Giustizia: un patrimonio da mettere in salvo… i Radicali di Roberto Giachetti (Vicepresidente Camera dei Deputati) L'Unità, 11 luglio 2015 Nel mare di fatti di straordinario rilievo che da giorni invadono giornali e tv sta affogando nel dimenticatoio la notizia della gravissima crisi economica dei radicali. A loro devo moltissimo per la mia formazione politica e umana, e mi sono sempre adoperato perché questo non fosse un fatto privato ma così pubblico da essere parte integrante del giudizio sulla mia attività politica. Parlare di "educazione radicale" significa inserire la definizione in un vocabolario masticato anche da chi ha poca dimestichezza con la storia politica ma associa immediatamente l'espressione a metodi, contenuti e riferimenti ormai entrati di fatto nella storia del nostro paese così come nel pensiero e nel linguaggio comune. Già questo basterebbe per comprendere il valore di un'esperienza che in un panorama globale che ha visto crollare ideologie e ha assistito a trasformazioni inesorabili di partiti e movimenti, è riuscita a mantenere vive un'identità e una missione davvero distintive, senza mai smarrire il senso ed il valore dell'amore per un'idea e la vocazione per cause che i più considerano impossibili e altri addirittura perse in partenza. Se mi chiedessero di definire chi è un radicale, ieri come oggi, lo descriverei come un sognatore e al contempo un combattente. Un architetto e insieme un manovale, mente e braccio, dirigente e militante con una straordinaria attitudine a vestire con naturalezza i panni che il momento rende necessari. Chi ha attraversato un pezzo di deserto con i radicali sa che nessuna battaglia si vince senza sapersi armare di passione, entusiasmo e concretezza, che nessun risultato si raggiunge senza un pizzico di follia e consapevolezza che "la durata è la forma delle cose". È questa la storia radicale. Lo è stata per tutte le lotte civili che li hanno visti guidare le più grandi trasformazioni e conquiste della società ponendo al centro del dibattito pubblico la questione suprema dei diritti delle minoranze, degli ultimi. Battaglie che all'inizio venivano scambiate come chimere rincorse da un manipolo di visionari capricciosi e che invece, come tutti ormai riconoscono, hanno tracciato il cammino della storia. Che si trattasse dei diritti delle donne, o di quelli di detenuti spesso vittime di un sistema giudiziario forte con i deboli e debole con i forti, dei diritti dei bambini o di quelli di opposizioni politiche silenziate da regimi sanguinari, della sofferenza di continenti sfruttati oltre misura in cui non c'è casa per i basilari e fondanti diritti dell'uomo, ebbene in tutti questi contesti - se vi fermate un attimo a pensarci - avete sempre trovato, non di rado solitari, i radicali. Ancora una volta, nell'assordante silenzio che li circonda, i radicali rischiano di spegnersi. Non per mancanza di idee ed attività politica che anzi li vedono sempre più presenti, nonostante siano fuori praticamente da qualunque istituzione nazionale o locale che sia, spesso anticipatori delle questioni che precipitano nel panorama non solo italiano, ma affogati dalla loro povertà, dalla mancanza di quel minimo di risorse indispensabili ad andare avanti. Già ma allora che fare? Beh c'è da fare e ce n'è per tutti. Ce n'è per i giornalisti, per i politici, per gli elettori, per tutti. Non sta a me fare appelli. Io mi sono iscritto anche quest'anno. Ognuno sa cosa può e deve fare, lo faccia a modo suo, subito. C'è urgenza. Ognuno ha nella sue mani la possibilità di tenere in vita questa fiaccola di libertà e di lotta, nessuno si senta a cuor leggero sollevato da questa responsabilità. La mia non è una richiesta di beneficenza ma di riconoscenza verso una forza politica che ha combattuto per i diritti di ciascuno di noi, diritti che non hanno colore né patenti politiche, non sono né di destra né di sinistra, appartengono a tutti. Proviamo a chiudere gli occhi e immaginare che cosa potrebbe essere il nostro paese senza l'impegno, la presenza e l'azione dei radicali. Giustizia: i Radicali, motore dei diritti umani nel mondo di Domenico Letizia Il Garantista, 11 luglio 2015 Marco Pannella un esempio per tante battaglie, che mette d'accordo posizioni diverse. Come per il caso Tibet. In Italia, e non solo, l'unico partito e contemporaneamente organizzazione non governativa che ha fatto dei diritti umani e della democrazia la prerogativa della propria azione politica è il Partito Radicale. L'apporto della galassia radicale può contribuire sostanziosamente a far avanzare il dibattito filosofico, politico e giuridico che circonda la problematica dei "diritti umani". Una disputa sui diritti che coinvolge soprattutto giuristi e filosofi riguarda la concepibilità dei diritti umani e universali: concepibilità negata dai critici romantici dell'universalismo illuminista e oggetto di discussione di un movimento composito, sia a destra che a sinistra, chiamato particolarismo dei diritti. La discussione verte intorno al problema del carattere universale attribuito ai diritti. Uno degli effetti della globalizzazione è stato la rilocalizzazione, un processo politico che genera nostalgia per le piccole patrie e per i "bei tempi andati". L'evoluzione giuridica non fa eccezione a tale dibattito. Ogni ulteriore diffusione, generalizzazione o universalizzazione del concetto produce rifiuti come il rigetto causato dall'anticipazione, ovvero, quel filone politico giuridico che guarda all'istaura-zione dei diritti umani come funzione applicata dalla politica: la Rivoluzione Francese ha sostituito la legittimità tradizionale della monarchia con un obiettivo smisurato di cui allora occorreva una giustificazione altrettanto enorme, solo una dichiarazione dei diritti dell'intera umanità poteva apparire all'altezza del compito. Il particolarismo funziona benissimo sinché si tratta di demolire le "mitologie universalistiche". Anche il presidente statunitense Bush ha utilizzato argomentazioni universalistiche per giustificare le proprie guerre preventive e Jiirgen Habermas, filosofo, storico e sociologo tedesco, animatore della tradizione della "Teoria critica" della Scuola di Francoforte, ha utilizzato tali argomentazioni a favore dell'intervento Nato in Kosovo. Molti particolaristi hanno sentenziato: "l'universalismo dei diritti, oltreché teoricamente fragile, sarebbe anche politicamente malvagio". I particolaristi sembrano dimenticare i propri scheletri nell'armadio. Certo particolarismo è sinonimo di razzismo e identitarismo riproposto in salsa culturalista. L'attualità giuridica ribadisce che il particolarismo dei diritti non serve più a ripudiare i diritti umani, ma a giustificarli in modo alternativo, facendo perno sulla relatività culturale e storica del concetto di diritti. Il filosofo statunitense Richard Rorty sostenne: "La retorica che noi occidentali usiamo per tentare di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più migliorerebbe se noi fossimo più onestamente etnocentrici e smettessimo di professare l'universalismo". Un approccio che dimentica delle molte risoluzioni Onu e convenzioni internazionali che sono divenute universali, in quanto appartengono a tutti gli individui della specie animale umana per il semplice fatto che esistono. Ma, imparando a far tesoro anche delle critiche, potremmo dire che una difesa dei diritti umani, oggi, potrebbe essere né particolarista né universalistica ma politeista, come ricorda il giurista, teorico del diritto e storico delle idee Mauro Barberis. Discutere, invece di spararsi: "forse quando ci saremo conosciuti meglio, ci accorgeremo di non pensarla così diversamente". La filosofia del dialogo dei diritti umani: e allora non si può che ritornare a Pannella. Cosa ribadisce ogni volta il leader radicale se non il dialogo con il mondo musulmano e le "sue giurisdizioni"? La battaglia radicale, di Nessuno tocchi Caino e di Non c'è Pace senza Giustizia per la transizione "comune" alla democrazia dalla ragion di stato ha perni precisi dal carattere neo-universalista: "per lo stato di diritto, federalista, democratico e i diritti umani". Quel carattere né particolarista né universalistico ma politeista frutto del dialogo sembrerebbe ritrovarsi proprio nell'approccio pragmatico e neo-universalista di Marco Pannella e del mondo radicale. I diritti umani come diritti naturali storicamente acquisiti e quindi "vigenti". Sempre Pannella ricorda costantemente la visione del Dalai Lama e dei tibetani. Non indipendenza, ma libertà nelle Cine, per diffondere libertà e democrazia soprattutto al popolo cinese. Il Partito Radicale ha lanciato tale proposta al mondo globalizzato, partendo dall'area Araba ed Euro-Mediterranea, perché si torni ai principi "universali" fondativi delle Nazioni Unite di ricerca di pace e stabilità internazionale attraverso il pieno rispetto dei diritti fondamentali a partire da quello che consente ai cittadini di conoscere il processo decisionale dei propri governi per potervi contribuire politicamente. Un processo di riforma che inciderebbe in tutto il globo, dal mondo arabo fino alle nostre "democrazie reali", un processo universale. Giustizia: il reato di 416bis contro il "caporalato", la proposta in Commissione antimafia di Maria Gabriella Lanza Redattore Sociale, 11 luglio 2015 Se andrà avanti, il reato comporterebbe pene fino a 14 anni e la confisca obbligatoria dei beni. L'annuncio alla presentazione di "Migranti e Territori", a cura di Marco Omizzolo e Pina Sodano, che racconta tra l'altro l'inferno vissuto dai braccianti indiani nell'agro pontino. Dalla diaspora dei palestinesi, alla fuga degli eritrei dal dittatore Afewerki, fino ad arrivare allo sfruttamento disumano degli indiani nella provincia di Latina. È un viaggio nel mondo delle migrazioni contemporanee quello che viene raccontato da giornalisti, docenti universitari, ricercatori, funzionari pubblici e rappresentati del Terzo settore nel libro "Migranti e territori", a cura di Marco Omizzolo e Pina Sodano. Un racconto corale ricco di analisi, approfondimenti e testimonianze dirette di chi è scappato dall'inferno per trovare in Italia un altro inferno. È il caso dei migranti arruolati nelle campagne dell'agro pontino, costretti a doparsi con oppio o metanfetamina per sostenere ritmi di lavori disumani. "Tutti dovrebbero guardare in faccia questi uomini e queste donne che si spaccano la schiena per tre euro all'ora raccogliendo frutta e verdura", afferma Marco Omizzolo, autore del saggio "Il movimento bracciantile in Italia e il caso dei braccianti indiani in provincia di Latina dopati per lavorare come schiavi". Affrontano orari di lavoro impossibili che arrivano a 14 ore consecutive sotto il sole nei campi o nelle serre asfissianti, sette giorni su sette. Secondo il contratto nazionale, invece, non si possono superare le 6 ore e 40 minuti al giorno pagate 8, 26 euro l'ora. Nella maggior parte dei casi, i caporali pagano la metà di quello promesso, con ritardi di mesi, come racconta Singh, un bracciante indiano: "Dovevo avere 1200 euro e invece il mio padrone me ne ha dati 600. Quando lavoro 80 ore, lui ne segna solo 8. Ho bisogno dei soldi per vivere". Nella maggior parte dei casi si crea una sorta di "contratto a sfruttamento indeterminato", come si legge nel libro. Le buste paga e i documenti apparentemente sono in regola: il lavoratore risulta impiegato solo per due giorni al mese e in questo modo si evitano controlli. Secondo l'Inps nel territorio pontino in provincia di Latina nel 2012 erano presenti quasi 17.000 braccianti, una manodopera imponente che finisce nella rete della criminalità organizzata. Ribellarsi è difficile: le difficoltà legate alla conoscenza della lingua italiana, i tempi lunghi della giustizia italiana ma soprattutto la paura di perdere l'unica entrata economica, anche se misera, condanna il migrante ad uno stato perpetuo di ricatti e sopraffazioni. "Fuori dalla cooperativa c'è una persona che fa la guardia e, quando sta arrivando la polizia, avvisa il padrone che manda via noi che siamo irregolari. Così nessuno vede lo sfruttamento, ma c'è. Io lo conosco bene", continua Singh. "Per sconfiggere questo fenomeno bisogna essere uniti", afferma Omizzolo, "non è una battaglia che può fare solo un sindacato o una associazione. La politica ci deve aiutare. Dobbiamo fermare questa forma di schiavitù". Per questo Davide Mattiello, deputato del Partito Democratico e membro della Commissione parlamentare antimafia ha proposto di estendere il 416 bis anche ai caporali. L'articolo del codice penale prevede pene fino a 14 anni di reclusione e la confisca obbligatoria dei beni. "Dopo aver incontrato questi braccianti, ho voluto convocare una audizione sull'argomento nella Commissione parlamentare antimafia", ha spiegato Mattiello durante la presentazione del libro. "Anche se non siamo in presenza di mafiosi o camorristi, il caporalato è una forma di associazione mafiosa a tutti gli effetti in cui ogni associato svolge ruoli ben definiti. Dobbiamo rivedere la legge in materia e sanzionare anche la responsabilità dell'imprenditore". Giustizia: toghe rosa contro la riforma "maschilista" del Csm di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2015 Prima erano troppo giovani, ora sono troppo vecchie. Gira che ti rigira, il corpaccione della magistratura cammina con le gambe delle donne ma decide con la testa degli uomini. Le "pari opportunità" restano sulla carta quando si tratta di scegliere i capi degli uffici giudiziari o, addirittura, vengono declinate al maschile. Come fa la riforma della dirigenza, in fase di approvazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, che non solo non elimina ma anzi rafforza le cosiddette "discriminazioni indirette" in danno delle donne, confezionando un sistema tutto al maschile, in barba al principio della parità di genere garantito dalla Costituzione e raccomandato dall'Ue. Le donne magistrato, però, non ci stanno. Ieri hanno preso carta e penna e hanno scritto al presidente della Repubblica, che è anche presidente del Csm, al ministro della Giustizia e ai consiglieri di Palazzo dei Marescialli, per esprimere "fermo dissenso" al Testo unico sulla nuova dirigenza approvato in commissione, ora all'esame di un comitato paritetico (Csm- Ministero), e che entro luglio potrebbe avere il via libera del plenum. "Così com'è, è fortemente penalizzante per le magistrate perché non realizza la parità di armi tra uomini e donne" spiega Carla Lendaro, presidente dell'Associazione italiana donne magistrato (Admi), secondo cui il testo "sta per essere approvato nel più assoluto silenzio" e senza alcun dibattito con "la base della magistratura". Le donne sono entrate in magistratura 50 anni fa e sono ormai 4.584, la metà delle 9.247 toghe in servizio. Ma sono destinate ad aumentare perché, di concorso in concorso, ne entrano più degli uomini (il 63%). A causa della loro relativamente scarsa anzianità di servizio, sono poche ai vertici degli uffici: solo il 21% rispetto ai 249 magistrati con incarichi direttivi; nei posti semi direttivi, uno su tre è "rosa"; ma negli uffici di Procura le percentuali si riducono al 12 e al 18%. Ai meccanismi di esclusione del sistema si aggiunge, spesso, la scelta delle donne di autoescludersi dai "tornei" per la dirigenza a causa della difficoltà concreta di conciliare il carico familiare (figli o genitori anziani) con l'attività di magistrato. Perciò non hanno la stessa facilità degli uomini a cambiare sede o ad accettare incarichi extragiudiziari. Nella lettera-denuncia lo dicono senza mezzi termini, ricordando che nell'ultimo quadriennio soltanto 46 incarichi direttivi sui 298 conferiti sono stati ricoperti da donne, e di quei 46 soltanto 16 comportavano un cambiamento di sede. La bozza di riforma non si fa carico di questa realtà né di creare le condizioni per una "parità di armi", ma agevola la dirigenza maschile. Basti solo pensare che prima, cioè quando si arrivava ai vertici giudiziari essenzialmente per anzianità di servizio, le donne magistrato erano "troppo giovani" per ambirvi mentre oggi, visto che la riforma considera quasi residuale il criterio dell'anzianità, sarebbero "troppo vecchie" (sic) e verrebbero scavalcate da colleghi molto più giovani che hanno avuto la possibilità di precostituirsi titoli per avanzare rapidamente in carriera. Paradossalmente, questa riforma taglierebbe fuori dalla corsa ai vertici le donne finalmente giunte ai livelli più alti di valutazione (tra il V e il VII). "Occorre adottare - si legge nella lettera-denuncia - criteri di effettiva valorizzazione delle donne giudici, con l'individuazione di parametri, oggettivi e predeterminati, prevalentemente incentrati sullo svolgimento della funzione giudiziaria e non su "titoli" acquisiti aliunde, come nel mondo accademico, associativo o in convegni". Queste ed altre "medagliette" non devono entrare nella valutazione, che rischia di essere troppo discrezionale, tanto più a fronte dell'"integrale abolizione" del criterio dell'anzianità, mentre "l'esperienza maturata sul campo, negli uffici, resta di per sé un valore positivo". Le controproposte non mancano ma, sottolinea Lendaro, "il documento è politico e la nostra è una battaglia almeno per le più giovani". Perché una cosa è certa: il futuro della giustizia è femmina. Giustizia: il Tar "valida" taglio delle ferie dei magistrati, da quest'anno 15 giorni in meno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2015 La misura riguarda anche chi ha funzioni giudiziarie. Il taglio alle ferie dei magistrati viene promosso dal Tar del Lazio. Che, con sentenza depositata ieri, ha respinto il ricorso di due giudici di Roma che avevano impugnato il decreto del ministero della Giustizia del 13 gennaio 2015 con il quale il periodo di ferie della totalità dei magistrati è stato fissato dal 27 luglio al 2 settembre: 30 giorni al posto dei 45 precedenti. Una riduzione di 15 giorni in esecuzione dell'articolo 16 del decreto legge 132 del 2014. Le due giudici mettevano, tra l'altro in evidenza, come, dal confronto tra gli articoli 8 e 8 bis (quest'ultimo introdotto dal decreto del 2014), della legge 97 del 1979, entrambi in vigore, ai magistrati che esercitano funzioni giudiziarie, come nel loro caso, continuano a spettare i tradizionali 45, mentre il taglio si applica solo alle altre toghe. Per il Tar, tuttavia, si tratta di una tesi da respingere visto che la riduzione, in realtà, interessa tutti i magistrati. Infatti, mentre l'articolo 8 è intervenuto solo sull'ordinamento giudiziario, in una sequenza che ha visto inizialmente (con l'articolo 90 dell'ordinamento stesso) attribuire ai magistrati che esercitano funzioni giudiziarie un periodo di vacanze di 60 giorni, con la precisazione che, nei primi 15 giorni, avrebbero dovuto essere definiti gli affari e gli atti in corso. Nel 1979, con il medesimo perimetro di applicazione, il periodo venne ridotto a 45 giorni, senza però che ci fosse più alcun riferimento alla necessità di dedicare una "finestra" di tempo al disbrigo degli affari correnti. Ora, invece, con l'articolo 8 bis, sottolinea il Tar,"non si è intervenuti sul solo ordinamento giudiziario, bensì sull'ordinamento di tutte le magistrature, senza distinzione alcuna anche con riferimento a possibili distinzioni fra esercizio di funzioni giudiziarie e non. Detto articolo 8bis si pone, quindi, in posizione di incompatibilità con l'analoga previsione di cui all'articolo 90 cit. e, in quanto successivo, in posizione di prevalenza". Il fatto che entrambi gli articoli sono inseriti nella medesima legge è un dato di importanza solo formale, perché uno interviene sull'ordinamento giudiziario e l'altro è invece stato aggiunto alla legge n. 97 del 1979. L'articolo 8 cioè, chiarisce la sentenza, ha fatto sistema mentre l'8 bis è autonomo. Perché il legislatore ha proceduto in questo modo? Per il Tar, la tecnica legislativa utilizzata, che ha escluso un intervento sull'articolo 8, si spiega considerando che è sembrato non opportuno, per ragioni di sistema, inserire, nell'ambito dell'ordinamento giudiziario, che riguarda i soli magistrati ordinari, una disposizione applicabile a tutte le magistrature. Pur non essendo poi stato investito direttamente di una questione di legittimità costituzionale, il tar affronta il problema, per negarne la fondatezza almeno sotto alcuni profili, tra cui quello dell'urgenza. Se poi è vero che la generalità dei pubblici dipendenti ha diritto a 30 giorni di ferie, allora i magistrati dovrebbero seguire la regola generale. Non dovrebbero invece essere oggetto di una disciplina peggiorativa che si concretizzerebbe se si ritenesse che una parte di quei 30 giorni deve essere dedicata alla definizione degli affari e degli atti in corso. Ma è lo stesso decreto legge a farsi carico del problema, chiarendo che dovranno essere gli organi di autogoverno ad adottare tutte le misure organizzative necessarie a rendere effettivi i giorni di ferie. Giustizia: per i soldati americani in Italia un regime d'eccezione che li rende impuniti di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2015 Disastri, stupri e sequestri: gli impuniti a stelle e strisce. Dal Muos alle violenze nelle basi passando per gli incidenti stradali: perché non pagano mai. Un militare statunitense incarcerato in Italia su 200 accusati. La statistica arriva dagli stessi americani, dal giornale Stars & Stripes, Stelle e Strisce, distribuito tra i militari Usa: "Negli ultimi cinque anni ci sono state 200 indagini per accuse che vanno d al l'aggressione, allo stupro fino all'omicidio colposo, ma solo una persona è stata incarcerata in Italia", scrive la giornalista Nancy Montgomery in un articolo dal titolo "Le truppe americane sotto accusa in Italia spesso sfuggono la pena". Un fenomeno noto da decenni e, però, taciuto: in Italia la giustizia per i militari americani è meno uguale. Quando compiono reati in servizio, ma anche quando si rendono responsabili di reati comuni: incidenti stradali, botte e stupri. E oltre le statistiche emergono storie dolorose. Una in particolare è diventata un simbolo: quella di Jerelle Lamarcus Grey, un ragazzone americano di 22 anni che prestava servizio presso la base a stelle e strisce di Vicenza, la Del Din (ex Dal Molin) nota per le proteste dei vicentini. È il 9 novembre 2013, al Disco Club Cà di Denis alla periferia della città è in programma una festa: musica reggae, champagne e porchetta. Ci sono giovani del posto e militari americani reduci da missioni di guerra. Magari vogliono sfogare la tensione pazzesca che si portano dentro. Quando una ragazzina sudamericana di 17 anni esce dal locale si trova davanti un soldato che la spinge in un angolo buio. La stupra. I carabinieri sono convinti di averlo identificato: è Jerelle. L'accusato resta a piede libero - non ci sarebbe pericolo di reiterazione del reato - finché pochi mesi dopo ecco un altro stupro: una prostituta incinta di sei mesi viene aggredita e violentata. E l'indagine porta di nuovo a lui, a Jerelle e a un suo commilitone: Darius Mc-Cullough. Sarebbero loro i responsabili. Ma com'è possibile, si chiedono in tanti a Vicenza, che Jerelle sia libero? La Procura intanto dispone per lui gli arresti domiciliari. Dove? Nella base Del Din, dove pare girasse indisturbato. Ma la storia non è ancora finita: una notte del dicembre scorso, Jerelle riempie il suo letto di stracci, per far credere di dormire. E senza difficoltà scappa. Viene infine arrestato vicino a un residence frequentato da prostitute: ne avrebbe picchiato un'altra, sempre incinta, pretendendo prestazioni sessuali. Jerelle alla fine riesce a finire nelle galere italiane. "Mi risulta che siano i primi, lui e il suo complice", non nascondono la loro soddisfazione Alessandra Bocchi e Anna Silvia Zanini, avvocati delle presunte vittime. Oggi Jerelle attende il processo per il primo stupro, mentre per il secondo è stato condannato (sei anni in primo grado, come il suo presunto complice Darius Mc-Cullough). E i casi non si contano. Spesso sono reati di violenza. L'u lt imo è di pochi giorni fa: un parà di 22 anni accusato di violenza sessuale nei confronti della figliastra di sette anni. Militari, ma non solo. C'è un civile americano, Mark Gelsinger, tra gli otto indagati nell'inchiesta per reati ambientali relativi alla costruzione del Muos, l'impianto satellitare della Marina Usa di Contrada Ulmo a Niscemi (Caltanissetta). Le autorità americane hanno chiesto subito che sia sottoposto alla loro giurisdizione. I pm italiani indagano, le autorità americane chiedono di sottoporre i loro cittadini alla giurisdizione statunitense. E la risposta finora era quasi sempre scontata: 91 sì su 113 domande in quindici mesi fino al marzo 2014. Perché? Pesava una sudditanza dell'I t alia nei confronti degli Stati Uniti, ma contano anche i tempi della giustizia. "Nelle more del processo i militari vengono rispediti a casa. E addio", racconta l'avvocato vicentino Paolo Mele. Alla base di tutto la Convenzione di Londra ratificata nel 1956, quella chiamata "familiarmente" patto di benevolenza. Prevede che per i reati commessi dai militari Nato si tenda a concedere la giurisdizione del Paese d'origine. In pratica un accordo ricamato addosso ai soldati americani. Per decenni a migliaia si sono sottratti alla nostra giustizia. Con due casi clamorosi: "Il 3 febbraio 1998", racconta Mele, "due avieri americani - il pilota Richard Ashby e il navigatore Joseph Schweitzer - volando come Top Gun tranciarono i cavi della funivia del Cermis. Venti persone morirono. I due militari furono sottratti alla giustizia italiana e processati in America dove vennero assolti per l'incidente. Furono radiati e condannati a pochi mesi solo perché distruggendo il video del volo avevano ostacolato la giustizia", conclude Mele. Poi ecco il casoAbu Omar, l'imam egiziano sequestrato dalla Cia nel centro di Milano e portato nel suo paese dove fu incarcerato e torturato. Il pm Armando Spataro e la Digos di Milano arrivarono a identificare i responsabili: 23 agenti condannati in Cassazione. Ma tutti si sottraggono alla giustizia italiana. E il responsabile della struttura Jeff Romano ottiene la grazia dal presidente Giorgio Napolitano. Se non ci pensano gli americani, facciamo noi. Nessuno dei nostri governi ha mai chiesto l'estradizione per le spie condannate. Violenze, disastri e spionaggio. Ma anche marines in fuga dai loro impegni familiari. Già, perché in Italia ci sono 59 installazioni militari americane. Solo a Vicenza una persona su dieci vive nella base. Nel 1959 ogni mese si celebravano dieci matrimoni misti. Poi qualcosa è cambiato: divorzi, mariti in fuga, irrintracciabili che lasciano le compagne sole e senza un soldo. Un reato, ma nessun militare paga: l'America li tutela a qualunque costo. "Qualcosa, però, negli ultimi mesi sembra cambiato, non so se per merito dell'Italia o dell'amministrazione Obam a", sostiene Alessandra Bocchi. Conclude: "Noi non ce l'abbiamo con gli americani, anzi. Ma dobbiamo tutelare le vittime". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando nel luglio 2014 ha twittato: "I due militari americani accusati di stupro saranno processati in Italia". Jerelle e Darius per il momento sono in carcere. Si capirà presto se è un primo passo. Veneto: conoscere le mafie, costruire la legalità di Roberto Terzo (Magistrato della Procura di Venezia, già membro della Dda) altreconomia.it, 11 luglio 2015 "In Veneto, la mafia ha il volto degli usurai, degli estortori, dei riciclatori di denaro, ma anche di imprenditori che operano nel ciclo dei rifiuti, che, spesso consapevolmente, aprono le porte delle loro imprese alla mafia nella convinzione di ricavarci comunque un guadagno". L'intervento del magistrato Roberto Terzo nel volume che raccoglie gli atti del progetto "Conoscere le mafie, costruire la legalità", promosso dalla Regione Veneto, in collaborazione con Anci Veneto e Avviso Pubblico. L'intervento di Roberto Terzo, magistrato della Procura di Venezia, è uno degli approfondimenti realizzati nell'ambito del progetto di formazione "Conoscere le mafie, costruire legalità", promosso dalla Regione Veneto in collaborazione con Anci Veneto e con l'associazione Avviso Pubblico. Un percorso che prende le mosse prende le mosse dalla legge regionale n. 48 del 28 dicembre 2102, denominata "Misure per l'attuazione coordinata delle politiche regionali a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso, della corruzione nonché per la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile", e che ha coinvolto 535 persone. Di questi, 126 sono amministratori di Comuni, Province, Regione, in particolare 113 amministratori comunali (25 Sindaci, 8 Vice Sindaci, 19 Assessori, 53 Consiglieri, 3 Presidenti di consiglio, 3 Consiglieri di quartiere, 1 Consulta giovani); 147 funzionari e tecnici di enti locali (17 Segretari generali, 66 Funzionari comunali, 40 provinciali, 24 regionali); 108 presenze di rappresentanti di forze dell'ordine (14 da Questura e Procura, 23 Polizia di Stato, 49 Polizia locale, 8 Carabinieri, 12 Guardia di finanza, 1 Polizia penitenziaria, 1 Dogane); 66 presenze dal mondo del lavoro (13 sindacalisti, 22 rappresentanti di categoria, 31 professionisti e lavoratori). In Veneto, le mafie non sono ancora giunte a controllare il territorio. Negli ultimi anni, tuttavia, nella nostra regione c'è stata un'evoluzione poco tranquillizzante rispetto alla presenza di questi gruppi criminali. Con una sempre maggiore difficoltà nel contrastarle. La mafia, classicamente intesa, si può combattere disarticolando una "famiglia" di un paese o di un quartiere: si catturano i vertici e i membri dell'organizzazione criminale, attraverso un'indagine approfondita e ampia, e si arriva all'obiettivo. Molto più difficile risulta il contrasto in una realtà come il Veneto, un contesto nel quale non si manifestano i segnali classici della presenza mafiosa, non salta in aria una pala meccanica, non c'è l'omicidio periodico o l'estorsione costante. Le infiltrazioni della criminalità mafiosa nel Veneto non avvengono con la forza, ma sono favorite da coloro che, in modo complice, hanno aperto la porta a queste forme di criminalità. Ad esempio, alcune persone che consideriamo vittime delle mafie, in particolare alcuni imprenditori, hanno dimostrato una scarsa propensione a collaborare con gli apparati investigativi, in particolare nella fase iniziale delle indagini. Recentemente, nel corso di un'inchiesta svolta dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia e dalla Direzione investigativa antimafia di Padova sono stati scoperti cento imprenditori sottoposti ad usura. Queste persone avevano bisogno di capitali per pagare i loro debiti e, non trovandoli presso banche e finanziarie, si erano rivolti ad una banda criminale campana che aveva acquistato una società finanziaria in provincia di Padova. In una prima fase, questi imprenditori sono stati aiutati e, in un secondo momento, sono stati usurati e costretti a trovare altri loro colleghi in difficoltà da segnalare alla banda. Da vittime, sono diventi complici. Le infiltrazioni mafiose in Veneto, come dimostra questa vicenda, non sono contraddistinte da una criminalità che arriva armi in mano e si impone con la violenza e l'intimidazione. I mafiosi trovano una insospettata disponibilità, in particolare negli attori economici, che si associa, venendone amplificata ad un declino etico e morale presente nella società; una società in cui ciò che conta è aumentare il fatturato e portare a casa gli "schei". In Veneto, la mafia ha il volto degli usurai, degli estortori, dei riciclatori di denaro, ma anche di imprenditori che operano nel ciclo dei rifiuti, che, spesso consapevolmente, aprono le porte delle loro imprese alla mafia nella convinzione di ricavarci comunque un guadagno. L'iconografia del Veneto austroungarico estraneo al rapporto con il crimine è un'immagine non più reale. Imprenditori, vittime, spesso consapevoli. L'infiltrazione criminale avviene infatti sempre con il consenso della vittima che, consapevole o meno della "qualità" dell'interlocutore, accetta l'offerta dell'organizzazione criminale. La differenza sta nel suo grado di conoscenza e nelle sue aspettative, così che l'imprenditore può essere: vittima a tutti gli effetti (tipico il caso dell'usurato o dell'imprenditore finanziato e poi spossessato); in parte complice (nelle interposizioni o frodi fiscali) ma essenzialmente vittima; complice, mandante o addirittura compartecipe a tutti gli effetti dell'organizzazione criminale. Quando un imprenditore veneto deve riscuotere un credito e non vuole rivolgersi alla giustizia perché questa ha tempi troppo lunghi, si rivolge ad un gruppo criminale che, con i suoi strumenti di convincimento, gli fa ottenere quel risultato in maniera coattiva ma, si badi bene, a discapito degli altri creditori che vengono quindi penalizzati. La criminalità si sostituisce all'inerzia dello Stato, ma così si va verso il precipizio. Di fronte a questo scenario, il segnale inquietante è che si assiste all'assoluta indifferenza del dato reale e, in particolare, alle condizioni strutturali dell'economia veneta che favoriscono l'infiltrazione mafiosa, particolarmente nel settore delle piccole/medie imprese. Gli ultimi anni hanno dimostrato come molti imprenditori continuino ad operare anche quando, nei fatti, non ne hanno più né il diritto né la possibilità e come la loro insolvenza, non venendo tempestivamente dichiarata, diventi fattore di contagio estendendo, a cascata, la crisi delle loro imprese a quella dei loro fornitori con risultati di gravità esponenziale. Gli effetti possono essere devastanti perché nell'immediato determinano un complessiva indebolimento del ceto imprenditoriale di un territorio. Un tessuto imprenditoriale indebolito diventa facile preda delle infiltrazioni di organizzazioni mafiose che dispongono di ingenti risorse finanziarie da investire e di metodi criminali per farle fruttare. Queste infiltrazioni non sono spesso reversibili e, al passare della crisi, le società non vengono restituite agli imprenditori, ma restano sotto il controllo delle organizzazioni criminali. L'intervento preventivo per ristabilire la salute del sistema. Se il sistema avesse messo tempestivamente fuori gioco quella società decotta, l'organizzazione criminale non avrebbe avuto l'occasione di infiltrarsi. Occorre dunque sottrarre le occasioni di investimento di capitali sporchi. Non è un caso che tutte le vittime di usura della vicenda di cui si è fatto cenno, fossero in condizioni di insolvenza nel momento in cui sono stati agganciate dalla organizzazione criminale. Si dirà che questa è una situazione classica per l'usura, ma diventa estremamente significativa se riferita a centinaia di imprenditori, a percentuali non più irrilevanti del tessuto imprenditoriale della regione Veneto che continuava ad operare anche in condizioni di totale decozione, senza che il sistema li avesse bloccati, attuando tempestivamente gli strumenti della definizione concordata dell'insolvenza. Certamente un riassetto delle norme che presidiano il buon andamento dell'economia può contribuire efficacemente al rafforzamento del tessuto economico e imprenditoriale, espungendo per tempo quelle imprese che non hanno assolutamente i requisiti fondamentali per operare e producono solo turbative e distorsioni al sistema. Di stretta conseguenza un simile intervento avrà l'effetto di sottrarre alle organizzazioni criminali occasioni facili di infiltrarsi in profondità nel tessuto economico di regioni cui sono storicamente estranee. Occorre soprattutto procedere con urgenza a modifiche alla disciplina del fallimento e del concordato preventivo per governare in tempi più rapidi le situazioni di crisi patologica dell'impresa. La procedura fallimentare, negli ultimi anni, ben lungi dall'irrigidire il controllo della autorità pubblica si è in qualche modo privatizzata, ampliando i metodi e le occasioni di composizione stragiudiziale dell'insolvenza. Gli stessi concordati preventivi, introdotti per evitare la definitiva insolvenza ed approvati solo quando venga promesso il pagamento di una percentuale risibile dei crediti, si traducono dopo anni in dichiarazioni di fallimento, ma intanto l'impresa ha continuato ad operare e fare danno agli altri imprenditori o ad essere completamente saccheggiata dallo stesso imprenditore. "Aspide", il primo 416-bis del Veneto. L'inchiesta Aspide ha portato all'arresto e alla successiva condanna di un gruppo di malviventi campani vicini al clan dei casalesi. In Veneto, il gruppo criminale aveva acquistato un'agenzia di recupero crediti dietro la quale svolgeva attività usuraia, fallimenti pilotati, ecc. Dal lavoro degli investigatori è emerso che questa attività era possibile grazie ad un sistema di complicità in cui operavano non solo imprenditori, ma anche professionisti veneti, come ad esempio commercialisti, notai, intermediatori d'affari, consulenti. Al termine del dibattimento (maggio 2013), il Tribunale ha confermato l'applicazione del reato di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) impostazione poi integralmente confermata, nel marzo 2014, dalla Corte di Appello di Venezia. Lazio: Cangemi (Ncd) "cosa impedisce la nomina del Garante regionale dei detenuti? Askanews, 11 luglio 2015 "Quanto ancora si deve aspettare per la nomina del Garante dei detenuti?". A chiederselo Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. "La maggioranza latita - ha detto - e Zingaretti, che se ne infischia della popolazione carceraria, come al solito fa finta di niente. Da mesi è vacante la figura del nuovo Garante che deve essere approvato in Consiglio regionale e ancora tutto è fermo. Zingaretti spieghi una volta per tutte quale gioco impedisce di procedere a questa nomina". Calabria: De Pasquale (Ugl) "dal Dap arrivato ok a nostre proposte su piante organiche" newtuscia.it, 11 luglio 2015 "Dopo numerose sollecitazioni il Dap ha accolto la nostra richiesta di revisione di organico nei carceri di Latina, e di Panzera e Arghillà in Calabria". Così Alessandro De Pasquale, responsabile nazionale dell'Ugl Polizia Penitenziaria, in riferimento alla riunione indetta dal Dap sul piano di mobilità del personale appartenente al ruolo maschile e femminile degli agenti - assistenti del Corpo di Polizia Penitenziaria collegato al 169° corso. "Per Latina, il Dipartimento ha accolto la nostra richiesta di trasferimento di altre sette unità femminili, data la forte carenza di organico che da tempo paralizza la struttura. Abbiamo inoltre fatto presente che per il carcere di Velletri il trasferimento di sole 4 unità maschili è insufficiente per le esigenze della struttura. In merito ai due istituti calabresi, abbiamo ottenuto l'aumento di personale per il carcere femminile di Panzera e l'adeguamento dell'organico per quello maschile di Arghillà". "Infine, abbiamo chiesto un tavolo di confronto sull'organico delle sedi extra moenia, - conclude - in modo da poter avere un quadro completo della situazione nei vari istituti penitenziari sul territorio". Reggio Calabria: delegazione Pd in visita al carcere "necessari percorsi di reinserimento" newz.it, 11 luglio 2015 Reggio Calabria. Il Partito Democratico prosegue la sua campagna sul tema delle carceri toccando anche Reggio Calabria - in visita presso la struttura penitenziaria di Arghillà il capogruppo del Pd al comune di Reggio Calabria Antonino Castorina, il vice presidente della commissione di Garanzia Enzo Marra ed il consigliere regionale Nicola Irto accompagnati da Claudia Foti e Giampaolo Catanzariti. Castorina e Marra affermano che il Partito Democratico sta lavorando sulla strada della certezza della pena per chi compie reati stimolando tuttavia una riflessione seria sul reinserimento dei detenuti con percorsi di lavoro, formazione e socialità nelle carceri ed opzionando formule di lavoro anche all'esterno delle strutture. La delegazione del Partito Democratico, è stata accolta dalla direttrice del carcere sito nella zona Nord della Città, Maria Carmela Longo che si è resa disponibile a spiegare il lavoro che si sta facendo in tutti i settori della casa circondariale. La moderna struttura, inaugurata da circa due anni, ospita circa 200 detenuti. Durante l'incontro, la delegazione ha avuto modo di apprezzare il buon livello qualitativo dei locali e, allo stesso tempo, verificare come l'attività lavorativa si svolga in un clima di "reciproco rispetto dei ruoli". All'interno del carcere di Arghillà, piacevolmente, è stata rilevata anche la presenza di una moderna dotazione strumentale dedicata alle cure odontoiatriche ed oculistiche dei detenuti, nonostante l'assenza di preposto personale medico-sanitario specializzato. Pertanto, la delegazione del Partito Democratico, si è impegnata con la direzione penitenziaria a sensibilizzare la locale Azienda Sanitaria ed i vari livelli istituzionali al fine di individuare idonee soluzioni, attraverso la " messa a disposizione" del necessario personale specializzato. Con medesimo impegno, la delegazione Pd si è resa disponibile per provare soluzioni repentine volte a garantire un adeguamento approvvigionamento idrico ed un arricchimento della biblioteca con la consegna prima della fine dell'estate di diversi volumi che saranno donati alla struttura. Il Partito Democratico ha segnalato altresì la necessita di un pronto intervento per la pulizia della zona Nord di Reggio e di Arghillà in particolar modo- che nei fatti è già in corso - provando a realizzare quell'idea originaria di "riportare le periferie al centro". Napoli: il Procuratore nazionale antimafia Roberti "ora basta con l'illegalità diffusa" Corriere del Mezzogiorno, 11 luglio 2015 Sale lo scontro tra bande di baby camorristi e sale anche il grado di preoccupazione da parte delle istituzioni cittadine. E su quanto sta accadendo ieri ha avuto modo di intervenire anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, per il quale "servono mezzi, impegno, professionalità, un apparato investigativo sempre all'altezza del compito e per fortuna noi a Napoli abbiamo ottimi investigatori". Secondo Roberti, oltre ad un'azione di contrasto "efficace con cui assicurare i responsabili di questi fatti criminali alla giustizia", è necessario intervenire contro "una situazione di illegalità diffusa, anche organizzata, che va contrastata sul piano politico, culturale e giudiziario". Anche il sindaco ha analizzato quanto sta accadendo nel cuore della città e si è detto molto preoccupato. "Quanto accaduto è grave" - ha spiegato il primo cittadino nel corso di un incontro pubblico". "Ho detto al Prefetto - ha aggiunto - che è necessario mettere in campo ogni iniziativa per chiedere al Governo, nella sua piena responsabilità, la massima presenza possibile di forze dell'ordine". Una preoccupazione, quella della fascia tricolore dettata soprattutto dalla presenza in città di decime di migliaia di turisti che ogni giorno calcano quelle stesse strade del Centro Storico che i baby camorristi si contendono a colpi di 7,65. "Un centro storico che - ha sottolineato l'ex pm - mai come in questo periodo è vivissimo di turisti, di napoletani e di iniziative. Proprio perché Napoli sta vivendo una stagione turistica straordinaria c'è bisogno di un impegno particolarmente elevato". De Magistris ha infine evidenziando il lavoro "già difficile e straordinario" delle forze dell'ordine in città, ma questi segnali non vanno né sottovalutati né considerati ordinari", "C'è bisogno - ha concluso - della presenza fisica anche di notte". Il sindaco ha riferito circa la possibilità che nei prossimi giorni si tengano incontri per affrontare il tema criminalità. Milano: come ridurre le cause arretrate? l'esempio della Corte d'appello di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 11 luglio 2015 Arretrato ridotto, processi che al massimo durano poco più di due anni e di cui solo il 27% arriva in Cassazione, dove le relative sentenze vengono confermate nell'80% dei casi: con lo stesso numero di giudici e nonostante le carenze nel personale amministrativo che a novembre arriveranno al 40%, la Corte d'appello di Milano nei primi sei mesi del 2015 ha ridotto i processi civili pendenti del 29,2%. La ricetta? Razionalizzazione ed efficienza. Piuttosto che stare lì a a recriminare sull'atavica condizione disastrosa della giustizia, come pure si avrebbe diritto a fare, a Milano da quattro anni ci si è rimboccati le maniche scegliendo la strada della riorganizzazione attraverso una programmazione gestionale dei procedimenti studiata in riunioni periodiche dei presidenti delle cinque sezioni coordinati dal presidente della Corte Giovanni Canzi, che ha reso noti i dati in un recente convegno. In questo modo, da 14.642 procedimenti pendenti nel 2012 (anno in cui l'arretrato ha toccato il picco più alto), si è scesi ai 10.359 dell'inizio del 2015. Nei primi sei mesi di quest'anno sono stati già definiti con sentenza 4.092 processi, una media di 682 al mese, circa cento in più dell'anno precedente, portando l'arretrato a 9.229 fascicoli (il 78% dei quali è nato negli ultimi tre anni), contro i 10.350 del 2014. Anche grazie alla collaborazione degli avvocati, la prima udienza civile, ad esempio, è diventata il fulcro dell'intero processo, perché è lì che subito si chiarisce se l'appello è ammissibile o no, se si deve fare un'istruttoria oppure se si deve andare a delle precisazioni e poi alla sentenza. Nel settore penale il trend ha una curva di discesa del tutto simile. Anche il Tribunale del Lavoro presieduto da Piero Martello ha tempi record con cause che, nonostante l'impennata numerica per la crisi, durano in media 148 giorni contro una media europea di 168, e riesce a smaltire l'intero ammontare di fascicoli in entrata azzerando l'arretrato, al punto che le cause più vecchie sono del 2014. Napoli: l'avvocato Trupiano "pronto allo sciopero della fame e non mi curerò i tumori" di Giuseppe Parente Il Garantista, 11 luglio 2015 Il penalista napoletano Vittorio Trupiano, arrestato lo scorso 25 giugno per concorso esterno in associazione camorristica, ha affidato una lettera al suo difensore. Secondo l'accusa l'avvocato partenopeo avrebbe fatto da tramite tra il clan Caiazzo del Vomero e i Lo Russo di Miano per la spartizione degli appalti negli ospedali. Vittorio Trupiano ha deciso di non mangiare più, di non bere e di non curarsi più per i 2 tumori di cui è afflitto. Questo è il testo della lettera che il legale ha affidato al quotidiano Roma su precisa volontà dell'assistito. "Mi dichiaro prigioniero politico. La mia politica è stata sempre quella a difesa dei detenuti. Prova ne siano le due richieste referendarie per la modifica dell'articolo 4lbis negli anni 1999 e 2000, per l'abrogazione della pena di morte a termine chiamata ergastolo, iniziative che hanno dato molto fastidio ai potenti della Repubblica. Mentre ben altri potenti (Usa) negano l'estradizione di Gambino all'Italia, ritenendo il 41 bis più letale della pena di morte vigente in molti dei loro stati". Il "prigioniero politico" Trupiano, in questa sua missiva, ricorda l'arresto nel 2003 per concorso esterno in associazione camorristica dove venne prosciolto all'udienza preliminare per il 416bis e rinviato a giudizio per voto di scambio aggravato dal metodo mafioso salvo poi venire assolto con formula piena perché il fatto non sussiste. Quest'anno è stato nuovamente arrestato per 416 bis, concorso esterno al clan Caiazzo. Accusa costruita a tavolino e che con il primo arresto ha in comune il nome di uno dei due richiedenti la misura cautelare, il dottor Giuseppe Borrelli, con lo stesso spirito persecutorio. "Non che - continua - mi manchino argomenti a mia difesa, ma per effetto di due gravi neoplasie, sono stato comunque ritenuto compatibile con il regime carcerario, perché due tumori portati da Trupiano equivalgono ad una gengivite". Tra pochi giorni Vittorio Trupiano inizierà un clamoroso sciopero della fame e della sete, accompagnato dal rifiuto delle terapie, quale forma di protesta estrema all'ennesima ingiustizia consumata sulla sua pelle e quella della sua famiglia. Una ingiustizia, a detta del legale, cosi macroscopica, da rinunciare al tribunale del Riesame. Se le condizioni di salute del penalista dovessero peggiorare, potrebbe essere necessario un ricovero ospedaliero ma il suo avvocato difensore è convinto, che la verità, in tempi rapidi, verrà a galla. Arezzo: "sono padre Graziano, detenuto ma innocente", la lettera dal carcere del frate La Nazione, 11 luglio 2015 "Dimostrerò con i fatti che è tutto inventato" dice con lo scritto portato su Canale 5 dal nuovo avvocato. E invia un saluto speciale alla famiglia di Guerrina. Padre Graziano prova a superare le sbarre e le mura del carcere non con una lima ma con una penna. Scrive dal carcere in cui è detenuto dal 23 aprile. Poche righe, in francese, scritte in corsivo, su un foglio protocollo, con una penna biro blu. Si dichiara ancora una volta innocente, si dice detenuto ingiustamente, saluta la famiglia di Guerrina, la casalinga scomparsa che è accusato di aver ucciso. È la prima volta che il frate più sospettato d'Italia prende carta e penna per raccontarsi. Lo fa con questa lettera mostrata ieri sera in diretta durante "Segreti e delitti", programma di Canale 5, dedicata al caso. Il foglio protocollo lo ha portato in tv il suo nuovo avvocato Francesco Zacheo. "Sono padre Graziano detenuto nel carcere di Arezzo senza aver commesso alcun reato. Mi sento sereno e ho fiducia di poter dimostrare la mia innocenza. Dimostrerò attraverso i fatti che tutto ciò che è successo è totalmente inventato. Sono un prete, un cattolico credente, mi rivolgo alla famiglia della signora Guerrina perché la verità emergerà al più presto, mando un grande saluto dalla prigione dove mi trovo giacché mi sento innocente". Zacheo in Tv si è ancora una volta dichiarato certo dell'estraneità ai fatti del frate, spalleggiato anche da Osango Benjamin, consigliere dell'ambasciata del Congo. Ma il difficile per il frate deve ancora venire e sarà l'interrogatorio del 28 luglio. Sarà in grado di trovare una spiegazione capace di tirarlo fuori dal carcere? Piacenza: botte in carcere per la leadership nella sezione, condannati cinque detenuti ilpiacenza.it, 11 luglio 2015 Lo scontro era avvenuto tra un gruppo di detenuti originari dell'Africa e alcuni romeni tutti reclusi nella sezione "protetti", dove viene ospitato chi ha commesso reati a sfondo sessuale. Alla base della resa dei conti c'era la leadership in quella sezione. Nel febbraio di una anno fa la rissa era scoppiata violenta all'interno del carcere. Una scazzottata per sancire il diritto al "comando" dietro le sbarre. Il 10 luglio, cinque detenuti sono stati condannati dal giudice Elena Stoppini: quattro a tre mesi di reclusione e uno a due. Tutti erano accusati di rissa. Il pm Emilio Pisante aveva chiesto per gli imputati pene tra gli otto mesi e un anno. Lo scontro era avvenuto tra un gruppo di detenuti originari dell'Africa e alcuni romeni tutti reclusi nella sezione "protetti", dove viene ospitato chi ha commesso reati a sfondo sessuale. Alla base della resa dei conti, secondo quanto emerso dalle indagini, c'era la leadership in quella sezione. A sedare lo scontro erano intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria che, al termine, avevano denunciato i partecipanti. Alcuni di loro erano anche finiti in ospedale dove avevano riportato prognosi fino a 10 giorni per contusioni in varie parti del copro. Asti: Sappe; detenuto aggredisce il medico del carcere mentre questi lo stava visitando obiettivonews.it, 11 luglio 2015 È quanto accaduto ieri nel carcere di Asti. "Protagonista un detenuto classificato ad Alta Sicurezza, pugliese, appartenente alla criminalità organizzata di stampo mafioso, che ha colpito il medico durante una visita. Il detenuto non era d'accordo col la diagnosi del dottore (!) e si è scagliato contro di lui", spiega il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece. "Tempestivo è stato l'intervento dei poliziotti penitenziari in servizio, che l'hanno bloccato ed hanno quindi scongiurato che l'aggressione avesse più gravi conseguenze. Il medico, dopo la spiacevole ed assurda aggressione, ha ripreso regolarmente servizio. A lui va la nostra solidarietà: agli agenti di Polizia Penitenziaria di Asti le nostre felicitazioni per avere risolto rapidamente e nel modo migliore il grave episodio". Aggiunge Vicente Santilli, segretario regionale Sappe del Piemonte: "Ogni giorno accade qualcosa di negativo nelle carceri piemontesi, sintomo di una costante tensione che meriterebbe una maggiore consapevolezza ed attenzione da parte delle Autorità regionali e nazionali. Noi, come primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, saremo sempre in prima linea a rivendicare attenzione e interventi risolutivi per garantire condizioni di lavoro dei Baschi Azzurri tali da garantire la sicurezza e l'ordine. Ma anche la nostra pazienza ha un limite". Livorno: Sappe; detenuto nigeriano aggredisce tre agenti penitenziaria a calci e pugni Ansa, 11 luglio 2015 Un detenuto di origine nigeriana ha aggredito ieri nel carcere di Livorno tre agenti di Polizia penitenziaria con calci e pugni, procurando a ciascuno ferite lievi con prognosi di tre giorni. A riferire l'episodio, in un comunicato, il responsabile territoriale di Uil penitenziari di Livorno, Mauro Barile. "Il detenuto - si spiega nel comunicato - dopo aver aggredito un altro recluso, durante le operazioni di trasferimento in altro reparto per evitare ritorsioni da parte di altri ristretti, ha improvvisamente sferrato un pugno al volto a uno dei tre agenti che lo stavano accompagnando, colpendo poi con calci gli altri due colleghi che cercavano di immobilizzarlo. Fortunatamente sono lievi le ferite riportate dai colleghi, con prognosi di tre giorni per ognuno". "Non è un caso - prosegue la nota - che episodi simili si verifichino nel periodo estivo, quando la presenza del personale viene ridotta per permettere la fruizione delle ferie a tutti gli operatori. Ieri, la presenza di personale non era sufficientemente proporzionale al numero dei detenuti su cui vigilare. Potrebbe sembrare un'illustrazione esagerata dello scenario del penitenziario livornese - conclude Barile - ma l'amministrazione penitenziaria si è inventata un ridimensionamento della pianta organica dopo la chiusura di due vecchi reparti, ma prima dell'apertura del nuovo, che ospita 100 detenuti ad alta sicurezza, riducendo la disponibilità degli agenti da 305 a 232". Palermo: "Teatro in carcere", un laboratorio teatrale per i detenuti dell'Ucciardone Adnkronos, 11 luglio 2015 Un laboratorio teatrale per i detenuti del carcere Ucciardone di Palermo. È stato firmato oggi, a Villa Niscemi, alla presenza del sindaco Leoluca Orlando, dell'assessore al Bilancio Luciano Abbonato, del direttore del penitenziario Rita Barbera e del direttore dell'associazione Il Teatro per la libertà Lollo Franco, il protocollo d'intesa con il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria dell'Ucciardone per la realizzazione dell'attività di "Teatro in carcere". Un accordo importante che, come ha sottolineato il sindaco Orlando "mira, attraverso la possibilità per i detenuti di avere dei contatti con l'esterno, a prepararli e ad aiutarli al reinserimento sociale". "La Costituzione prevede che il fine della pena deve essere rieducativo - ha aggiunto il primo cittadino - e non c'è niente di meglio che portare il teatro in carcere, per andare in questa direzione perché, oltre a far passare dei momenti di spensieratezza ai detenuti, si crea quel legame sociale con il mondo esterno che è stato momentaneamente interrotto". Un tema, quello dei reinserimento, a cui l'amministrazione comunale è sempre stata sensibile e non è un caso che, nell'anno del Festino della misericordia, anche un detenuto salirà sul carro della Santuzza. "Con queste iniziative - ha concluso Orlando - si crea la comunità palermitana perché, non dimentichiamoci che Palermo è l'Ucciardone e l'Ucciardone è Palermo. Perché nel penitenziario troviamo tutto il bene e il male che troviamo nella nostra città". Napoli: a Scampia l'Officina delle culture Gelsomina Verde, offrire lavoro e accoglienza Ansa, 11 luglio 2015 Nel nome di Gelsomina Verde, vittima innocente della camorra, ha preso vita oggi nel quartiere napoletano di Scampia l'Officina delle culture, centro con l'obiettivo di offrire alternative "concrete" ai minori, ma anche a detenuti che hanno misure alternative. L'Officina, gestita dall'associazione Resistenza Anticamorra, con la collaborazione di altre otto associazioni, sorge in una ex scuola che, negli ultimi otto anni, è stata prima utilizzata dalla camorra per nascondere le armi e poi come ricovero abusivo di tossicodipendenti. L'idea - come spiegato da Ciro Corona, presidente di Resistenza Anticamorra - nasce sette anni fa, ma "la vecchia amministrazione non ci voleva affidare la struttura. Con la nuova amministrazione - ha aggiunto - abbiamo avuto le chiavi e grazie a una rete territoriale e a 700 volontari da tutta Italia, che hanno raccolto 45 bidoni di siringhe, oggi questa scuola rinasce con l'obiettivo di offrire opportunità e dare accoglienza". Nel centro, accanto ai laboratori, nasceranno una scuola di cinematografia e di musica, ma anche una comunità alloggio per minori grazie a un protocollo con il Dipartimento di Giustizia minorile. A oggi manca la ristrutturazione di ulteriori mille metri quadri dove è intenzione dell'associazione realizzare un ristorante-pizzeria sociale dove i ragazzi delle comunità possano imparare il mestiere e "scegliere se cambiare vita". I lavori sono stati possibili grazie a 55mila euro di sponsorizzazioni private e a Coppa Adriatica che ha donato 30mila euro di attrezzature e, inoltre, confluiscono nell'Officina tutti i proventi e gli utili della vendemmia del bene confiscato di Chiaiano. "I nostri sacrifici - ha detto Francesco Verde, fratello di Gelsomina - non sono stati vani. Mia sorella credeva che la cultura è riscatto e strumento per dare libertà alle persone. Qui - ha proseguito - si fa memoria, ma si dà anche agli altri la possibilità di poter scegliere perché la cultura rende liberi". Alla realizzazione del progetto, hanno collaborato anche sette detenuti affidati all'associazione Resistenza Anticamorra e oggi uno di loro Raffaele ha sottoscritto il contratto per diventare socio lavoratore. "La tappa di oggi - ha affermato il procuratore Antimafia Franco Roberti - è un tassello fondamentale. A Napoli è vero c'è la criminalità, ma c'è anche una realtà straordinaria che vuole riempire la vita di contenuti perché i presidi di legalità sono necessari, ma servono gli interventi. Quando andrò in pensione - ha concluso rivolgendosi ai volontari - metterò le mie competenze al servizio, chiamatemi io ci sarò". Cosenza: "Amore sbarrato, il sogno continua", il nuovo spettacolo dei detenuti-attori Corriere della Calabria, 11 luglio 2015 È in programma nel teatro di Cosenza, per il prossimo 15 luglio, il lavoro realizzato dal regista calabrese Adolfo Adamo, a conclusione del laboratorio tenuto nel penitenziario "Sergio Cosmai". "Amore sbarrato, il sogno continua". È il titolo dello spettacolo teatrale che andrà in scena al teatro "Morelli" di Cosenza il prossimo 15 luglio, alle 18. Si tratta dell'allestimento che arriva a conclusione del laboratorio teatrale che, per il secondo anno consecutivo, l'attore e regista cosentino Adolfo Adamo ha tenuto nella casa circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza con la partecipazione di un gruppo di detenuti. Il progetto è ancora una volta promosso dall'amministrazione comunale con la collaborazione della casa circondariale di Cosenza, diretta da Filiberto Benevento. "La novità più importante - afferma l'attore Adolfo Adamo che dal mese di gennaio a oggi ha diretto il laboratorio all'interno del carcere di via Popilia - è data dal fatto che dei dieci attori che saranno in scena mercoledì 15 luglio al "Morelli", otto sono detenuti che per la prima volta hanno partecipato al laboratorio teatrale, mentre gli altri due sono ex detenuti che hanno finito di scontare la pena e che hanno accettato di partecipare ugualmente al progetto. Non era affatto scontato che si rimettessero in gioco. Invece hanno voluto, con mia somma soddisfazione, ripetere l'esperienza dello scorso anno". Per "Amore sbarrato, il sogno continua" Adolfo Adamo ha scritto una storia ex novo che si pone in continuità con il lavoro dello scorso anno. Il regista e autore del testo che quest'anno, al contrario di quanto era accaduto al Rendano nello spettacolo del giugno 2014, non sarà direttamente impegnato in scena, pur essendo pronto ad intervenire qualora ce ne fosse bisogno, ha immaginato uno sviluppo narrativo che sta a metà tra i "Sei personaggi in cerca d'autore" di pirandelliana memoria e il teatro di William Shakespeare. "In questo nuovo lavoro c'è più teatro e meno laboratorio", dice ancora Adamo e spiega che la rappresentazione parte dalla platea con due dei detenuti-attori in veste di spettatori che, man mano che l'azione va avanti, vengono coinvolti sulla scena. Libri: "No Prison. Ovvero il fallimento del carcere", di Livio Ferrari recensione di Marco Del Ciello radicali.it, 11 luglio 2015 Michel Foucault, nel suo classico Sorvegliare e punire (Einaudi, 1976), ci ricorda che le proposte di riforma e di correzione del carcere sono antiche quasi quanto il carcere stesso. Da più di due secoli autori di varia formazione si esercitano nella critica, talvolta portata anche alle estreme conseguenze, dell'istituzione penitenziaria. Nel complesso, una biblioteca imponente. È quindi difficile scrivere ancora qualcosa di originale sul tema, eppure Livio Ferrari ci riesce. Il suo ultimo libro, "No Prison. Ovvero il fallimento del carcere" (Rubbettino, 2015), offre anche al lettore esperto della materia spunti di riflessione non scontati. Vediamo perché. Per molte persone il carcere è una terra straniera, un luogo lontano da cui arrivano notizie scarse e frammentarie, in cui vivono individui pericolosi per cui è difficile provare sentimenti di comprensione o di empatia. Noi radicali naturalmente sappiamo che questa percezione, pur molto diffusa, è solo un'illusione: chiunque, anche il più retto e disciplinato dei cittadini, può essere vittima della "giustizia" italiana e ritrovarsi all'improvviso dentro una cella. Anche a distanza di trent'anni, l'amara vicenda di Enzo Tortora resta un valido promemoria di questa realtà. Ferrari però appare molto consapevole di questo velo di ignoranza che circonda l'istituzione penitenziaria e quindi adotta l'approccio di un antropologo culturale per accompagnarci in un viaggio, al tempo stesso affascinante e terribile, verso questo paese nascosto. C'è addirittura un capitolo ("La prassi penitenziaria", p. 87-92) interamente dedicato alla lingua del carcere, completo di glossario dei termini usati dai detenuti. Chi, dall'esterno, potrebbe ad esempio capire che l'erbivoro è un "ergastolano che si è adattato alla vita della galera"? Ma non è solo folklore, c'è la descrizione puntuale delle lotte feroci per raggiungere l'ambita posizione di capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, una riflessione critica sul ruolo del volontariato, la denuncia delle mancanze e delle colpe dell'informazione televisiva e molto altro. Con una capacità di sintesi invidiabile, l'autore offre uno spaccato, anche in chiave di evoluzione storica, dei diversi soggetti che popolano la realtà del carcere. Di particolare interesse sono poi i capitoli dedicati rispettivamente alla polizia penitenziaria e ai garanti dei detenuti. Nel primo si evidenziano le contraddizioni di un corpo di polizia che, pur relativamente giovane - la sua nascita risale alla riforma del 1990, ha assunto rapidamente un ruolo di primo piano all'interno dell'amministrazione, ma al tempo stesso non riesce a garantire ai suoi appartenenti condizioni di lavoro dignitose. Insomma, per gli agenti prestigio e riconoscimenti economici, ma poca formazione e quasi nessuna assistenza psicologica. Eppure è ormai ben noto il preoccupante fenomeno dei suicidi tra questi lavoratori. Nel secondo si racconta come, in attesa della tanto sospirata nomina di un garante nazionale, stiano proliferando in ogni parte d'Italia garanti regionali, provinciali e comunali. Ferrari ne censisce in tutto 48 già nominati e 5 istituiti ma ancora vacanti. Tra di loro anche alcuni radicali di grande esperienza e sensibilità come Bruno Mellano (Regione Piemonte), Rosanna Degiovanni (Comune di Fossano) e Roswitha Flaibani (Comune di Vercelli). Questo piccolo esercito di difensori civici dei detenuti non è però finora riuscito a conseguire una unità d'azione nei confronti dell'amministrazione penitenziaria, a causa dell'eterogeneità dei profili professionali coinvolti e anche di alcune rivalità personali. Tuttavia l'autore riconosce l'utilità di queste figure, esterne alla burocrazia penale e importanti per integrare l'operato dei magistrati di sorveglianza. Osservazioni acute e precise in ogni aspetto, ma in primo piano ci sono sempre, e non potrebbe essere diversamente, le violazioni dei diritti umani per cui l'Italia è stata ripetutamente condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. L'autore di questo libro non è timido sull'argomento e anzi sottolinea in un apposito capitolo ("La tortura nelle carceri italiane", pp. 43-55) la dimensione di tortura sistematica e strutturale che esiste nel nostro sistema penitenziario. No Prison non è però un reportage giornalistico o un trattato di sociologia, è un manifesto - "Il Manifesto No Prison", appunto (pp. 25-31) -, scritto a quattro mani dallo stesso Ferrari e dal giurista Massimo Pavarini, che chiede l'abolizione del carcere e il ricorso, in alternativa, a forme nonviolente e partecipative di risoluzione dei conflitti. Una proposta estrema, per quanto molto ben argomentata, che avvicina questo libro a un altro fortunato saggio uscito nello stesso periodo: Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta (Chiarelettere, 2015). Sono entrambi volumi importanti e sotto alcuni aspetti complementari, perché fondano le loro analisi e le loro conclusioni su una conoscenza approfondita della realtà del carcere, sui numeri freddi e imparziali ma anche sul calore delle vite e delle storie personali. Ci aiutano insomma a esplorare questa terra straniera e a considerare i suoi abitanti non più come alieni, ma piuttosto come concittadini e compagni di lotta. Migranti, 150 mila in 6 mesi. E per la prima volta la Grecia supera l'Italia Redattore Sociale, 11 luglio 2015 I dati europei da gennaio a giugno 2015 diffusi dall'Oim. Nella penisola ellenica sono arrivate quasi 76 mila persone, contro 74mila in Italia. In crisi l'accoglienza". Ieri l'ultima strage, 1.900 finora i morti nel Mediterraneo, il doppio rispetto allo scorso anno. L'ultimo naufragio è di ieri sera: 12 persone sono morte a 40 miglia dalla Libia nel tentativo di raggiungere l'Europa. Una tragedia che fa aumentare la lunga delle vittime del mare: 1.900 dall'inizio dell'anno, più del doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La stima è dell'Organizzazione mondiale delle migrazioni. Dall'inizio del 2015. sono state più di 150mila le persone soccorse e sbarcate in Europa: la quasi totalità degli arrivi, secondo le stime dell'Oim, è stata registrata in Grecia con 75.970 arrivi e in Italia 74.009 (il dato ufficiale del ministero dell'Interno fermo al 30 giugno è di 70.354 arrivi, ma l'Oim presente nei punti di sbarco parla di almeno quattromila arrivi in più). Per la prima volta, dunque il numero degli arrivi in Grecia, supera quello dell'Italia. "Il numero di arrivi record nella penisola ellenica è dovuto alla crisi siriana. La situazione nel paese non sta migliorando e le persone stanno continuando a scappare - spiega Flavio Di Giacomo, portavoce dell'Oim - La situazione della Grecia è particolarmente delicata, in quanto l'alto numero di arrivi sta mettendo sotto forte pressione un paese già alle prese con una delle peggiori crisi economiche della storia moderna. L'accoglienza è difficile". Secondo i dati della Guardia Costiera greca, i migranti che hanno solcato il Mar Egeo nei primi 6 mesi del 2015 sono stati circa 69 mila. Nel corso del mese appena conclusosi, si stima che siano arrivate circa 900 persone al giorno. In sette giorni, dal 1 al 8 luglio 2015, i migranti che hanno attraversato l'Egeo sono stati 7.202. I principali paesi d'origine sono Siria e Afghanistan. "I rifugiati arrivano nelle isole del Dodecanneso, a Lesbos, Samos e Kos, in particolare - spiega Di Giacomo - si spostano su piccoli gommoni gonfiabili e in gruppi ristretti. Alcune volte non vengono neanche soccorsi, sbarcano direttamente sulla costa. La rotta, rispetto a quella nel Canale di Sicilia, è infatti più breve e anche più sicura. In parte l'aumento del flusso verso la Grecia è dovuto a questo, dall'altro al peggioramento della situazione in Siria da cui si continua a scappare. Va detto anche che lo scorso anno diversi siriani si sono trovati bloccati all'interno di cargo fantasma che si dirigevano verso la Sicilia, e forse anche per questo hanno deciso di cambiare rotta". La stima più preoccupante è quella dei migranti morti in mare - sottolinea l'Oim - oltre 1.900 quest'anno, più del doppio rispetto al 2014. "Il numero di morti in mare è tuttavia iniziato a diminuire a partire da maggio, ossia da quando Frontex ha dispiegato maggiori forze marittime nel Canale di Sicilia - spiega l'Organizzazione. Nonostante questo il Mediterraneo continua a essere letale: è di ieri sera la notizia di un naufragio avvenuto a circa 40 miglia dalle coste libiche, nel corso del quale 12 migranti hanno perso la vita. I dettagli dell'incidente sono ancora da verificare, ma le vittime sono cadute in mare mentre erano a bordo di un gommone parzialmente affondato, sul quale si trovavano circa altre 100 persone. I corpi sono stati recuperati dalla nave Dattilo della Guardia Costiera, che arriverà domattina al porto di Palermo. Lunedì scorso 5 corpi di migranti, probabilmente partiti dalla Libia, sono stati invece recuperati al largo delle coste tunisine e martedì 19 migranti hanno perso la vita nel mar Egeo, tra Turchia e Grecia. Solo quattro i cadaveri recuperati". "Le rotte cambiano, così come la composizione dei flussi, ma i numeri continuano a salire", afferma Federico Soda, direttore dell'Ufficio di coordinamento dell'Oim per il Mediterraneo. "L'Italia", spiega Soda, "è meta di un flusso migratorio misto, più complicato da gestire: il paese vede non solo l'arrivo di un gran numero di richiedenti asilo, ma anche di migranti economici. A prescindere dalla nazionalità, entrambe le categorie di casi devono essere esaminate individualmente per poter determinare il loro status. Inoltre tra coloro che raggiungono l'Europa via mare vi sono spesso anche persone vulnerabili, come vittime di tratta e di abusi, minori non accompagnati e donne in gravidanza." Se in Grecia la maggior parte dei migranti sono siriani e afgani, in Italia le nazionalità sono diverse: i principali paesi di origine dei migranti arrivati in Italia sono: Eritrea (18,676), Nigeria (7,897), Somalia (6,334), Siria (4,271), Gambia (3,593) e Sudan (3,589). Secondo l'Oim l'arrivo di 150 mila migranti in Europa è sicuramente un dato significativo ma assolutamente non eccezionale, considerando che gli europei sono complessivamente più di 500 milioni, non bisogna considerare questo fenomeno come "un'invasione", soprattutto se si prende in considerazione ciò che accade al di fuori dei confini dell'Unione Europea (ad esempio il Libano, che conta una popolazione di 4 milioni, ospita 1,5 milioni di rifugiati siriani. La Turchia, invece, ne ha accolti quasi 2 milioni). "L'emergenza è umanitaria a causa delle drammatiche condizioni in cui si vengono a trovare i migranti e sarebbe certamente più gestibile se tutti i paesi coinvolti collaborassero di più tra di loro e dessero risposte più esaurienti e strutturate. Non esiste una soluzione facile e immediata per questo fenomeno, perché è il frutto di circostanze politiche, sociali ed economiche", conclude Soda. Bolivia: il Papa tra i detenuti del carcere più duro "peccatore come voi" di Andrea Tornielli La Stampa, 11 luglio 2015 In Bolivia con gli ergastolani: serve il reinserimento. E lascia ai piedi di un altare il regalo di Morales. "Aiutami Signore, fammi uscire da qui, voglio stare con te, libero!". I prigionieri del settore PS 4 del carcere di Palmasola intonano a gran voce un canto che è anche una preghiera da far ascoltare a Papa Francesco. Sono insieme alle loro famiglie, ci sono tanti bambini, anche molto piccoli. "Davanti a voi c'è un uomo perdonato dai suoi molti peccati", dice il Papa, che prima di salire sul palco saluta uno a uno un gruppo di malati e di carcerati con i loro figli. Tre bambini gli stanno attorno e di tanto in tanto vanno ad abbracciarlo. Anna Lia Parada si commuove chiedendo al Papa di "intercedere per noi", dopo aver raccontato la difficile realtà quotidiana delle centinaia di detenute come lei, molte della quali incinte. "La giustizia boliviana fa terrorismo giudiziario. Ti chiediamo di fare tu da nostro intermediario perché ci sia un indulto per le donne incinte". In prima fila c'è la giovane ministra della Giustizia Sandra Gutierrez, in abito tradizionale. "Stiamo lavorando per migliorare le loro condizioni", assicura a La Stampa. Francesco non ha voluto lasciare il Paese senza visitare quello che viene considerato uno dei carceri più pericolosi dell'America Latina, autogestito dal 1989, dove i familiari possono entrare e uscire, ma entrano ed escono anche armi e droga. "Quello che sta davanti a voi - così si presenta il Papa - è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Questa è una certezza della mia vita". Ai quattromila carcerati della prigione dove si pagano 300 dollari per accedere al settore più aperto e dove si paga anche soltanto per uscire e partecipare all'udienza del proprio processo, dove ogni miglioramento delle condizioni ha un prezzo, Francesco parla dell'amore di Dio. "Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura, che si avvicina e restituisce dignità. Gesù è un ostinato in questo: ha dato la vita per restituirci l'identità perduta". "Quando Gesù entra nella vita - aggiunge - uno non resta imprigionato nel suo passato ma è in grado di piangere e lì trovare la forza di ricominciare". Sono molti gli elementi, riconosce, "che giocano contro di voi in questo posto, lo so bene: il sovraffollamento, la lentezza della giustizia, la mancanza di terapie occupazionali e di politiche riabilitative, la violenza. E ciò rende necessaria una rapida ed efficace alleanza fra le istituzioni per trovare risposte. Tuttavia, mentre si lotta per questo, ci sono cose che possiamo già fare ora". La convivenza, in questo luogo dove due anni fa 31 detenuti persero la vita in uno scontro a fuoco all'interno del carcere, "dipende in parte da voi. La sofferenza e la privazione possono rendere il nostro cuore egoista e dar luogo a conflitti, ma abbiamo anche la capacità di trasformarle in occasione di autentica fraternità. Non abbiate paura di aiutarvi fra di voi. Il diavolo cerca la rivalità, la divisione, le fazioni. Lottate per andare avanti". Alla fine il Papa chiede preghiere per lui "perché anch'io ho i miei errori e devo fare penitenza". Prima di lasciare Palmasola, Francesco, a bordo di una golf car, ha voluto avvicinarsi anche al settore di massima sicurezza Ps 3, per salutare i detenuti più pericolosi. Lungo il tragitto le mamme da dietro la rete metallica gridano: "Vogliamo la tua benedizione". Elia Emanuel Apap, 27 anni, argentino, in prigione da un anno, si commuove vedendo partire il Papa: "Non avrei mai creduto che una così alta personalità potesse venire qui da noi", ci dice, prima di rientrare nella "catrera", la zona con gli stanzoni da 40 detenuti ciascuno, con i letti a castello alloggiati e un solo bagno. In mattinata Francesco aveva restituito, mettendole ai piedi della Madonna, le decorazioni ricevute tre giorni fa da Evo Morales, compreso il medaglione con inciso il Crocifisso e la falce e martello. Nel pomeriggio il Papa è arrivato ad Asunción, in Paraguay. Nel primo discorso alle autorità civili ha esaltato il ruolo delle donne paraguayane che nei momenti più drammatici hanno permesso al Paese di andare avanti. Stati Uniti: Barack Obama sarà il primo presidente a visitare una prigione Askanews, 11 luglio 2015 Appuntamento al carcere El Reno, in Oklahoma, giovedì prossimo. Barack Obama sarà il primo presidente americano in carica a visitare un carcere federale. L'appuntamento è per giovedì prossimo, quando l'inquilino della Casa Bianca si recherà alla prigione El Reno in Oklahoma. Là incontrerà i detenuti e i funzionari pubblici. Ad annunciarlo è stato il suo portavoce Josh Earnest. L'evento fa parte degli sforzi dell'amministrazione Obama volti a riformare il sistema della giustizia penale. Si tratta di un tema che ha suscitato un interesse bipartisan. Conservatori come il candidato alle elezioni presidenziali del 2016 Rand Paul e i miliardari fratelli Koch si sono uniti a gruppi liberal come American Civil Liberties Union per spingere per una riduzione della popolazione carceraria e per ammorbidire le sanzioni per crimini minori. Medio Oriente: Hamas; 242 attivisti arrestati in Cisgiordania da inizio del Ramadan Aki, 11 luglio 2015 Gli apparati di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) "hanno arrestato 242 persone" tra attivisti e membri di Hamas in Cisgiordania dall'inizio del mese di Ramadan. È quanto ha denunciato la "Commissione famiglie dei detenuti politici in Cisgiordania" del movimento di resistenza islamico, che ha espresso "preoccupazione per il prolungarsi di questa campagna di arresti politici". La maggior parte degli arrestati "sono studenti universitari o ex detenuti nelle carceri israeliane", ha affermato la Commissione, che in una nota ha precisato anche il numero delle persone fermate in ciascuna provincia della Cisgiordania. Si tratta di "56 cittadini di Hebron, 36 a Nablus, 27 a Tulkarem, 25 a Betlemme, 22 a Ramallah e al-Bira, 15 a Tubas, 16 a Salfit, 12 a Jenin, nove a Qalqilya, sei ad Ariha e cinque a Gerusalemme". Di tutti questi detenuti "12 hanno annunciato lo sciopero della fame, andandosi così ad aggiungere agli altri due detenuti politici che lo avevano iniziato in precedenza", mentre secondo alcune denunce "tre detenuti sono stati sottoposti a tortura".