Giustizia: l'impotenza dei politici e la tirannia dei burocrati di Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera, 12 luglio 2015 Quando il sindaco Marino dice di Roma "la nostra città" risulta verosimile come lo sarei io se lo dicessi a proposito di Kansas City o di Oslo. Genovese-palermitano di origine, Marino, catapultato nella sua carica grazie alle pazzotiche "primarie" del Pd, alle conseguenti lotte tra i militanti della sinistra (a suo tempo, infatti, Verdi, Sel e "movimenti" lo imposero alla "Ditta") ma soprattutto grazie alla meritata débâcle dell'impresentabile Alemanno, ha fin dall'inizio dimostrato che per lui Roma era un pianeta sconosciuto. In una città con i dissesti che si conoscono, nella quale non un solo servizio pubblico funziona in modo appena accettabile, per prima cosa che fa Marino? Invece di pensare a far spazzare i marciapiedi o pagare il biglietto dell'autobus, perde settimane e settimane e impiega mezzi e uomini nell'impresa (da nessuno richiesta) di pedonalizzare una via di grande traffico, via di Fori Imperiali: al solo scopo, bisogna pensare, di ottenere una menzione e magari una foto sul New York Times. Come nella migliore tradizione del provincialismo italiano che consiglia innanzitutto di "fare bella figura all'estero". Cominciano poi a piovergli sulla testa le tegole di Mafia Capitale. Quell'inchiesta certifica quanto a chiunque abita a Roma ( tranne che a Marino) è noto da sempre: l'intera macchina amministrativa cittadina è marcia. La corruzione, il nepotismo, il vero e proprio malaffare, e di conseguenza l'inefficienza più spaventosa, dominano dovunque: dai vertici del Campidoglio e delle municipalizzate all'ultimo impiegato. E per ogni cosa: dalla spesa gratis che il vigile fa nei negozi delle "sue" strade, alle licenze commerciali e dei taxi, alle licenze edilizie, alla gestione dell'immenso patrimonio edilizio del Comune, alle decisioni in merito agli appalti, alla redazione del piano regolatore e delle sue varianti, all'assenteismo sistematico di tutti i dipendenti. Nella capitale d'Italia, nella futura sede del Giubileo, in quella eventuale dell'Olimpiade, tutto insomma è comprato e venduto, per ogni regola ci si "aggiusta". Intimamente estraneo alla città, entrato a suo tempo in politica per la solita strizzatina d'occhio della Sinistra all'"indipendente della società civile" del caso, Marino però non si rende conto di nulla, e non fa nulla. Personalmente onesto, lo rimane: ed è tutto, mentre il mondo intorno a lui crolla. Ma detto sul conto di Marino quanto va detto, è anche giusto chiedersi: che cosa realmente poteva fare? Si invoca da più parti il rinnovo della Giunta con nomi importanti e autorevoli. In effetti anche sulla composizione dell'organo di governo il sindaco di Roma non ha certo brillato. Si è fatto imporre qualche vecchia volpe dai ras romani del Pd, ha nominato qualche sconosciuto/a di sua fiducia, rivelatasi perlopiù impari alla bisogna. Ma che cosa potrebbero fare oggi anche gli eventuali nomi nuovi, importanti e autorevoli? Io credo ben poco. Perché la verità è che chiunque in Italia occupa una carica di responsabilità politica per volontà del popolo, lungi dall'essere in grado di dirigere effettivamente la macchina amministrativa a cui è a capo, in realtà ne è diretto. Quasi sempre infatti - e non potrebbe essere altrimenti - egli ignora come essa funziona, non ne conosce le attribuzioni, le qualifiche, le competenze, le mille gabole e le mille trappole regolamentari e legislative che vi hanno corso. Ciò vuol dire che i padroni di ogni pratica e quindi di ogni decisione sono di fatto loro, i signori degli uffici. Sono loro che in maniera più o meno abile indirizzano la volontà del sindaco o degli assessori. Sono loro che possono accelerare, intralciare o addirittura vanificare qualunque decisione che non ritengano per qualunque motivo di loro gradimento. E tanto più la burocrazia lo può fare, e lo fa, in quanto il potere effettivo che ha su di essa l'autorità politica è praticamente quasi nullo. I vertici possono essere ancora spostati da una funzione all'altra, infatti, ma il resto della macchina, protetto in genere da un contratto di lavoro ipergarantista come il contratto del pubblico impiego, nonché da una selva di sigle sindacali interne che esistono solo in funzione del loro forsennato corporativismo, è virtualmente intoccabile. Nessuno può essere singolarmente premiato e tanto meno sanzionato: tanto è vero che dopo mesi e mesi dei circa ottocento vigili romani che si assentarono abusivamente dal lavoro la sera dell'ultimo dell'anno, se andrà bene riceveranno una sanzione in una quindicina. Se andrà bene. Ma ciò che vale per le amministrazioni comunali vale in genere per tutto il settore pubblico. Sicché in tutto l'apparato di governo del Paese ogni repulisti, ogni vero cambiamento di atmosfera, di stile di lavoro, è divenuto da molto tempo impossibile. Un sistema messo in piedi per garantire l'indipendenza dell'amministrazione rispetto agli "interessi" dei politici, si è di fatto trasformato in un'amministrazione in grado di imporre di fatto il suo interesse alla politica, o perlomeno di stipulare con essa di volta in volta i compromessi che essa ritiene per sé più utili. Si è trasformato cioè in un sistema che è il contrario della democrazia, dal momento che almeno la politica risponde agli elettori, mentre la burocrazia ormai non risponde a nessuno. Anche per questo in Italia è così difficile in ogni ambito cambiare, uscire dall'immobilismo, avviare per esempio nuovi modelli di gestione e di governo della cosa pubblica. Perché verso la burocrazia la politica è in uno stato di perenne soggezione, cerca di servirsene per i suoi piccoli e immediati vantaggi, ma per il resto lascia fare temendone le capacità di ostruzionismo, di ricatto o di vendetta. Ma in questo modo, in realtà, a essere tenuto in stato di soggezione e di ricatto è tutto il Paese. Giustizia: "lo scudo di cartone", tra magistrati e parlamentari rapporto sempre più difficile di Giovanni Sacchetti Il Garantista, 12 luglio 2015 Se prima si eccedeva nel negare l'autorizzazione a procedere, ora deputati e senatori non sono più tutelati nell'esercizio del loro mandato. Quando il professor Coppi ha ricordato i fondamenti costituzionali della libertà dell'attività parlamentare, il pubblico ministero Woodcock ha reagito indicando l'illiceità del passaggio di danaro che diede luogo alla compravendita di senatori. Il Tribunale di Napoli ha dato ragione al secondo, ma il problema teorico sollevato dalla difesa di Berlusconi è lungi dall'essere risolto. Le immunità parlamentari, nelle democrazie moderne, registrano una diversa latitudine, ma restano un baluardo invalicabile della funzione rappresentativa: ciò anche quando si affrontano - come fa Giampiero Buonomo, "Lo scudo di cartone" (ed. Rubbettino pp. 254) - le prospettive di revisiono delle garanzie del Parlamento e dei suoi componenti. Anche oggi che la maggioranza propende per la concessione degli arresti, per i parlamentari inquisiti, resta alto il timore che la "giustizia politica" non sia meno lontana dalla verità di quando negava ad oltranza l'autorizzazione. La polemica contro gli abusi nel diniego delle autorizzazioni si rivela passeggera, ma non lo è quella intorno al fumus persecutionis: è difficile ricavare dalla prassi di questi giorni una valutazione del Parlamento, che non sia dettata dalle priorità politiche del momento. L'invito del libro è, allora, quello alla sincerità semantica: da sempre permeata di giudizio di opportunità, l'immunità parlamentare tale deve diventare, formalmente, abbandonando la falsa etichetta "giurisdizionale" di cui si ammanta. La Camera concede o nega, quindi, se intravede un pericolo nel privarsi di un suo componente, maggiore di quello derivante dal ritardo nel processo fino alla fine del mandato. Nella proposta contenuta nel testo, che attinge dallo statuto europeo del 2003, il diniego parlamentare sarebbe una mera facoltà, assunta a maggioranza qualificata dopo l'informativa obbligata alla Camera di appartenenza. La decisione sarebbe sottratta dalle maggioranze "da quattro amici al bar", con cui in passato si sono capovolte - con un pugno di presenze in Aula - le richieste avanzate dalla magistratura. Ma, soprattutto, il vero scopo delle informative obbligatorie dei giudici al Parlamento sarebbe quello dì evitare la frode alla Costituzione: un problema tutt'altro che pretestuoso, come dimostra la crescente elaborazione della Corte costituzionale nel presupposto della difesa dell'Assemblea più che del singolo. Quanto all'insindacabilità, essa pare vivere una nuova primavera: neppure i grillini hanno osato metterla in dubbio durante l'esame della riforma Boschi; mezzo Parlamento ha rimbeccato De Luca dichiarando che la lista degli impresentabili resa nota da Rosy Bindi era coperta dall'articolo 68, primo comma della Costituzione. Eppure l'abuso della guarentigia, qui, non è stato meno dirompente: la Corte ha reagito prevedendo l'obbligo di un "nesso funzionale", che deve stringere l'atto parlamentare e l'esternazione sui giornali del suo contenuto. Si tratta di una linea oramai costante, con cui, da vent'anni la Corte costituzionale si erge a giudice tra magistrati e Parlamento. Ma si tratta di un principio utile anche per comprendere quanto è ancora giustificata la deroga, allo Stato di diritto, che spesso rivendicano per sé gli organi costituzionali. La disciplina dei lobbysti, il conflitto di interessi, l'utilizzo dei contributi ai Gruppi, l'accesso paritario ai mezzi di comunicazione in campagna elettorale, i requisiti per le nomine parlamentari alle autorità indipendenti: sono tutti casi in cui il dogma della sovranità parlamentare offriva uno scudo a chi compiva atti fisicamente nei palazzi della politica. Il libro spiega perché nessuna di queste "zone franche" può ritenersi più infrangibile: dopo la sentenza Amato del 2014 sull'autodichia parlamentare, non è più possibile sostenere che il diritto politico equivale alle regole del rugby. Non si tratta di una metafora coniata da Buonomo, anche se dobbiamo alla sua ricerca la sorprendente analogia inglese con l'Italia: nella sportiva comunità anglofona, sono definite così le regole applicate dagli stessi che le creano, senza alcuna mediazione di un giudice "terzo". Si tratta del prototipo di un certo modo di autogestire la normazione: ce ne accorgemmo negli anni Ottanta anche noi italiani, quando Luna Rossa si trovò a competere all'America's cup sotto un regolamento, che era un altro modo di definire transazioni, volta per volta, sul modo di accordare i punteggi, in base ai rapporti di forza tra i concorrenti. Sembra quindi strano apprendere che il dogma della sovranità del Parlamento sia la cosa più vicina alle regole del rugby: eppure dopo lo scandalo dei rimborsi a Westminster, anche lì si è richiesta maggiore trasparenza e prevedibilità, per quello che da secoli era considerato il club più esclusivo di Londra. E nel medesimo vizio ricade il cuore della politica italiana, con l'aggravante che non abbiamo neppure le solide coordinate morali che limitano gli abusi, alla Camera dei comuni, a poche mele marce. Da decenni le maggiori democrazie europee, invece, registrano una gestione tutto sommato prevedibile ed accessibile delle normative interne alle Camere: soprattutto, quando si tratta di confrontarsi con la Giurisdizione, a Parigi o Berlino non sorgono quegli psicodrammi con cui, da noi, vengono inalberati antichi feticci. Un malinteso senso della convenienza fa sì che, in Italia, l'autodichia vada abrogata quando giova al nostro avversario, ma vada mantenuta ed utilizzata quando è utile alla nostra battaglia: si veda la vicenda soppressione dei vitalizi, che per i grillini andrebbe fatta "in casa", con un tratto di penna, perché, si dice, "la legge ci metterebbe troppo tempo". Occorre anche qui uscire dall'immediato "particolare" per seguire una traccia razionale, in cui dividere la funzione rappresentativa dal resto: lumeggiare su questo "altro dalla politica", ripercorrerne le vicende contenziose e collocarlo in una visione prospettica è il merito del testo, che ne trae motivo di fiducia sulla vitalità degli istituti democratici anche nel nostro Paese. Giustizia: "Enrico Letta? Un incapace". Renzi e il caso delle intercettazioni con Adinolfi di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 12 luglio 2015 Le telefonate emerse da un'indagine (archiviata) tra il leader e il generale della Guardia di finanza Adinolfi, con commenti sul suo predecessore. Il Procuratore generale della Corte di cassazione sta svolgendo accertamenti preliminari su alcune intercettazioni che ieri hanno fatto discutere. Colloqui, pubblicati in prima pagina sul Fatto Quotidiano, tra il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi e alti esponenti istituzionali in un'indagine archiviata i cui atti non erano dunque destinati a diventare pubblici. Tra gli intercettati c'è Matteo Renzi, che all'inizio del 2014, parla con Adinolfi della situazione del governo allora presieduto da Enrico Letta. Si tratta di conversazioni "captate" nell'ambito dell'inchiesta condotta dalla procura di Napoli sulla cooperativa Cpl che un paio di mesi fa aveva portato tra l'altro all'arresto del sindaco di Ischia. Questa parte dell'indagine era stata trasmessa dal pubblico ministero Henry John Woodcock ai colleghi romani che avevano deciso di archiviarla non rilevando alcun profilo penale nelle telefonate del generale Adinolfi, né nelle intercettazioni ambientali - effettuate dai carabinieri del Noe - che avevano colto l'alto ufficiale durante un pranzo nel quale, ipotizza il Fatto, "Adinolfi sembra dire che il capo dello Stato sarebbe ricattabile" a causa di suo figlio, Giulio Napolitano, dipinto come un uomo di grande potere. Il professor Giulio Napolitano, in una lettera al Fatto scrive che valuterà le azioni da intraprendere e sottolinea: "Nei nove anni di presidenza di mio padre ho sempre assunto un profilo pubblico e professionale volutamente in disparte, rifiutando moltissimi incarichi che anche indirettamente avrebbero potuto riverberarsi negativamente sulla attività e la immagine del presidente della Repubblica". L'ufficio del senatore a vita Giorgio Napolitano ha smentito categoricamente che il presidente sia stato oggetto di un ricatto giudicando pretestuosi gli attacchi, peraltro non nuovi. La prima telefonata intercettata è dell'11 gennaio 2014 giorno del compleanno di Renzi, un colloquio tra Renzi stesso e il generale Adinolfi. Nella conversazione, mentre parla da un'utenza intestata alla fondazione Big Bang, l'attuale capo del governo avrebbe detto: Enrico non è capace. Non è cattivo, non è proprio capace. Racconta di aver incontrato il giorno prima Letta e di avergli proposto di lasciare Palazzo Chigi, in cambio della promessa di una futura elezione al Quirinale. Renzi riferisce il rifiuto e al generale dice: la settimana prossima sarà decisiva perché vediamo se riusciamo a chiudere l'accordo di governo. "Rimpastino?" chiede Adinolfi. "Rimpastone, no rimpastino. Il problema è capire anche se mettere dentro qualcuno dei nostri. E sai, c'è prima l'Italia. Mettersi a discutere per buttare all'aria tutto, secondo me alla lunga sarebbe meglio per il Paese perché lui è proprio incapace. L'alternativa è governarlo da fuori". Il problema, analizzano i due, però è Napolitano che non è d'accordo. Ma Berlusconi sì, anticipa l'allora sindaco di Firenze, e il Fatto osserva che la conversazione avviene poco prima dell'incontro in cui si stipulerà il patto del Nazareno: "E poi il numero uno anche se mollasse ce l'ha a morte con Berlusconi per cui..., e Berlusconi invece sarebbe più sensibile a fare un ragionamento diverso". Il deputato del Movimento 5 Stelle, Alessandro Di Battista, chiede al presidente del Consiglio di riferire in Parlamento sulla vicenda. Giustizia: caso Letta-Renzi, l'ira di Napolitano sulle intercettazioni del Fatto Quotidiano Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2015 L'ex capo dello Stato smentisce di essere stato ricattato. Il centrodestra chiede nuove norme, no del governo. Quella del Fatto Quotidiano è "una grossolana, ignobile montatura" e fa leva sul testo di alcune intercettazioni giudiziarie "acquisite e pubblicate in modi di assai dubbia legittimità". È quanto scrive il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una replica al giornale pubblicata ieri. Per l'ex capo dello Stato è "ingiurioso" ipotizzare "in modo gratuito e sgangherato" la possibilità di essere stato oggetto "di ricatti da parte di chicchessia". Il Fatto Quotidiano aveva infatti pubblicato dalle carte dell'indagine di Napoli sulla Cpl Concordia una telefonata del gennaio 2014 tra Renzi e l'allora comandante interregionale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi che ipotizzava una presunta ricattabilità ai danni del capo dello Stato da parte di Enrico Letta e dell'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Parole che ieri Adinolfi ha smentito. Ha replicato al giornale diretto da Marco Travaglio anche il figlio di Napolitano, Giulio, anche lui secondo la telefonata intercettata "ricattato" o "ricattabile". "Nei nove anni di presidenza di mio padre - ha scritto Napolitano junior - ho sempre assunto un profilo pubblico e professionale volutamente in disparte, rifiutando moltissimi incarichi che anche indirettamente avrebbero potuto riverberarsi negativamente sulla attività e la immagine del presidente della Repubblica". Sulla vicenda è intervenuto ieri tutto il centrodestra. Chiedendo una riforma delle norme sulle intercettazioni. "È giunto il tempo che si approvi finalmente una normativa che, nel pieno rispetto del diritto di cronaca, eviti di trasformare la pubblicazione delle intercettazioni in un processo sommario. Spero che adesso sia davvero la volta buona" esorta il capogruppo di AP-Ncd, Renato Schifani che tuttavia appare pessimista: "C'è da scommettere che anche questa volta alla riprovazione generale non seguirà alcuna decisione, ma forse sarebbe il caso di interrogarsi fino a quando questo Paese continuerà a non essere civile". Richiesta alla quale il premier Matteo Renzi risponde con un secco no. "Renzi-Napolitano: vogliamo la verità, non la veri-tweet", ha scritto tra gli altri su Twitter Renato Brunetta, presidente dei deputati di Fi. Che nel mattinale invita il premier a riferire in aula, oltre che ad aprire una commissione di inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 che portarono alla caduta del Governo Berlusconi. "Non ci bastano un paio di tweet e qualche battuta da taverna" si legge nella newsletter. Giustizia: il premier esclude strette alla legge sulle intercettazioni "sono altre le priorità" di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 12 luglio 2015 Forza Italia gli chiede di riferire in Aula. E la Camusso cita l'autore di "House of Cards" che disse: Matteo, è solo fiction. Nella nuova puntata del duello tra Renzi e Letta spunta a sorpresa Susanna Camusso. La leader della Cgil ha lanciato su Twitter la foto di Kevin Spacey nei panni di Frank Underwood, camicia bianca e bretelle nere, accompagnata dalla frase "Era il 19 settembre 2014". Quel giorno Michael Dobbs, l'autore della trilogia House of Cards da cui fu tratta la serie americana sugli intrighi del potere, aveva inviato un messaggio a Renzi. "Le mie storie non sono un manuale di istruzioni", scriveva l'ex consigliere della Thatcher al premier italiano. A raccontare l'episodio era stato lo stesso scrittore britannico, all'International communication summit Europe: "Quando ho saputo che Renzi aveva comprato una copia del mio libro a Roma, ho ritenuto prudente mandargli una nota per ricordargli che il libro è soltanto fiction". Un consiglio che la Camusso ha rilanciato in chiave politica, richiamando il commento di Letta al Corriere sulla telefonata tra Renzi e il generale Adinolfi: "Che squallore, sembra House of Cards". A due giorni dalla pubblicazione sul Fatto quotidiano della conversazione, intercettata nell'ambito dell'inchiesta (archiviata) sulla Cpl Concordia, la polemica prende quota su diversi fronti: i giudizi del premier sul predecessore, il ruolo di Napolitano e l'opportunità di pubblicare colloqui telefonici privi di rilievo penale. Ma per il premier una stretta sulle intercettazioni non è all'ordine del giorno. "Tengo più alla produzione industriale che alle intercettazioni", fa sapere Renzi. Forza Italia è scatenata. Brunetta sul Mattinale rilancia la richiesta di una commissione di inchiesta sui fatti che nel 2011 portarono alle dimissioni di Berlusconi e chiede a Renzi di riferire in Aula: "Napolitano non è stato ricattato? Benissimo. Ci spieghi perché allora ha insediato in quattro e quattr'otto Renzi, licenziando senza nemmeno gli otto giorni che si danno alle colf il prediletto (Letta, ndr)". La risposta di Giorgio Napolitano e del figlio Giulio arriva via lettera sulle pagine del Fatto. Il presidente emerito della Repubblica stigmatizza la "grossolana, ignobile montatura", si augura che "menzogne e intimidazioni" cadano nel vuoto e si riserva di procedere per le vie legali: "Ingiurioso è il solo ipotizzare, in modo gratuito e sgangherato, che il presidente Napolitano abbia potuto essere oggetto di ricatti da parte di chicchessia". Anche Giulio Napolitano evoca le carte bollate nei confronti dei quattro commensali (Nardella, Adinolfi, Casasco e Fortunato) che, intercettati alla Taverna Giulia, avrebbero "gettato fango" su di lui ipotizzando ricatti, fatto "risibile e assurdo". Per Flavio Tosi la pubblicazione di una conversazione privata senza rilevanza penale è un fatto gravissimo, da "Repubblica delle banane". Renato Schifani rilancia l'urgenza di "una normativa che eviti un processo sommario". E Arturo Scotto di Sel, convinto che le intercettazioni penalmente irrilevanti non vadano pubblicate, prende spunto per attaccare Renzi: "Letta incapace? Probabile, ma nell'ultimo anno la disoccupazione è cresciuta e il debito pubblico ha sforato il 130%. Mi chiedo dove siano i capaci". Giustizia: Mafia Capitale. Marino "costretto a prorogare i contratti affidati senza gara" Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2015 La lettera del sindaco di Roma al prefetto Gabrielli. Schiacciato dal peso di un bilancio "con uno squilibrio strutturale quantificabile in oltre 800 milioni di euro". Stretto dalla morsa di un'ipotesi di danno erariale avanzata dalla procura regionale della Corte dei conti "pari a ben 340 milioni per illegittima corresponsione del salario accessorio dal 2008 al 2012". Costretto, soprattutto, dall'eredità dell'assenza di un bilancio preventivo approvato "in tempi utili per avviare e completare una gara" il sindaco di Roma, Ignazio Marino, racconta che la proroga degli affidamenti diretti è stata una condizione finora quasi inevitabile da cui sta cercando di uscire. Con una lettera di 20 pagine al prefetto di Roma, Franco Gabrielli, datata primo luglio e ora agli atti dei documenti trasmessi dal prefetto al ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Il documento di Marino, citato nella relazione finale di Gabrielli, affronta subito e per oltre la metà delle pagine il dissesto finanziario del bilancio del Campidoglio. Cosa c'entri con Mafia Capitale, è presto detto. Il sindaco di Roma deve rispondere a un'obiezione pesante, decisiva: perché mai, se tra il primo gennaio 2011 e il 13 giugno 2013 - gli ultimi due anni del mandato di Alemanno - gli affidamenti di appalti senza gara coprono il 36% circa del totale del Campidoglio, per un valore di oltre 5 miliardi, poi, tra giugno 2013 e dicembre 2014, con la nuova giunta, le procedute negoziate diventano pari al 72% del totale, per un valore di un miliardo. Tutti appalti senza gara, affidamenti rinnovati per somma urgenza. Dove ci sono, appunto, in grande quantità, i contratti per i Buzzi e soci, la premiata ditta Mafia capitale scoperchiata dall'indagine della procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone. La risposta di Marino è che "gli uffici sono costretti ad agire secondo il regime di gestione provvisoria con una prospettiva temporale circoscritta al mese". Mancano, sostiene, le "condizioni minime per espletare le gare, quando si tratta di servizi irrinunciabili". Così "il ricorso alla proroga dei contratti in essere" si legge "rappresenta quasi sempre l'unica via percorribile" e per il sindaco "spiega le decine di proroghe e gli affidamenti diretti nel sociale". Marino sottolinea come al suo arrivo abbia subito sollecitato palazzo Chigi, con il premier Enrico Letta, e l'Economia, con il ministro Fabrizio Saccomanni, attraverso l'assessore al bilancio Daniela Morgante (che poi ha abbandonato la giunta) e ora con l'assessore Silvia Scozzese (potrebbe lasciare anche lei). Scatta così l'ispezione del Mef, l'esito - pesantissimo - è consegnato al Comune il 4 aprile 2014. Marino riassume 32 punti critici evidenziati dall'Economia "sull'attività negli anni Precedenti all'attuale consiliatura" e il 16 ottobre 2014 il Campidoglio trasmette le controdeduzioni. Caso singolare, solo il 27 maggio scorso la Ragioneria generale dello Stato risponde e, tra l'altro, al Mef "ribadiscono alcuni importanti criticità". Marino segnala al prefetto tutte le iniziative per la trasparenza e la legalità intraprese, compresa l'introduzione recente del whistleblowing, la procedura molto diffusa negli Usa che consente a un dipendente di denunciare illeciti ravvisati negli uffici. Nella relazione finale di Gabrielli emerge poi che l'ex direttore tecnico del municipio di Ostia, Aldo Papalini, già coinvolto e arrestato in un'inchiesta sull'affidamento delle concessioni agli stabilimenti balneari, girava nelle aree a traffico limitato di Ostia con permesso intestato al boss Carmine Fasciani, appartenente ad uno dei clan mafiosi che si spartiscono gli affari criminali del litorale capitolino. Interviene l'assessore alla legalità, Alfonso Sabella: "Abbiamo già ridisegnato la struttura capitolina, il cambio è già in atto: dal 2015 è previsto il controllo successivo di legittimità del 20% degli atti dell'amministrazione capitolina, dal 2016 del 25% e dal 2017 del 30%. Si tratta di una mole enorme di lavoro: migliaia e migliaia di documenti". E aggiunge: "Da qualche giorno, grazie al piano anti-corruzione, è entrata in vigore la rotazione di funzionari e dirigenti" Giustizia: un "presunto colpevole" e un magistrato scrivono della morte del giusto processo di Emanuele Boffi Tempi, 12 luglio 2015 Giustizia e gogna. L'emblematico incontro tra Mario Rossetti, indagato, incarcerato e assolto per il caso Fastweb, e Piero Tony, toga rossa ribelle. Mario Rossetti è un manager, Piero Tony è un magistrato in pensione. Non hanno nulla in comune, se non il fatto di condividere con straordinaria sintonia il giudizio sulla situazione della giustizia in Italia. Giovedì 2 luglio si trovavano entrambi nella provincia monzese (Carate Brianza) all'incontro organizzato dalla fondazione "Costruiamo il futuro" di Maurizio Lupi per presentare i propri libri: Io non avevo l'avvocato (Mondadori) e Io non posso tacere (Einaudi). Fatto singolare, i tre relatori - oltre a loro c'era Sergio Luciano, co-autore di Rossetti - si intendevano su tutto, tanto che Tony ha buttato lì la battuta più bella della serata: "Non c'eravamo mai visti prima, eppure siamo d'accordo su ogni cosa. Un pm non crederebbe mai che non abbiamo concordato prima le nostre versioni". 23 febbraio 2010, Milano. Alle cinque di mattina la Guardia di Finanza si presenta a casa di Mario Rossetti, ad di Cobra At, e lo arresta. Il capo d'imputazione è associazione a delinquere transnazionale. Gli consegnano l'ordinanza di 1.700 pagine dove dovrebbe essere spiegato perché lo arrestano, perché lo strappano alla sua famiglia, perché lo portano nel carcere di San Vittore imponendogli cinque giorni di isolamento giudiziario. Dovrebbe, ma nei fogli che Rossetti compulsa nervosamente non c'è il suo nome. Mai. In 1.700 pagine il suo nome non compare. Capisce solo che l'accusa c'entra qualcosa con la sua precedente occupazione in Fastweb, azienda che nel 1999 contribuì a fondare, e in cui non lavora più da anni. Assieme a lui sono coinvolti altri manager dell'azienda, tra cui l'ad Silvio Scaglia, che dall'estero si precipiterà con un volo privato per chiarire tutto e finirà in gattabuia senza troppi complimenti. "Perché mi arrestano?", si chiede Rossetti. Cinque anni dopo, quattro mesi in carcere e otto ai domiciliari, lo sputtanamento mediatico, il sequestro dei beni, cento quaranta sette udienze, la risposta è: "Non lo so. Non ho ancora capito". È la risposta più assurda e, al tempo stesso, la più adeguata che si possa dare. "Quando sono arrivato quella sera a San Vittore - ha raccontato al convegno - ho visto su una televisione del carcere il Tg2 che dava come prima notizia l'arresto di 56 persone per il "caso Fastweb". L'allora procuratore antimafia Piero Grasso parlava di una "delle più grandi truffe mai scoperte". È stato in quel momento che ho capito che l'inchiesta era ormai mediatica. È stato in quel momento che ho compreso, scusate la parola, di essere fottuto". Per Rossetti si aprono le porte della cella 326, collocata nel sesto raggio - il più duro - di San Vittore. "Amo correre e passavo spesso accanto alle mura del penitenziario. Vedevo la gente in fila davanti ai portoni e proseguivo sulla mia strada. Ora, dopo tutto quel che mi è capitato, non posso più fare così". Le prediche dei giornali. Quel che è successo a Rossetti potrebbe capitare a chiunque? Sì, potrebbe capitare a chiunque, e qui sta l'interesse della sua testimonianza. Perché tutti i vari gironi infernali che ha dovuto attraversare potrebbero essere attraversati da chiunque altro. E qui sta la tragedia del sistema giudiziario italiano, dove si è "colpevoli fino a prova contraria". Rossetti era stato interrogato tre anni prima di quel 23 febbraio in seguito a un'inchiesta su Fastweb. Alla presenza dei pm Francesca Passaniti e Giovanni Di Leo aveva risposto alle domande, sorprendendosi per la scarsa competenza dei suoi interlocutori ("La Passaniti mi chiede di fare lo spelling: "Comitato di… mi dice come si scrive?". Ma come fai a fare un'indagine su una società quotata in Borsa, se non sai nemmeno cos'è un comitato di audit?"). La sua posizione sarà archiviata, il suo nome nemmeno menzionato nelle 2.754 pagine del rapporto conclusivo della Finanza, eppure, tre anni dopo, con le stesse carte e gli stessi elementi, il pm, grazie a un gip della sessione feriale, otterrà l'arresto. Niente dice che Rossetti sia implicato, eppure finisce dietro le sbarre. Non ci sono nemmeno gli elementi per la custodia cautelare (rischio di reiterazione reato, di inquinamento delle prove o di fuga), eppure Rossetti è sbattuto al fresco. È l'Italia: c'è un codice di procedura penale in cui sono messe nero su bianco precise garanzie a tutela dell'indagato e poi c'è un codice "materiale" che è quello che si applica nei confronti dei sospettati. Ti mandano in galera col doppio scopo di "farti pressione per costringerti a confessare e patteggiare" e "farti scontare una pena a cui altrimenti la lentezza del sistema giustizia spesso non arriva a causa delle prescrizioni". A peggiorare il tutto ci pensano i media che spacciano per "inchieste giornalistiche" le soffiate delle procure, riempiono le pagine dei giornali con copia e incolla di ordinanze e intercettazioni, discettano della moralità degli indagati. Quando i manager di Fastweb finiscono in carcere, Sergio Rizzo nel suo editoriale sul Corriere della Sera scrive che "le persone perbene hanno sempre più difficoltà a riconoscersi in questa Italia". Il resto della storia di Rossetti è un labirinto di Dedalo, con i mesi passati in cella, poi ai domiciliari ("un carcere per la tua famiglia"), il sequestro dei beni e dei conti correnti con la conseguente e umiliante necessità di dover elemosinare un aiuto fra amici e parenti (e per fortuna di Rossetti, lui ne ha avuti di straordinari) per poter mangiare un piatto di minestra. Il 15 febbraio 2013 la procura ha chiesto la condanna a sette anni di reclusione. Il 17 ottobre Rossetti è stato assolto per non aver commesso il fatto. Il 6 novembre la procura della Repubblica di Roma ha presentato appello. Ad oggi, non tutti i beni patrimoniali sequestrati dallo Stato gli sono stati restituiti. Quando Rossetti ha terminato di raccontare la sua vicenda al convegno, Tony ha confermato che tutto quanto era accaduto al malcapitato è l'esatta descrizione di quel che è oggi la giustizia in Italia: "Dopo 45 anni in magistratura, dico che in Italia non esiste il processo, ma solo una prassi più o meno sapiente delle misure cautelari. È triste dirlo, ma è così. E continuerà ad essere così finché non cambierà qualcosa". Contro la "gogna". Il libro di Tony è il tentativo, forse estremo, di fermare lo tsunami. È un libro bomba per la chiarezza e la nettezza con cui ripercorre i mali del nostro sistema. Nato dopo un dialogo con l'attuale direttore del Foglio Claudio Cerasa, Io non posso tacere è, a suo modo, "un atto d'amore" verso la professione del magistrato: quel che dovrebbe essere, e quel che invece è diventata. Lo ha scritto un "magistrato certificato e autocertificato di sinistra", che nel 1996, da procuratore generale, in base alle prove che aveva in mano e non alle sensazioni che gli tambureggiavano in testa, chiese l'assoluzione per Pietro Pacciani, il Mostro di Firenze. Oggi, di fronte all'abuso della carcerazione preventiva, la discrezionalità dei pm, la politicizzazione delle correnti, il giacobinismo di certe procure, i "processi gogna", Piero Tony ha deciso che non poteva più stare zitto. E così ha scritto un libro per mettere "nero su bianco" quello in cui crede. Ci fossero più Tony e meno casi Rossetti, potremmo pure fare a meno di quella riforma della giustizia che ci promettono da vent'anni. Lettere: le petizioni popolari e la legittimazione del giudice di Paolo Auriemma (procuratore capo di Cassino) Il Tempo, 12 luglio 2015 Caro Direttore Ma ci siamo capiti? Eppure sono passati duecentocinquanta anni da quando Montesquieu diceva che la tripartizione dei poteri è uno dei cardini della democrazia. L'altra sera vagando distrattamente tra tanti canali sono andato a sbattere in una trasmissione in cui un parente di una ragazza scomparsa tanti anni fa chiedeva che venisse sottoscritta una petizione ad un giudice perché non chiudesse in tempi brevi un processo. Faccio il magistrato ma non ho capito niente: si chiedeva ad un giudice civile che negasse una dichiarazione di prescrizione di un processo penale. Una cosa però ho capito, che quella petizione per cui si chiedeva l'avallo di quante più persone possibile, voleva convincere quel giudice della erroneità di una tesi, della correttezza della tesi opposta. Tutti i discorsi che affermavano che la legittimazione della magistratura non promanava da un consenso popolare, perché questa è l'in-sé della politica, ma da una terzietà fondata dalla impossibilità di condizionamenti di qualsiasi tipo trasparenti o opachi, provenienti da legittimi portatori di interessi o da oscuri gruppi di potere, erano ad un tratto cancellati da un'ovvietà che travolgeva principi che consideravamo ormai insiti nella nostra cultura, nella nostra coscienza, nel nostro stesso modo di essere. Il giudice non va condizionato, mai, per nessuna ragione, anzi no, se la causa è giusta gli si può mandare una petizione la cui forza peraltro non è nel valore dell'idea ma nel numero delle persone che la sottoscrivono. La drammaticità di tutto questo è nell'assoluta buona fede di chi vuole esser portatore dell'idea "giusta". Legittimazione attraverso il consenso popolare, quello che non può e non deve essere un sistema dì garanzia secondo le regole che fondano un sistema europeo. Risuonano con paura, per chi crede nel meccanismo creato dal Costituente nel 1948, gli echi le sirene di chi ipotizza una elezione popolare per il magistrato che lo renderebbe uguale al politico, non un soggetto super partes ma il portatore di interessi particolari affannato dalla ricerca della soddisfazione della parte che lo ha votato. Addio a quel "potere che controlla il potere" di illuministica memoria: ora sembra chiedersi stessa estrazione, stessa sensibilità, stessa legittimazione. Quella perfetta buona fede, quell'ingenuo portare il proprio punto di vista davanti al giudice, forte perché numeroso e non perché ragionato o a conoscenza degli atti, mi è risultato tanto più spaventoso perché sradicato da quelle fondamenta che credevamo di aver fissato in modo definitivo con la pena di migliaia di anni di storia. Nessuna riflessione, nessun dubbio, nessun confronto, perché quando si vuole una cosa, anche giusta, saggia, buona, non esiste nessuna regola, non esiste nessuna riflessione e spazzato via qualsiasi principio. Il Ministro Orlando al congresso di un importante gruppo associativo, quello di Unità per la Costituzione, rappresentava il pericolo di future richieste dì consenso popolare per la magistratura, più banalmente di nuove proposte di giudici elettivi. Un pericolo che scorrendo, annoiato e distratto, i canali televisivi in una calda serata d'estate si evidenzia infido e lampante nell'accorata istanza di un parente di una giovane ragazza scomparsa e nella inconsapevolezza di un giornalista forse più interessato ali ‘audience che alla storia di un popolo che ha tanto sofferto per evolvere le proprie regole. Lettere: impresa e giustizia, il mondo dei diritti non obbedisce al mercato di Armando Spataro (Procuratore della Repubblica a Torino) Corriere della Sera, 12 luglio 2015 Caro direttore, intervengo nel dibattito sul rapporto tra magistratura e imprese (o tra giustizia e economia?) citando provocatoriamente alcune parole che l'allora "ministro di Grazia e Giustizia" Grandi rivolse al duce, nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 1940, dinanzi ad adoranti magistrati in divisa: "La Magistratura fascista vuole dichiararvi, Duce, che essa si sente consapevole della missione che Voi le avete affidato. Il magistrato attua il comando del legislatore e la sua sensibilità politica deve portarlo talvolta oltre i limiti formali della norma giuridica". Proprio queste parole di Grandi mi sono tornate in mente leggendo ieri sul Corriere l'intervento di Antonio Gozzi: servono a far comprendere come appartenga ad altra storia e ad altro sistema la pretesa che la magistratura possa, per sensibilità politica e ragioni di opportunità, riporre il codice in un cassetto. Forse non è questo che Gozzi, citando il caso Ilva, aveva in mente auspicando che magistratura e impresa "trovino un luogo" per confrontarsi ed "evitare il ripetersi di simili disastri", ma il rischio di equivoco esiste. È per questo, allora, che occorre rammentare come la nostra Costituzione preveda non solo il primato del diritto alla salute, ma anche, a garanzia della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il principio di obbligatorietà dell'azione penale. E ciò in relazione ad ogni reato di cui il pm abbia comunque notizia. Non intendo scendere in valutazioni del merito delle inchieste citate da Gozzi, né rispondere alle sue non accettabili generalizzazioni su magistrati disattenti al diritto e afflitti da senso di "superiorità castale". È un lessico che speravo appartenesse ormai ad anni passati. Sto affermando che tutti i magistrati sono puri e fini giuristi, insensibili alle lusinghe della società mediatica in cui viviamo? Certamente no, e basterebbero poche autocitazioni per dimostrare come sia convinto che i "vizi" dei magistrati debbano essere sempre denunciati quale condizione per porre in luce la diffusa qualità e le difficoltà del loro lavoro. Ma le generalizzazioni non sono accettabili, come non lo sarebbe quella di un'accusa rivolta a tutto il mondo degli imprenditori di insensibilità rispetto alla salute dei cittadini o alla qualità dell'ambiente in cui le industrie operano. È lecito domandarsi, però, come mai nell'intervento di Gozzi non compaia neppure un cenno alle tragedie causate dall'inquinamento ambientale o dalla scarsa sicurezza delle condizioni di lavoro in fabbrica. E perché mai, mi chiedo, attorno all'ipotizzato tavolo di discussione, dovrebbero confrontarsi solo magistrati e imprenditori? Dov'è il legislatore, dov'è la politica che per troppo tempo ha dovuto inseguire la non ricercata supplenza della magistratura per intervenire a tutela della vita e salute delle persone? È il Parlamento il luogo primo di attenzione a questi problemi ed è solo alle leggi approvate che il magistrato deve prestare assoluto ossequio. Sto affermando che il magistrato deve procedere con gli occhi bendati? Certamente no, tanto da amare personalmente la bilancia in mano alla dea che raffigura la giustizia, ma non la benda che la rende cieca. Ma un conto è auspicare che il magistrato consideri ogni conseguenza del proprio agire, che accresca a tal fine la sua competenza specialistica, che consideri le ragioni di tutte le parti in causa, altro è pretendere che la giustizia sia influenzata dalla natura globale dei mercati o dalle necessità di innovazione delle imprese italiane. No, grazie! Se c'è un reato, si deve procedere nel migliore e più accorto dei modi, ma senza condizionamenti esterni di alcuna natura, da chiunque essi provengano. Sono d'accordo con Gustavo Zagrebelsky, Rodotà, Canfora ed altri: l'economia non può essere l'esclusivo o principale fattore condizionante la politica e finanche la giustizia. C'è un mondo, quello dei diritti di tutti, che deve prevalere secondo la scala costituzionale. Lettere: le ragioni contro la lunga prescrizione di Nicola Ferri (Ex Sostituto procuratore generale Corte di Cassazione) Corriere della Sera, 12 luglio 2015 La "sessione estiva" del Parlamento potrebbe concludersi senza una decisione definitiva sulla questione dei termini di durata della prescrizione. Secondo la proposta di legge approvata dalla Camera il 24 marzo e da oltre tre mesi all'esame della Commissione Giustizia del Senato, la prescrizione viene allungata per tutti i reati (fino a 18/21 anni per quelli più gravi), poi si interrompe per due anni dopo la prima sentenza di condanna, e per un altro anno fino alla sentenza definitiva. Il pendolo di questa riforma sembra dunque nuovamente rallentare, anche per il necessario coordinamento con le più pesanti sanzioni anticorruzione. Non è detto però che questo eventuale standby non possa servire al Parlamento per riflettere ulteriormente - circa la corruzione - in direzione di forti interventi endoprocessuali volti a fronteggiare l'estrema pericolosità sociale dei white collar crimes, quali la custodia cautelare obbligatoria in carcere e il giudizio direttissimo ovvero il giudizio immediato, nonché termini ristretti per i gradi di appello e di Cassazione. Quanto al progetto di legge sulla prescrizione va ancora una volta ribadito che, se non si accelerano i processi penali secondo la "ragionevole durata" imposta dall'art.111 della Costituzione, è inutile dilatare i termini prescrizionali poiché è dimostrato che più questi vengono allungati più aumenta la durata dei procedimenti. Infatti, la prescrizione non è l'effetto della "lunga notte della giustizia" (130.000 processi svaniti ogni anno), ma ne è la causa: per cui il vero rimedio è quello previsto da altri ordinamenti e suggerito dai magistrati che operano sul campo, ossia la cessazione di ogni effetto della prescrizione con la sentenza di 1° grado, e il suo inizio non dal momento di consumazione del reato, ma da quando esso viene scoperto. E a chi sostiene che la prescrizione sia l'ancora di salvezza degli imputati contro le disumane lungaggini dei processi si deve ricordare che la ratio ispiratrice dell'istituto, per il codice penale del 1930 tuttora vigente, risiedeva nella teoria per cui, a causa del lungo tempo trascorso, la memoria dei reati sbiadiva o addirittura scompariva dalla coscienza pubblica, e pertanto venivano meno l'interesse e la necessità della loro repressione da parte dello Stato. Una ratio che, nell'epoca moderna, non ha più alcun fondamento poiché l'interesse dello Stato alla punizione dei colpevoli, specie per i più gravi delitti di allarme sociale, non viene affatto meno con il passare del tempo, così come non si affievoliscono, negli anni, l'attesa e la speranza di giustizia delle parti offese e della intera collettività. Piemonte: Sappe; 137 nuovi poliziotti penitenziari assegnati alle carceri della regione Ansa, 12 luglio 2015 Saranno 137 i nuovi poliziotti penitenziari in Piemonte, 8 ad Alba. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). "È un fatto estremamente positivo che finalmente siano state recepite le sollecitazioni che il Sappe, attraverso la nostra Segreteria Generale, da mesi fa all'Amministrazione Penitenziaria per dotare il carcere di Alba di nuovi Agenti", sottolinea il segretario regionale del Piemonte, Vincente Santilli. "Come primo Sindacato dei Baschi Azzurri siamo abbastanza soddisfatti anche per le integrazioni che riguarderanno altri Reparti di Polizia Penitenziaria del Piemonte. Neo Agenti - specifica Vicente - verranno assegnati ad Alessandria CC (7), Asti (14), Biella (5), Aosta (3), Cuneo (4), Fossano (39, Ivrea (9), Novara (2), Saluzzo (11), Torino (36) e Vercelli (7) e questo permetterà il giusto ed agognato trasferimento per quelle unità da più tempo in servizio nel Piemonte e che attendono da anni un trasferimento in altra sede del Centro-Sud Italia". Lazio: la Fns-Cisl annuncia l'arrivo di nuovo personale di Polizia penitenziaria civonline.it, 12 luglio 2015 Il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) dopo varie sollecitazioni ha predisposto la Mobilità del Personale di Polizia Penitenziaria a livello nazionale, in coincidenza con l'assegnazione dei Nuovi Agenti del 169° corso, quest'ultimi nella giornata del 13 luglio sceglieranno le proprie sedi. Nello specifico la mobilità riguarderà, nei ruoli Agenti e Assistenti, 949 unità di cui 774 uomini e 175 donne. "L'incastro dei provvedimenti di mobilità con il reintegro dei nuovi agenti - hanno spiegato dalla Cisl Fns - produrrà un totale di incrementi di organico nelle sedi penitenziarie per 465 uomini e 149 donne". E tra gli istituti che vedranno aumentare il personale ci sarà anche il supercarcere di Borgata Aurelia, oltre alle strutture di Frosinone, Rieti, Latina, Rebibbia, Regina Coeli, Velletri e Viterbo. "Istituti - hanno aggiunto dal sindacato - dove costante era la cronica carenze di personale ma che negli anni hanno visto, anche, modificata la loro natura dove sono state istituite sezioni denominate "Articolazione per la tutela della salute mentale in carcere" o come nel caso di Frosinone e Velletri, dove sono stati aperti dei nuovi padiglioni e ricevere come conseguenza la presa in carico di diverse tipologia di detenuti. Siamo soddisfatti anche perché l'Amministrazione ha inteso recepire sostanzialmente le richieste di attenzione che avevamo segnalato. Abbiamo comunque richiesto, dopo la pausa estiva - hanno concluso - appositi incontri aventi ad oggetto le dotazioni Pol. Pen. in sedi extra-moenia, ai decreti del G.O.M., N.I.C, U.S.P.E.V. e sulla distribuzione operata dalla Legge n. 117/2014". Milano: all'Expo arriva "Social Flight One", il primo aereo biposto costruito dai detenuti Agi, 12 luglio 2015 Il Social Flight One, il primo aereo al mondo interamente realizzato in carcere dai detenuti, "atterra" a Expo. L'appuntamento è per domani, alle 17, presso il padiglione della Kip International School delle Nazioni Unite, nell'ambito delle iniziative patrocinate dalla Rete dell'Economia Sociale Internazionale RES-Int. A presentare l'aereo, sarà Mediterraneo Sociale, la società consortile con sede a Napoli che da trent'anni lavora al nuovo orizzonte di Welfare delle Comunità Locali Sostenibili. Social Flight One, un biposto con doppi comandi, è il frutto del lavoro dei detenuti dell'Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze (Icatt) di Lauro (Av), nell'ambito del progetto Le Ali della Libertà, promosso dalla cooperativa L'approdo, patrocinata dalla Caritas di Avellino, e dall'associazione Il pioppo-onlus della rete di Mediterraneo Sociale, e finanziato con il Fondo Lotta alla Droga (legge 45/99) della Regione Campania. Il Social Flight One inaugura la filiera sociale dell'industria artigianale degli aerei della cooperativa Le Ali della Libertà, che avrà il suo quartier generale nella aviosuperficie di Teggiano (Sa). Il Social Flight One è stato prodotto in gran parte presso la falegnameria dell'Icatt nell'avellinese, mentre soltanto l'ultima fase dell'assemblaggio è stata conclusa presso un'officina esterna. È interamente realizzato in legno, mentre gli elementi di collegamento delle strutture e i carrelli sono in acciaio. In rispetto delle più recenti normative sulla sicurezza, l'aereo monta un nuovo tipo di paracadute capace di assicurare l'intero velivolo. Il Social Flight One è dotato di un motore da 1.200 c.c., eco-friendly riguardo a consumi ed emissioni, nonostante un'autonomia di volo che può arrivare a coprire i 1.400 chilometri. Si costruisce mediamente in tre/quattro mesi, mentre il suo costo è paragonabile a quello di un Suv di media categoria (quindi circa 80.000 euro). Per questo tipo di aerei c'è un'elevata domanda da parte dei privati. Tuttavia, Le Ali della Libertà e Mediterraneo Sociale, immaginano esclusivamente acquirenti e destinazioni d'uso altrettanto "sociali": monitoraggio dei boschi, delle aree archeologiche, delle zone a rischio di incendi dolosi. Ma anche turismo sociale, capace di regalare alle persone, soprattutto a quelle con disagio, l'emozione del volo. Oppure trasporti rapidi, dal momento che il velivolo può atterrare e decollare su una pista di appena 200 metri lineari. Il Social Flight One non rappresenta solo il prototipo di un mezzo di trasporto, ma di una intera filiera produttiva: la cooperativa Le Ali della Libertà, col sostegno di Mediterraneo Sociale, ha acquistato a Teggiano (Sa) un terreno con relativo hangar, adiacente alla superficie avio civile del Vallo di Diano. La cooperativa, che nel suo staff ha un pilota/progettista e un meccanico specializzato, si propone di costruire i prossimi velivoli, tra le officine interne alle carceri e l'hangar di Teggiano, che nel tempo sarà pure predisposto a servire da officina di manutenzione per altri aerei privati. "L'aereo sociale è un simbolo prima ancora che un prodotto - osserva Beppe Battaglia, storico operatore dell'associazione Il Pioppo-onlus, responsabile del Dipartimento Carcere e Cittadinanza di Mediterraneo Sociale e ideatore del progetto Le Ali della Libertà - il primo aereo al mondo costruito non per evadere ma per riabilitarsi! E superare così lo stato di cose per il quale il lavoro in carcere è squalificato e squalificante, ripetitivo, pericolosamente prossimo allo sfruttamento e incapace di fornire un'autentica motivazione creativa. Udine: il Ramadan si rispetta anche in carcere, pasti consumati dopo il tramonto Messaggero Veneto, 12 luglio 2015 Ma il responsabile del Centro islamico di via San Rocco chiede di entrare: "Non possiamo farlo ci consento solo di inviare libri ai detenuti musulmani". "Ci piacerebbe essere al fianco dei detenuti, ma non riusciamo a ottenere il permesso dal ministero dell'Interno per entrare nel penitenziario di via Spalato". Slatini Buraowi, il responsabile del centro islamico di via San Rocco, ha tentato più volte di varcare i cancelli, ma non ce l'ha fatta. Lo stesso accade a Pordenone dove, però, a seguito della richiesta ricevuta dall'associazione "Volontari maniaghesi", il direttore dell'istituto penitenziario ha girato la proposta al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Soprattutto nel periodo del Ramadan le comunità islamiche sentono la necessità di condividere non solo il rito della ripresa dell'alimentazione, ma anche il dialogo con i detenuti di religione islamica. "Non possiamo farlo" ammette il responsabile del centro di via San Rocco "ecco perché - continua - ci limitiamo a mandare ai ragazzi che si trovano nella Casa circondariale di via Spalato libri quando ce li chiedono". "Abbiamo provato due o tre volte a chiedere l'autorizzazione al ministero dell'Interno inviando tutte le nostre carte, ma non c'è stato nulla da fare, l'esito è sempre stato negativo" continua Buraowi nel ricordare che il Centro manderebbe a parlare con i detenuti persone a posto "con la fedina penale pulita". Al momento nel carcere di via Spalato si contano alcune decine di musulmani: "Non sappiamo quanti sono esattamente perché ruotano parecchio - aggiunge il responsabile del centro islamico di via San Rocco - da Udine vengono spostati in altri penitenziari". Va però ricordato che i detenuti di religione islamica osservano il Ramadan anche se si trovano dietro le sbarre. "In base alle disposizione ministeriali, ai detenuti islamici distribuiamo il cibo, anche freddo, dopo il tramonto" spiega il direttore in missione della Casa circondariale di Udine, Tiziana Paolini, nell'assicurare che, sulla base di una circolare ministeriale, tutti i penitenziari italiani si attengono a queste regole. Vengono serviti infatti menù rispettosi della loro religione. Ma alle comunità musulmane tutto questo non basta anche perché gli istituti penitenziari non hanno stretto accordi con i musulmani. Questo non avviene per i detenuti cattolici ai quali, in alcune carceri e Pordenone è tra queste, è consentita l'assistenza spirituale. Il problema è sentito perché la maggior parte dei detenuti è di nazionalità straniera e tra questi diversi sono musulmani. Ma se Pordenone fa da apripista non è escluso che anche Udine segua la stessa linea. Pordenone: volontari maniaghesi "ci piacerebbe poter essere a fianco dei detenuti islamici" di Chiara Benotti Messaggero Veneto, 12 luglio 2015 L'Associazione volontari solidali maniaghesi: ci piacerebbe, come accade in altre realtà penitenziarie, poter essere a fianco dei detenuti islamici in una o più sere al termine del loro digiuno. "Anche in carcere a Pordenone il Ramadan, per i detenuti fratelli islamici, è un'occasione di profonda purificazione, di rinascita e di pura preghiera". A dichiararlo è Mustapha Nadif, presidente dell'Associazione volontari solidali maniaghesi, che ha proposto alla direzione della casa circondariale di Pordenone di far vivere anche ai ristretti musulmani la festa di fine Ramadan. "La fede è per tutti i detenuti la fonte primaria di consolazione e di speranza - ha detto Nadif, nelle lunghe attese che precedono i processi ma anche durante l'intero periodo di perdita della libertà. Ci piacerebbe, come accade in altre realtà penitenziarie, potere essere a fianco dei detenuti islamici in una o più sere al termine del loro digiuno: per condividere il rito della ripresa dell'alimentazione che, secondo tradizione, deve avvenire consumando datteri e bevendo latte". Mustapha Nadif si è detto amareggiato per non aver avuto risposta dal direttore del carcere: "Non abbiamo avuto nessun segnale - ha detto. Sono certo che la direzione del carcere saprà cogliere lo spirito di questa nostra proposta e aspettiamo un riscontro anche le vie brevi dal vertice Quagliotto. Prima possibile, perché il mese del digiuno terminerà tra pochi giorni". Le associazioni marocchine "si dividono in due tipologie: la prima unisce cultura, arte, sport, festival, folklore, seminari, educazione e insegnamento. La seconda comprende associazioni attive nel campo della religione e vengono spesso identificate in centri culturali islamici. Queste, si occupano del lato religioso e spirituale dell'individuo, per esempio nel Ramadan e nell'Id al Adha. Alcuni parlano a nome di tutti non avendone il diritto e camuffando queste operazioni, non sincere. L'attività sociale deve essere un servizio di cittadinanza attiva e per l'aiuto del prossimo". Reggio Calabria: il Vescovo di Locri incontra i detenuti "per voi parole di speranza" Ansa, 12 luglio 2015 Il Vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha fatto visita ai detenuti della casa circondariale di Locri portando loro parole di "speranza e di conforto direttamente all'interno dei reparti". Mons. Oliva ha esortato i detenuti ad intraprendere la strada della giustizia e della legalità; ha dialogato con alcuni di loro mentre distribuivano il vitto, con il gruppo che redige il Giornalino d'Istituto e con coloro i quali svolgono altre attività lavorative. Il vescovo ha "vissuto" per qualche ora la vita quotidiana del carcere, visitando le sale colloqui piene di parenti, ha ammirato i bellissimi e coloratissimi murales che i detenuti hanno realizzato sulle pareti ed ha visitato l'area verde dove avvengono settimanalmente i colloqui tra i detenuti ed i figli piccoli. Il direttore del carcere, Patrizia Delfino, ed il comandante della polizia penitenziaria, Domenico Vescio, hanno evidenziato come "anche con l'opera dei detenuti, si è riusciti a trasformare le fredde sale colloqui in ambienti a misura di bambino, consentendo lo svolgimento più sereno dei colloqui soprattutto con i bambini che numerosi accedono in Istituto per far visita ai genitori". Il direttore Delfino ed il comandante Vescio Hanno ringraziato monsignor Oliva per "la sensibilità dimostrata nei confronti delle persone detenute e anche per la vicinanza agli operatori penitenziari chiamati al difficile compito di recupero dell'uomo detenuto nella sicurezza". Libri: "L'abolizione del manicomio criminale tra utopia e realtà", di Franco Corleone gonews.it, 12 luglio 2015 "L'abolizione del manicomio criminale tra utopia e realtà" è il libro a cura della Fondazione Michelucci e di Franco Corleone che sarà presentato lunedì 13 luglio alle 13.30 nella saletta Montanelli, in Consiglio regionale (via Cavour 4). Secondo l'associazione Altro Diritto, trattenere gli internati all'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo potrebbe configurare ipotesi di sequestro di persona. Dal primo aprile di quest'anno i "modi" di restrizione della libertà personale previsti dalla legge per l'esecuzione della misura di sicurezza comminata a chi ha commesso un reato ed è stato considerato incapace di intendere e volere non sono più gli Opg, bensì le Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza). Quest'associazione diretta da Emilio Santoro sta aiutando gli internati a scrivere le istanze per investire della questione la magistratura di sorveglianza fiorentina. Corleone che sarà presente all'incontro con i giornalisti, condivide le preoccupazioni dell'associazione e ritiene che continuare a trattenere gli internati negli Opg potrebbe essere detenzione illegale e chiede alla magistratura di esprimersi in tempi brevi. Martedì 14 luglio nel salone delle Feste a palazzo Bastogi (via Cavour 18) si tiene il convegno "La chiusura dell'Opg di Montelupo alla prova dei cento giorni", organizzato dal garante Corleone, al quale partecipano il presidente del Consiglio regionale della Toscana Eugenio Giani e il presidente della Regione Enrico Rossi. Libri: "L'Onda opposta. Se i migranti fossimo noi", di Patrizia Caiffa e Paolo Beccegato globalist.it, 12 luglio 2015 È la storia raccontata nel libro "L'Onda opposta", scritto a quattro mani dalla giornalista Patrizia Caiffa e dal vicedirettore di Caritas Italiana Paolo Beccegato. E se i migranti fossimo noi? E se, per colpa della recessione, della disoccupazione, delle difficoltà di questo paese, costretti a imbarcarsi verso l'Africa per cercare un futuro migliore, fossero gli italiani? È una storia di immigrazione al contrario quella raccontata nel libro "L'onda opposta", scritto a quattro mani da Patrizia Caiffa, giornalista del Sir e Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas italiana, edito da Haiku. Un romanzo che con ironia riflette sui paradossi del fenomeno migratorio e con intelligenza costringe il lettore a mettersi nei panni dei tanti profughi che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste, partendo dal presupposto che nascere dalla parte sbagliata del mondo non è una colpa ma un gioco del destino. Protagonisti della storia sono Valeria, giovane giornalista meridionale insoddisfatta, e Pino, camionista lombardo con idee al limite della xenofobia, che ha appena perso il lavoro, e non sa più come mantenere moglie e figli. I due decidono di dare una svolta alla loro difficile vita con un "viaggio della speranza": da Lampedusa verso la Tunisia, compiendo all'inverso la rotta del Mediterraneo. Sulla barca che li porterà in Africa incontrano tutti i volti dell'Italia in crisi: la moglie di un imprenditore suicida, un nero italiano vittima di razzismo, tanti giovani in cerca di un lavoro e quaranta/cinquantenni che il lavoro l'hanno perso e ora aspirano a reinventarsi. Persone di tutte le età ed estrazioni sociali, uniti nella volontà di tentare un'altra strada, di ricominciare in un altro paese. "Siamo i primi italiani a invertire la rotta - dice Valeria - Da Lampedusa alla Tunisia. Dall'Europa all'Africa. Il mondo è caduto, si è fatto male e si è capovolto, nostro malgrado. E noi, qui e ora, stiamo facendo la storia". Ma come succede a tanti profughi anche per questi italiani in fuga le frontiere restano chiuse. Una volta sbarcati si rendono conto che i loro documenti non sono validi e per loro si aprono le porte di un campo profughi, quello di Shishi ( ma non è difficile capire che il riferimento è al campo di Shousha al confine tra Tunisia e Libia). Un escamotage letterario che consente agli autori di raccontare le storie di chi, invece, non riesce ad attraversare il Mediterraneo, di chi rimane per anni intrappolato nel deserto e di chi ha vissuto gli orrori delle carceri libiche. Come Selam una giovane eritrea di 22 anni, rapita dalle tribù beduine che trafficano in esseri umani nel Sinai, e riuscita a fuggire dai suoi aguzzini grazie al fidanzato Adu. O come Haidera, che vive nel campo e non ha nessun posto dove andare. I suoi sette figli sono sparsi tra l'Europa e l'Africa, sua moglie in Sudan, ma lui, ferito nella guerra tra Etiopia ed Eritrea non può muoversi da lì: è uno dei "dimenticati di Shishi". "Una volta eravamo profughi - spiega - ora non sappiamo più chi siamo. Viviamo in questo deserto, volutamente dimenticati dal mondo". E così cavalcando l'onda opposta i protagonisti di questa storia inventata (ma non troppo lontana dalla realtà visto che come spiega Idos ormai gli italiani all'estero superano il numero degli immigrati in Italia) capiscono cosa c'è realmente dietro i flussi migratori: "quando chiedevamo ai ragazzi del campo perché volevano imbarcarsi sulle carrette del mare, pur sapendo di rischiare la morte - si legge nel libro. Tutti ci dicevano: non abbiamo nessuna colpa di essere nati nel paese sbagliato, e voi non avete nessun merito. Restare in Africa vuol dire morte certa. Partire vuol dire morte probabile. Voi al nostro posto cosa avreste scelto?". Ma se per chi fugge da una guerra o da una vita di stenti non c'è scelta, per i due protagonisti c'è la possibilità di fare ritorno in Italia, eppure anche loro come tutti i migranti, non tornano indietro, perché la speranza di un nuovo inizio è per loro più forte della paura. Il libro mantiene la promessa del titolo, è controcorrente sotto ogni punto di vista: dalla storia raccontata al linguaggio utilizzato. Non cede, infatti alla drammatizzazione dell'immigrazione né al pietismo, ma con uno stile volutamente leggero racconta le vite di persone che da una sponda all'altra del Mediterraneo si trovano a fare una scelta difficile. "In un periodo storico in cui l'Europa chiude le frontiere e si mostra egoista e insensibile di fronte a chi fugge da guerre, violazioni e povertà per cercare un futuro migliore - spiegano gli autori, il nostro intento è diffondere, attraverso la narrazione, un messaggio forte: la natura umana ha le stesse aspirazioni alla libertà e alla dignità. Solo se ci si mette nei panni dell'altro si può capire che l'unica differenza è essere nati nel Paese giusto o sbagliato. Le frontiere sono un'esigenza pragmatica ma rischiano di diventare un grave ostacolo ai diritti. La solidarietà e l'umanità non possono essere un optional. Siamo tutti nella stessa barca: ci si può salvare solo insieme". Il libro sarà presentato questa sera alla libreria Fandango di Roma: oltre agli autori Patrizia Caiffa e Paolo Beccegato, saranno presenti Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International, Nico Lotta, presidente del VIS. Sono previste le testimonianze di alcuni rifugiati. Medio Oriente: storia di presunti ostaggi e sicure discriminazioni di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 luglio 2015 Il premier Netanyahu lancia avvertimenti ad Hamas che accusa di tenere prigionieri da mesi due cittadini israeliani, un ebreo etiope e un beduino. Ma la comunità falasha e quella beduina lo accusano di aver ignorato per mesi la sorte dei due dispersi. Due presunti sequestri di cittadini israeliani - l'ebreo etiope Avera Menghisto, 28 anni, e un beduino del Neghev del quale non è nota l'identità, potenzialmente in grado di innescare un nuovo conflitto a Gaza, sembrano avere più danneggiato che aiutato la campagna anti-Hamas di Benyamin Netanyahu. Il premier e il suo governo sono finiti sotto accusa per i due israeliani dispersi da mesi a Gaza. Una vicenda resa nota solo a metà settimana dopo le rivelazioni fatte dal leader del movimento islamico, Khaled Mashaal. In un'intervista, Meshaal ha parlato di trattative in corso per la restituzione a Israele dei resti di due soldati caduti in combattimento un anno fa durante l'offensiva "Margine Protettivo" contro Gaza, e ha poi fatto riferimento al caso dei due scomparsi, costringendo le autorità militari israeliane a revocare la censura imposta per mesi. Netanyahu, dopo la rivelazione, ha subito lanciato pesanti avvertimenti ad Hamas e il suo governo è stato rapido ad escludere, in modo categorico, la possibilità di uno "scambio di prigionieri", sul modello di quello avvenuto quattro anni fa che portò alla scarcerazione di un migliaio di detenuti politici palestinesi in cambio della liberazione del caporale Ghilad Shalit, prigioniero a Gaza dal 2006. Il primo ministro non ha però calcolato l'indignazione della famiglia di Avera Menghistu per come è stata gestita la faccenda sino ad oggi e quella degli ebrei etiopi (noti come falasha) da mesi impegnati in proteste e manifestazioni contro le discriminazioni che subiscono. È emerso grazie a una tv locale un tentativo di intimidazione, al limite della minaccia, da parte di Lior Lotan, un emissario di Netanyahu, nei confronti dei congiunti di Menghisto, diffidati dal criticare in pubblico il primo ministro che non ha risposto a otto lettere inviate dalla famiglia del disperso. Lotan avrebbe avvertito i genitori che ogni passo volto a creare un legame tra la vicenda di Avera e la protesta dei falasha finirebbe per complicare tutto. Sotto pressione Netanyahu è stato costretto ad intervenire per condannare Lotan e venerdì si è recato dai Menghisto ad Ashkelon per affermare che gli sta a cuore la sorte di Avera, entrato volontariamente a Gaza lo scorso settembre. Questo tardivo gesto di solidarietà non ha placato il malumore che regna negli slum desolati abitati dagli ebrei etiopi che nel caso di Menghisto scorgono un altro esempio di discriminazione e di atteggiamento diverso del governo rispetto alle origini dei cittadini del Paese. Su Yediot Ahronot un giornalista di origine etiope ha sollecitato l'intera società israeliana a mobilitarsi per Avera. In caso contrario, ha ammonito, la protesta falasha si farà violenta. Il caso Mengisto, denunciano gli ebrei etiopi, è stato preso "sotto gamba" dal governo perché, affermano, non si tratta di un ebreo ashkenazita, ossia di origine europea. Non pochi ricordando il caso di un altro ebreo etiope, Gabriel Tawit, un soldato riservista dato per disperso nel 2005. La famiglia è stata aggiornata solo due anni dopo dalle autorità sul fatto che era annegato e che i suoi resti erano stati restituiti dagli Hezbollah libanesi. Nessuno aveva pensato di aggiornare i familiari. Non si respira un clima diverso nel villaggio del Neghev dove vive la famiglia del beduino disperso a Gaza. Anche in questo caso sono forti le recriminazioni per l'atteggiamento avuto in questi mesi da Netanyahu. E se il premier ha scelto di andare a visitare i genitori di Menghisto, non ha pensato di fare altrettanto con la famiglia del beduino, di cui non si sa nulla se non che già in passato è entrato illegalmente nella Striscia, come in Egitto e in Giordania. Entrambi gli scomparsi soffrirebbero di "disabilità mentali" dicono i media israeliani. Tuttavia questa generica descrizione del loro malessere maschera la realtà sociale in cui si sono sviluppate le "malattie". Due anni fa Avera Mengisto era rimasto sconvolto dal suicidio del fratello. Nella zona di Ashkelon, dove vive, ci sono stati nove suicidi negli ultimi anni, a causa del degrado sociale e la sfiducia in un vita finalmente migliore. I suoi amici raccontano che il giovane voleva tornare in Etiopia. Hamas da parte sua nega che si trovi ancora a Gaza, e sostiene che il giovane ebreo etiope ha lasciato la Striscia attraverso un tunnel sotterraneo con l'Egitto proprio allo scopo di raggiungere la sua terra d'origine. Per Israele invece Menghisto è trattenuto contro la sua volontà dal movimento islamico, intenzionato ad usarlo, prima o poi, per uno scambio di prigionieri. Di sicuro si sa soltanto che l'8 settembre scorso Avera, pare in stato di ebbrezza, ha cominciato a camminare lungo la costa di Ashkelon e si è diretto verso Gaza. Ha raggiunto la spiaggia di Ziqim e, infine, è arrivato davanti alle barriere di separazione. Sulle telecamere di sorveglianza dell'esercito quel giorno è apparsa la figura di un uomo nei pressi del reticolato, con una valigia, e i soldati hanno pensato a un palestinese intenzionato a rientrare nella Striscia. Quindi si sono mossi con ritardo per fermerlo. Poco dopo è stato intercettato dalle forze di sicurezza di Hamas e interrogato. "Non si trattava di un soldato, perciò è stato rilasciato quasi subito", ha comunciato un portavoce di Hamas. Israele non ci crede e qualcuno non esclude che Menghisto possa essere morto. Storie di discriminazione raccontano anche i beduini del Neghev. Ora devono fare i conti con il Prawer Plan, il progetto portato avanti dal governo per lo sgombero di villaggi e campi "non riconosciuti" e il trasferimento di decine di migliaia di beduini in township vecchie e nuove. Le aree "risanate" saranno occupate da nuove città ed infrastrutture, ma non per i beduini. Pochi credono, nonostante gli avvertimenti e le dichiarazioni bellicose di Netanyahu, che l'ebreo etiope Menghisto e il beduino del Neghev, finiranno per spingere il governo israeliano a lanciare un nuovo attacco contro Gaza e Hamas. Bosnia ed Erzegovina: Srebrenica 20 anni dopo, per Amnesty non c'è giustizia né verità Askanews, 12 luglio 2015 Mentre il mondo ricorda oggi il 20esimo anniversario del genocidio di Srebrenica, in cui furono uccise oltre 8.000 persone, Amnesty International ha sottolineato che migliaia di famiglie delle vittime continuano a essere private della giustizia, della verità e della riparazione. "Due decenni dopo che il mondo girò lo sguardo di fronte al peggiore crimine commesso sul suolo europeo dal 1945, le famiglie delle vittime del genocidio di Srebrenica attendono ancora giustizia" - ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International. "Anziché sbiadire col tempo, la necessità che tutte le autorità della Bosnia ed Erzegovina riconoscano questi crimini e chiedano scusa è più urgente che mai. Più i colpevoli godranno dell'impunità e i morti resteranno nelle fosse comuni, più questa dolorosa ferita continuerà ad alimentare pericolose e profonde divisioni nazionali" - ha aggiunto Dalhuisen. Sono trascorsi 20 anni da quando le forze serbo-bosniache entrarono nell'enclave di Srebrenica, designata "zona protetta" dalle Nazioni Unite, e passarono sommariamente per le armi migliaia di uomini e ragazzi musulmano-bosniaci. La sorte di oltre 1.000 di essi rimane ancora sconosciuta. Quasi 7000 corpi sono stati riesumati, identificati e sepolti: tra questi, 421 bambini, un neonato e una donna di 94 anni. Dal 1995, anni della fine della guerra, oltre 8000 persone risultano ancora scomparse in tutta la Bosnia ed Erzegovina. L'Istituto nazionale per le persone scomparse subisce tagli dei fondi anno dopo anno. La Legge sulle persone scomparse non è mai stata completamente attuata, privando in questo modo le famiglie degli scomparsi della dovuta riparazione. Il Fondo di sostegno per le famiglie degli scomparsi, previsto da una legge del 2004, dev'essere ancora istituito. Le politiche ufficiali e le leggi non riconoscono il genocidio di Srebrenica, al quale non vi è alcun riferimento persino nei programmi scolastici. Il processo di riconciliazione non ha fatto passi avanti e le divisioni tra i gruppi nazionali all'interno della Bosnia ed Erzegovina proseguono. Nonostante i procedimenti avviati dal Tribunale penale per l'ex Jugoslavia nei confronti dei principali ideatori del genocidio di Srebrenica - Radovan Karadzic, Ratko Mladic e Slobodan Milosevic - e la condanna di altri 74 imputati, il numero dei casi giudiziari irrisolti è estremamente lungo. I procedimenti per crimini di diritto internazionale nei tribunali della Bosnia ed Erzegovina sono molto lenti. In assenza della necessaria volontà politica, la stragrande maggioranza delle persone sospettate di crimini di guerra e crimini contro l'umanità non verrà mai chiamata a rispondere del suo operato. Mentre la Bosnia ed Erzegovina ha adottato alcuni positivi provvedimenti per aumentare le risorse a disposizione delle indagini sui crimini di guerra, i fondi sono ancora insufficienti e il governo attua con molta lentezza la strategia nazionale sui crimini di guerra. Occorrono nuove indagini e nuovi procedimenti, oltre che programmi di protezione perché i testimoni possano deporre senza temere ritorsioni. "Srebrenica non è solo un cupo ricordo della depravazione degli esseri umani ma è anche la testimonianza del fallimento della comunità internazionale, che non seppe impedire un genocidio che avveniva sotto i suoi occhi" - ha sottolineato Dalhuisen. "Vent'anni dopo, i leader della Bosnia ed Erzegovina continuano a rifiutare di dire dove sono sepolti i corpi, in senso reale e metaforico. Occorre, senza ulteriori ritardi, l'adozione di misure per alleviare la sofferenza di coloro che ancora attendono verità e giustizia. Senza queste e senza la riparazione, una riconciliazione duratura nel tempo non potrà mai essere conseguita" - ha concluso Dalhuisen. Bosnia ed Erzegovina: "Dio è grande", ma non a Srebrenica di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 12 luglio 2015 I leader di tutto il mondo alla commemorazione. Fischi e lanci di bottiglie contro il premier serbo Aleksandar Vucic. Fu un genocidio a cui la comunità internazionale assistette in silenzio. Riempiranno i posti a sedere destinati alle persone importanti, per ricordare il ventesimo anniversario del più terribile massacro su un suolo europeo dopo il Terzo Reich; capi di Stato, politici, i grandi e i buoni. Ci saranno discorsi e tributi al memorial della città, Potocari, ma l'unica omelia che avrebbe senso sarebbe quella che rispondesse a questa semplice domanda: come è potuto accadere Srebrenica?". Comincia così "How Britain and the US decided to abandon Srebrenica to it's fate" ("Come la Gran Bretagna e gli Stati uniti decisero di abbandonare Srebenica al suo destino"), il reportage di Florence Hartmann e Ed Vulliamy, pubblicato il 4 luglio, con uno sguardo sulla commemorazione del massacro. Vulliamy è un giornalista e scrive per il Guardian e VObserver, quotidiani inglesi. La Hartmann era inviata di Le Monde nei Balcani negli anni Novanta. Fu la prima a scoprire l'esistenza di una fossa comune, che conteneva i resti di 263 persone che erano state prese all'ospedale di Vukovar e portate in una fattoria vicina e uccise il 20 novembre 1991 dall'esercito serbo. Tra il 2000 e il 2006 divenne portavoce del procuratore generale dell'Icty, il Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia all'Aja, Carla del Ponte. Poi pubblicò un libro in cui sosteneva che alcune informazioni riguardanti Slobodan Milosevic erano state "oscurate" dal Tribunale. Fu perseguita, per la diffusione informazioni riservate, e condannata. Ma la Francia non la estradò. Negli anni, ha pubblicato diversi libri sulle terribili vicende della ex Jugoslavia. Florence Hartmann è una tosta. Florence Hartmann sa di cosa parla. Srebrenica si stende in una valle verde, fra montagne che sorgono dalle rive del fiume Drina. Qui c'era una famosa miniera di argento. Srebro vuole dire argento. Per tre anni, tra il 1992 - quando le truppe serbo-bosniache scatenarono un uragano di violenza dopo il voto con cui la multietnica Bosnia dichiarava la propria indipendenza, il che metteva fine di fatto alla Jugoslavia - e il luglio 1995, Srebrenica fu un inferno. Come fu possibile che gli squadroni serbi della morte, con le mani libere, uccidessero più di ottomila uomini e ragazzi sotto il naso delle Nazioni unite, le cui truppe erano state dislocate appositamente per proteggere le vittime? Chi aprì le porte delle "aree protette" delle Nazioni unite a Srebrenica agli squadroni della morte, e perché? Milosevic è morto nel carcere dell'Aja, Radovan Karadzic e Ratko Mladic - che si sono contesi l'appellativo di "macellaio di Bosnia", presidente e generale della Repubblica serba di Bosnia, sono detenuti nel carcere del Tribunale dell'Aja. Il generale Bernard Janvier che era a capo delle forze Nato è stato accusato dall'Aicg, International Association for the Prevention of Genocide, Crimes Against Huma-nity and War Crimes, per avere "repeatedly and systematically impeding the necessary assistance to protect both the safe area of Srebrenica and the populations present there since 1992", cioè per avere impedito quell'attacco aereo che avrebbe fermato l'avanzata delle forze serbe. I soldati olandesi, che avevano il compito di proteggere Srebrenica, non diedero riparo ai civili terrorizzati che cercavano di rifugiarsi nei loro accampamenti, e guardarono senza battere ciglio i serbi che separavano le donne coi bambini dai loro uomini. Tutte queste cose ormai si sanno. Ma la Hartmann e Vulliamy raccontano qualcos'altro ancora. Raccontano che una mole di documenti rivela che la caduta di Srebrenica era il prezzo che i tre "grandi" - Gran Bretagna, Francia e Stati uniti - insieme alla leadership delle Nazioni unite, pagarono per conseguire "la pace". Quella pace a spese di Srebrenica che raggiunse il suo culmine insanguinato nel luglio del 1995, vent'anni fa. Finora, si era sempre asserito che la cosiddetta "strategia di fine partita" che diede forma all'instaurazione della pace e alla mappa post-bellica della Bosnia aveva seguito la "situazione sul campo", dopo la caduta di Srebrenica. In realtà, la "strategia di fine partita" fu decisa prima della caduta di Srebrenica, che ne era una condizione. Le potenze occidentali che condussero i negoziati non possono certo ammettere che sapevano quale massacro sarebbe accaduto, ma tutte le prove dicono che erano assolutamente consapevoli - o avrebbero potuto esserlo - di cosa volesse intendere Mladic quando diceva che avrebbe fatto "sparire completamente" la popolazione bosniaca musulmana dall'intera regione. Per tre anni, quelle parole avevano significato solo una cosa. Pulizia etnica. Massacri. Ieri a Srebrenica c'erano oltre ottanta capi di Stato e di governo. Tra gli altri l'ex presidente Usa Bill Clinton, l'ex segretario di Stato Madeleine Albright, la principessa Noor di Giordania, la Principessa Anna per il Regno Unito e il Primo ministro turco Avutoglu. A rappresentare l'Italia c'era la presidente della Camera, Laura Boldrini. Bill Clinton ha detto di avere fatto una cosa importante in Bosnia, gli dispiace solo "che ci sia voluto tanto tempo per raggiungere l'unità tra noi amici e decidere di usare la forza per fermare quella violenza". Sul The-WorldPost di qualche giorno fa, Muhamed Sacirbey, ex primo ministro della Bosnia e attuale ambasciatore presso le Nazioni unite, si chiedeva invece, a proposito del viaggio di Clinton a Srebrenica: "Will Bill Clinton Apologize in Srebrenica"? Chiederà scusa, Clinton, come ha fatto con il Rwanda, per aver fatto troppo poco per fermare il genocidio? Ci sono state contestazioni durissime al grido di "Allah Akbar" contro Vucic, il premier serbo che pure aveva parlato di un "crimine atroce". Qualcuno gli ha ricordato quello che diceva quando era nel governo di Milosevic: "Per ogni serbo, 100 musulmani uccisi". Gli accordi di pace di Dayto-na-Paris - quelli che fermarono il massacro, quelli che i francesi continuano a chiamare di Paris-Daytona come se davvero potessero andare orgogliosi di qualcosa - hanno lasciato troppe questioni irrisolte. Troppe cose sepolte. Durante la cerimonia sono state tumulate le 136 vittime di cui sono stati recentemente identificati i resti. Ne mancano ancora un migliaio. Troppe cose sepolte. Obama ha detto che "only by calling evil by it's name can we find the strength to overcome it", solo se chiamiamo il male con il suo nome possiamo trovare la forza per superarlo. L'Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue, Mogherini ha dichiarato che "a Srebrenica l'Europa si è confrontata con la sua vergogna. L'Europa non è stata in grado di rispondere alla promessa dei padri fondatori e ai sogni dei suoi nipoti: basta guerre in Europa, basta morti in nome della razza o della nazione. Che non succeda mai più". Sono parole belle e nobili. Peccato che l'Europa continui a confrontarsi con la sua vergogna. Come altro si potrebbe chiamare quello che succede nel Mediterraneo? Come è potuto accadere Srebenica? Come può accadere il genocidio del Mediterraneo? Allah Akbar. Dio è grande. Io lo spero davvero, cos'altro mi resta da fare? Vaticano: abusi e pornografia, scatta la legge Bergoglio contro ex nunzio Jozef Wesoloski Askanews, 12 luglio 2015 Sono cinque i capi di imputazione per l'ex nunzio apostolico Jozef Wesoloski, rinviato a giudizio in Vaticano. Li ha letti il promotore di giustizia (procuratore generale), Gian Piero Milano, nel corso della prima udienza, durata stamane pochi minuti a causa della contumacia dell'imputato, ricoverato ieri pomeriggio per un malore. Il "decreto di citazione in giudizio" si basa sui seguenti "reati", il primo dei quali è stato introdotto con legge da Papa Francesco in un motu proprio dell'11 luglio 2013, pochi giorni prima che l'ex nunzio venisse richiamato a Roma da Santo Domingo: "aver detenuto" e comunque "essersi procurato da siti internet materiale raffigurante minori di anni diciotto coinvolti in attività sessuali esplicite, reali o simulate, nonché immagini di organi sessuali di minori esibiti a scopi prevalentemente sessuali. Con l'aggravante della detenzione di ingente quantità", anche in Vaticano e "da epoca imprecisata fino al 22 settembre 2014". Gli altri quattro reati, ricavati da normative precedenti, sono "atti di libidine" con "adolescenti di età presumibilmente compresa tra i 13 e i 16 anni al fine di compiere su di essei ed alla presenza di essi atti sessuali, comportamenti tenuti almeno in una occasione avvenuti in luogo esposto al pubblico" ed in un caso "in concorso con Francisco Javier Occi Reyes ed altri allo stato ignoti", atti avvenuti "nella Repubblica domenicana", dove il polacco era rappresentante diplomatico del Papa, "fino all'agosto 2013"; aver "ricevuto, nascosto o comunque detenuto su due computer di cui aveva l'uso, materiale pedopornografico e, dunque, cose provenienti da un delitto", sempre nella Repubblica Dominicana; infine, "aver cagionato" "lesioni gravi, costituite da perturbamenti della mente, agli adolescenti vittime degli abusi sessuali" e - di nuovo in base alla legge di Papa Francesco, "per aver serbato una condotta che offende i principi della religione o della morale cristiana" per aver ripetutamente eseguito accessi a siti pornografici "nella Repubblica Dominicana fino all'agosto 2013, in Roma, nella Città del Vaticano ed altrove fino al 22 settembre 2014". Vaticano: malore dell'ex nunzio Jozef Wesoloski, salta l'udienza al processo per pedofilia di Paolo Conti Corriere della Sera, 12 luglio 2015 Wesolowski ricoverato alla vigilia, udienza rinviata. Rischia fino a dodici anni. È durata appena sei minuti ieri mattina, nell'aula del Tribunale vaticano (a pochi passi di distanza dalla Casa di Santa Marta, dove alloggia papa Francesco) la prima udienza del processo penale a carico dell'ex arcivescovo polacco Józef Wesolowski, già nunzio apostolico a Santo Domingo e rinviato a giudizio il 6 giugno per pedofilia e pedopornografia. Alle 9.32 è arrivata tra le mani del presidente del collegio giudicante, Giuseppe dalla Torre, la cartella clinica di Wesolowski, cittadino vaticano dal 1980, nato in Polonia nel 1948. A consegnarla è stato il promotore di giustizia (il pubblico ministero) Gian Piero Milano. L'ex presule, ridotto allo stato laicale (e indicato in tutti gli atti processuali solo con nome e cognome, senza appellativi ecclesiastici) non si è presentato. Alle 9.38 la seduta è stato rinviata "a data da destinarsi". Secondo la ricostruzione ufficiale della Santa Sede, esposta dal vicedirettore della sala stampa vaticana padre Ciro Benedettini, Wesolowski sarebbe stato colto da "improvviso malore" venerdì pomeriggio, visitato dal pronto soccorso vaticano e poi ricoverato in un ospedale romano in terapia intensiva, dove ora si trova piantonato dalle forze dell'ordine italiane in base agli accordi tra i due Stati. Ma girano altre voci molto insistenti, però non confermate: l'ex arcivescovo sarebbe stato trovato in stato confusionale nel suo appartamento dopo aver ingerito varie sostanze chimiche aggiunte ad alcol (comunque non sarebbe un tentativo di suicidio). Ieri, in sala stampa vaticana, era palpabile l'imbarazzo e lo sconcerto: anche l'avvocato difensore Antonello Blasi ha espresso "rammarico, perché l'imputato era disponibile a partecipare al processo, ho saputo solo oggi del malore del mio assistito. Speriamo di poter continuare il processo quanto prima". L'udienza era attesissima, si tratta del primo processo per pedofilia celebrato nel territorio vaticano. E non è un mistero per nessuno che sia stato esplicitamente papa Francesco a volere l'assoluta trasparenza e pubblicità del processo (ieri è stato sorteggiato un pool di giornalisti internazionali che ha assistito ai pochi minuti di dibattimento). Durissimi i cinque capi di accusa (rischia una condanna fino a 12 anni): 1) aver detenuto materiale da siti Internet "raffigurante minori di anni 18 coinvolti in attività sessuali esplicite nonché immagini di organi sessuali di minori"; 2) aver corrotto "mediante atti di libidine adolescenti tra i 13 e i 16 anni al fine di compiere atti sessuali", in concorso con Francisco Javier Occi Reyes, il diacono arrestato nel 2013 dalla polizia di Santo Domingo, comportamenti "tenuti almeno in un'occasione in luogo esposto al pubblico"; 3) aver acquistato, detenuto e nascosto nella Repubblica Dominicana fino all'agosto 2013 materiale pedopornografico; 4) aver procurato "lesioni gravi, costituite da perturbamenti della mente, alle vittime degli abusi"; 5) "aver serbato una condotta che offende i principi della religione e della morale cristiana", in base alla legge vaticana del 2008. Accuse pesantissime, divulgate con modalità impensabili nella Città del Vaticano appena poco tempo fa: i due fogli con il decreto di citazione in giudizio sono stati distribuiti in sala stampa vaticana ieri mattina, durante il briefing con i giornalisti accreditati e di fronte alle telecamere delle tv di mezzo mondo. Un'immagine che, da sola, spiega perfettamente cosa stia accadendo in Vaticano con papa Bergoglio. Etiopia: cittadino britannico detenuto da oltre un anno, ma Londra non chiede il rilascio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 luglio 2015 Da 15 mesi Andargarchew ("Andy") Tsige, 60 anni e tre figli, cittadino britannico di origine etiope, langue in un carcere sconosciuto dell'Etiopia con una condanna a morte sulla testa, emessa nel 2009 al termine di un processo in cui neanche era presente. Secondo le autorità di Addis Abeba, che lo hanno rapito nel giugno 2014 in un aeroporto dello Yemen, Andy Tsige è un terrorista. Per le organizzazioni britanniche è un oppositore politico, leader del partito Ginbot 7, colpevole di aver chiesto libere elezioni, democrazia e rispetto dei diritti umani. La sua compagna, Yemi Hailemariam (in una protesta di fronte al Foreign office di Londra nella foto Alamy), è riuscita a parlare con lui una sola volta da quando è stato rapito. Si suppone che rientri tra le priorità di ogni governo quella di occuparsi della detenzione dei suoi cittadini all'estero, soprattutto se ingiustamente accusati e per di più condannati a morte. Come sappiamo anche dalle vicende italiane, non è sempre così. A Londra, il governo è accusato di aver tenuto da oltre un anno un profilo assai basso, limitandosi a chiedere il rispetto dei diritti consolari di Tsige ossia la possibilità di incontrarlo in carcere - attraverso la rappresentanza diplomatica britannica in Etiopia - per fornire l'assistenza necessaria. Non una volta il ministero degli Esteri di Londra ha chiesto il suo rilascio, preferendo un generico auspicio in rapidi progressi sul caso. Mentre da Londra si apprezza "il clima generalmente pacifico" in cui si sono svolte le recenti elezioni (qui potere leggere una ricostruzione decisamente opposta), il Consiglio Onu dei diritti umani ha chiesto all'Etiopia di scarcerare Tsige, risarcirlo per i 15 mesi di detenzione illegale e rimandarlo a casa. Infine, alla vigilia della visita del presidente Usa Barack Obama, sono stati rilasciati quattro giornalisti e due blogger. Segno che le pressioni diplomatiche possono funzionare. Iran: nuova accusa per avvocato dei diritti umani Nages Mohammadi "collabora con Isis" Ansa, 12 luglio 2015 Collaborazione con l'Isis. Questa la nuova accusa nei confronti di Narges Mohammadi, l'avvocato per i diritti umani arrestata un paio di mesi fa a Teheran dopo che la pena a sei anni di carcere era stata sospesa per motivi di salute. A riferirne, secondo vari siti di opposizione, il fratello dell'attivista, esponente di spicco del Centro per la difesa dei diritti umani del Premio Nobel Shirin Ebadi. Secondo il fratello, Hamid Reza, questa nuova accusa sembra legata al fatto che Narges Mohammadi si era opposta all' esecuzione di alcuni curdi sunniti, chiedendo per loro un giusto processo. I sei giovani erano stati arrestati anni fa quando ancora l'Isis non esisteva. La donna è anche accusata per le sue attività per i diritti umani e per aver fondato la campagna Legam, finalizzata ad una graduale abolizione delle impiccagioni. Alcuni giorni fa l'avvocato doveva comparire di fronte al giudice, ma l'udienza sarebbe stata cancellata senza spiegazioni. Di recente ha scritto al procuratore per non avere accesso al telefono e non avere alcuna notizia dei figli piccoli, che non potuto vedere dal momento dell'arresto. Quando è avvenuto stava aspettando il ritorno da scuola di quello di otto anni, e non ha potuto nemmeno prendere le proprie medicine. Messico: il narco boss Joaquin Guzman, detto "El Chapo", evade per la seconda volta Ansa, 12 luglio 2015 Joaquin Guzman, ex capo del temuto Cartello di Sinaloa detto "El Chapo", è evaso da una prigione di massima sicurezza per la seconda volta. Lo ha reso noto la Commissione per la sicurezza. Guzman era detenuto dal febbraio del 2014. Le forze di sicurezza hanno avviato le ricerche nell'area circostante alla prigione di Altiplano, nella città di Almoloya de Juarez, circa 90 km a ovest di Città del Messico. In via precauzionale sono stati sospesi i voli nel vicino aeroporto di Toluca.