziona oggi il sistema penitenziario italiano, bisogna scavare nei ricordi più brutti che abbiamo… Io ho avuto un padre carcerato nei miei primi dieci anni di vita, e andavo a trovarlo settimanalmente, per un'ora, con mia madre. Sono quasi indescrivibili le emozioni di gioia e tristezza che provavo. L'immensa gioia la provavo nel momento in cui potevo appendermi al suo collo saltando il bancone con sopra un vetro divisorio, anche se immediatamente un agente penitenziario era pronto a sbattere delle chiavi contro un vetro per attirare l'attenzione verso di lui per poi mimare, con dei cenni, che quei gesti d'affetto non erano consentiti. L'enorme tristezza era dovuta a quella sensazione di abbandono che provavo ogni volta che dovevo voltare le spalle a mio padre per uscire dal carcere. Non volevo mai lasciarlo. Dei miei primi anni di vita, mia madre mi raccontava di forti scenate, grossi pianti e strilli. Sforzandomi mi ricordo la sua voce continuare a ripetermi che non potevamo stare lì. Forse ci sono stati anche momenti in cui addossavo la colpa a mia madre che mi portava via da mio padre, ma crescendo capii tutta la sofferenza che provava anche lei nel voltargli le spalle. Di mio padre ho ricordi molto frammentati, lui sempre ben vestito dietro al bancone, l'immagine del suo volto tutto aggrottato ogni qualvolta l'agente lo riprendeva anche per una carezza sul volto di mia madre, i suoi sorrisi distesi sul suo viso, anche quando io e mia madre eravamo costretti a lasciarlo. Non ho mai lasciato mio padre con un'espressione di tristezza sul suo volto, mi faceva sempre l'occhiolino, quello era il suo ultimo saluto in lontananza. Poi crescendo ho iniziato a capire, a capire che io e mia madre non avevamo fatto nulla di male per vivere quell'uomo in quella maniera così crudele, lui che in modi diversi era la nostra vita, lo amavamo. Scoprendo la nostra innocenza era inevitabile chiedermi perché dovevo assistere a pianti nascosti di mia madre dietro a delle lettere, o anche pianti mentre eravamo fermi alla fermata dell'autobus all'uscita del carcere. Iniziai a dirmi che erano loro, erano quelle persone vestite tutte uguali a far soffrire la mia famiglia, le "guardie", e crescendo scoprii che le guardie rappresentavano le istituzioni. Così, inconsapevolmente, ho iniziato a darmi degli alibi scegliendo la via della vita delinquenziale. Sono stato padre, "sono stato" perché mio figlio è mancato nel 2009, aveva 13 anni. I suoi primi anni li ho vissuti dietro allo stesso bancone e nello stesso carcere in cui ho conosciuto mio padre. Tutto si ripeteva, l'unica diversità è che ero nei panni di mio padre. Stesse scene, stesso rumore di chiavi sbattute su vetri, stessi pianti, urla, strilli di sofferenza di mio figlio. È difficile ricordare quelle grosse lacrime che scorrevano sul volto innocente di mio figlio, gli occhi tutti rossi e la sua bocca spalancata invocando la parola papà ogni volta che era costretto ad uscire in braccio alla madre. Gli sorridevo in lontananza, gli facevo l'occhiolino, ma dentro di me ero distrutto, perché lui doveva soffrire? Io avevo sbagliato, io ero il colpevole, non lui. Quando a mio figlio fu diagnosticato un tumore, aveva otto anni, ed ero al carcere di Alba. Il giorno del colloquio scesi nella saletta con una confezione di ovetti Kinder, lui faceva la collezione di animaletti che si trovavano al loro interno, ma quando entrai nella sala lui non c'era, c'era mia madre con la mia compagna. Ancora prima di avvicinarmi e senza salutarle chiesi dov'era Salvatore, mi rispose mia madre dicendomi di sedermi. Mi sedetti guardando la mia compagna e chiedendole cos'era successo. Mi batteva forte il cuore, l'espressione che aveva sul volto era di una donna che non dormiva da giorni. Iniziai ad innervosirmi, ad arrabbiarmi, avevo paura di sentire quello che avevano da dirmi. Le prime parole furono di mia madre "stai calmo figlio mio", dopo qualche secondo di pausa continuò a parlare lei "a Salvuccio hanno diagnosticato un tumore…" ma io non capivo, non sentivo, quelle sue prime parole continuavano a ripetersi nella mia testa. Iniziai a sentire gli occhi pesanti, cercai però di trattenere le lacrime, ma quando sentii la parola "chemioterapia" non resistetti. Non potevo credere che mio figlio, un bambino così solare, pieno di vivacità, intelligente, potesse avere un male di questo genere. Iniziai a chiedere se potevano essersi sbagliati i medici, non mi fu detto no a voce, ma sia mia madre che la mia compagna abbassarono la testa, voleva dire che sbagli non ce n'erano. Mia moglie iniziò a piangere, mi alzai e la cercai con le braccia dietro al bancone, ci abbracciammo e subito il solito rumore di chiavi si scagliò in quel momento di dolore. Mio figlio lo rividi dopo quattro mesi, e una volta a settimana potevo sentirlo al telefono per dieci minuti. La direzione mi aveva concesso di tenerlo al di là del bancone, l'importante era che dovevo tenerlo in braccio senza farlo andare in giro, fu una precisazione che potevano anche evitare di fare, mio figlio non l'avrei mai lasciato andare da nessuna parte, sarebbe stato sempre sulle mie gambe. Quando lo vidi indossava un cappellino, mi sorrise in lontananza, ma non riuscii a trattenere la commozione, come in questo momento. Lo presi in braccio, sui lati della sua testa potevo intravedere i capelli rasati e con piccole macchioline di pelle dove non c'era traccia di crescita dei capelli, non glielo tolsi, forse perché non avrei resistito a tutta quella sofferenza. A distanza di anni, la settimana scorsa, mi è stata spedita una sua fotografia, non ho mai volute sue foto in carcere, forse per una mancanza di coraggio nel vedere quel volto che aveva la stessa fisonomia di mio padre e gli occhi di mia madre. Quando l'ho fatta vedere a una persona a me cara ha iniziato a farmi domande normali, tipo quanti anni aveva in quella foto. Le risposi otto, ma forse non aveva otto anni, forse erano sette. Quello che voglio cercare di dirvi è che mio figlio l'ho vissuto a momenti, pochi attimi e ho gli stessi scatti di immagini che avevo vissuto con mio padre. Non è giusto, come non è giusto se penso a tutti i reati che ho commesso, ero una persona irresponsabile, e forse anche cattiva a vostro giudizio, ma mio figlio non meritava di andarsene con pochi ricordi di suo padre, lui non meritava tutta la sofferenza che gli è stata inflitta da un sistema penitenziario che, dando una sanzione per i crimini di cui mi sono reso responsabile, coinvolge anche persone innocenti come i nostri figli trattandoli inutilmente con poca umanità". Noi detenuti speriamo che lo sforzo che c'è dietro ad ogni nostro scritto venga compreso, perché altrimenti sarebbe come banalizzare una sofferenza, e oggi noi siamo in grado di comprendere che nessun essere umano può semplificare una sofferenza che non è la sua, ma deve avere la capacità di comprenderla. Noi non diamo giustificazioni ai nostri gesti, commessi in un passato ormai lontano, paghiamo e continuiamo a pagare, ma ai nostri figli deve essere data l'opportunità di una vita come hanno i vostri di figli, una vita normale. Gaetano Fiandaca e Lorenzo Sciacca Giustizia: tanti i limiti, ma l'Unione europea da 60 anni è garanzia di pace di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 13 luglio 2015 Sarebbe facile ora scrivere sulle mancanze, sull'assenza di politica estera comune, sulla conflittualità economica e sulla carenza di solidarietà tra i Paesi membri di quella che chiamiamo Unione europea. Sarebbe facile ma anche inutile e ripetitivo poiché i discorsi critici sono continui, martellanti e, purtroppo, ben fondati. Meno presente è invece il richiamo al valore del processo di unificazione europea. Sembra anzi che l'Europa sia solo un peso, che, per l'ottusità dei "burocrati" di Bruxelles, soffoca le naturali vitalità nazionali. Alla fine degli Anni 40 del secolo scorso, l'Europa era distrutta non solo materialmente, dalla guerra che essa stessa aveva scatenato. I valori di civiltà che l'avevano fatta grande nella storia del mondo erano stati travolti dal peggio che pure nel corso dei tempi essa aveva prodotto: violenza interna e esterna, razzismo, disprezzo della libertà della persona, divinizzazione della nazione e guerre e ancora guerre. Nella urgente necessità di ricostruzione morale ed economica, prese avvio il movimento tendente alla unione europea. Si usa dire, ed è certamente vero, che esso si mosse essenzialmente sul terreno dell'abbattimento delle frontiere economiche per permettere la formazione di un mercato comune tra i Paesi dell'occidente europeo che - l'Italia tra questi - partecipavano al progetto. Ma si ricorda meno frequentemente che in realtà prima di tutto ci si mosse per garantire all'insieme di quei Paesi la stabilità delle istituzioni democratiche e la protezione dei diritti fondamentali delle persone. L'incarico di operare per assicurare democrazia e diritti umani venne assegnato alla prima delle istituzioni europee del dopoguerra, il Consiglio d'Europa. Fu Churchill nel grande discorso tenuto nel 1946 all'Università di Zurigo a lanciare l'idea e il programma. E poco dopo, sotto la sua presidenza e con la partecipazione anche dell'italiano Altiero Spinelli, si tenne la conferenza dell'Aja da cui prese forma l'istituzione che ancor oggi ha lo scopo di sviluppare e salvaguardare la democrazia e i diritti umani nel continente europeo. Ora, dopo il disfacimento del sistema di dominazione sovietica, il Consiglio d'Europa, coni suoi 47 Stati membri, copre praticamente tutto il continente ed opera ancora, anche se un poco nell'ombra rispetto all'Unione europea. All'inizio della sua azione, quando era in discussione quella che sarebbe stata la Convenzione europea dei diritti umani, il relatore che ne presentava il testo, Pierre-Henri Teitgen, uomo della Resistenza francese, avvertiva che era necessario essere vigilanti poiché la crisi delle libertà non avviene tutta di un colpo, ma poco a poco e poi diviene manifesta quando è troppo tardi. Dunque era necessario premunirsi creando istituzioni europee forti. Da anni ormai è divenuta pratica normale rivolgersi a una Corte europea quando si ritenga che le autorità nazionali non abbiano rispettato i fondamentali diritti umani. E questa possibilità, che non esiste in alcun'altra parte del mondo, ha prodotto grandi avanzate in Italia e in Europa nella difesa dei diritti e delle libertà. A ciò si aggiunge la cooperazione tra gli Stati europei nella materia della giustizia e della sicurezza interna, che è ora una realtà. La lungimiranza di Teitgen in materia di diritti e libertà, non era solitaria. Già alla conferenza dell'Aja lo spagnolo Salvadorde Madariaga aveva proposto la fondazione del Collegio d'Europa, un collegio in cui i laureati di diverse nazioni, alcune delle quali fino a poco tempo prima in guerra tra loro, avrebbero potuto studiare e vivere assieme. Nella stessa direzione nel 1987 è stato poi realizzato il progetto Erasmus, che consente a decine di migliaia di studenti europei di svolgere parte dei loro studi in Paesi diversi da quello di cui sono originari (l'anno scorso 18.000 studenti europei sono venuti in Italia e 25.000 italiani sono andati a studiare altrove).Un così potente strumento di integrazione, di conoscenza e crescita è stato realizzato sulla base di una intuizione fondamentale, già presente negli spiriti più lucidi immediatamente dopo la guerra. La cittadinanza europea, che per i cittadini dei Paesi membri dell'Unione europea si aggiunge a quella nazionale, ha ancora scarsi contenuti legali, ma potrà acquistarne altri man mano che progressivamente emerge la realtà di un popolo europeo. I giovani che escono dal loro Paese e vivono e studiano in Europa con i loro compagni sono naturalmente cittadini europei, in senso più forte di ciò che pur significa il possesso della cittadinanza europea comune a tutti. E tra i Paesi che sono andati più avanti sulla via dell'unificazione, è ora possibile (e non ci si rende nemmeno più conto di quanto sia straordinario) viaggiare senza fermarsi alle frontiere e senza dover cambiare moneta. I nazionalismi riemergono nei Paesi dell'Unione europea, nata proprio per superarli ed impedire il ritorno della guerra in Europa - esito storico degli interessi e della logica delle nazioni - e con essi forme di intolleranza per il dissenso e per le minoranze. Alle frontiere dell'Unione europea si accendono conflitti bellici: Ucraina e Russia, Russia e Georgia, Turchia e Cipro per non menzionare il Medio oriente, la sponda meridionale del Mediterraneo e le ancora recenti guerre jugoslave. Occorre non lasciarsi distogliere da tanti e pur gravi problemi e dall'incapacità dell'Unione di affrontarli efficacemente. Tutto ciò che l'Unione europea e il Consiglio d'Europa hanno messo in piedi aveva e ha il più importante e fondamentale scopo: concorrere a garantire la pace, di cui lo sviluppo civile ed economico è la condizione. Diverse generazioni ormai nei Paesi dell'Unione hanno vissuto in pace, tanto da far ritenere che questa sia la normalità irreversibile. Non è purtroppo così, ciò che è dato per acquisito può rapidamente venir meno. La debolezza dell'Unione europea e le critiche che essa merita non dovrebbero far dimenticare che, dopo secoli di guerre europee, da settant'anni viviamo in pace. Giustizia: il sottile confine tecnologico tra sicurezza e libertà di Massimo Sideri Corriere della Sera, 13 luglio 2015 Le democrazie moderne come la nostra sono basate su voti, spionaggio e fughe di notizie, come avvertiva l'ex informatico Cia, Edward Snowden, noto per aver rivelato i programmi governativi di sorveglianza di massa? L'intrusione informatica nella società milanese Hacking Team e l'enorme quantità di documenti finiti in Rete, con tutte le rivelazioni e i problemi di sicurezza anche nazionale che ne stanno emergendo, portano quel dibattito, scoppiato negli Usa nel giugno del 2013, anche in Italia. I nodi cruciali sono almeno due. Il primo riguarda la trasformazione del rapporto cittadino e Stato a causa della tecnologia. Quando sarà passata la naturale fase di voyeurismo nei confronti dell'efficacia e del funzionamento del software spia Galileo che la società milanese vendeva a servizi segreti italiani e stranieri, polizia postale, carabinieri, Procure, senza disdegnare clienti discutibili come i governi di Sudan, Etiopia e Libano, resterà l'unica domanda rilevante da porsi: premesso che questi software "spioni" sono utili per bloccare criminali, mafiosi e terroristi, fino a dove lo Stato ha diritto di muoversi su questa sottile linea informatica? La stessa dinamica è emersa anche negli Usa. Nessuno si ricorda più di Prism, il programma spione Usa che coinvolgeva società come Microsoft, Google e Facebook. Ma il cuore del dibattito è rimasto vivo ed è stato rilanciato dall'Oscar al documentario su Snowden, "Citizenfour". Nel caso italiano il tema si complica fino quasi a farsi inestricabile se si considera che, come risulta dai documenti e anche dalle email messe in Rete da WikiLeaks, lo Stato è anche azionista di Hacking Team, sia con la Regione Lombardia sia con i fondi del ministero dello Sviluppo economico, lo stesso che era preposto alla sorveglianza. "Quis custodiet ipsos custodes?". Chi controlla i controllori, si interrogava già Giovenale in una delle sue satire. Lo stesso fondatore della società, David Vincenzetti, a conferma della consapevolezza degli stretti legami, si domandava in una email se la propria società rientrasse tra quelle in cui lo Stato può esercitare i poteri speciali della "Golden share", la cosiddetta azione dorata che vale più delle altre. Riassumendo brutalmente: la società vendeva il virus spione anche a governi di Stati che si contrappongono geopoliticamente ma anche militarmente all'Ue e alla Nato. E lo faceva partendo da fondi europei e denaro pubblico italiano. Oggigiorno, anche Giovenale deve fare i conti con la tecnologia. Sicurezza e libertà potrebbero diventare sempre di più dei termini in antitesi, non ultimo perché tra qualche anno, vista l'evoluzione della tecnologia che da mezzo secolo registra una crescita esponenziale nota come "legge di Moore", software di questo genere ci faranno sorridere e ci appariranno polverosi come le vecchie microspie. C'è un secondo nodo da sciogliere, strettamente legato al primo e riguarda il tipo di società tecnologica verso cui ci stiamo muovendo tutti. Il caso della Hacking Team conferma la lezione di WikiLeaks: l'unica tecnologia che conosciamo a prova di incursione è la carta. Può essere rubata, certo, ma di per sé resta ferma. Al contrario, i dati digitalizzati per loro stessa natura si muovono. Oggi pensare di secretare per legge dei documenti per 50 anni è velleitario. Ma dobbiamo riconoscere che ancor più velleitario sarebbe pensare di tornare alla carta: la nostra società si sta evolvendo chiaramente in senso opposto. L'economista John Maynard Keynes già in un famoso discorso tenuto a Madrid nel 1930 sulle "prospettive economiche dei nostri nipoti" ipotizzava che un secolo dopo - e ci siamo quasi - gli uomini si sarebbero annoiati a causa dell'invadenza della tecnologia. Una maggiore consapevolezza, come voleva Snowden, forse non sarà sufficiente per evitare di guardare con sospetto quell'oggetto che ci era parso amico, lo smartphone, ma per ora è l'unica arma a disposizione che abbiamo. Giustizia: stallo Consulta, i giudici costituzionali rischiano la paralisi di Liana Milella La Repubblica, 13 luglio 2015 Per fortuna gli alti giudici della Consulta stanno per andare in vacanza fino a metà settembre. Altrimenti si ritroverebbero a lavorare con l'incubo che anche una semplice malattia potrebbe far venir meno il numero legale - 11 componenti su 15 almeno - bloccando l'attività del giudice delle leggi. Alla Corte costituzionale non si ha memoria di un'altra emergenza come questa. Il Parlamento in ritardo nella scelta di ben tre giudici. Un plenum che si riduce a 12 componenti. Da venerdì 10 ha lasciato il suo posto anche Paolo Maria Napolitano, il consigliere di Stato eletto in quota centrodestra nel 2006. Decisioni che, se venissero prese con l'organico pieno, potrebbero essere ben diverse da quelle assunte adesso. Già martedì, quando si terrà l'ultima camera di consiglio prima dello stop, la Corte discuterà, con soli 12 giudici, la delicata questione del blocco degli stipendi pubblici, relatore ed estensore della sentenza la giuslavorista Silvana Sciarra, decisione già assunta due settimane fa, costituzionalità solo per il passato, ma divieto di congelamento per il futuro. La prossima seduta a Camere riunite per indicare i giudici si terrà giovedì 16 luglio, ma è già scontato che sarà fumata nera. Spiegano che le votazioni - se ne sono svolte già due, il 15 giugno e 1' 11 luglio - servono "solo per abbassare il quorum". Niente nomi dunque. Fonti ben informate del Pd assicurano che "prima si deve chiudere la partita delle riforme costituzionali". Poi ci si concentrerà su come dividere i tre giudici che mancano. "I vecchi equilibri sono saltati. Le vecchie attribuzioni non valgono più" dicono le stesse fonti del Pd. Resta l'anomalia di ben tre posti vacanti. Quello dell'ex vice presidente Luigi Mazzella, designato dal centrodestra, scaduto addirittura il 28 giugno di un anno fa. Mai sostituito, perché il 6 novembre dell'anno scorso, quando fu eletta Silvana Sciarra indicata dal Pd, Forza Italia non riuscì a trovare al suo interno l'intesa su un nome. Saltarono, nell'ordine, l'ex presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà, l'ex avvocato generale dello Stato Ignazio Francesco Caramazza, anche il senatore Donato Bruno. Adesso Forza Italia dovrebbe, sulla carta, avere due giudici, oltre Mazzella anche Napolitano. Uno gliene resterà sicuramente, e Fi potrebbe proporre l'ex componente del Csm Giorgio Spangher. Anche se è insistente il tam tam su una donna. Sicuramente ì berlusconiani dovranno rinunciare anche al secondo giudice. L'idea di Renzi, a maggio prima delle elezioni regionali, era quella di sondare M5S, proprio com'è accaduto per il Csm, dove a novembre, in accoppiata con l'elezione di Sciarra, è stato indicato dai grillini Alessio Zaccaria, poi eletto anche con i voti del Pd. I nomi dei pentastellati sono sempre gli stessi, frutto di una consultazione online dell'anno scorso, l'avvocato Felice Besostri, protagonista delle battaglia contro il Porcellum, e un team di docenti. Silvia Niccolai a Cagliari, Antonio D'Andrea a Brescia, Franco Modugno a Roma. All'appello manca anche, dal 31 gennaio, il sostituto dell'attuale capo dello Stato Sergio Mattarella. Un posto in quota Pd. L'attuale presidente della Consulta Alessandro discuoio ha più volte sollecitato il Parlamento ad adempiere al suo dovere. Un appello caduto nel vuoto. Giustizia: l'idea (bipartisan) di una stretta per intervenire sulle pubblicazioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 luglio 2015 Puntuale come il caldo d'estate, la nuova puntata di intercettazioni che investono la politica riaccende il dibattito sulla legge che dovrebbe regolare l'utilizzo e la diffusione dei colloqui registrati nelle inchieste giudiziarie. E l'ultimo caso - le frasi di Matteo Renzi captate mentre preparava lo sbarco a Palazzo Chigi, finite prima su Il Fatto e poi sugli altri giornali - rappresenta per il governo l'archetipo di ciò che non andrebbe divulgato; evitando che finisca in atti d'indagine destinati alla pubblicità, e successivamente sui mezzi d'informazione. Così si ragiona in questi giorni a Palazzo Chigi e nelle sedi degli altri ministeri interessati, sebbene ci sia un po' di imbarazzo a invocare soluzioni proprio quando sono in ballo le intercettazioni del premier. Anche perché individuare i meccanismi utili a questo obiettivo è tutt'altro che semplice. Alla Camera si dovrebbe approvare prima delle ferie estive un testo di legge delega, contenuto nel più ampio progetto di riforma del processo penale, che per adesso prevede "prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni, (...) avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale". Detto in termini più semplici evitare la pubblicazione non solo di ciò che non è penalmente rilevante, ma anche che non sia utile a definire "contesti" funzionali a individuare reati e responsabilità. Da destra si insiste per soluzioni drastiche, ma pure nel centrosinistra si fa meno fatica che in passato a immaginare qualche forma di "bavaglio". Fermo restando che nessuno, almeno a parole, vuole ridurre la possibilità di intercettare (anzi, la legge delega prevede di estendere l'uso delle micropsie ai reati contro la Pubblica amministrazione) i nodi restano l'inserimento delle conversazione negli atti e la loro successiva pubblicazione. Tra le varie proposte arrivate dai magistrati, quella che ha destato maggiore interesse è dei procuratori di Roma e Milano, Giuseppe Pignatone ed Edmondo Bruti Liberati. I quali hanno suggerito di rendere pubblicabile solo il contenuto dei provvedimenti giudiziari (ordini d'arresto o perquisizioni), vietando invece la divulgazione, almeno fino al rinvio a giudizio o alla cosiddetta "udienza filtro", del resto del materiale d'indagine. Anche se non più segreto, essendo a disposizione delle parti processuali. Con questa ardita distinzione, le frasi di Renzi e del generale Adinolfi non avrebbero potuto essere pubblicate, nonostante l'indubbio interesse collettivo. Particolare non irrilevante che fa dire all'ex presidente della Camera Luciano Violante: "Una nuova legge non la invocherei per questo caso, bensì per quelli in cui si dà in pasto la vita privata delle persone coinvolte del processo, o peggio estranee alle indagini". Giustizia: Enrico Costa (Ncd) "intercettazioni, la maggioranza valuti lo stralcio del ddl" di Valentina Errante Il Messaggero, 13 luglio 2015 Per il vice ministro Enrico Costa, e per Ncd, è sempre stata "la priorità". E non è il nuovo "caso" intercettazioni, che tira dentro una storia torbida il premier Matteo Renzi e l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a fare dire adesso al sottosegretario che la legge sugli ascolti avrebbe dovuto essere approvata già da un pezzo ma "è mancata la volontà politica". Costa non lo dichiara apertamente ma sembra speri ancora in uno stralcio della norma sulle intercettazioni dal ddl sulla riforma del processo penale. Che tempi si prevedono? "La riforma non è a un passo dall'approvazione. Andrà alla Camera alla fine di luglio, passerà prima dell'estate, il punto interrogativo riguarda quello che accadrà dopo. Escludo che il Senato si limiti a fare il notaio o a sancire quello che ha stabilito la Camera. I tempi sono ancora molto lunghi. Tra l'altro la riforma è contenuta in un provvedimento ricco di norme e la questione intercettazioni sarà marginale. Certo nulla vieta che il governo cominci a lavorarci prima, c'è una delega. Ma la maggioranza deve interrogarsi se sul punto voglia andare avanti in modo netto o no". Pensate ancora a uno stralcio? "Noi di Ncd abbiamo sempre sostenuto che sarebbe stato la via per accelerare le procedure e affrontare la questione in modo preciso e puntuale, come del resto il parlamento ha ritenuto di fare per altre materie come ad esempio per la prescrizione. Non mi pare che finora sia stata trattata con urgenza. Di fatto è mancata la volontà politica". Manca un accordo? "Nell'altra legislatura era passato una proposta, relatore Lanfranco Tenaglia, che si sarebbe potuta tranquillamente riprendere, era un testo organico. Non lo si è voluto fare. Quando era presidente Letta, ho presentato un testo sulle intercettazioni e sono stato investito da una valanga di polemiche perché non era una questione che rientrava negli accordi. Adesso la riforma è inserita in un provvedimento molto ampio. Ci sono alcuni, anche nella maggioranza, che ritengono vada bene così ed è giusto che sui giornali finiscano anche conversazioni che riguardano persone estranee alle indagini. Per me uno strumento pagato con soldi pubblici, per la ricerca di una prova, non può essere usato in questa direzione. C'è chi è contrario a una riforma perché ritiene che in questo modo si vada a indebolire l'uso delle intercettazioni, per me, invece, con una legge che ne limiti la diffusione, si attribuisce una maggiore credibilità proprio allo strumento". Potrebbe essere previsto un limite nell'uso delle intercettazioni nelle indagini? "Non ci sono assolutamente interventi che tendono a toccare questo strumento, anche se sotto il profilo culturale ci sono state posizioni diverse. L'obiettivo è tutelare i soggetti non indagati, il ruolo degli avvocati difensori ed evitare che il gossip o le conversazioni personali diventino pubbliche. Il tema all'ordine del giorno è il filtro sugli atti da utilizzare, ci dovrà essere un'udienza stralcio, per stabilire quali conversazioni vadano distrutte o eliminate, ma è chiaro che, per la riservatezza delle indagini, non potrà avere luogo prima dell'esecuzione delle misure cautelari e allora il nodo riguarda le ordinanze e stabilire quali conversazioni debbano contenere. Devo dire che nelle audizioni con i magistrati e giornalisti c'è stata una certa apertura. Ma tant'è". Giustizia: Procura europea sulla rampa, ok su status, struttura, indagini, procedimenti penali di Paolo Bozzacchi Italia Oggi, 13 luglio 2015 Il Consiglio Ue ha appena approvato i primi cinque capi del regolamento. Prende sempre più corpo la Procura europea. Il Consiglio Ue Giustizia ha approvato i primi cinque capi del Regolamento che regolano lo status, la struttura, l'organizzazione, la procedura delle indagini, l'azione e il procedimento penale della nascente Procura Ue. L'organismo avrà personalità giuridica, coopererà con Eurojust e sarà competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori dei reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea. Potrà svolgere indagini in autonomia, esercitare l'azione penale e assumere le funzioni di pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri, fi no alla pronuncia del provvedimento definitivo. La Procura Ue garantirà che le sue attività rispettino i diritti sanciti dalla Carta Ue dei diritti fondamentali, e il diritto nazionale continuerà a essere applicato su tutti gli aspetti non disciplinati dal Regolamento. Da parte loro le autorità nazionali competenti assisteranno attivamente e presteranno sostegno alle indagini e alle azioni penali della Procura Ue. Il Procuratore capo europeo, i suoi sostituti, i procuratori europei delegati e il personale della Procura Ue agiranno nell'interesse dell'Unione nel suo complesso, e non accetteranno istruzioni da persone esterne, Stati membri, istituzioni, organi e organismi dell'Ue. La Procura Ue risponderà direttamente all'Europarlamento, al Consiglio e alla Commissione in tutte le sue attività legali, e presenterà loro relazioni annuali. La Procura europea sarà organizzata a livello centrale e decentrato: ci sarà un ufficio centrale nella sede formato dal collegio, dalle camere permanenti, dal procuratore capo europeo, dai suoi sostituti e dai procuratori europei, e un livello decentrato composto dai procuratori europei delegati aventi sede negli Stati membri. Il collegio, in particolare, sarà composto dal procuratore capo europeo e da un procuratore europeo per Stato membro, e sarà responsabile del controllo generale delle attività della Procura Ue. Il collegio prenderà decisioni a maggioranza semplice, e ogni membro del collegio avrà diritto di avviare una votazione sulle questioni rimesse alla decisione collegiale. L'ossatura della Procura è pronta, ma manca ancora un compromesso tra gli Stati membri sull'obbligo di comunicare qualsiasi condotta criminosa che possa costituire reato di competenza della Procura Ue. Giustizia: imprese e legalità, sui beni confiscati serve trasparenza di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2015 Il sequestro di beni da 1,6 miliardi che pochi giorni fa ha colpito la famiglia siciliana dei Virga, è meritevole di grande attenzione, perché numerosi sono i problemi che squaderna sui tavoli del governo, del Parlamento e della magistratura. Prima di entrare nel labirinto dei problemi, però, va detto che alla Direzione investigativa antimafia e al Tribunale di Palermo va dato atto di aver assestato un nuovo, durissimo colpo all'area del malaffare che ancora oggi non molla la presa sull'economia isolana. La misura di prevenzione promossa dalla Dia riguarda beni immobili e mobili, rapporti bancari, trust e imprese che fanno capo ai cinque fratelli Virga, originari di Marineo (Pa), imprenditori ritenuti (troppo) vicini al mandamento di Corleone. L'elenco dei beni è impressionante: 33 imprese, per lo più del settore del calcestruzzo; 700 tra case, ville, immobili vari e terreni; 80 rapporti bancari, 40 assicurativi, oltre 40 mezzi meccanici. I collaboratori di giustizia raccontano che fino agli anni 80, i Virga erano una famiglia di agricoltori, allevatori e casalinghe, fino a che la loro attività si era concentrata sul calcestruzzo e dintorni, espandendosi all'ombra dei Corleonesi, grazie ai quali potevano sedere al "tavolino degli appalti" gestito, per Cosa Nostra, da Angelo Siino. In questa storia classicamente siciliana, non poteva mancare - insieme allo strepitoso arricchimento disvelato dal sequestro - il rapporto dei Virga con il racket delle estorsioni: dopo averlo subìto/foraggiato per decenni, nel 2010 denunciano un noto "esattore" della zona. Testimonianza confermata in Tribunale, che porta a diverse condanne e persino allo scioglimento per mafia del Comune di Misilmeri; una denuncia talmente vera che ottiene l'appoggio dell'associazione Addiopizzo la quale, a seguito della retata dei beni, in un comunicato precisa: "Da anni avevamo ritenuto non opportuno includere nella rete di consumo critico antiracket anche quelle società. Una scelta compiuta in tempi non sospetti e nonostante gli operatori (i Virga, ndr) avessero sporto denunce per episodi estorsivi". In questa vicenda c'è tutta la complessità che deve gestire il fronte della legalità, dalla massa dei beni tolti alle mafie che cresce senza sosta, alla qualificazione etica di chi intende schierarsi e denunciare il pizzo; dai rapporti tra istituzioni e società civile nelle sue varie rappresentazioni, allo stato brado in cui ancora oggi versa il mercato del calcestruzzo, tra i più a rischio per la sua frammentazione e nonostante i ripetuti allarmi degli operatori sani del settore. A chi andrà in gestione l'impero dei Virga? A un solo amministratore? A un board di professionisti che accetteranno di farsi affiancare da manager esperti dei vari settori? E con quale road-map? Si tenterà di salvare il salvabile, senza raddoppiare il danno ai concorrenti (prima emarginati dalle relazioni mafiose, poi dall'intervento dello Stato) o si potranno azzerare i beni che di impresa avevano solo la facciata? E gli immobili? Si potranno persino vendere o - assecondando teorie assai in voga - vanno tenuti lì fino alla decomposizione, per non scalfire il loro intrinseco valore simbolico di bottino di guerra alla mafia? E l'Agenzia che li prenderà in carico, ha intanto ricevuto il personale di rinforzo per quantità e competenze? Non sono interrogativi ridondanti, perché le risposte ancora non ci sono. Ci sono, al contrario lobby potenti che dell'assegnazione dei beni confiscati hanno fatto ormai la propria ragione di esistenza e sussistenza, così come si sono creati imperi economici fatti di decine di beni in gestione, il che nega in radice ogni possibilità di buona amministrazione, a meno di non essere dotati di superpoteri. Ci sono leggi che stentano a vedere la luce ed errori da correggere in quelle che la luce potrebbero, alla fine, vederla. Tutto questo silenzioso, vano e a volte feroce sgomitare, avviene su una montagna di soldi (tra gli 8 e i 20 miliardi) che nemmeno il recupero dell'evasione fiscale ci consente. Ma che la consueta assenza della politica riesce a non utilizzare, a non far fruttare e, in definitiva, a sprecare. Lettere: la rabbia avvelenata che contagia il Sud di Giuseppe Montesano Il Mattino, 13 luglio 2015 Ieri a Trentola Ducenta, un paese del Casertano a pochi chilometri da Napoli, un agente penitenziario è uscito dì casa, ha bussato al cancello dei vicini, è entrato e ha ucciso con la pistola d'ordinanza un'intera famiglia: padre, madre e figlio, e uscendo ha ucciso anche un uomo che era andato dai suoi vicini per lavoro. Il motivo? I vicini gli davano fastidio. Perché? Perché a causa del loro lavoro spesso furgoni e furgoncini occupavano uno spazio auto che non avrebbero dovuto occupare. Il quarto uomo ucciso? Aveva parcheggiato il furgoncino dove non doveva. E sarebbe troppo facile dire a questo punto cose come: è assurdo, è la follia umana, è incredibile. Non è così, purtroppo: a maggio una strage simile era avvenuta a Napoli, e un uomo "normale" aveva sparato sul fratello e sui passanti con un kalashnikov. Allora avevamo scritto su queste pagine che era purtroppo facile preconizzare altre stragi simili, e che trovavamo sconvolgente che un luogo dove ancora la piccola comunità delle persone legate tra loro da rapporti civili e di amicizia esisteva, stesse diventando come le città o le periferie anonime degli Stati Uniti o del Nord del mondo. Perché ciò che dà un brivido ulteriore a chi vive qui è che i legami comunitari tipicamente meridionali sembrano dissolversi, e si ha la sensazione che si stia disgregando quella sorta di cristianesimo creaturale che era una parte centrale della cultura meridionale. Sostituito da che cosa? Dall'incendio della rabbia e della violenza di tutti contro tutti: una rabbia continua che assedia ognuno e scatta a ogni minimo cenno di presunta "provocazione": i ragazzini che accoltellano dicono a loro giustificazione "mi ha guardato", cioè mi ha provocato, e dice lo stesso l'automobilista che vuole ammazzarti a calci perché lo hai "guardato", cioè lo hai messo in discussione. Il narcisismo di massa, alimentato su Facebook dalle bugie con cui ci si mostra per ciò che non si è, non sopporta di essere messo in discussione: e esplode. Mi hai "guardato", cioè mi hai giudicato nella mia pochezza, e ora devo punirti: il sottinteso malato di chi pensa questo è che lo sguardo degli altri contiene odio, e va ripagato con odio; quello sguardo umilia, e va ripagato umiliando; quello sguardo violenta, e va ripagato violentando. La realtà in cui si vive qui da qualche tempo sembra ormai è davvero borderline, e sembrano saltati tutti i punti di riferimento: è come se le persone, quanto più sono fragili culturalmente e socialmente, tanto più si convincano di doversi fare giustizia da sole. Ci troviamo in una società le cui patologie esplodono in crisi rabbiose e violente, che spesso solo per puro caso non arrivano al delitto come a Trentola Ducenta, crisi di violenza che vanno dal bullismo al cyber-bullismo all'intimidazione alla violenza sulle donne: è per questo che l'uomo che si è presentato dai carabinieri dopo quattro assassini, e ha detto "ho fatto un macello", è forse solo un atroce sintomo. Guardiamo con attenzione, e scopriremo che il nostro modello di vita da troppo tempo è tutto e solo basato sulla competizione per il denaro il successo la riuscita: a qualsiasi età, in qualsiasi ambito, a ogni costo. E i più fragili e svantaggiati cosa fanno? Prendono alla lettera ciò che non si dice apertamente ma si fa nella realtà, non solo nei comportamenti individuali ma anche nei rapporti tra gli Stati e nei rapporti dentro gli Stati tra i politici e i cittadini: se non ti pieghi e ti umili ti distruggo, perché sono il più forte. E la rabbia cresce, si accumula, avvelena l'anima e il corpo: e esplode nelle forme più insensate, come uno sfogo bestiale in una giungla. Queste stragi sono terrificanti segni di impotenza: chi compie questi atti è arrivato a un punto estremo, mala sensazione di essere impotenti verso gli eventi è di tanti, e la sproporzione tra come ci si vede nella falsità narcisista di Facebook (belli, potenti e amati) e come si è nella realtà (non belli, impotenti e non amati) è divenuta enorme. Possiamo dire che bisogna invertire la direzione? La cultura basata su un cristianesimo creaturale ha permesso al meridione di sopravvivere a guerre e a massacri giganteschi: non può essere dispersa. O al suo posto ci sarà solo, e sempre di senza leggi né regole. Suona come una litania, ma è vero, e ciò che è vero va detto e ridetto: solo una cultura che si nutra dell'amore creaturale tra le persone può ricreare le relazioni e renderle più umane; solo una cultura che abbia l'uomo come centro può liberarci dall'ossequio alla violenza del più forte; solo una cultura dove la giustizia non sia un nome per l'abuso legalizzato dei potenti può far sperare nel futuro. Se futuro diventa una parola insensata, perché si è persa la speranza di vivere umanamente, allora non resta chela violenza. Ma se è stato possibile essere umani in passato, perché non dovrebbe esserlo in futuro? Caserta: lite sul posto auto, agente penitenziario stermina una famiglia di vicini di Irene De Arcangelis La Repubblica, 13 luglio 2015 Quattro morti ammazzati per un posto auto. Una strage provocata da un furgone carico di cassette di frutta che rallenta il transito di altre auto. È la goccia che fa traboccare il vaso della follia nella mente di chi, quotidianamente, ha la pistola nella cintura per lavoro. L'agente di polizia penitenziaria si trasforma in un pericoloso assassino che smette di uccidere solo perché svuota il caricatore dell'arma di ordinanza e azzera la famiglia dei vicini di casa, che a causa delle quotidiane liti tipiche di una cattiva convivenza, era diventata la calamita del suo odio e della sua rabbia. Restano a terra, nel sangue, padre, madre, figlio e un collega di lavoro del capofamiglia, l'uomo che aveva parcheggiato il furgone in via Carducci a Trentola Ducenta, provincia casertana. Miracolosamente salvi un altro figlio della famiglia uccisa, Mario, appena uscito per andare al bar con gli amici, e la fidanzata del giovane ammazzato, Antonella, 23 anni, che si nasconde quando sente gli spari. Poco dopo l'assassino si è costituito ai carabinieri. Entrato in caserma, lungo le scale ha incontrato un ufficiale e gli ha detto: "Ho fatto un macello, ho ucciso quattro persone". Dopo un lungo interrogatorio davanti al Pm della procura di Napoli Nord, Ilaria Corda, è stato arrestato per omicidio plurimo volontario Luciano Pezzella, 50 anni, agente della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Secondigliano. Ha ammazzato lui Michele Verde, 61 anni; la moglie Vincenza, 58 anni; il figlio Pietro di 23 anni. E poi il commerciante Francesco Pinestra, 37 anni, ferito gravemente con tre colpi di pistola al petto e poi morto in ospedale ad Aversa. Saranno i carabinieri del comandante Giancarlo Scafuri a ricostruire la dinamica dei fatti. Mattina presto di una domenica di piena estate. Lungo la stradina assolata di Trentola Ducenta, dove sono affiancate la villetta delle vittime e quella dell'assassino, parcheggia il suo furgone il commerciante Francesco Pinestra. Deve caricare alcune cassette di legno per la frutta e la verdura che Michele Verde recuperava al mercato ortofrutticolo (dove lavorava come parcheggiatore) per rivenderle ai commercianti. Pezzella, da lontano, assiste alla scena e la rabbia monta. Nelle settimane precedenti aveva già avuto problemi con la famiglia Verde proprio per il via vai di auto che, a suo dire, gli impediva di accedere liberamente fino a casa sua. Liti finite con le urla e qualche volta la promessa: "Vi sparo a tutti quanti". Parole ripetute dal solo sapore di minaccia, cui probabilmente nessuno faceva più caso. Ma stavolta è diverso. Stavolta l'agente di polizia penitenziaria non riesce a trattenersi. Pezzella esce dalla sua villetta, raggiunge il commerciante. "Spostati, te ne devi andare da qui", grida come un forsennato. Ha in pugno la pistola di ordinanza, comincia a sparare. Pinestra, colto di sorpresa, tenta disperatamente di salvarsi salendo a bordo del suo furgone. Cerca di fare una manovra in retromarcia ma fallisce, è già stato ferito dai tre colpi al petto. Non riesce a controllare il furgone, urta contro un muretto danneggiandolo. Michele Verde dalla sua abitazione avverte il fracasso, forse pensa a un incidente stradale durante una manovra avventata, si precipita all'esterno, si ritrova di fronte il suo vicino di casa con il sangue agli occhi e ancora quella pistola in pugno. Viene colpito e ucciso mentre alle sue spalle arriva la moglie Vincenza a sua volta richiamata dagli spari. E dietro di lei il figlio Pietro, svegliato di soprassalto dal frastuono. Cadono uno dopo l'altra, madre e figlio, sotto i colpi. Solo Mario è salvo per quel caffè al bar con gli amici. Altrimenti si sarebbe probabilmente trovato al fianco della madre e del fratello, anche lui ucciso. In quegli stessi orribili istanti Antonella, la fidanzata di Pietro - svegliata anche lei dalla sparatoria - si nasconde chiudendosi a chiave in una stanza. È stato Pietro a dirglielo prima di correre verso la morte. Le aveva detto: "Qualsiasi cosa accada chiuditi a chiave nella camera". Pietro aveva capito che stava succedendo qualcosa di terribile e che lui stesso stava andando incontro alla fine. Così Anna si salva per miracolo. Quando torna il silenzio esce e si ritrova la strage sotto gli occhi, vede Pezzella scappare via. Poco dopo l'agente è dai carabinieri per confessare i quattro omicidi. Consegna la pistola di ordinanza e spiega agli investigatori il perché di quel folle gesto: un furgone parcheggiato male vicino casa sua. Biella: il carcere è allo stremo, agenti di Polizia penitenziaria senza nuove divise da anni di Andrea Formagnana La Stampa, 13 luglio 2015 Questa mattina il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri sarà in visita a Biella. Invitato dai senatori biellesi Nicoletta Favero e Gianluca Susta visiterà il carcere ed il tribunale per toccare con mano le criticità che il personale delle due strutture da tempo lamenta. Denominatore comune è la carenza d'organico. È delle ultime ore la notizia che 5 nuovi agenti di polizia penitenziaria entreranno in servizio nel carcere di Biella. Al momento i detenuti sono circa 350 ma dal 2013 è operativo il nuovo padiglione che potrebbe portare la struttura ad ospitare fino a 500 persone. Gli agenti di polizia penitenziaria sono invece circa 150. Almeno 40 unità sotto il numero utile. "L'assegnazione dei cinque nuovi agenti è una beffa. Sei o sette infatti se ne andranno perché ottenuto il trasferimento", commenta Raffaele Tuttolomondo, delegato della sigla sindacale Sinappe. Posizione condivisa da Andrea Grifoni di Osapp. Più sfumata la posizione di Vicente Santilli di Sappe: "Da troppo tempo il Piemonte era dimenticato nell'assegnazione di agenti. Ora l'80% dei neodiplomati al termine dell'ultimo corso sono stati assegnati proprio alle carceri della nostra regione. È una goccia in un mare, ma è pur sempre un segnale positivo". Sia Osapp che Sinappe lamentano inoltre la scarsità del personale ufficiale. "Il carcere di Biella è divenuto il secondo della regione e dovrebbe essere riclassificato per ottenere più organico e più fondi", commentano. Altro annoso problema è quello delle divise. "Una situazione insostenibile. Dal 2006 non ci vengono fornite le divise estive. Il problema riguarda tutta la regione, non solo Biella. Ognuno si aggiusta come può con camicie acquistate di persona che però non possono certo essere uguali. Stesso discorso per le scarpe", denuncia l'Osapp. Situazione se si vuole ancora più critica al tribunale cittadino. Qui il personale in servizio tra i vari uffici, comprese le cancellerie penali e civili, è di 25 unità quando dovrebbe essere almeno di 40. Il timore è il rischio che dopo realtà piemontesi come Alba, Saluzzo o Casale possa toccare anche a Biella l'accorpamento. "Perdere il tribunale è un'opzione che non ci si può permettere", urlano gli impiegati Confsal Sag-Unsa. Scettico che la visita del sottosegretario possa portare a dei risultati è l'avvocato ed ex parlamentare Sandro Delmastro: "A fine anno vedremo se le cose saranno cambiate o meno. Che la visita del politico non sia solo una bella parata". Verona: progetto "Sprigiona lavoro", detenuti a fine pena schedati per le aziende L'Arena di Verona, 13 luglio 2015 Il software delle competenze di chi è ormai a fine pena è un altro tassello delle iniziative di reinserimento portato avanti dall'associazione La Fraternità. Le competenze lavorative dei detenuti che sono ormai vicini al giorno della scarcerazione sono tutte racchiuse in un software, perché le imprese possano scegliere le persone più adatte da assumere nel proprio organico. La "schedatura" di abilità e competenze dei detenuti a fine pena, rappresenta uno degli importanti passi portati avanti dal progetto "Sprigiona Lavoro", coordinato dalla storica associazione di volontariato scaligera La Fraternità che, ormai da decenni, si occupa del mondo della giustizia e della pena. L'iniziativa, che coinvolge anche il Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria del Veneto, la direzione del Carcere di Montorio, l'Università di Verona, l'Associazione Industriali di Verona, il sindacato Cisl, l'Agenzia sociale Lavoro & Società, le Adi e il Progetto Esodo, punta all'inserimento lavorativo delle persone che, ancora recluse, stanno vivendo la delicata fase di passaggio tra la conclusione della pena detentiva e il ritorno in società. L'intenzione e di fare il possibile perché chi ha avuto guai con la legge non ci ricaschi, ma eviti invece ogni recidiva e aderisca ai valori del rispetto degli altri e delle norme. Un paio di anni fa La Fraternità ha promosso, con il Dipartimento dell'Università di Verona, una ricerca sul mercato del lavoro nella nostra provincia e sui percorsi occupazionali proponibili con più facilità alle persone scarcerate. I risultati della ricerca, esposti l'estate scorsa nel convegno "C'è mondo del lavoro fuori dalle mura del carcere?", hanno rivelato che i settori con maggiori sbocchi sono turismo, agricoltura e artigianato. Da queste prime risposte ha preso vita il nuovo progetto "Sprigiona Lavoro" che si propone di identificare e facilitare possibili incontri tra domanda e offerta di lavoro, da un lato dando alle imprese informazioni sui vantaggi etici ed economici di cui possono beneficiare con l'assunzione di detenuti, dall'altro rilevando, con un apposito software già attivato, le caratteristiche e le competenze dei detenuti prossimi alla scarcerazione. SÌ tratta quindi di promuovere una cultura del lavoro a 360 gradi, e di fornire ai destinatari selezionati una formazione professionale strettamente finalizzata alle richieste delle imprese, che avranno così l'opportunità di conoscere e scegliere le persone più adeguate da impiegare. Agrigento: maturità, diplomati anche tre ospiti della Casa circondariale di Petrusa Giornale di Sicilia, 13 luglio 2015 Hanno ottenuto il diploma i tre ospiti della casa circondariale di "Petrusa" che hanno sostenuto gli esami di Stato in questo 2015. Dovevano essere quattro, ma uno dei candidati è stato trasferito ad altra struttura penitenziaria. Uno di loro che già si trovava in regime di semilibertà provvisoria per buona condotta, è "rientrato" in carcere per sostenere le prove. Ci sono riusciti tutti e tre a conquistare il "pezzo di carta". Il loro lungo cammino, durato cinque anni, ha avuto l'epilogo positivo grazie all'impegno dei docenti che in questo quinquennio hanno saputo cogliere il meglio di queste persone che pur avendo sbagliato per vari motivi, hanno capito che il crimine non paga. Adesso possono iniziare un nuovo percorso di vita che li porterà certamente lontano avendo in mano il diploma in enogastronomia. Finalmente quindi gli esami di Stato 2015, con il rituale della pubblicazione dei tanto attesi e temuti quadri, vanno in archivio con un grande sospiro di sollievo da parte dei componenti la task force che come ogni anno viene organizzata dal Provveditore agli Studi, Raffaele Zarbo. L'unità operativa di supporto alle commissioni di esame era composta dal dirigente scolastico Domenico Tuttolomondo e dal personale del Provveditorato, Maria Teresa Sorce, Gerlandina Tornabene, Mimmo Catuara e Giuseppe Mazza. Napoli: la Comunità di Sant'Egidio per "i fragili e i deboli", anziani, detenuti e homeless Adnkronos, 13 luglio 2015 Incontri con i detenuti, iniziative e feste per gli anziani e per i senza fissa dimora. È fitto il programma messo a punto dalla Comunità di Sant'Egidio per "i fragili e i deboli" della città di Napoli per far fronte "all'altra estate, quella difficile e faticosa di chiunque non ha un sostegno" Le parole sono di Bianca Frattini, referente per gli anziani della Comunità di Sant'Egidio che, con il portavoce Antonio Mattone, presenta il programma "Estate e solitudine. Il popolo fragile di Napoli" caratterizzato dallo slogan: "Anche i fragili hanno diritto all'estate". I mesi più caldi dell'anno, spiega Mattone, "fanno emergere con chiarezza i fattori di rischio a cui sono esposte le persone fragili. Esiste un popolo fatto di anziani, senza fissa dimora, disabili, carcerati, che manifesta un grande bisogno di sostegno e di compagnia. L'ecologia urbana messa in pericolo dall'inquinamento, dai pochi servizi, dall'individualismo pervasivo, rappresenta una sfida come ha ricordato papa Francesco nell'enciclica "Laudato si". Il maggior peso grava sugli anziani che sono la cartina a tornasole di tutte le fragilità". Tante le iniziative già realizzate e quelle programmate a Napoli, alcune di queste si concentreranno nel Rione Sanità e saranno dedicate agli anziani del quartiere. Il 17 luglio nella Parrocchia Santa Maria dei Miracoli sarà proiettato un video sulla visita di Papa Francesco a Napoli, seguito da un pranzo. Il 25 luglio nella Parrocchia di San Vincenzo alla Sanità si terrà la "Festa d'estate nel chiostro"; e ancora, l'8 agosto un pranzo presso i Padri Vincenziani e il 22 agosto un incontro sulla "Lettera di Maria" e un pranzo nella Parrocchia Santa Maria della Sanità. Tre gli appuntamenti dedicati ai detenuti. Si parte il 20 luglio nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta, con un evento che vedrà la partecipazione del campione mondiale dei pizzaioli Valentino Libro, 28enne vincitore del Trofeo Caputo, della pizzeria "Kevuo" di Quarto (Napoli), con la distribuzione di pizze per tutti i detenuti. Il 22 luglio nel carcere di Poggioreale a Napoli si terrà la Festa dell'Aid per la fine del Ramadan, mentre il 27 luglio nell'Opg di Napoli si svolgerà una festa con musica. Confermatissimo anche l'impegno della Comunità di Sant'Egidio per i senza fissa dimora, con la distribuzione di pasti e bibite fresche durante tutta l'estate nelle strade di Napoli e provincia dal lunedì al sabato, e una serie di feste intitolate "Cocomerate": il 15 luglio a Nola, il 25 luglio a Napoli nei quartieri Fuorigrotta e Soccavo, il 1° agosto nel centro storico di Napoli e il 2 agosto nel dormitorio pubblico di Napoli e ad Aversa. "Perché l'estate 2015 non produca drammi dovuti all'abbandono dei più anziani e delle persone fragili - è l'appello di Antonio Mattone - ci vuole il coinvolgimento di tutti: istituzioni, associazioni, ciascuno di noi. Occorrono nuove politiche sociali con interventi e modelli innovativi, flessibili, personalizzati e diversificati che mettano al centro le persone e che si basino su una rete sociale da costruire e implementare. Oggi c'è troppa distanza tra chi è solo e le istituzioni". Ma, aggiunge Mattone, "c'è bisogno anche che tutti i cittadini siano attenti a chi vive una situazione di degrado e di isolamento sociale. Un appello a mobilitarsi in questa emergenza dovuta al caldo, per aiutare le persone che vivono situazioni di fragilità, di solitudine, di isolamento; la richiesta di una risposta generosa e disponibile per far sì che la nostra città viva un'attenzione rinnovata alle persone che più hanno bisogno di cura". Avellino: gesto autolesionista in carcere; ingerisce batterie, soccorsi per un detenuto ottopagine.it, 13 luglio 2015 Soccorsi rocamboleschi per un giovane detenuto napoletano da Ariano ad Avellino. Dopo aver ingerito batterie è stato trasportato d'urgenza dai sanitari del 118 prima al pronto soccorso dell'ospedale Frangipane e successivamente vista la gravità della situazione al Moscati di Avellino. Un gesto autolesionista, l'ennesimo all'interno della Casa Circondariale arianese che è stato gestito con la professionalità e tempestività di sempre da parte del personale di polizia penitenziaria, pur essendo sotto organico in questa torrida estate. Un problema cronico, più volte segnalato dalle varie organizzazioni sindacali che non trova in alcun modo soluzione. L'autolesionismo in carcere è un fenomeno diffusissimo. Tanto da diventarne una delle caratteristiche strutturali. Decine di migliaia di casi fino ad immaginare il carcere come luogo ove le persone detenute si infliggono lesioni spesso anche mortali. I dati in Campania come nel resto della nazione, sotto questo aspetto, non sono affatto incoraggianti. Ad Ariano Irpino episodi del genere sono purtroppo all'ordine del giorno. Modena: stasera si tiene il dibattito "Lo scandalo delle carceri, abolirle o riformarle?" modenatoday.it, 13 luglio 2015 "Il carcere non assolve la propria funzione, non riabilita, ma esclude emargina e riproduce delitti. Fra coloro che escono, dopo aver scontato la propria pena, una percentuale molto alta (circa il 68%) torna a delinquere. Una percentuale ben maggiore di quella che si registra tra chi ha beneficiato delle misure alternative o ha pagato con sanzioni diverse dalla reclusione. La stessa condizione carceraria è ben oltre la denuncia di violazione dei diritti umani: sbarre e celle costringono i detenuti in condizioni di sovraffollamento. Quindi, da una parte abbiamo un sistema che tende a riempire all'inverosimile i penitenziari e che, allo stesso tempo, non produce un calo di criminalità, né mette al sicuro i cittadini". "Emerge, da questa considerazioni e dai dati della popolazione carceraria, un quadro che, come disse nel 2013 l'allora capo dello stato Giorgio Napolitano, è "una realtà non giustificabile in nome della sicurezza". In Italia sono recluse 65.000 persone a fronte di 47.000 posti, nel 2013, la questione sovraffollamento ha causato al nostro Paese una condanna alla Corte Europea dei diritti dell'uomo. Più del 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. Come non legare questo dato all'elevatissimo numero di suicidi (ben 60, nel 2012 su un totale di 154 decessi)? Quanto è distante la drammatica situazione delle carceri brasiliane, nelle quali i diritti della persona non vengono rispettati e dove rischia di essere rinchiuso l'italo brasiliano Henrique Pizzolato?". L'Associazione Antonia, in collaborazione con il Gruppo Carcere Città, ne discute con: Sen Luigi Manconi (presidente della commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani Paola Cigarini (comitato giustizia per Pizzolato e Gruppo carcere città Sen. Maria Cecilia Guerra (Associazione Antonia). L'incontro, dal titolo "Lo scandalo delle carceri, abolirle o riformarle?", si terrà lunedì 13 luglio alle ore 20:45, presso la sala polivalente Windsor Park (via San Faustino 155, Modena). Roma: "Pinocchio Reloaded", quando il teatro aiuta i giovani detenuti di Marco Pasqua Il Messaggero, 13 luglio 2015 "Pinocchio Reloaded" è una favola speciale. Andata in scena l'8 e il 10 luglio e, prossimamente, il 15 luglio, è ospitata sulla Nomentana, nel giardino della Casa Famiglia "Il fiore del deserto". È speciale, perché non è solo una rappresentazione - diretta da Emanuela Giovannini - ma è anche una speranza. Quella che viene offerta a 14 ragazzi dal passato difficile e un futuro dalle fondamenta fragili. A recitare insieme gli attori professionisti, infatti, sono anche minorenni condannati per reati di vario genere. Dietro di loro, c'è il progetto dell'Officina di teatro sociale (reso possibile dal contributo della Regione, in collaborazione con il centro di giustizia minorile del Lazio), che realizza laboratori teatrali rivolti a ragazzi tra i 14 e i 25 anni. Lo scopo di questa iniziativa è quello di offrire nuove possibilità di lavoro a chi dovrebbe vivere il peso di una doppia condanna: perché oltre alla sentenza di un tribunale, c'è lo stigma sociale legato a una fedina penale non più immacolata. Questo spettacolo vuole dimostrare loro che un'altra via è possibile. Per "Pinocchio reloaded", questo piccolo esercito di "mendicanti" di dignità, ha iniziato a lavorare a novembre dello scorso anno, con incontri e prove settimanali e, nella parte finale, giornaliere. La fiaba è stata cucita intorno alla vita dei protagonisti e cerca di far riflettere il pubblico sulla difficoltà di fare le scelte giuste. "Il bene è arrivare ad un obiettivo di vita", dice Riccardo, che per la prima volta, dopo tanto tempo, si è sentito non solo accettato ma anche applaudito. Marò: oggi la Corte indiana deve decidere, l'arbitrato per anni rimandato dà i suoi frutti di Antonio Angeli Il Tempo, 13 luglio 2015 Luglio bollente, ma anche di speranza, per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i nostri marò ingiustamente accusati di aver ucciso due pescatori indiani in un mai chiarito incidente in alto mare. Girone è agli arresti domiciliari nell'ambasciata italiana di Delhi, in attesa di un pronunciamento che, finalmente, potrebbe arrivare proprio questa mattina e Salvatore Girone, dopo l'ictus che lo ha colpito il 31 agosto 2014, è in Italia per curarsi. Il recupero è lento e difficile, il marinaio del San Marco dovrebbe rientrare in India dopodomani, mercoledì 15 luglio. Ma la richiesta di arbitrato internazionale, presentata nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, dopo anni di ritardi, impone all'India decisioni rapide e oggi ci sarà una nuova udienza. Infuria intanto la bufera sul segretario di Rifondazione comunista di Rimini Paolo Pantaloni, dopo la denuncia di ieri sulle pagine de Il Tempo. L'altro giorno l'esponente di sinistra su Facebook ha postato la frase choc: "Ma non è ora che impicchino i due marò?". Il post, sconvolgente e offensivo, è stato successivamente cancellato, con tanto di scuse (poco convinte) di Pantaleoni, che comunque non ha ritrattato. "Spero che queste parole siano uscite dalla testa e non dal cuore, ma lo dicesse ai nostri figli", ha ribattuto sul social network proprio Massimiliano Latorre. Daieri è iniziata una grandinata di commenti al vetriolo contro l'esponente di Prc, a cui Maurizio Gasparri dà del "cerebroleso". "Trovo disgustose le parole utilizzate dal segretario di Rifondazione di Rimini nei confronti dei nostri due marò: fosse per me a persone come queste non dovrebbe essere più permesso di fare politica", attacca Lara Comi, europarlamentare di Forza Italia e vicepresidente del Ppe. "La responsabilità di affermazioni così offensive e macabre - prosegue - non può passare sotto voce e mi auguro pertanto che il partito prenda provvedimenti contro chi si è reso protagonista di un atto scellerato". Per Stefania Prestigiacomo, deputata di Fi, "le parole utilizzate da questo irresponsabile si commentano da sole e mi auguro che questo soggetto sia allontanato dalla vita politica del nostro Paese quanto prima". "Trovo disgustose - le fa eco il senatore forzista Malan - le parole utilizzate dal segretario di Rifondazione di Rimini nei confronti dei nostri due marò. Affermazioni così offensive e macabre non possono passare sotto silenzio e mi auguro che il partito prenda provvedimenti contro chi si è reso protagonista di un atto scellerato che si aggiunge alla latitanza del governo sui due militari". Intanto la richiesta di arbitrato internazionale ufficialmente avanzata dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sembra aver messo la vicenda, dopo anni di ritardi, tentennamenti e perdite di tempo, sul giusto binario. La Corte suprema indiana esaminerà questa mattina due richieste legate all'iniziativa dell'Italia di attivare l'arbitrato presso la Corte permanente dell'Aja. Ai giudici indiani i legali dei due fucilieri di Marina illustreranno i punti principali dell'azione intrapresa dal governo italiano che ha invocato la Convenzione dell'Orni sul Diritto del Mare, di cui l'India è firmataria, per rivendicare la giurisdizione sul caso. Dal momento in cui l'Italia ha presentato la richiesta di arbitrato l'India, che non può sottrarsi alle regole di questo organismo, ha a disposizione 30 giorni per nominare un giudice di parte. Se non lo fa, Roma potrà chiedere al Tribunale del Mare di Amburgo, di nominare un giudice d'ufficio entro i 15 giorni successivi. Cina: la retata di avvocati che limita i diritti di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 13 luglio 2015 L'allarme è arrivato nella notte tra giovedì e venerdì: "Sono le tre del mattino, è andata via la luce e c'è qualcuno che sta cercando di forzare la porta di casa". Questo l'ultimo messaggio lanciato su un social network dalla dottoressa Wang Yu, noto avvocato dei diritti umani e civili in Cina. Da allora Wang Yu è scomparsa e secondo tutte le indicazioni è in mano alla polizia di Pechino. C'è un'offensiva contro gli avvocati cinesi: almeno 77 sono stati arrestati o interrogati a partire da giovedì. Le notizie sono arrivate da 15 province della Repubblica popolare, segno che la retata è coordinata a livello nazionale. Venerdì la polizia è andata negli uffici dello studio legale di Pechino Fengrui, del quale fa parte Wang Yu, e ha portato via avvocati e personale: sabato mattina il Quotidiano del Popolo ha dedicato una pagina all'azione spiegando che "lo studio Fengrui è un'organizzazione criminale colpevole di aver pianificato turbative dell'ordine sociale in più di quaranta casi sensibili". Gli avvocati dello studio avevano difeso personaggi del dissenso accusati di sovversione per essersi esposti a favore del diritto di espressione e contro gli abusi di potere da parte di organi dello Stato. Ma nella requisitoria del giornale del partito comunista "questi avvocati senza fede né legge hanno moltiplicato i loro atti di sfida nei tribunali e su Internet". La retata contro i legali arriva nella stessa settimana in cui il governo ha varato la nuova legge sulla sicurezza nazionale che tra altre misure prevede la sospensione dei collegamenti Internet per "difendere la sovranità nazionale". Tra i due fatti c'è un collegamento. Secondo Amnesty International: "Tutti gli avvocati arrestati erano attivi sui social media, è chiaro che il governo teme la mobilitazione sul web a sostegno dei diritti umani". E la paura accomuna tutte le mosse repressive recenti di Pechino: paura che la gente si possa organizzare comunicando in rete. Ecco spiegata la censura, l'oscuramento del web e gli arresti. Messico: la grande fuga del re dei narcos El Chapo, ha usato un tunnel dal bagno di Guido Olimpo Corriere della Sera, 13 luglio 2015 Nel 2001 Joaquín "El Chapo" Guzmán è scappato dal carcere di Puenta Grande dentro la cesta della lavanderia. O almeno questo raccontavano anche se pochi hanno creduto alla versione. Questa volta il boss dei boss messicani è fuggito con la specialità del suo "cartello": un tunnel scavato sotto la prigione di massima sicurezza di Altiplano, 90 chilometri a ovest della capitale. Dopo che lo avevano ripreso a Mazatlan, nel 2014, giuravano che non sarebbe più riuscito ad evadere, ma il padrino li ha beffati ancora. Pagando complicità e mobilitando un team di narco-minatori. Le talpe di Sonora, operai esperti, da anni impegnati a realizzare gallerie clandestine sotto il confine con gli Usa per far passare la droga. Guzmán - secondo le autorità - è entrato nella zona doccia attorno alle 8 del mattino, seguito dagli occhi delle telecamere. E da lì non è più uscito. Quando le guardie hanno capito che c'era qualcosa di strano sono corse a vedere ed hanno scoperto un'apertura sul pavimento. Cinquanta centimetri per cinquanta. Quindi una condotta con una scala che scendeva per una decina di metri fino a congiungersi con una galleria dotata di tubi per l'areazione e una piccola rotaia usata per far muovere carrellini pieni della terra estratta. Ingegnoso il "motore": una bicicletta con le ruote bloccate. Una via di fuga che ha permesso al detenuto di raggiungere una fattoria circondata da campo di mais a San Juanita, dove probabilmente erano in attesa i complici. Il sistema scelto da Guzmán, 56 anni, parte dei quali passati al comando del cartello più importante del Messico, non è certo una sorpresa. C'erano segnali. Quando il boss è stato acchiappato nel febbraio del 2014 i militari avevano trovato nel suo rifugio una galleria: l'ingresso era sotto la vasca da bagno. Poi nel maggio di quell'anno, tre suoi uomini fidati, sono spariti dalla prigione di Culiacan sempre grazie a un tunnel realizzato dopo 4 mesi di picconate. È chiaro però che lo scavo spiega solo in parte la fuga. Infatti la polizia ha messo sotto inchiesta 18 dipendenti del penitenziario. Saranno interrogati per scoprire quelle collusioni che molti sospettano. Una situazione imbarazzante per il governo del presidente Neto che dovrà dare risposte convincenti. In queste ore poi si analizza quanto è accaduto all'Altiplano dopo l'arrivo di Guzmán. Il detenuto matricola 3578 viveva nella sezione "Trattamenti speciali". Dunque misure severe, con controlli minuziosi sui visitatori. In realtà sembra che il narcotrafficante abbia continuato a dirigere i propri affari. Inoltre il carcere ha vissuto un periodo difficile. Per alcuni mesi un buon numero di prigionieri, istigati da "El Chapo" e da "La Barbie", un altro criminale, hanno organizzato proteste e uno sciopero della fame. Contestazioni seguite, a giugno, da un caso intrigante. Una donna misteriosa ha incontrato il padrino. Per entrare ha usato documenti falsi, ma secondo indiscrezioni era una parlamentare, forse la sua nuova fiamma. Storia condita con smentite e illazioni che ha fatto capire come Joaquin non fosse certo "isolato". Durante la detenzione di Guzmán il gruppo di Sinaloa ha retto, pur attaccato dai rivali e agitato da tensioni interne. A gestire le cose c'era la triade composta da Ismael "El Mayo" Zambada, Juan José "El Azul" Esparragoza, e Fausto Isidro Meza Flores. Ora dovranno lasciare di nuovo il posto al Nemico pubblico numero uno. Messico: coca, migranti, pedofilia, l'impero dei clan si allarga fino a sostituire lo Stato di Federico Varese La Stampa, 13 luglio 2015 Joaquín Guzmán detto "El Chapo", il narcotrafficante più famoso del mondo, astuto e ricchissimo, senza licenza elementare, soprannominato "Il Tozzo" per la sua figura non proprio atletica, è scappato da una prigione di massima sicurezza. Le modalità della fuga e il calibro del prigioniero rappresentano una sconfitta di proporzioni vastissime per il governo messicano. "El Chapo" è il simbolo dell'anti-Stato che estende i suoi tentacoli ben oltre il traffico di droga. Oggi Guzmán ha dimostrato di essere più forte della democrazia, dell'esercito e della polizia. Guzmán era sottoposto a straordinarie misure di sicurezza nella prigione federale di Altiplano, nel centro-sud del Messico, eppure i suoi uomini sono riusciti a costruire un tunnel di un chilometro e mezzo che, partendo dalle docce, raggiungeva una casa nel quartiere a ridosso del carcere. Il tunnel era ventilato e illuminato, largo tra i 70 e gli 80 centimetri, alto un metro e mezzo, con un corrimano lungo l'intero tragitto. Le autorità hanno trovato anche una motocicletta usata per trasportare i detriti. Come è possibile che nessuno abbia notato nulla di strano negli ultimi nove mesi? Diciotto agenti di custodia sono sospettati di aver facilitato la fuga di Guzmán, ma è lecito dubitare che la giustizia sarà in grado di svelare complicità nelle alte sfere. Polemiche sul presidente Le ripercussioni politiche per il presidente Peña Nieto sono per ora incalcolabili. Il carcere si trova nello Stato dove ha costruito la base del suo potere. La fuga di "El Chapo" ha dunque un significato simbolico. Durante la campagna elettorale, Peña Nieto aveva ridicolizzato Vicente Fox per essersi fatto scappare "El Chapo" nel 2001. Se la polizia non sarà in grado di arrestare Guzmán in tempi brevi, toccherà al Presidente essere ridicolizzato sulla stampa e in parlamento. Oltre agli aspetti simbolici, altri sviluppi recenti mostrano che l'attuale leader non è riuscito ad invertire la discesa del Paese nell'illegalità. Le indagini sul massacro dei 42 studenti nel settembre scorso hanno rivelato decine di fosse comuni con centinaia di corpi putrefatti. Mentre il governo si vanta che gli omicidi sono calati del 12.5% nel 2013 rispetto al 2012 (per un totale di circa 23.000 morti), è tragicamente evidente che le cifre sono inaffidabili. Le due riforme degli apparati di sicurezza, presentate come la soluzione al problema della violenza diffusa, si sono arenate, mentre il governo non ha lanciato un programma per ridurre la corruzione endemica. Inoltre l'amministrazione messicana continua a sottoscrivere i principi della War on Drug inaugurata da Richard Nixon, mentre altri Paesi latino-americani hanno imboccato la strada della legalizzazione di alcune droghe. Sorge il sospetto che i lauti finanziamenti americani siamo il fattore cruciale dietro questa scelta politica. Gli affari dei cartelli Nel frattempo, il narcotraffico ha cambiato natura, estendendo i suoi interessi ben oltre il trasporto della cocaina e delle metanfetamine verso gli Stati Uniti. I cartelli sono diventati forme di governo, radicati nella maggior parte del Paese, dove estorcono le attività economiche legali e controllano la politica. Era uno sviluppo ampiamente prevedibile: se un gruppo criminale ha la forza di gestire rotte miliardarie, sarà anche in grado di controllare altri aspetti della vita delle comunità dove opera. La stessa capitale non è immune. Una indagine pubblicata di recente sul quotidiano "La Reforma" ha documentato come anche nei quartieri alla moda di Mexico City i negozianti sono costretti a pagare il pizzo. Il proprietario di un bar che si è rifiutato è stato freddato in pieno giorno. Nell'inferno creato dalle mafie messicane vi sono sinergie raccapriccianti. I cartelli controllano le zone del confine con gli Stati Uniti. Due gruppi, gli Zetas e il Cartello del Golfo, intercettano chi cerca di attraversare nei loro territori. In alcuni casi, si limitano a imporre una tassa di passaggio. In altri casi, rapiscono i migranti più giovani, i quali vengono sfruttati nei modi più vergognosi. Secondo uno studio della Coalition Against Trafficking, il Messico è il primo produttore di pedopornografia nella regione. Le vittime di questa industria sono soprattutto giovanissimi stranieri, rapiti nelle zone di confine mentre cercano di entrare negli Usa. Il governo dei narcos produce mostri. La pressione militare e gli arresti di alcuni boss hanno avuto effetti limitati. Molti cartelli un tempo centralizzati e estesi su un territorio molto vasto, si sono polverizzati in gruppi più piccoli i quali sono in grado di resistere meglio agli attacchi delle autorità. Il futuro organizzativo dei narcos consiste nel creare alleanze tra gruppi diversi che si accordano sulla divisione del territorio e accettano di non farsi più la guerra. Non è un caso che il cartello guidato dall'astuto "El Chapo" sia una federazione di gruppi autonomi. Il timore è che tali strutture sostituiscano presto lo Stato federale messicano. Bolivia: con Papa Francesco a Palmasola, viaggio nel carcere incubo di Lucia Capuzzi Avvenire, 13 luglio 2015 L'enorme scritta interrompe il monotono rincorrersi di mattoni scuri. I caratteri rossi spiccano sul fondo bianco: "Oggetti proibiti". Poi, in nero, segue una lunga lista che va dai telefoni cellulari, alle bevande alcoliche, ad armi ed esplosivi. Perché nessuno resti escluso dal messaggio, il contenuto è riassunto in una serie di disegni. La gente la chiama la "pubblicità". Perché - dicono - il cartello offre appena una sintesi di tutto quello si può trovare all'interno, oltre la cancellata verde, che segna la fine di Santa Cruz. Oltrepassata la "frontiera" si entra nella "città" di Palmasola, in cui risiedono 5. 361 detenuti - il 36 per cento del totale nazionale -, le famiglie, gli agenti, i funzionari. Il maggior centro penitenziario della Bolivia. Una piccola metropoli carceraria in perenne attività. Il confine tra prigione e città è, al contempo, blindato e permeabile. Un controsenso che ho potuto verificare. Per entrare nel complesso occorre un'autorizzazione dell'Amministrazione penitenziale. Nei giorni precedenti alla visita di papa Francesco, le richieste dei media vengono rifiutate "per ragioni di sicurezza". Si può, però, percorrere un'altra via. Mi presento al cancello verde di Palmasola lunedì, l'ultimo giorno prima del blocco totale degli ingressi agli esterni. Provo ancora a chiedere. Il "no" è quasi scontato. Nulla impedisce, però, a chi vuole entrare di mettersi in fila con i parenti, sotto la tettoia di metallo, stretti dalla calca e dal passamano di metallo. La "porta verde" si apre a intervalli intermittenti: ogni volta la fila sussulta compatta per guadagnare posizione. Con un po' di pazienza, arriva il momento dell'entrata. Nessun controllo delle borse, più o meno voluminose, nemmeno dei documenti. Basta indicare il nome del detenuto a cui si fa visita in un apposito gabbiotto: in cambio si riceve un timbro sulla pelle. Il "lasciapassare", dicono le mendicanti che, dall'altra parte del cancello, lo eliminano con un panno umido in cambio di pochi spiccioli. Non è, però, indispensabile nemmeno questo: una volta varcata la soglia, si può camminare per i padiglioni senza che nessuno chieda spiegazioni. Il primo è quello delle donne, circa 400. Una rete metallica le separa dal resto del complesso, dove risiedono gli uomini. Passare quella rete per una notte - dicono fonti ben informate - costa 15 dollari. "C'è un problema di controllo a Palmasola, come nel resto delle carceri boliviane. A vigilare su oltre 5mila reclusi ci sono appena 16 funzionari. Questi hanno, dunque, dovuto delegare ai 300 poliziotti, a loro volta impreparati per un simile incarico. Dal 2006, dunque, si è optato per un sistema "misto", in cui i detenuti eleggono dei rappresentanti, chiamati "reggenti", che collaborano nelle funzioni di "governo" e sicurezza. Il meccanismo da una parte ha ridotto la violenza. Dall'altra, le opportunità di corruzione sono infinite", ci spiegherà poi Ramiro Llanos, fino a due anni fa responsabile dell'Amministrazione penitenziaria. Nell'autunno del 2013, Llanos ha dato le dimissioni per creare il Cenvicruz, una struttura amministrata solo da civili. "Solo penitenziari più piccoli, gestiti da personale civile specializzato, possono essere davvero centri di recupero", sottolinea. Una strada di ciottoli e fango porta al Pc-4, il cuore di Palmasola, il cosiddetto "regime aperto", dove sta la maggior parte dei reclusi. E dove ieri Francesco ha portato il suo messaggio di misericordia e speranza. Una cittadella terribilmente stratificata. Mini-appartamenti si sovrappongono a baracche. È solo una questione di soldi: chi li ha, può costruirsi la propria casa come preferisce. Gli altri si adattano. I più poveri condividono stanzoni con materassi sul pavimento. Anche per quello si paga. A Palmasola tutto ha un prezzo. Appena entrati si versano tra 500 e mille dollari per la propria incolumità, 120 dollari per essere esonerati dal lavoro di pulizia. Poi c'è la tassa per il consumo di alcol, di droga. In media, al mese, ogni detenuto sborsa tra i 100 e i 150 dollari alla "rete" formata tra reggenti e poliziotti. "È una miniera d'oro. Non "conviene" velocizzare la giustizia. Ecco perché l'84 per cento dei reclusi è in attesa di giudizio", conclude Llanos. Il che spiega perché in una struttura costruita per 800 persone vivano in oltre 5mila. Ai reclusi, poi, si aggiungono mogli, mariti, figli. È la presenza dei familiari - in particolare di 160 bimbi - uno degli aspetti più controversi del sistema-Palmasola. "La legge consente alle mamme di tenere con loro i piccoli fino a sei anni. Questi possono frequentare l'asilo vicino al penitenziario", spiega Ninoska Ayala Flores, capo nazionale del Programma detenuti di Capacitación y derechos ciudadanos. In genere, però, i bambini restano ben oltre. "Perché? Perché non hanno altro posto dove lasciarli", afferma Verónica Bustillos direttore del "Centro de apoyo integral carcerario y comunitario" (Caicc), che da 21 anni accompagna a scuola i bimbi delle prigioni di Cochabamba. La maggior parte delle detenute viene dall'interno. "Non ha parenti vicini e affidabili, i padri le hanno abbandonate. Non sempre, poi, gli istituti sono meglio del carcere. Non è solo un fatto di strutture. Nessuno delle migliaia di piccoli con cui ho lavorato avrebbe lasciato la madre per una stanza migliore. Il problema, semmai, è garantire ai bimbi istruzione, sostegno, occasioni di svago fuori", dice Verónica. Affermazioni forse choccanti per l'Occidente. Ma qui siamo "nell'altro Occidente latinoamericano", dove nulla è bianco o nero. Lo stesso discorso vale per la presenza dei familiari: questa, da una parte, crea problemi di spazio, convivenza e sicurezza, dall'altra è un prezioso sostegno per i reclusi, quasi tutti in attesa infinita di giudizio. A Palmasola, del resto, tutto è un gioco di paradossi. L'ultimo: prima di uscire dal penitenziario, chiedo di nuovo l'autorizzazione a visitare in futuro la struttura. "Niente da fare - risponde il responsabile. Hasta luego". Cina: Corte Suprema, sotto inchiesta per "corruzione" il vicepresidente Corriere della Sera, 13 luglio 2015 Il vicepresidente della Corte Suprema cinese, il giudice Xi Xiaoming, è indagato per "corruzione", secondo una notizia diffusa dall'agenzia ufficiale della Repubblica Popolare Xinhua (Nuova Cina). Secondo il comunicato ufficiale, che in genere preannuncia l'arresto, il giudice Xi, 61 anni, uno dei magistrati più in vista della massima istituzione giudiziaria di Pechino, si è reso responsabile di "gravi violazioni della disciplina e della legge", una parafrasi che in genere indica la corruzione. Non è chiaro se il giudice sia stato già rimosso. Ma la sua biografia è stata cancellata dal sito Internet della Corte Suprema due ore dopo la diffusione della notizia. Iscritto al Pcc da 40 anni, Xi Xiaoming sarebbe, dopo Zhou Yongkang, ex capo della sicurezza interna, condannato all'ergastolo per gli stessi reati, il più alto funzionario a incappare nella campagna avviata dal presidente Xi Jinping per "ripulire" i vertici dello Stato dalle "mele marce" o, come sono stati definiti in gergo, le "tigri (funzionari di rango elevato) e le mosche (funzionario di grado medio/basso)". Israele: liberato detenuto palestinese Khader Adnan, dopo due mesi di sciopero della fame La Presse, 13 luglio 2015 È stato rilasciato dalle autorità israeliane dopo una detenzione amministrativa di un anno il detenuto palestinese Khader Adnan, dopo uno sciopero della fame durato 55 giorni. È stata la moglie di Adnan a riferire la notizia a Xinhua, raccontando di aver ricevuto una telefonata dal marito che le comunicava il rilascio. Adnan, 37 anni, esponente della Jihad islamica, aveva cominciato lo sciopero della fame il 5 maggio per protestare contro la sua detenzione, sospendendolo solo il 29 giugno, mentre si trovava in un ospedale israeliano, dopo il raggiungimento di un accordo con le autorità israeliane sul suo rilascio prima della fine del Ramadan.