Giustizia: detenuti e criminalità sono in calo, ma nelle carceri resta il problema dei suicidi di Marta Rizzo La Repubblica, 9 giugno 2015 Il Rapporto dell'Associazione Antigone sulla condizione dei penitenziari italiani rivela che i reclusi calano di quasi 9.000 unità e i reati del 14%, rispetto al 2013. Aumenta anche il periodo d'apertura delle celle. Ma intanto a togliersi la vita sono stati in 9 nei primi mesi del 2015. L'Associazione Antigone, da anni, è l'unico referente sulla reale condizione delle case circondariali, perché è l'unico organo che, tramite i suoi rappresentanti, può entrare nelle carceri e comprovare i fatti. Dopo diversi anni di situazioni disumane, le cose sembrano migliorare. Reclusi e criminalità in calo, celle aperte per 8 ore. Il numero dei carcerati scende e, con esso, anche il numero della criminalità. I detenuti di febbraio 2015 sono 53.982; il 31 dicembre 2013 (a 7 mesi dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani, la sentenza della Corte di Strasburgo che puniva l'Italia per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione sul divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti, e stabiliva il termine di 1 anno perché il nostro paese si adeguasse a criteri internazionali di civiltà carceraria), i detenuti erano ben 62.536. Le cose si sono evolute, dunque, e, tra le altre, una buona notizia è l'apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno: regola portata a regime per l'85% dei detenuti di media sicurezza, anche se restano sacche d'illegalità, dovute forse a "strutture più problematiche - cita il Rapporto Antigone - o a direttori meno coraggiosi". L'affollamento si abbassa, ma non sempre. Il tasso di concentramento, secondo il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), è del 108%, ovvero 108 detenuti ogni 100 posti letto. Ma, per stessa ammissione Dap, il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali casi di reparti chiusi per lavori di manutenzione, per esempio, che creano sovraffollamento. Tali situazioni transitorie, riguarderebbero circa 4.200 carcerati e il tasso di affollamento sale così al 118%. "Dunque - precisa l'Osservatorio Antigone - bisogna insistere con le riforme per arrivare alla normale condizione di 1 detenuto per 1 posto letto". Si riducono gli arresti carcerari. Gli ingressi in carcere sono stati 50.217 nel 2014, mentre erano ben 92.800 nel 2008 in piena ondata securitaria. In 6 anni gli arrestati sono diminuiti di 42.683 unità. "Una diminuzione - riporta Antigone - dovuta al cambio della legislazione sugli stranieri e alle nuove norme in materia di arresto, tendenti a evitare il peso delle detenzioni brevi in fase pre-cautelare, e custodia cautelare, limitati ai casi di reati di minore allarme sociale". Non c'è legame tra detenzione e criminalità. "Il calo della popolazione detenuta non ha inciso sulla criminalità - rivela il rapporto - sfatando il nesso, socialmente diffuso, secondo cui più criminali sono chiusi in carcere, meno delitti vengono commessi fuori". Nel 2014, l'indice di delittuosità è diminuito del 14%, nonostante la popolazione reclusa sia anch'essa diminuita, "segno che in carcere stavano persone (principalmente immigrati e consumatori di droghe) che nulla hanno a che fare con il crimine e che, una volta uscite, non hanno commesso nuovi reati". Anche gli omicidi sono diminuiti dell'11,7%, le rapine del 13% e i furti dell'1,5%. Meno reclusi per droga, più per mafia. Nel 2014, i reati contro il patrimonio sono stati il 24,1% del totale. A seguire, quelli contro la persona il 17,7% e quelli in violazione della legge sulle droghe il 15,1%. Rispetto a 4 anni fa, c'è stato un calo di ben 9.253 imputazioni per motivi di droga "e questo - cita il documento - è l'esito dell'abrogazione della legge Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale". Aumentano, invece, i reati di mafia: 6.903 nel 2014 sono i detenuti accusati di criminalità organizzata, contro i 5.227 del 2008. Un passo in avanti nella lotta alle mafie. Gli stranieri in carcere in Italia, più del doppio che nell'Ue. Nell'intera Unione europea i detenuti extracomunitari sono circa 250.000, ossia il 14% del totale. La percentuale di stranieri nelle carceri italiane è del 32%, ovvero 11 punti in più rispetto al dato europeo. Fino al 1996 la quota di stranieri detenuti in Italia si mantiene piuttosto bassa, ma dopo quell'anno, comincia a crescere. Tra il 1998 e il 2000 tocca la soglia del 30%. Al 31 dicembre del 2014 i detenuti immigrati sono il 32,56% del totale. Le nazionalità più rappresentate sono il Marocco, la Romania, l'Albania, la Tunisia, la Nigeria, l'Egitto, l'Algeria, il Senegal, la Cina, l'Ecuador. 5.786 sono i detenuti di fede islamica. 30.794 quelli di fede cattolica. Suicidi e autolesionismo: i danni irrisolti dei carcerati. Quello dei suicidi in carcere rimane una delle principali patologie del sistema penitenziario italiano, "legata all'incapacità del sistema - denuncia Antigone - di intercettare le singole storie di disperazione e la scarsa attivazione di programmi di prevenzione del rischio". Sono stati 19 i suicidi dall'inizio del 2015; 44 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane nel 2014. La media di suicidi ogni 10.000 detenuti è pari al 7,7%, una percentuale superiore alla media europea che è del 5,4%. Gli ultimi dati di Antigone dicono che in Italia i suicidi fuori dalle carceri sono lo 0,67%. In prigione ci si ammazza in una percentuale ben 12 volte superiore. Nel 2014, poi, 6.919 sono stati i detenuti coinvolti in atti di autolesionismo (tagli sul proprio corpo con le lamette, o altre lesioni sulla propria persona) e 933 detenuti hanno tentato il suicidio. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico. L'eterna attesa del reato di tortura. "La prigione è il solo luogo in cui il potere può manifestarsi allo stato bruto, nelle sue dimensioni più eccessive e giustificarsi, all'esterno, come potere morale." Scrive così Michel Foucault nel suo Sorvegliare e punire (1975). Il potere, che imprigiona il corpo nell'anima del detenuto, dovrà imparare anche a rispettare quel corpo di quell'anima. A oggi, infatti, il codice penale italiano presenta una "lacuna insopportabile - il Rapporto Antigone - che rende l'Italia inadempiente ai suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale: la mancata previsione del reato di tortura. L'Italia si era impegnata in tal senso sin dal 1989. Il reato viene qualificato come comune e quindi imputabile a qualunque cittadino, anche se si prevede l'aggravante qualora commesso da pubblico ufficiale". È ora di sviluppare un percorso mai concluso e rendere effettivo il reato di tortura, fuori e dentro le carceri. Giustizia: il "girone dei cattivi", ideato dal Dap, alimenterà l'anti-socialità dei detenuti di Maria Brucale (Avvocato, Camera Penale di Roma) L'Opinione, 9 giugno 2015 Una Circolare Dap, 0186697-2015, del 26 maggio 2015, sollecita l'istituzione, negli istituti penitenziari, di specifiche sezioni dove allocare i detenuti che abbiano dimostrato di essere meno pronti di altri al regime c.d. "aperto", ovvero abbiano posto in essere condotte che li rendano con lo stesso incompatibili. Un girone dei cattivi, insomma, che li raggruppa e li assimila, li marchia e li isola. La circolare muove dall'osservazione di un dato statistico: "l'aumento - seppur lieve - del numero di eventi critici configuranti aggressioni al personale". Il fenomeno, prosegue la circolare, "è maggiormente presente laddove è in vigore un regime cosiddetto chiuso mentre la percentuale di aggressioni (seppur sempre in ascesa) è nettamente inferiore nelle sezioni dove è applicata una gestione aperta". Il primo dato, dunque, appare logico e coerente: quando la persona detenuta è abbrutita da uno stato di restrizione asfittico, è più probabile che indulga a comportamenti o ad atteggiamenti antisociali, espressione di uno stato d'animo di sofferenza e di oppressione. Del tutto illogico e incoerente risulta, invece, rispetto alla premessa argomentativa, il prosieguo del provvedimento amministrativo. Stabilita la prevalenza della necessità di salvaguardare la incolumità del personale (il Dap opera, dunque, in modo autonomo una perequazione di diritti di rango costituzionale), la circolare evidenzia l'opportunità di istituire un servizio di controllo che offra ausilio costante al personale, nonché di creare sezioni ex art 32 del regolamento di esecuzione. L'invocazione dell'art. 32 non sembra del tutto pertinente. La norma prevede infatti "assegnazione e raggruppamento per motivi cautelari", ma le cautele cui si riferisce sono nei confronti di soggetti deboli che rischiano "aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni". La circolare in questione, invece, tende alla istituzione di "sezioni appositamente dedicate ove allocare quei detenuti non ancora pronti al regime aperto ovvero che si siano manifestati incompatibili con lo stesso". Lo spirito, chiarisce la circolare, non vuole essere quello di isolare o di punire, bensì quello di agevolare, attraverso idonea attività trattamentale, il ritorno di tali soggetti ad un regime di carcerazione "aperto", salvaguardando al contempo tale regime da atti di prevaricazione e violenza. Il proclama, tuttavia, non rassicura affatto e svela appieno la sua grave e vistosa incongruenza. Ha un intento punitivo immediatamente leggibile che travalica il potere disciplinare di sanzionare il singolo recluso che si sia reso responsabile di condotte contrarie ai regolamenti di istituto e ad esso si aggiunge. Dà vita a un altro carcere dentro al carcere, più aspro, meno indulgente, più "chiuso" senza neppure specificare con chiarezza quali condotte si tradurranno per il detenuto in un nuovo marchio stigmatizzante e lo renderanno peggiore, più aggressivo, riconoscibile come cattivo. L'offerta trattamentale sarà ridotta insieme alla partecipazione del punito alle iniziative formative del carcere. I comportamenti antisociali, conformemente alla premessa logica della circolare, saranno con buona probabilità acuiti ed esasperati dall'inasprimento delle restrizioni. Nei nuovi ghetti, però, i reclusi saranno invisibili e innocui con buona pace della inviolabilità della libertà personale, della riserva assoluta di legge, della sempre più martoriata Costituzione. Giustizia: Mellano (Garante detenuti Piemonte) "da Stati Generali riforma sistema pena" Ansa, 9 giugno 2015 Gli Stati Generali dell'esecuzione penale "vanno al di là della questione carcere, vogliono dar vita a proposte per una riforma possibile dell'ordinamento penitenziario ed essere una riflessione su cosa voglia dire essere detenuti oggi e cosa voglia dire l'esecuzione della pena in una fase in cui è caduto l'alibi dell'emergenza sovraffollamento". A sottolinearlo è il Garante regionale del Piemonte delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano. Mellano ha presentato a Torino l'iniziativa nazionale voluta dal ministero di Giustizia che prevede, da maggio a novembre, 18 tavoli tematici e una consultazione online per arrivare a produrre, sia a livello normativo che organizzativo, nuove regole con cui riformare il sistema dell'esecuzione penale in Italia. "Il Piemonte - aggiunge Mellano - è una regione in cui i vari provvedimenti dei governi locali degli ultimi anni hanno prodotto una modifica della popolazione detenuta, passata in tre anni da oltre 5 mila persone alle 3 mila 700 di oggi. Ma bisogna guardare oltre i numeri, e affrontare i vari aspetti della vita in carcere, non ultimo quello del lavoro. Oggi, infatti, nelle carceri del Piemonte sono meno del 20% i detenuti che lavorano". "Il ministro Orlando - aggiunge la segretaria nazionale dei Radicali Italiani Rita Bernardini - ha riaperto il dialogo, ma c'è ancora un capitolo che non è stato aperto, quello della giustizia che riguarda tutti i cittadini, ossia la ragionevole durata dei processi. Un tema che vorremmo affrontare col ministro e quello che proponiamo è un'amnistia di quei fascicoli che sono destinati alla prescrizione". Giustizia: il Capo dello Stato Sergio Mattarella "Csm, bene l'autoriforma ma non basta" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Cambiare per gestire il cambiamento. Insieme. È la parola d'ordine risuonata ieri a palazzo dei Marescialli durante un plenum presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella (che del Csm è il presidente), in cui sono state poste le fondamenta di un'autoriforma dell'Organo di autogoverno della magistratura per stare al passo con il cambiamento di una giustizia più efficiente nonché le premesse per una leale collaborazione con governo e Parlamento in vista della riforma elettorale e disciplinare. L'autoriforma, infatti, non basta per "rispondere alle attese presenti nella società e nello stesso ordine giudiziario", ha osservato Mattarella, poiché alcuni temi fondamentali - come il sistema elettorale dei componenti togati del Csm e la Sezione disciplinare - "richiedono l'intervento del legislatore". E tuttavia - ha aggiunto, riprendendo le parole del vicepresidente Giovanni Legnini - non solo riforma e autoriforma possono viaggiare insieme ma il Csm può e deve dare il suo contributo a governo e Parlamento per prospettare soluzioni su entrambi i fronti. "Le due azioni si integrano e si completano" conferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che davanti al plenum parla di "obiettivo comune" e che già a novembre 2014 - gliel'ha ricordato Legnini - sollecitò il Csm proprio ad avanzare una propria proposta di riforma. Insomma, niente scontri ma un cammino condiviso. Nel governo, però, c'è chi teme un'operazione ostruzionistica e quindi ci tiene a rivendicare una sorta di ius primae noctis. "La responsabilità di avviare l'iter formativo di riforma del Csm spetta anzitutto al governo" puntualizza ad esempio il viceministro Enrico Costa, sottolineando "l'indifferibilità" di modifiche che limitino il peso delle correnti nella carriera delle toghe e che separino la Sezione disciplinare. Ma Legnini esclude intenti ostruzionistici e spiega che il Csm intende solo "far leva su tutti gli spazi normativi" di propria competenza per raggiungere gli obiettivi di una "maggiore efficienza, speditezza e trasparenza" nell'esercizio delle proprie funzioni". Anche Orlando non vede pericoli: "Mi ha fatto sorridere leggere che il progetto di autoriforma puntava a bloccarci" dice, insistendo su una "cooperazione per la riforma". È la stesso scenario auspicato da Mattarella, che per la prima volta presiede un plenum sulla riforma della giustizia, in particolare del Csm, su cui il governo Renzi, nello scorso agosto, ha annunciato un proprio ddl. La pratica dell'autoriforma, però, risale a febbraio del 2014 (quindi a tempi non sospetti) e ieri sono state approvate (con l'astensione dei tre laici del centrodestra) le "linee guida", che nei prossimi mesi dovranno tradursi in un non facile articolato su punti importanti, come i compiti del Comitato di presidenza, la nomina del vicepresidente, una diversa ripartizione delle competenze delle commissioni per accelerare le nomine dei capi degli uffici e per agevolare una "specializzazione" dei componenti(in modo che chi nomina poi non sia chiamato a giudicare in sede disciplinare, per dirla con lo slogan di Renzi). Secondo Legnini, il testo sarà pronto entro fine anno. Un'iniziativa "apprezzata" da Mattarella perché nasce dalla "consapevolezza" di una serie di "criticità" che, a fronte delle "diversificate e accresciute competenze" del Csm, costituiscono "intralci" destinati a rallentarne l'operato. Certo, il cammino è lungo e in salita e "il buon esito", secondo il Capo dello Stato, "dipenderà molto dalle misure attuative". Ma non c'è dubbio che l'autoriforma renderà "più fluida e meno complessa" la procedura di nomina dei direttivi e dei semiderittivi, accelerandola, "anche in considerazione dell'impatto" delle norme che hanno ridotto l'età pensionabile delle toghe (ferita aperta dal governo, su cui si stanno valutando rimedi). "Il Paese ci chiede un'amministrazione della giustizia veloce per dare peso sempre maggiore alla sua autorevolezza. La copertura in tempi rapidi" dei posti dirigenziali vacanti è "il primo necessario tassello", osserva Mattarella, auspicando che "non sia ritardata dalla ricerca di intese su una pluralità di nomine" e che segua il "criterio, oggettivo, dell'ordine cronologico delle vacanze". Giustizia: Mattarella scuote il Csm "ora giustizia più veloce e stop a nomine di corrente" di Liana Milella La Repubblica, 9 giugno 2015 Il punto di partenza non può che essere uno: "Il Paese ci chiede un'amministrazione della giustizia veloce per dare peso sempre maggiore alla sua autorevolezza". Un'emergenza antica, ma da decenni sempre attuale e quindi imprescindibile. Sergio Mattarella, capo dello Stato e presidente del Csm, ne parla a palazzo dei Marescialli dove il suo vice Giovanni Legnini è alle prese con un'iniziativa importante, cambiare il regolamento che data al 1956, svecchiarlo, eliminare le incongruenze, ma soprattutto adeguarlo a una giustizia che deve correre. Perché, come dice Mattarella, anche "la copertura in tempi rapidi degli incarichi negli uffici giudiziari rappresenta il primo necessario tassello per una giustizia veloce". Sveltire le nomine allora, renderle più trasparenti, sottrarle alle trattative tra le correnti. Mattarella non usa un'espressione in voga - le nomine "a pacchetto" - per indicare quelle fatte in gran numero e distribuite tra i vari gruppi. Ma fa una precisa raccomandazione, evitare che la copertura dei posti vacanti "venga ritardata dalla ricerca di intese su una pluralità di nomine". Consiglia un "criterio oggettivo", seguire "l'ordine cronologico delle vacanze". Nomine, sezione disciplinare, nuova legge elettorale. Al Csm si gioca una partita impegnativa. Che ieri ha visto mettere la prima pietra. Con l'astensione dei tre consiglieri del centro destra (Casellati, Leone, Zanettin), è passato il primo at- to sulla riforma del regolamento. "Una discussione alta" chiosa il Guardasigilli Andrea Orlando. Tra lui, Legnini e Mattarella c'è feeling, favorevoli come sono a un ping pong tra Csm e governo sulle riforme. Sbaglia, dicono Legnini e Orlando, chi vede a tutti i costi lo scontro. C'è all'opposto una sintonia che crea più di un mal di pancia in chi, come il vice ministro della Giustizia Enrico Costa (Ncd), chiede che sia il governo a riformare il Csm, e non il Csm a riformarsi da solo, e subito la nomina di una commissione in via Arenula "senza aspettare il Csm". Accade invece che Mattarella, Orlando e Legnini parlino la stessa lingua. Legnini annuncia che il Csm "formulerà una proposta di riforma legislativa" che riguarderà anche la sezione disciplinare, ma pure il sistema elettorale e "l'impatto delle riforme costituzionali sul Csm". Mattarella ritiene necessario "un intervento del legislatore ordinario" su legge elettorale e sistema disciplinare. Ma "non esclude" che, su entrambe le questioni, dal Consiglio "possano venire proposte". Orlando è altrettanto esplicito: "L'autoriforma non può prescindere da nuove leggi, ma le azioni possono integrarsi e completarsi. Il pericolo più grande semmai è restare fermi". Come dice l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, ora al Csm, "i magistrati sanno bene ciò che in questi anni ha funzionato bene, ha funzionato male, non ha funzionato per niente". Quindi niente tabù alle riforme, a partire da quella del disciplinare. Il Csm non può certo fermarsi. Soprattutto con 500 nomine da fare. La presidente della commissione per gli incarichi direttivi Maria Rosaria San Giorgio parla di una produttività "più che triplicata, di 100 nomine fatte e 40 in via di definizione nei prossimi giorni". L'emergenza è simile a quella di 10 anni fa, dopo il varo dell'ordinamento giudiziario Mastella- Castelli. Allora due magistrati come Ezia Maccora (2007-2008) e Giuseppe Maria Berruti (2008-2009) nominarono rispettivamente 346 e 305 tra capi e vice capi degli uffici. Nomine importanti come quella di Boccassini a Milano e di Pignatone a Reggio Calabria. Oggi c'è l'emergenza della Cassazione che il presidente Giorgio Santacroce non si stanca di ricordare, il 91% tra i presidenti di sezione, 42 magistrati prossimi alla pensione. Il rischio è che i tempi della giustizia si allunghino. Un male perché, come dice il pg della Suprema Corte Ciccolo, "lo scopo della giustizia è il buon funzionamento per i cittadini". Giustizia: in aula la miniriforma del Codice della strada e il reato di Omicidio stradale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Per la miniriforma del Codice della strada e per le sorti dell'omicidio stradale è iniziata la settimana del (potenziale) ultimo miglio. L'incrocio dei calendari di Camera e Senato porta infatti contemporaneamente in aula i due interventi, dopo anni di polemiche e di stop-and-go. Ieri a Montecitorio è cominciata la discussione sul progetto di legge 423, che assorbe una decina di iniziative parlamentari e che tocca una varietà di temi, dalla sicurezza strutturale delle sedi stradali e delle opere viarie alla mobilità urbana sulle bici, dall'esportazione di auto usate al limite di velocità degli autotreni, fino al rilevamento via telelaser del pagamento della Rc auto e alla regolamentazione degli autovelox in aree di cantiere. Ma è poi sul tema delle sanzioni per gravi violazioni alla guida che la legge in discussione alla Camera entra in sovrapposizione con il disegno di legge che debutta questo pomeriggio nell'aula di Palazzo Madama, disegno conosciuto per la rubricazione di "omicidio stradale". Il testo in esame a Montecitorio non tocca infatti gli attuali limiti di pena per l'omicidio colposo causato dall'assunzione di sostanze psicotrope (da 3 a 10 anni) ma si limita a introdurre la revoca perpetua della patente, o il divieto permanente per chi non l'abbia mai conseguita. Al Senato, invece, il testo proposto dalla Commissione giustizia, a sintesi di cinque iniziative parlamentari, alza notevolmente il minimo (8 anni) e sensibilmente il massimo della reclusione (12 anni), introducendo un concetto di equivalenza di superfici (pene identiche per i misfatti commessi su acqua con qualsiasi tipo di imbarcazione). La legge "senatoria", tra l'altro, diversifica le ipotesi di (mala)guida provocata dalla droga rispetto a quelle causate dall'alcol, dove le pene sono leggermente più miti (da 7 a 10 anni). A Palazzo Madama, inoltre, sono previste pene da omicidio stradale (e non semplice "colposo") se l'investitore, pur sobrio, viaggia a velocità doppia del consentito in centro urbano (o doppia tout court in acqua) se passa con semaforo rosso o se fa inversioni di marcia non consentite in zone pericolose. Nel caso di omicidio stradale plurimo, infine, la pena può arrivare - ma mai superare - i 18 anni di reclusione. Nel progetto dei senatori, infine, aumentano le pene detentive anche per le "semplici" lesioni personali stradali e nautiche causate da stati di alterazione della coscienza (da 2 a 4 anni se gravi, in alternativa da 9 mesi a due anni). L'avvio della discussione a Palazzo Madama è accolta con soddisfazione dalle associazioni promotrici, nel 2011, dell'iniziativa. "Il traguardo è sempre più vicino, e soprattutto non si torna indietro, è solo questione di tempo per vincere questa piccola e grande battaglia di civiltà", commentano le associazioni Asaps (amici della Polstrada), Lorenzo Guarnieri e Gabriele Borgogni, promotrici nel 2011 con il Comune di Firenze di una legge di iniziativa popolare per l'introduzione di questo reato. Per tornare a Montecitorio, l'avvio della discussione ieri ha segnato anche il deposito di un'ulteriore iniziativa volta a "introdurre l'obbligo dell'installazione di un allarme anti-abbandono sull'autovettura, così che possa venire segnalata la presenza di uno o più bambini dimenticati involontariamente sul seggiolino all'interno della macchina". La proposta di legge è stata presentata dell'onorevole Tommaso Foti. Giustizia: anticorruzione, la nuova legge in vigore dal 14 giugno con pene più severe di Paolo Canaparo Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 La legge anticorruzione 27 maggio 2015 n. 69, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale di venerdì 30 maggio e che sarà in vigore a tutti gli effetti il prossimo 14 giugno, contiene alcune misure volte, da un lato, a rafforzare la strategia anticorruzione nelle pubbliche amministrazioni disegnata dalla legge 190 del 2012 e poi integrata, con particolare riferimento al rafforzamento di ruolo e competenze dell'Autorità nazionale anticorruzione, dalla legge 114/2014, di conversione del Dl 90/2014, dall'altro, a rivedere la disciplina delle false comunicazioni sociali nelle società quotate e non quotate. La gestazione della legge non è stata facile come lo dimostrano i due anni di iter parlamentare. Il testo definitivo è il risultato, infatti, dell'unificazione di più disegni di legge parlamentari e di un sostanzioso intervento emendativo del Governo a seguito della bufera di vari scandali che hanno coinvolto alcune delle opere di realizzazione pubblica più discusse, come le infrastrutture nell'area di Venezia o il sito dell'Expo a Milano. In particolare, la Commissione giustizia del Senato aveva avviato i propri lavori il 5 giugno 2013 ed adottato il testo unificato soltanto il 14 maggio 2014, poi oggetto di significative modifiche, le quali si sono sostanziate, oltre che in interventi correttivi e integrativi, nella integrale soppressione delle disposizioni in materia di riciclaggio e auto-riciclaggio. Le modifiche apportate hanno tenuto conto infatti non solo delle misure previste dalla legge sul rientro dei capitali dall'estero (legge 15 dicembre 2014 n. 186), quali l'introduzione nell'ordinamento del reato di auto-riciclaggio, ma anche degli interventi in materia penale contemplati dal disegno di legge governativo AS n. 1687, recante misure per il contrasto della criminalità economica, attualmente in corso d'esame nelle Commissioni riunite affari costituzionali e giustizia. Le linee direttrici di intervento Gli interventi della nuova legge anticorruzione sono sostanzialmente assumibili a tre linee direttrici. La prima e la più corposa è il rafforzamento della strategia penale di contrasto ai fenomeni di corruttela nella pubblica amministrazione. Si tratta, innanzitutto, di modifiche al codice penale per inasprire tanto le pene principali quanto quelle accessorie per i delitti contra la Pa, nonché per l'ampliamento dei soggetti perseguibili. Nel complesso, dal nuovo quadro sanzionatorio i reati più gravi che possono essere commessi dal pubblico ufficiale nei confronti della pubblica amministrazione risultano essere la corruzione in atti giudiziari e la concussione: il provvedimento infatti prevede per la prima fattispecie la medesima pena oggi prevista per la concussione (da 6 a 12 anni di reclusione). In base alla riforma, inoltre, il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità è sanzionato più severamente rispetto al quadro attuale, con una pena più elevata di quella prevista per la corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e per il peculato: la reclusione da 6 anni a 10 anni e 6 mesi. Gli elementi di novità riguardano poi il riconoscimento di una nuova attenuante nell'articolo 323-bis del codice penale che prevede, per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, una diminuzione della pena da un terzo a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. La riforma, inserendo un ulteriore comma nell'articolo 165 del Cp, subordina poi la concessione della sospensione condizionale della pena al condannato per alcuni delitti contro la Pa anche alla condizione specifica della riparazione pecuniaria nei confronti dell'amministrazione lesa (in caso di corruzione in atti giudiziari, nei confronti del ministero della Giustizia). Tale riparazione - che è sempre ordinata al condannato per un delitto contro la Pa in base all'articolo 322-quater del Cp (introdotto dall'articolo 4 della proposta di legge, cui si rinvia) - consiste in una somma equivalente al profitto del reato ovvero all'ammontare di quanto indebitamente percepito. Il ruolo dell'Anac La seconda linea direttrice interviene sul ruolo e sulle prerogative dell'Autorità nazionale anticorruzione, con ciò implementando l'azione di prevenzione amministrativa dei fenomeni di corruttela così come disegnata dalla legge 190/2012 e poi dalla legge 114/2014, di conversione del Dl 90/2014. Si tratta di misure che ampliano gli obblighi informativi a favore dell'Anac ed estendono i poteri di vigilanza e controllo sui contratti esclusi in tutto o in parte dall'ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici. Il falso in bilancio La terza ed ultima direttrice della legge n. 69 concerne la revisione dell'impianto delle responsabilità penali in materia societaria. In particolare, si tratta della riforma della disciplina del Codice civile in materia di falso in bilancio. Rispetto alla disciplina previgente, la riforma della legge n. 69 distingue tra falso in bilancio di società non quotate e falso in bilancio di società quotate, sanzionando entrambe le fattispecie come delitto. Viene prevista inoltre, per le società non quotate, una ipotesi attenuata del reato nonché uno specifico caso di non punibilità per lieve entità dell'illecito. Conseguentemente viene "aggiornato" il regime di sanzioni (per quote) previsto a titolo di responsabilità amministrativa delle società per i reati commessi all'interno di essa. Criminalità organizzata Infine, la legge 69, quasi a voler rimarcare il rapporto tra fenomeni della criminalità organizzata e della corruzione, inasprisce le pene per la partecipazione ad una associazione mafiosa - punita con la reclusione da 10 a 15 anni - e per l'attività di organizzazione e direzione della stessa - punita con la reclusione tra i 12 e i 18 anni. Giustizia: G8 Genova "la Diaz può ripetersi" Alfano-Pansa: Orlando punisca il pm Zucca di Matteo Indice Il Secolo XIX, 9 giugno 2015 Dopo le parole pronunciate per la prima volta in pubblico a Genova dal magistrato. Il pm del G8: sono a disposizione a petto aperto. Il dibattito su quello che accadde quattordici anni fa alla scuola Diaz, dopo il G8 di Genova, evidentemente è ancora un po' tabù. E il giorno successivo alle esternazioni del pm Enrico Zucca, che ha parlato di polizia incapace "di riflettere su se stessa, e a questo punto è difficile non si ripetano più quegli errori", scendono in campo il ministro dell'Interno Angelino Alfano e il capo della polizia Alessandro Pansa. "D'intesa" chiedono al ministro della Giustizia Andrea Orlando "di valutare eventuali profili disciplinari" nei confronti dello stesso Zucca. Il quale replica: "Sono a disposizione a petto aperto". Non c'è dubbio che le modalità dell'iniziativa siano sintomatiche d'un "contrattacco" ministeriale. E per capire di cosa si sta parlando occorre fissare alcuni paletti. Zucca, oggi sostituto procuratore generale nel capoluogo ligure, ha condotto per anni in qualità di pubblico ministero le inchieste e i processi sul sanguinoso blitz dei poliziotti nell'istituto dove dormivano i no-global dopo gli scontri del super vertice: era la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001 quando i celerini fecero irruzione, pestando alla cieca ottanta persone e riducendone una in fin di vita. Per le prove taroccate - false molotov che la polizia disse di aver trovato alla Diaz, ma che in realtà erano state portate dagli agenti - sono state condannate dalla Cassazione 17 persone, fra loro alcuni fra i più importanti investigatori italiani dell'ultimo decennio; altri 9 picchiatori, accusati di lesioni, sono stati graziati dalla prescrizione. Domenica Zucca era stato invitato a parlare nell'ambito del festival La Repubblica delle idee. Ed è stata la prima volta in cui il magistrato ha espresso considerazioni in pubblico nella sua città. L'appuntamento si è rivelato molto partecipato - a Palazzo Ducale erano presenti oltre 300 persone - e l'intervento di Zucca ha registrato alcuni passaggi polemici, tratti spesso letteralmente da una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha condannato l'Italia perché nella scuola vi fu tortura e il nostro Paese non si è ancora dotato d'un reato specifico. "La Diaz - ha quindi rimarcato la toga - porta alla luce problemi endemici: allo stato attuale la polizia rifiuta di leggere se stessa, e a questo punto è difficile non si ripetano più quegli errori. È come se le diagnosi dei medici fossero state perennemente ignorate. La Corte europea dice che i picchiatori furono impunemente coperti e soprattutto che la polizia italiana ha altrettanto impunemente rifiutato di collaborare". Quindi l'affondo parecchio sgradito al Ministero: "Attenzione poiché non si tratta d'un corpo astratto, ma con dirigenti precisi: Gianni De Gennaro prima, poi Antonio Manganelli, quindi i suoi successori. Sono loro che hanno, lo dico ancora, impunemente, violato il dovere di sospendere e rimuovere i funzionari condannati". L'aggiustamento "sistematico" delle prove è stato invece bollato dal pm come "corruzione per nobile causa, nobile nella testa di chi la commette. Ma si tratta pur sempre di corruzione, di perversione istituzionale per fare carriera". Il tema aveva fatto da innesco a una rasoiata pure nei confronti di Raffaele Cantone, presidente dell'autorità nazionale anticorruzione, che si era detto "indignato" all'indomani del pronunciamento europeo laddove stigmatizzava comportamenti patologici della polizia italiana: "Non siamo messi bene - ancora parole di Zucca - se una figura del genere non capisce che dopo il G8 ci fu proprio una forma di corruzione". A Roma le esternazioni sono state digerite (evidentemente) malissimo. È dall'antipasto del sindacato di polizia Siulp -"inutile e dannoso l'exploit del magistrato" - si è passati alla controffensiva del ministro dell'Interno e del capo della polizia. Giustizia: e Buzzi disse al pm "non registri, perché se parlo casca il governo" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 giugno 2015 I rapporti con il boss Carminati? È una brava persona, alla mano. Si è sempre comportato bene. Corruzione? Se c'è stata qualche corruzione, riguarda solo il 3 per cento del fatturato della coop. "Insomma, ho dato 30 o 40.000 euro a Marino, al suo comitato... Tutti tracciati... Ti chiamavano, le famose cene, "c'è una cena con Alemanno, 1.000 euro a persona", tu prendevi un tavolo e ovviamente erano 10.000 euro. Ma noi ne abbiamo fatte, noi l'abbiamo fatte pure con Renzi la cena...". Tenta di ricondurre tutto alla politica e alle sue regole - scritte e non scritte - sui finanziamenti elettorali, Salvatore Buzzi. E davanti ai pubblici ministeri che l'hanno fatto arrestare per associazione mafiosa, corruzione e altri reati parla a ruota libera. Ma quando arriva al capitolo del campo profughi di Mineo, in Sicilia, si blocca. "Su Mineo casca il governo", accenna. Adesso è il pm Giuseppe Cascini a bloccarlo: "Queste sono frasi inutili. Noi facciamo un altro mestiere". Buzzi insiste: "Si metta nella mia posizione". A questo punto interviene il procuratore aggiunto Michele Prestipino: "No guardi, io non ci penso minimamente...". Buzzi indica il registratore: "Io potrei, cioè... se possiamo spegnere". I pm Cascini non ci pensa nemmeno: "È vietato dalla legge. Forse lei non ci crederà ma ancora in questo Paese c'è qualcuno che segue le regole". Buzzi insiste: "Se lo può spegnere un secondo parliamo...". "No! Non si può". E la deposizione, un po' a fatica, ricomincia. È il 31 marzo scorso quando i due magistrati della Procura di Roma entrano nel carcere di Rebibbia per ascoltare tre ore di dichiarazioni spontanee di Salvatore Buzzi. Un'autodifesa per provare a chiarire gli intrecci sospetti con la criminalità e la politica. E ribadire - come ha ribadito ieri, davanti al tribunale per le misure di prevenzione - che se pure c'è stata qualche corruzione "riguarda solo il 3% del fatturato della cooperativa, quindi poca cosa". E ancora: "Massimo Carminati è una brava persona, come me si è sempre comportato bene". Carminati disse: "Ci penso io". Nel verbale di due mesi fa il "re delle cooperative" romane racconta, interrotto solo dalle domande del suo avvocato, l'inizio dei rapporti con l'ex estremista nero: "Lo conoscevo da trent'anni, dalla mia precedente carcerazione. Ho conosciuto tutti loro: Alemanno, Carminati, Pucci... È come dire "ho fatto il militare assieme". Poi Carminati lo rivedo casualmente all'Eur, mi sembra al bar Palombini". Era il 2012. "Dice "ah, che fai, cosa fai"... Gli ho fatto: "Guarda, lavoriamo all'Eur e abbiamo un problema, non ci paga mai l'Eur". Il riferimento è all'Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini, altro ex estremista neofascista degli anni Settanta. "Allora Carminati dice, "guarda, ci penso io", perché lui c'ha questa cosa però, è una persona molto alla mano". Comincia così una nuova relazione, che Buzzi riassume negli interessi comuni in qualche impresa, cercando di sminuire l'ampiezza del giro d'affari: "Lui per esempio sugli immigrati ha partecipato solo ai minori non accompagnati, per la fornitura di pasti. Era un amico, insomma. Ci presentava delle persone per affittare gli appartamenti, ci faceva altre cose, faceva attività di promozione. Tanto è vero che lui c'aveva sempre questa fobia per le indagini, che dico "scusa Massimo ma che ti frega? Non stai facendo nessun reato"". Solo dopo, dice Buzzi, sono successe cose che "non potevo mai immaginare", ma non spiega quali. "Potevo rubare e non l'ho fatto". Gioca solo in difesa: "Eravamo convintissimi di far diventare Carminati un imprenditore legale". Poi, certo, non faceva fatture e c'era qualche stranezza: "Era sempre refrattario, questa storia dei telefonini che cambiava continuamente. Poi, complimenti li avete tutti intercettati... Però non è che emergono grandi cose. Io non mi sono mai reso conto di stare a trafficare con la mafia. Noi siamo sempre stati contro". Le manovre per far approvare i Debiti Fuori Bilancio durante le assemblee comunali, con i governi sia di centrodestra che di centrosinistra, per Salvatore Buzzi sono "lavoro politico", e niente più. Sui soldi versati a Panzironi, quando guidava la Municipalizzata per la raccolta rifiuti, Buzzi dà una spiegazione che - ammette lui stesso - "si fa fatica a crederci, ma è il sistema in cui operavamo"; in pratica avrebbe chiesto una tangente per non far inserire un'altra ditta in una gara d'appalto: "Lui per lasciarla a noi ci chiese 50.000 euro, quindi noi glieli abbiamo dati perché la Multiservizi non partecipasse". Per l'indagato questo non è reato, come il denaro pagato a un dipendente comunale che solo con una "mazzetta" fece ricomparire 200.000 euro di finanziamenti per un appalto: "Quella è un'estorsione", afferma sicuro Buzzi, tanto da suscitare l'ironia di un pm: "Abbiamo un giurista". Ma lui insiste: a quell'impiegato sono stati trovati 570.000 euro a casa, e "questo dimostra che non siamo criminali, perché non siamo andati a rubarli... Avevo da amministrare 60 milioni di euro e non mi sono mai approfittato di una lira... È facile dice "io non rubo" ma io, io potevo rubare e non ho rubato". Le (presunte) tangenti a Odevaine e altri furono solo aiuti e prestiti a persone in difficoltà economiche per le separazioni dalle rispettive mogli. Per il resto Buzzi se la prende con se stesso: "Un po' di millantato credito pure io lo faccio quando racconto le cose... Purtroppo io sono colpevole come parlo al telefono, colpevolissimo". E si lamenta di aver già perso tutto, prima ancora della sentenza: "Al di là della condanna che io posso avere, ho perso trent'anni di lavoro, ho perso la mia onorabilità, quindi la mia pena io già ce l'ho". L'offesa su Facebook è "a mezzo stampa" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Corte di Cassazione - Sezione I penale - Sentenza dell'8 giugno 2015, n. 24431. Offendere una persona scrivendo un "post" sulla sua bacheca di Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, esattamente come se l'offesa venisse portata dalle colonne di un giornale. Con una decisione in realtà attivata su un caso di conflitto negativo di competenza, la Prima penale della Cassazione (sentenza 24431/15, depositata ieri) torna sul tema caldissimo della natura "penalistica" dei social network. La controversia nasceva dalla denuncia/querela di un privato che aveva trovato un intervento poco cortese sul proprio profilo di Facebook, ovviamente tracciato con il nome, il cognome e la foto del denigratore. Il giudice di pace di Roma, nel luglio di due anni fa, si era però dichiarato incompetente ipotizzando - pur se ancora non contestata in atti - la fattispecie aggravata della diffamazione (articolo 595 terzo comma del Codice penale). Poco dopo però anche il Tribunale capitolino aveva escluso la propria competenza a giudicare, contestando l'applicabilità dell'aggravante "giornalistica" sulla base, in sostanza, del mancato comportamento difensivo della parte offesa nella gestione dei meccanismi di privacy sul proprio profilo di Facebook. Da qui l'intervento della Corte suprema che, nel restituire il fascicolo al tribunale monocratico, accredita di fatto la similitudine tra l'offesa via internet 2.0 e la vecchia diffamazione su colonna piombata. Dopo aver dato atto della "lezione di legittimità secondo cui i reati di ingiurie e diffamazione possono essere commessi via internet" (tra le più celebri decisioni: 35511/10 e 44126/11), la Prima spiega perché è lecita l'estensione "giornalistica" alla responsabilità da social network, circostanza peraltro esclusa dalle sentenze citate in materia di responsabilità del direttore di siti di informazione. ?A giudizio dell'estensore, il fondamento dell'aggravante è "nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone (...) con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa". E se lo "strumento principe della fattispecie in esame" (diffamazione) è la stampa quotidiana e periodica, è anche vero che la norma prevede "qualsiasi altro mezzo di pubblicità" per poter applicare l'aggravante che porta la pena fino a 3 anni di carcere. Il meccanismo delle amicizie "a catena" di Facebook, in sostanza, "ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e, pertanto, di amplificare l'offesa in ambiti sociali allargati e concentrici. Paradossalmente, mentre il Parlamento sta faticosamente cercando di eliminare il carcere per la diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione equipara 25 milioni di blogger e social media follower a...giornalisti. Violenza sessuale, non c'è tentativo se si mostra una foto con persone nude di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Tribunale di Bari - Sezione I penale - Sentenza 8 novembre 2014 n. 2796 Mostrare delle foto che ritraggono persone nude non integra gli estremi di una tentata violenza sessuale. Tale gesto non è in grado di coinvolgere la corporeità della persona offesa e non è connotato dai requisiti di idoneità e univocità che devono sussistere per la punibilità del reato nella sua forma tentata. Questo è quanto emerge dalla sentenza del Tribunale di Bari 2796/2014. La vicenda - Il protagonista del caso è un uomo che era stato rinviato a giudizio per tentata violenza sessuale nei confronti di una bambina di 9 anni. Nella specie, l'uomo si era avvicinato alla piccola con la propria autovettura e, dopo aver mostrato una fotografia che lo ritraeva nudo con una donna, aveva chiesto alla bambina di cercare con lui la persona della foto. Il Pm aveva chiesto per tale condotta la condanna ai sensi degli articoli 56 e 609-ter comma 1 n. 1. Le motivazioni - Una volta ricostruita la vicenda e riconosciuta l'attendibilità delle dichiarazioni della bambina, il Tribunale si interroga sulla eventualità che l'esposizione di una fotografia che ritrae persone nude (non foto pornografiche quindi) possa essere considerata come una intromissione nella sfera sessuale altrui. Ebbene, i giudici ricordano che l'orientamento prevalente della Cassazione in casi simili, caratterizzati inoltre dall'invito a spogliarsi rivolto alla persona offesa, sia quello di ritenere non integrato il reato di tentata violenza sessuale, non coinvolgendo tale condotta la corporeità della persona offesa. Per il Tribunale, inoltre, nella specie la richiesta dell'imputato "non reiterata ed avvenuta in modo non minaccioso, non appare connotata dai requisiti di idoneità ed univocità, che devono sussistere per la punizione del tentativo". Secondo i giudici, "a ragionare diversamente, la soglia di punibilità sarebbe troppo anticipata e si finirebbe con il sanzionare la mera intenzione, senza invece verificare la necessaria materialità ed offensività del fatto contestato". Nullo il Daspo convalidato dal Gip prima di 48 ore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Sentenza della Corte di cassazione n. 24360/15. Parità di posizioni tra le parti e tutela dell'esercizio del diritto di difesa sono al fondo della decisione di Cassazione che ha affermato la nullità dell'ordinanza di convalida del Gip prima che siano trascorse 48 ore dalla notifica del Daspo all'interessato. Così la Corte di cassazione penale, con la sentenza n. 24360/15, depositata ieri, ha messo il punto su una fattispecie che come la stessa sentenza rileva aveva dato adito a diverse incertezze e oscillazioni negli orientamenti dei giudici di legittimità. Il divieto di assistere alle manifestazioni sportive Il Daspo, ovviamente viene sempre notificato all'interessato, ma nel caso in cui oltre vietare l'ingresso allo stadio preveda anche l'obbligo di presentazione ad un ufficio di polizia in concomitanza della partita, esso viene comunicato anche alla procura presso il tribunale competente. Da qui l'affermazione dei giudici di legittimità secondo cui il termine concesso alla parte per presentare memorie difensive avverso l'ordine non può essere inferiore a quello concesso al pubblico ministero per richiedere la convalida. Da qui la posizione di parità del tifoso con il pubblico ministero, cioè la possibilità di presentare memorie entro il termine di 48 ore dalla notifica del provvedimento del questore all'interessato. La decisione sul caso specifico Nel caso specifico affrontato dalla Cassazione mancavano sette ore alla scadenza del termine quando il giudice per le indagini preliminari aveva emesso l'ordinanza di convalida. Un illegittimo limite temporale all'esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto al divieto. Nello specifico, precisa la sentenza che si tratta di nullità di ordine generale dell'ordinanza di convalida del Gip. Da qui la sentenza della Corte di cassazione che ha annullato l'ordinanza senza rinvio come suggerito dallo stesso procuratore generale. Per il falso consulente del lavoro riconosciuto all'Ordine il danno all'immagine di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 L'Ordine dei Consulenti del lavoro risarcito per esercizio abusivo della professione da parte di un falso consulente. La terza sezione penale del Tribunale di Palermo, giudice monocratico Maria Dioguardi, per la prima volta in italia ha riconosciuto il pregiudizio, materiale e di immagine subìto dall'Ordine a causa di un professionista che svolge l'attività ammantandosi di un titolo che non possiede. La provvisionale, immediatamente esecutiva è di 5 mila euro. Per il sedicente consulente - smascherato grazie ad un accertamento fatto dai carabinieri presso l'Ispettorato del lavoro di Palermo - c'è stata anche una condanna a tre anni e due mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, per un ammontare che sarà stabilito dal giudice, per i reati di esercizio abusivo della professione, falso e truffa. Contro di lui si sono costituite diverse aziende per le quali aveva svolto diversi incarichi durante la sua "improvvisata" annuale carriera. Soddisfatto il presidente dell'Ordine di Palermo Vincenzo Barbaro: "La sentenza riconosce un principio da noi fortemente sostenuto: chi si spaccia per consulente del lavoro crea un danno d'immagine all'intera categoria, ma anche una perdita di reddito per i veri consulenti, sottoposti a rigidi obblighi formativi e deontologici". Senza contare, ha sottolineato Barbaro, i pregiudizi subiti dai clienti, alcuni dei quali sono stati costretti a liquidare l'impresa. Avvocati, responsabilità professionale valutata sul probabile esito favorevole del giudizio di Michele Viesti Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 28 maggio 2015 n. 10526. L'individuazione della responsabilità per colpa professionale dell'avvocato implica una valutazione probabilistica del possibile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita. Questo giudizio, a opera del giudice di merito, è insindacabile se motivato in maniera adeguata e scevro da vizi. Lo hanno ribadito i giudici della terza sezione civile della Corte di cassazione con la sentenza n. 10526 del 28 maggio scorso, analizzando i criteri per accertare la negligenza dell'avvocato nell'esercizio della propria attività o la sua assenza. La vicenda - Un avvocato viene contestato dal proprio assistito relativamente all'attività prestata in quattro diversi giudizi. In sostanza il ricorrente imputa al difensore uno svolgimento negligente dell'attività difensiva. Il ragionamento della Corte - Nell'esaminare la questione, la Cassazione ricorda innanzitutto che, per orientamento giurisprudenziale consolidato, la responsabilità del prestatore d'opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista e il pregiudizio del cliente. E precisa poi che, nel caso si tratti dell'attività dell'avvocato, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale comporta "una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita". Questo giudizio, da compiere sulla base di una valutazione probabilistica, è riservato al giudice di merito, con decisione non sindacabile in cassazione se adeguatamente motivata e immune da vizi logici. I giudici di piazza Cavour, ritenendo infondati i motivi di censura, rigettano il ricorso. Lettere: ehi, Rodotà, ti ricordi quando eri garantista? di Pietro Mancini Il Garantista, 9 giugno 2015 Il prof. Stefano Rodotà - che nel 2013 fu il candidato, non eletto, di Grillo per il Quirinale e oggi è vicino al sindacalista anti-governo Maurizio Landini - ha attaccato il premier, definendo il suo garantismo, sull'alfaniano Castiglione e sugli altri sottosegretari, Pd, indagati, "peloso e ipocrita", Ma il garantismo è senza aggettivi. Ed è per tutti, "erga omnes". Lo prevede l'articolo 27 della Costituzione: "L'imputato non è considerato colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna". Il sen. Pietro Mancini, mio nonno, nella discussione all'Assemblea Costituente, aveva chiesto di inserire una formulazione più chiara : "...L'imputato è considerato innocente...". Dunque, l'imputato - e ancor meno l'indagato, specie se ancora non è stato rinviato a giudizio - non va assimilato al colpevole, fino al momento della condanna definitiva. Ciò comporta il divieto di anticipare la pena, mentre consente l'applicazione delle misure cautelari, ritenute necessarie dal magistrato. Sorprendono queste critiche al legittimo garantismo renziano, espresse da Rodotà, oggi. Il professore di Cosenza, nel 1979, all'epoca senatore della "Sinistra indipendente", eletto nelle liste del Pci, espresse un fermo dissenso nei confronti della linea giustizialista del Pci, ispirata dal senatore Ugo Pecchioli. E contestò il "teorema Calogero" sulla cui base erano stati emessi, dal giudice Calogero, di Padova, numerosi ordini di cattura, per il reato di "associazione sovversiva", per i dirigenti dell'Autonomia Operaia, Piperno, Scalzone e Negri. I primi due erano presenti domenica - come Rodotà e Valentino Parlato - alla convention di Maurizio Landini. E sono stati, severamente, bocciati, ieri, da Maria Teresa Meli sul "Corriere della Sera", che ha vergato un duro corsivo, con questo titolo : "I compagni di strada, ex Potere Operaio, che sarebbe meglio perdere". "Nato" radicale, l'unico partito di cui abbia avuto una tessera, Rodotà approdò in Parlamento nel 1979 da "indipendente", eletto dal Pci, chiamato (fu lui stesso a rivelarlo) da Luigi Berlinguer. Condizionò il suo sì a un colloquio con Ugo Pecchioli, da cui lo divideva (erano gli anni di piombo) una concezione opposta a quella che il senatore torinese definiva "fermezza". Per Rodotà, al primo posto, c'erano i diritti, che difese, appunto, contro il "teorema Calogero", quando scattarono gli arresti del 7 aprile nell'area dell'Autonomia. In un lungo articolo, che "l'Unità" pubblicò il 30 dicembre del 1981, Rodotà e Massimo Cacciari chiesero, in polemica con la linea "colpevolista" del giornale del Pci: "Non dovremmo, allora sì, "vergognarci" che accuse, così formulate, servano per allungare, all'infinito, i termini della carcerazione preventiva, per tenere la gente in galera oltre ogni ragionevole limite, insomma, per far scontare, preventivamente, la pena ?". Sull'affaire di Padova, "ruggì" il Leone socialista, Giacomo Mancini, per dimostrare l'infondatezza delle accuse. E intitolò "Eclisse del diritto" un libro sugli arresti del 7 aprile. E le vicende, relative al processo, furono contenute anche nella motivazione degli avvisi di garanzia, che pervennero agli sbigottiti Mancini e ad Antonio Landolfi, senatore del PSI, il 20 ottobre del 1982. Nell'incredibile, kafkiano documento, il Giudice Istruttore del Tribunale di Roma, Ferdinando Imposimato - poi senatore del Pei e oggi vicino a Grillo - accusò i due dirigenti socialisti "del delitto di cui agli artt. 270 e 306 del codice penale per aver partecipato ad una associazione sovversiva, costituita in banda armata, ricollegabile al cosiddetto "Progetto Metropoli", avente finalità di sovvertire, violentemente, gli ordinamenti economici e sociali, costituiti nello Stato, mediante la egemonizzazione di tutte le organizzazioni eversive armate operanti in Italia, mantenendo frequenti e diretti collegamenti con i vertici della banda. E concorrendo, tra l'altro, al finanziamento della stessa attraverso il Cerpet (sedicente Comitato per la Ricerca e Programmazione Economia e Territoriale), associazione sorta con finalità, apparentemente, lecite di studio e di ricerca socio-economica nel campo del lavoro intellettuale ma, in realtà, protesa, unicamente, al reperimento di fondi per l'attuazione dei piani della banda". Un'accusa, articolata, che fece scalpore ma finì nel cestino del tribunale di Roma e non ebbe seguito alcuno. Probabilmente, tuttavia, contribuì a quella leggenda metropolitana, anch'essa priva dì qualsiasi fondamento - ripresa, di recente, da un eminente "storico", Miguel Gotor, nominato senatore del Pd da Pigi Bersani - che vedeva in Giacomo Mancini il "Grande Vecchio" dell'eversione italiana. Una figura leggendaria, mai esistita, che i teorici del complottismo avrebbero voluto essere l'ispiratore di una intera epoca della storia d'Italia, piena di ombre, mai chiarite, neanche a tanti anni di distanza. Ritornato a Cosenza, dopo 11 mesi di detenzione preventiva a Rebibbia, Piperno ricevette una festosa accoglienza, con un corteo, che attraversò la città, con la banda musicale, con la sinistra, garantista e manciniana, alla guida della sfilata. Si doveva tenere un incontro nella sala del Comune, ma ì tanti presenti non vi entravano. E si decise di montare degli altoparlanti, fuori dal municipio, nella piazza. Piperno, con passione ed emozione, parlò dal balcone. Tante e roventi le polemiche, anche nazionali, su quel discorso. Si giunse a paragonare il balcone di Cosenza al balcone di Piazza Venezia, quando parlò Mussolini, in un editoriale del "Corriere della Sera", firmato da Leo Valiani, figura storica della Resistenza nel Partito d'Azione. Quella era la Cosenza del garantismo e del riformismo socialista. La Corte d' Assise d' Appello di Roma ritenne Piperno responsabile, insieme a Lanfranco Pace, del solo reato di associazione sovversiva: ad ambedue gli imputati la pena venne ridotta a 2 anni di reclusione, contro i 10 inflitti in primo grado, per "banda armata e associazione sovversiva". Il docente di fisica dell'Università della Calabria, che oggi ha 72 anni, successivamente, fu riabilitato. "Mi sono sottoposto a questo ennesimo, stupido rito della riabilitazione - spiegò - perché ho una passione politica e civile per il mio Paese e ho voglia di partecipare". Piperno fu assessore alla Cultura, a Cosenza, nelle giunte, guidate da Giacomo Mancini ed Eva Catizone. Non so se, come ha scritto Teresa Meli sul "Corriere della Sera", Franco ritenga che "il passato sia stata la pagina più bella" della storia del nostro Paese. Credo che, come Adriano Sofri, editorialista de "La Repubblica", e altri protagonisti della stagione delle proteste sociali e della contestazione studentesca, dopo aver saldato ì debiti con la giustizia penale, Piperno abbia il diritto di parlare della giustizia sociale, della solidarietà, dei drammi del suo Mezzogiorno e della nostra aspra Calabria. Come Landini e gli altri cittadini che, pagando le tasse, hanno il diritto di esprimere le loro idee, pur se queste, secondo Maria Teresa Meli, diffondono mestizia e mettono il magone a quanti le ascoltano. Trento: padelle contro le inferriate, la protesta dei detenuti per il "no" allo sport Il Trentino, 9 giugno 2015 Padelle contro le inferriate, coperte bruciate e lancio di bombolette a Spini. Ma il problema è sempre legato alla cronica carenza di personale penitenziario. Protesta rumorosa da due giorni nel carcere di Spini dove i detenuti si lamentano perché non possono accedere al campo sportivo. Un possibilità che lo scorso anno, in questo periodo, avevano già ma che ora si vedono negare. Ma non per una precisa volontà del direttore del carcere. Il no all'uso dell'area sportiva è infatti figlio della cronica carenza di personale che viene registrata nella casa circondariale di Spini. Lo "stato d'agitazione" è iniziato domenica quando sono stati bruciati alcune coperte e lenzuola e dalle celle sono state lanciate delle bombolette di gas. Si tratta di quelle piccolo, che si usano per il campeggio, e che i reclusi possono tenere per prepararsi qualcosa di caldo da mangiare o da bere. E ieri poi è partita la protesta sonora con padelle e quant'altro sbattute ritmicamente contro le inferriate. Come detto alla base della contestazione ci sarebbe il mancato via libera all'uso del campo sportivo, un'area in cui, fino allo scorso anno i detenuti avevano accesso con una certa frequenza. "Ma il no a questa possibilità - spiega Andrea Mazzarese, rappresentante provinciale del sindacato Sinappe - è motivato dal fatto che con i numeri che abbiamo non riusciamo a garantire la doverose sorveglianza. Da quando a Spini sono arrivati anche i detenuti per reati sessuali e altri reclusi che necessitano di particolare attenzione e controlli, la situazione già difficile è precipitata. E questo porta, purtroppo, a negare l'accesso al campo sportivo. La nostra speranza - commenta ancora Mazzarese - è che finalmente si possa trovare una soluzione. Fra fine giugno e luglio ci sono le nuove assegnazioni e forse a Trento arriveranno finalmente quegli agenti n più che chiediamo da tempo". L'ultima richiesta di aumentare il personale è stata inoltrata dal direttore del carcere Valerio Pappalardo pochi giorni fa con una lettera nella quale lamenta la carenza di 78 unità. Se arrivasse "forza nuova" sarebbe possibili riprendere anche le attività sportive che andrebbero a sommarsi agli altri "laboratori" organizzati per i detenuti. E oltre alla protesta dei detenuti, in questi giorni di gran caldo ci sono da registrare anche i problemi legati all'impianto di condizionamento. Che non funziona, come denuncia sempre Mazzarese. "Una situazione - dice - che rende difficile se non impossibile il lavoro di tanti agenti, specialmente per chi lavora davanti ai monitor di controllo". Alba (Cn): detenuto tenta di impiccarsi in cella, salvato dalla Polizia penitenziaria targatocn.it, 9 giugno 2015 Capece, segretario sindacato autonomo Polizia penitenziaria: "Ricompensa ministeriale per il poliziotto che ha compiuto il gesto". Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Alba. Protagonista di questa vicenda un detenuto italiano, collaboratore di giustizia. Il fatto è avvenuto nei giorni scorsi. "Per fortuna l'insano gesto - un tentativo di impiccamento - non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che esprime al poliziotto che ha salvato la vita al detenuto "apprezzamento e l'auspicio che gli venga concessa una ricompensa ministeriale". Vincente Santilli, segretario regionale Sappe del Piemonte, sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Diverse centinaia i casi avvenuti in Piemonte". "La situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata!", conclude Capece. "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come ad Alba - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri piemontesi e del Paese tutto". Cremona: agente di Polizia penitenziaria aggredito e malmenato da un detenuto Il Giorno, 9 giugno 2015 La denuncia del sindacato di polizia Sappe: È solo grazie ai colleghi che si è riusciti a contenere il detenuto e a evitare ulteriori complicazioni per la sicurezza e l'ordine interni". È ancora questione sicurezza nel penitenziario di Cremona. Un agente della polizia penitenziaria è stato aggredito e malmenato da un detenuto straniero, già protagonista nel passato di ferimenti e colluttazioni. Dura la protesta del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che torna a sollecitare l'avvicendamento del direttore e del comandante del reparto del carcere. "Si è verificata l'ennesima aggressione nei confronti del personale del Corpo di polizia penitenziaria. Un detenuto straniero, responsabile in poco tempo di altre aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria, ha colpito e ferito, senza alcun ragionevole motivo, l'agente di servizio nella sezione detentiva. È solo grazie all'ausilio di altri colleghi che si è riusciti a contenere il detenuto e a evitare ulteriori complicazioni per la sicurezza e l'ordine interni. Al poliziotto colpito va la nostra vicinanza e solidarietà, ma mi chiedo cosa si aspetta ancora a dare per intervenire sui vertici amministrativi e di polizia del carcere di Cremona, primi responsabili di una organizzazione del lavoro fallimentare e di livelli di sicurezza al di sotto del minimo", denuncia il segretario generale del Sappe Donato Capece. Il sindacato torna ancora a chiedere con forza la dotazione anche per la polizia penitenziaria dello spray al peperoncino. Padova: lavoro per i detenuti, la scommessa della Cooperativa Giotto di Elena Bagalà Vita, 9 giugno 2015 Di fronte a un tasso di recidiva che in Italia si attesta intorno al 70%, solamente il 2-3% dei detenuti inseriti nei percorsi lavorativi proposti dalla Cooperativa Giotto è tornato a delinquere una volta uscito dalla Casa di reclusione. Qualche settimana fa su queste pagine si è parlato della Cooperativa Sociale Giotto di Padova, una cooperativa di tipo B impegnata soprattutto nella valorizzazione delle persone svantaggiate, detenuti e disabili. Il cuore dei suoi interventi è la struttura carceraria Due Palazzi di Padova in cui la cooperativa opera dall'inizio degli anni novanta proponendo un impiego a oltre 500 detenuti e che attualmente offre possibilità di lavoro nell'ambito della pasticceria/ristorazione, della cura del verde con il "Parco Didattico", dell'assemblaggio e dei servizi di call center, questo dopo un'adeguata preparazione grazie a percorsi formativi che possono durare fino a 9 mesi. L'obiettivo è fornire un punto di partenza per riflettere su modelli di sviluppo e di cambiamento sociale attualmente in atto, comprenderne le dinamiche e quindi le possibilità di replicare in forme sempre nuove le conquiste e i risultati a cui si è arrivati grazie alle esperienze mostrate. In questo caso il dato più interessante è che di fronte a un tasso di recidiva che in Italia si attesta intorno al 70% solamente il 2-3% dei detenuti inseriti nei percorsi lavorativi proposti dalla Cooperativa Giotto è tornato a delinquere una volta uscito dalla casa di reclusione. Napoli: convegno "Il carcere dei diritti, verso gli Stati Generali", con Giorgio Napolitano Agenparl, 9 giugno 2015 Oggi, martedì 9 giugno, dalle ore 9,30 al Circolo degli Ufficiali, Palazzo Salerno, Piazza del Plebiscito, Napoli, si svolge il convegno "Il carcere dei diritti, verso gli Stati Generali", organizzato dalla Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania in collaborazione con la Fondazione Mezzogiorno Europa. L'incontro vedrà la presenza di autorevoli esponenti e rappresentanti del mondo penitenziario nazionale, della società civile, del mondo accademico e della Magistratura. Tra questi si segnalano, la Garante dei detenuti Regione Campania, Adriana Tocco, Tommaso Contestabile, il Provveditore Amministrazione penitenziaria Campania, Carminantonio Esposito, il presidente tribunale di Sorveglianza di Napoli, Marcello Bortolato, magistrato di sorveglianza (Giunta Anm), Pietro Buffa, provveditore Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna, Franco Corleone, Garante dei detenuti Regione Toscana, numerosi direttori e comandanti Polizia Penitenziaria degli istituti penitenziari campani, Giovanni Maria Flick, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Umberto Ranieri, presidente Fondazione Mezzogiorno Europa, Glauco Giostra, Ordinario di procedura penale Sapienza, Università di Roma, Riccardo Polidoro, presidente Osservatorio carcere delle Camere penali e Ottavio Lucarelli, presidente Ordine dei giornalisti della Campania. L'incontro di carattere nazionale, vedrà la presenza del Presidente emerito Giorgio Napolitano. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando è stato invitato a partecipare. "Le ragioni del convegno - spiega la Garante dei detenuti, Adriana Tocco - risiedono nell'impegno che i Garanti hanno preso nel corso dei numerosi incontri con il Ministro della Giustizia, di affrontare nei territori alcuni temi e sensibilizzare l'opinione pubblica in preparazione degli Stati Generali". Gli Stati Generali della detenzione sono stati aperti il 19 maggio a Bollate e prevedono 18 tavoli di elaborazione sui temi più importanti per la vita quotidiana dei reclusi nelle strutture penitenziarie. Un lavoro di sei mesi che si concluderà con un un'assemblea generale, in cui saranno presentati i risultati che dovranno essere trasformati in proposte di legge. Volterra (Pi): Punzo e Arena, il regista e il detenuto-attore per esperienza teatro collettivo Il Tirreno, 9 giugno 2015 Volterra, oltre 40 saranno i cittadini coinvolti: nel nuovo lavoro il pluripremiato della Compagnia della Fortezza e del film "Reality" di Garrone dialoga con se stesso e con le sue maschere. La super coppia colpisce ancora: Armando Punzo e Aniello Arena sul palco con un nuovo progetto. Si tratta di un esperimento condiviso, una creazione collettiva in cui i cittadini saranno coinvolti nel processo di creazione del primo spettacolo a solo di Aniello Arena, con la regia di Punzo. È già partito il countdown verso la XXIX edizione del Festival Volterra Teatro, che quest'anno avrà luogo dal 20 al 26 luglio. Il lavoro sul territorio è già partito da tempo: uno dei compiti principali di un festival e di chi opera nella cultura, infatti, è principalmente quello di formare un pubblico consapevole e partecipe. Seguendo questa ferma convinzione, da sempre e sempre di più negli ultimi anni, il direttore artistico Armando Punzo e lo staff organizzativo di Carte Blanche promuovono iniziative che muovono in questa direzione. Se già dallo scorso anno è attivo il laboratorio teatrale condotto dalla compagnia Archivio Zeta, che sta coinvolgendo oltre quaranta partecipanti di tutte le età, parte mercoledì 10 luglio un nuovo progetto che va verso la direzione di pensare-creare-fare teatro insieme a non professionisti. Protagonisti saranno lo stesso Armando Punzo e Aniello Arena, il pluripremiato attore della Compagnia della Fortezza e del film "Reality" del regista Matteo Garrone. Dopo quasi quindici anni di successi con la Compagnia della Fortezza, dopo le apparizioni sul grande schermo e il Gran Prix a Cannes 2012, dopo un nastro d'argento come miglior attore italiano 2013, è tempo per Aniello Arena, di cimentarsi - sotto la conduzione drammaturgica e registica di Armando Punzo - in un attesissimo lavoro da presentare, in forma di studio, nell'ambito del prossimo Volterra Teatro. In questo nuovo lavoro, l'attore dialoga con se stesso, con le sue maschere, le sue metamorfosi, le figure ormai storiche a cui ha dato vita negli anni, con le parole e i pensieri che hanno innescato, guidato, modellato il suo personale atto di sospensione, il suo straordinario percorso artistico, filosofico e umano. Il percorso creativo che porterà alla realizzazione di questo nuovo lavoro muove dal bisogno di trovare un nuovo interessante interlocutore, il pubblico, per tentare un esperimento di creazione artistica collettiva, in cui il lo spettatore non si limiti ad assistere all'esito di un'opera teatrale, ma partecipi alla creazione dello spettacolo stesso. Armando Punzo, quindi, chiede, secondo una peculiare pratica di coinvolgimento attivo del pubblico nei processi creativi, proposta dall'intero festival, che ad accompagnare l'attore nel percorso di composizione drammaturgica, siano gli spettatori stessi. Attraverso una serie di incontri-prove, i partecipanti saranno interlocutori diretti del regista e dell'attore, protagonisti attivi della formazione di pensieri e "levatrici" di immagini e atmosfere, nonché testimoni privilegiati della magia della nascita di un nuovo spettacolo teatrale. Gli incontri serali, a cadenza settimanale, inizieranno questa settimana e saranno organizzati tra Pomarance e Volterra - un incontro a settimana in ciascuna delle due città- e aperti a tutti.I primi appuntamenti sono programmati al Teatrino de Larderel di Pomarance mercoledì 10 giugno alle 21,15 e al Teatro di San Pietro di Volterra giovedì 11 giugno alle 21,15. La partecipazione è libera e gratuita. Ferrara: la boxe in carcere per la prima volta in Italia, gare di campionato il 12 giugno di Francesco Fiore estense.com, 9 giugno 2015 Presentate le gare di campionato in programma il 12 giugno in via Arginone. La boxe ferrarese, dopo le recenti vittorie ottenute sul ring, sposta la sua battaglia nel sociale organizzando la prima riunione pugilistica in Italia dentro una struttura carceraria. Il 12 Giugno infatti la Casa Circondariale di Ferrara ospiterà tre incontri validi per il campionato nazionale neo pro, oltre ad alcuni match dilettantistici, a cui potranno assistere un centinaio di detenuti. L'iniziativa, fortemente voluta dai fratelli Duran, ha trovato dopo l'ostilità iniziale l'appoggio delle autorità penitenziarie e del Coni, diventando parte del progetto Lo Sport Libera e rendendo possibile quello che fino a poco tempo fa sembrava irrealizzabile. "Il carcere non deve essere un luogo chiuso ma è importante che ci sia una relazione con l'esterno per favorire il reintegro di chi ha commesso dei reati" spiega l'assessore Simone Merli, che continua sottolineando l'importanza dello sport nei percorsi di riabilitazione dei detenuti. "Attraverso lo sport vogliamo trasmettere valori importanti come il rispetto delle regole e dell'avversario. Questo evento rappresenta un'occasione rieducativa che i detenuti percepiscono come più vicina a loro, sentendo l'interesse della società per la situazione carceraria" aggiunge il direttore della Casa Circondariale di Ferrara Paolo Malato. "Il messaggio che si vuole dare attraverso la boxe, sport spesso discusso ma comunque seguitissimo, è che c'è sempre la possibilità di recuperare dopo una sconfitta - spiega Alessandro Duran. "Nel pugilato come nella vita l'importante è sapersi rialzare e ripartire con sforzi e sacrifici". Questo evento storico vuole essere un punto di partenza che dovrà servire a mettere sotto gli occhi di tutti il tema, spesso trascurato, del reinserimento nella società dei detenuti i quali sono il più delle volte abbandonati a sé stessi ed emarginati dalla vita collettiva anche dopo aver scontato la pena. "Sarà un percorso lungo e difficile - assicura Massimiliano Duran - ma anche se uno solo dei ragazzi che stanno pagando i loro errori capirà che c'è la possibilità di recuperare e ricominciare la propria vita all'interno della comunità sarà una grande vittoria". "L'iniziativa non deve essere isolata - conclude Merli - ma dovrà avere un seguito ed estendersi ad altri istituti penitenziari". La speranza è che all'apertura della struttura carceraria alla comunità segua una risposta da parte della società, così da aprire un nuovo percorso che possa contribuire al miglioramento della vita dei detenuti e ad un conseguente reinserimento nella vita collettiva. Pesaro: il "Coro del 62 e dintorni" in concerto per i detenuti di Villa Fastiggi viveresenigallia.it, 9 giugno 2015 "La musica per me è tutto", "per me è la vita", "per me è ricordare il passato e sperare in un futuro". Sono queste le frasi che si sono sentite sabato 30 maggio durante il concerto che il "Coro del 62 e dintorni" ha tenuto presso la Casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. Dopo essersi esibiti nella Casa circondariale di Ancona Montacuto e nella Casa di reclusione di Ancona Barcaglione a Natale e Pasqua, i componenti del Coro hanno ampliato il loro raggio di azione approdando alla struttura detentiva di Pesaro. Due concerti, uno dietro l'altro: il primo per gli uomini e poi subito dopo per le donne. Brani di Lucio Battisti, Fiorella Mannoia, Vasco Rossi, Nomadi e anche spazio al karaoke che ha visto sul palco alcuni detenuti che si sono cimentati in brani scelti al momento da loro stessi. "Entrare in un carcere e cantare è sempre un'esperienza toccante - racconta una esponente del Coro - ma noi lo facciamo molto volentieri perché la finalità del nostro Coro è quella di divertirci e divertire chi ci ascolta quindi perché non farlo anche per i detenuti? Noi non entriamo per giudicare: per quello ci sono delle figure istituzionali. Noi pensiamo solo ad "alleggerire" la permanenza dei detenuti con un semplice intervento musicale". Il Coro del 62 e dintorni nasce nel dicembre del 2013 e in questi anni ha tenuto concerti a Senigallia e nelle città vicine solo per scopi benefici. I componenti sono nati quasi tutti nel 1962 e sono accumunati dalla passione per la musica e da una grande amicizia. "Non è stato possibile scattare foto durante lo spettacolo - aggiunge un altro componente del Coro - ma ognuno di noi ne ha scattate centinaia con i propri occhi e sono tutte conservate nei nostri cuori. Un'esperienza indimenticabile! Speriamo di poter tornare presto a Villa Fastiggi". Immigrazione: al Viminale passa la linea dura, già partiti i pullman per il Nord di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 giugno 2015 Il "no" di Liguria, Lombardia, Veneto e Valle d'Aosta, che può sfruttare lo statuto speciale. La linea dura è passata. Mentre i governatori del Nord protestano e annunciano rivolte, dal Sud partono i pullman carichi di migranti. Vanno in Lombardia, Veneto, Liguria, Valle d'Aosta. Arrivano lì dove il governo ha deciso di far rispettare le quote fissate con la circolare del 1° giugno scorso per garantire un'equa distribuzione. Gli stranieri vengono portati nelle strutture indicate dai prefetti al termine della riunione convocata al Viminale. "In questa materia non accettiamo alcun tipo di sfida", ribadisce il ministro Angelino Alfano. E poco dopo dispone la divisione per Regione. Il clima è teso, i colloqui con il commissario all'immigrazione dell'Unione Europea Dimitris Avramopoulos cementano l'intesa, ma i successivi confronti con la delegazione tecnica francese marcano la distanza, un accordo appare sempre più complicato da raggiungere. E dunque bisogna attrezzarsi per affrontare un'estate che si preannuncia difficilissima, con sbarchi continui e il rischio di nuove tragedie del mare. La scelta del Viminale era di non interferire in alcun modo nella campagna elettorale per le Amministrative, tantomeno di alimentare lo scontro in quelle aree dove si votava per il rinnovo dei governatori. Per questo si è stabilito di inviare la direttiva per la sistemazione di 8.406 profughi giunti sulle coste italiane nell'ultima settimana a urne chiuse e spoglio terminato. In base a quelle disposizioni la quota per la Lombardia era fissata a 2.116 persone e quella per il Veneto a 1.926. Rispettivamente ieri si è deciso di mandare nella prima 450 migranti e 630 nella seconda. I pullman sono partiti ieri sera da Reggio Calabria e Vibo Valentia alla volta di Milano. "I centri di accoglienza sono abbastanza pieni, ma siamo sempre pronti a fare la nostra parte in termini di solidarietà", ha chiarito il prefetto Francesco Paolo Tronca. Un segnale inviato al direttore del Dipartimento Immigrazione Mario Morcone e a tutto lo staff che ormai da mesi sta cercando di far quadrare i conti proprio per evitare di gravare troppo su alcune aree e per nulla su altre. Regioni "ribelli" sono certamente la Liguria che dovrebbe accogliere 599 persone e ne ospiterà 350, e la Valle D'Aosta che a fronte di una quota pari a 141 ne prenderà 100. Questa almeno è la disposizione del Viminale, ma non è affatto scontato che sarà rispettata perché lo statuto speciale prevede che sia il governatore a fare le funzioni del prefetto e finora il muro eretto è apparso invalicabile. Nell'aprile scorso, di fronte a una massa di arrivi che aveva congestionato i centri di accoglienza, la richiesta del ministero prevedeva l'invio di 50 stranieri. La risposta fu lapidaria: "Al massimo prendiamo una persona". Ben diverso l'atteggiamento degli altri: 400 stranieri vanno in Piemonte, 250 in Toscana, 150 in Campania, 115 in Abruzzo, 92 in Molise, 55 nelle Marche, 50 in Emilia-Romagna e in Basilicata. È soltanto la prima fase, altri viaggi saranno organizzati nei prossimi giorni quando si avrà un quadro completo della situazione e si valuterà la necessità di "sfollare" alcune strutture. Il piano viene aggiornato in base agli arrivi tenendo conto di chi ha fatto lo sforzo maggiore. Non a caso Alfano sottolinea come "la decisione di incentivare i Comuni che mostreranno disponibilità era già stata attuata nei mesi scorsi in Sicilia". Ma anche perché è consapevole che la collaborazione dell'Europa certamente non sarà sufficiente a supportare il nostro Paese nella gestione di un'emergenza che nei prossimi giorni rischia di diventare drammatica. Alfano ne ha avuto contezza al termine degli incontri con le varie delegazioni internazionali che si sono succedute ieri al Viminale. Molto teso rimane il clima con i francesi che ieri hanno ribadito la propria posizione: i richiedenti asilo devono rimanere chiusi nelle strutture fino al termine della procedura. Una linea che per l'Italia è inaccettabile, soprattutto perché l'iter per il riconoscimento dello status di rifugiato dura almeno tre mesi ed è impossibile trattare queste persone come se fossero in custodia. Immigrazione: si fa strada l'idea degli incentivi ai Comuni più "accoglienti" di Marco Ludovico Sole 24 Ore, 9 giugno 2015 Si fa strada l'idea di incentivare i Comuni che si fanno avanti nell'accoglienza immigrati, ipotesi che ora trova d'accordo il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Ricordata anche dal ministro dell'Interno, Angelino Alfano, in sede di conferenza stampa con il commissario europeo Dimitris Avramopoulos, ha già avuto infatti una prima ridotta ma concreta applicazione fin dall'anno scorso. Il caso siciliano I 13 municipi della Sicilia coinvolti nell'emergenza sbarchi 2014 - 170mila stranieri approdati in totale sulle nostre coste - ottennero con una norma inserita in un decreto legge poi convertito deroghe al patto di stabilità. L'idea è stata ripresa nelle settimane scorse dal presidente dell'Anci, Piero Fassino, e dal suo delegato all'immigrazione, Matteo Biffoni. Una prima bozza Anci di progetto tecnico-normativo è stata sottoposta al vaglio dei tecnici del Viminale ma poi è emerso che il percorso doveva passare all'esame dei funzionari del ministero dell'Economia. Le prospettive Non si tratta più, infatti, di una decina o poco più di comuni ma - sperano al Viminale e all'Anci - di un numero di città e paesi molto più elevato. Tale, insomma, da poter dar seguito all'idea di distribuire numeri piccoli di migranti su una mole estesa di centri abitati, in modo da ridurre l'impatto sociale e le problematiche comunque connesse, almeno all'inizio. Con un numero elevato di enti locali coinvolti anche i costi o comunque le cifre finanziarie in ballo diventano considerevoli. Ma dopo la giornata di ieri con la legittimazione politica all'idea di fondo appare chiaro che la strada agli incentivi comunali si fa, a questo punto, in discesa. La formulazione tecnica annunciata nel principio di base, la deroga al patto di stabilità per attingere agli avanzi di bilancio, potrebbe soddisfare le esigenze di molti comuni in queste condizioni:?quelli del Veneto, per esempio. L'ipotesi da formulare, però, a questo punto deve abbracciare anche i municipi che non si trovano necessariamente in avanzo o pareggio di bilancio. Occorrerà definire altre misure compensative, di più ampio respiro. Immigrazione: il "muro del Nord" di Guido Viale Il Manifesto, 9 giugno 2015 Per una Unione euro-mediterranea. Che significa quel "teneteveli", rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne "ospitano" milioni. Il capitolo "secessione", che le Regioni leghiste (la "Padania" senza più il Piemonte, ma con in più la Liguria) non erano riuscite ad aprire e legittimare in campo fiscale, viene oggi riproposto sulla questione delle "quote" di profughi e migranti da trasferire al Nord dai porti di sbarco; nonostante che a guidare la rivolta sia proprio Maroni, l'ex-ministro che quelle quote le aveva introdotte. Ma questa volta la fronda leghista avrà un impatto maggiore, perché è in perfetta sintonia con le posizioni che i paesi dell'Unione Europea stanno adottando nell'affrontare lo stesso problema: "Teneteveli". Cioè: anche se, contro gli intenti originari, la missione Triton è costretta a salvarli, i profughi restino là dove sbarcano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dunque più l'unica minaccia per la coesione dell'Unione Europea. Una governance che si comporta così verso i suoi membri non è più la legittima guida dell'Ue, come non sarebbe più uno Stato unitario quello che accettasse una divisione simile tra le sue Regioni. Le destre italiane ed europee lo sanno, anche se ancora possono - e torna loro comodo - nascondere a se stesse e agli altri le conseguenze di questa linea di condotta: che è destinare allo sterminio milioni di esseri umani. Cioè, proprio la riproposizione di ciò che la Comunità, poi Unione Europea, ha come sua ragion d'essere originaria: che le tragedie prodotte da due guerre mondiali e dai campi di sterminio "non abbiano a ripetersi mai più". Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può ignorare. Le deboli forze che in Italia e in Europa si battono per un mondo diverso ne devono prendere atto; anche se questa è in assoluto la più difficile delle battaglie che finora non siamo stati capaci di combattere, e soprattutto di vincere. Che cosa significa infatti quel "teneteveli", rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma anche a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne "ospitano" già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tunisia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, questi, dove non si riesce neppure a fare una conta sommaria degli sbandati (displaced persons) e dove è ormai impossibile distinguere tra profughi di guerra, di persecuzioni politiche, religiose o etniche, di crisi ambientali o di fame e miseria (i cosiddetti migranti economici); anche se l'esito di queste tante concause è quasi sempre una guerra alimentata dal commercio di armi a beneficio di nazioni che le producono. L'Italia affronta il problema affidandolo a malavita, mafia e malgoverno, gli strumenti tradizionali di gestione di tutte le emergenze vere o inventate: Expo', Mose, rifiuti, terremoti, alluvioni, elezioni, sanità, lavoro nero. Con i profughi, gli affari di mafia e malgoverno si associano a sfruttamento, umiliazione e degrado di coloro che vengono affidati alle loro "cure". Ma anche a crescenti motivi di timore, malcontento, rivolta aperta; a invocazione di poteri forti e soluzioni definitive (o "finali"?); a professioni di razzismo ostentate delle popolazioni locali. Ma in che modo pensiamo che vengano gestiti in Medio Oriente i campi profughi di milioni di esseri umani senza alcuna prospettiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vorremmo risospingere? E che cosa ci aspettiamo che facciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà "farli sparire", dopo averli torturati, rapinati e violati in tutti i modi: unica alternativa alla mancata possibilità traghettarli in Europa. Ma lo Stato italiano, lasciato solo a vedersela con flussi crescenti e incontrollabili, diventerà anch'esso destinatario dei respingi-menti: ridotto a trasformare la polizia, come già sta facendo, in "scafisti di Stato", per cercare di far passare la frontiera, in violazione della convenzione di Dublino, al maggior numero possibile di migranti; o a "esternalizzarne" la gestione a organizzazioni alla Buzzi (ma in campo c'è già anche di peggio); o ad abbandonarli per strada, inscenando fughe di massa dai luoghi di detenzione, e creando così situazioni di degrado e di effettivo pericolo con cui alimentare rivolte sempre più diffuse di comunità locali. Che l'Italia possa rimanere "agganciata" all'Europa in una situazione del genere è difficile. Ma che l'Europa possa continuare a occuparsi di sforamenti dei deficit dello "0 virgola", senza darsi uno straccio di politica per affrontare, in una prospettiva di pacificazione, la belligeranza endemica ai suoi confini, o le derive autoritarie, nazionalistiche e razziste al suo interno, è altrettanto surreale. D'ora in poi tutti i progetti per cambiare la società, o la distribuzione del reddito, o per difendere lavoro, territorio, scuola, sanità, cultura, diritti, dovranno confrontarsi con il problema dei profughi e dei migranti: per cercare una via di uscita pacifica e negoziata alla crisi geopolitica del Mediterraneo; e per trovare un posto e un ruolo alle centinaia di migliaia che cercano salvezza in Europa. Una via di uscita sostenibile, accettabile per tutti, che riduca anziché esacerbare le molte ragioni di contrasto tra locali e migranti; che permetta di vivere l'arrivo di tanti profughi non come una minaccia e un peso insostenibili, bensì - lo hanno dimostrato vicende locali esemplari, come quella di Lampedusa - come un'opportunità di nuove forme di convivenza, di crescita culturale, di apertura politica, di un approccio di respiro euro-mediterraneo ai problemi quotidiani: un approccio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro continente e i paesi dell'Africa, del Maghreb e del Medio Oriente. Con un piano che deve, sì, essere europeo, ma che va messo a punto qui, cominciando a dimostrarne la fattibilità per piccoli episodi: a partire da una vigilanza e una contestazione diffuse e di massa su tutti gli affidi in materia di accoglienza e gestione dei profughi. Innanzitutto i cittadini italiani non devono essere messi nella condizione di temere che a loro siano riservate meno risorse e meno opportunità di quelle destinate a profughi e migranti: dunque, reddito garantito e piani generali per creare lavoro e dare occupazioni e soluzioni abitative decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità). Poi, autogestione: è criminale costringere i profughi "accolti" a un ozio forzato di anni e affidare a imprese cosiddette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quotidiana. Assistiti e controllati, profughi e migranti possono gestire da soli risorse ed edifici riservati alla loro permanenza. Poi devono essere distribuiti sul territorio, con misure per facilitare contatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, attività ricreative, mediazione culturale. Infine devono potersi organizzare anche sul piano politico, valorizzando i contatti tra comunità nazionali già insediate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti. La costruzione di una identità regionale - di una comunità euro-mediterranea, da fondare sulle macerie dell'Unione attuale, che ha dimenticato le ragioni che l'hanno fatta nascere - ha bisogno di queste cittadine e cittadini, che qui possono mettere a punto un progetto, un embrione di governo in esilio, e una road map per il riscatto politico e sociale dei loro paesi di origine. È una strada lunga e tortuosa (come lo è stata quella che ha portato alla fondazione dell'Unione Europea), ma ineludibile per non venir sopraffatti da una guerra permanente ai confini dell'Unione e dal trionfo del razzismo al suo interno. P.S. Questo è un tema ineludibile per la coalizione sociale, un progetto che poteva nascere un anno fa con L'Altra Europa con Tsipras, ma che è stato disatteso a favore di un ennesimo assemblaggio di inutili partitini; ma che per fortuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando. Guinea Equatoriale: Roberto Berardi resta in carcere, per terza volta escluso da amnistia di Domenico Letizia L'Opinione, 9 giugno 2015 Il 5 giugno scorso, in occasione del compleanno del dittatore della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Mbasogo ha concesso l'amnistia per i detenuti. Una notizia importante se si considerano le condizioni delle carceri della Guinea Equatoriale. Tale annuncio, invece, è stata una bastonata per la famiglia dell'imprenditore di Latina, Roberto Berardi. Per l'imprenditore, rinchiuso da oltre due anni, l'amnistia è un miraggio lontano. Per la terza volta, dall'ottobre del 2014, il decreto presidenziale di clemenza non lo riguarda. Il Berardi ha trascorso gli ultimi vent'anni svolgendo il ruolo di imprenditore in Africa Occidentale, dalla Costa D'Avorio alla Nigeria, in campo edilizio. I problemi per Berardi iniziano quando viene intrapreso un rapporto professionale con il figlio del dittatore Mbasogo, Teodorin Obiang Mangue. Teodorin risulta rincorso da un mandato internazionale di cattura per corruzione e riciclaggio, grazie proprio alle denunce dell'imprenditore di Latina. La procura distrettuale della California ha dimostrato come centinaia di migliaia di euro, provenienti dall'impresa "Elola Construcion", i cui soci erano il figlio del presidente e l'imprenditore Berardi, fossero utilizzati fraudolentemente per i capricci della famiglia presidenziale, attraverso conti correnti americani. L'abuso della carcerazione commessa nei confronti del Berardi è una sistematica e continua violazione dei diritti umani a cui la diplomazia italiana non riesce a dare risposte concrete. L'organizzazione non governativa "Equatorial Guinea Justice", diretta da un cittadino della Guinea Equatoriale residente negli Stati Uniti, ha diramato un durissimo comunicato stampa nel quale denuncia le vicende legate a Roberto Berardi: "La decisione è scandalosa, le autorità della Guinea Equatoriale pur di mantenere il signor Berardi in cella non si fanno problemi a violare ulteriormente il suo diritto alla libertà personale ed alla sicurezza. Questa manipolazione dimostra chiaramente la mancanza di indipendenza del potere giudiziario. Non esiste alcuna base giuridica per la continuazione della detenzione del signor Berardi. La tortura e l'ingiusta prigionia del signor Berardi in condizioni spaventose ha gravemente compromesso la sua salute. Prolungare la detenzione di altre settimane non è solo crudele, ma persino illegale". Ad intervenire sulla vicenda è anche Albrieux Giacomo, Console onorario della Repubblica Ugandese in Italia dal 2011, con attività nel settore del turismo in East Africa con base a Kampala, che dichiara: "Sulla base della mia ventennale esperienza in Africa vissuta sul territorio devo constatare che è sempre più utile risolvere queste tristi esperienze e drammi umani attraverso canali diplomatici paralleli utilizzando se possibile attori che conoscano bene i sistemi usati spesso dai regimi che calpestano i diritti umani tanto più in circostanze come questa che va dritta al cuore del regime; i nostri diplomatici e la Farnesina sono inefficaci a trattare queste vicende in Africa perché ambasciatori e personale non vogliono grane e quando ci sono non fanno nulla per risolverle". Colombia: caso Manolo Pieroni; il rimpatrio era ormai vicino ma la legge lo beffa ancora di Solange Del Carlo La Nazione, 9 giugno 2015 Di questa storia se n'è occupata più volte anche La Nazione, che ha dato voce alla famiglia di Manolo Pieroni 33enne di Segromigno in Monte detenuto ormai da quattro anni nel carcere colombiano di Palmira. Lo stesso Pieroni, in un'intervista esclusiva del 12 marzo 2014, raccontava la drammaticità della vita nella prigione sudamericana. Oggi la sua storia torna di stretta attualità, grazie all'ennesimo appello della compagna di Manolo, Solange Del Carlo, che chiede aiuto e si sente profondamente indignata con lo Stato italiano. Il motivo? Dopo una trafila burocratica, a suo dire la richiesta di rimpatrio per ragioni umanitarie in Italia era arrivata sul tavolo del Ministero che però, lo scorso 25 maggio, ha negato tale possibilità rinviando tutto l'incartamento all'Ambasciata di Bogotà. Secondo lo Stato italiano manca l'accordo bilaterale tra Italia e Colombia e dunque la possibilità di ritorno di Manolo, non è accettabile. Ma facciamo un passo indietro. Manolo Pieroni è stato condannato per un reato che, secondo lui e la compagna Solange, non ha commesso. Era partito per aprire un'attività in Colombia, ma quando è arrivato all'aeroporto è stato fermato "perché qualche maledetto - come raccontava lui direttamente via telefono dal carcere di Palmira nel marzo 2014 - aveva deciso di nascondermi la droga in valigia e farmi fare da involontario corriere". La pena? 21 anni. Da qui inizia il percorso per far scontare la detenzione di Manolo in Italia, viste le condizioni della prigione colombiana. Il 19 febbraio di quest'anno "dopo tanto impegno, complicazioni e lacrime - racconta Solange - il Ministero di Giustizia colombiano ha approvato un rimpatrio per ragioni umanitarie, vista la difficile situazione familiare". Insomma, problemi legati alla salute dei familiari. "Così il 1 aprile l'ambasciata italiana a Bogotà termina lo scambio di atti con la cancelleria colombiana e invia tutta la documentazione al Ministero dell'Interno italiano - racconta ancora. Dopo essermi messa in contatto telefonicamente più volte con il Ministero dell'Interno a Roma, mi comunicano che avevano passato la documentazione al Ministero di Giustizia che deve dare il visto perché il rimpatrio diventi effettivo. Il 25 maggio il Ministero dell'Interno mi comunica che il Ministero di Giustizia non ha approvato il rimpatrio per ragioni umanitarie rinviando tutta la documentazione all'ambasciata di Bogotà". Così oggi Solange torna a chiedere aiuto per sensibilizzare l'opinione pubblica, "così che il Governo - conclude - possa accelerare queste pratiche, visto che le condizioni in cui vive il mio compagno sono veramente disumane. Anche l'Onu ha ammonito in più occasioni il governo colombiano per trattare i detenuti in modo disumano". Iran: ieri nuova esecuzione di massa nel carcere di Karaj, 11 detenuti sono stati impiccati Aki, 9 giugno 2015 Nuova esecuzione di massa in Iran. Undici detenuti sono stati impiccati ieri nel carcere Ghezel Hesar di Karaj, nel nord del paese, non lontano da Teheran. Lo ha riferito il sito di Iran Human Rights (Ihr), organizzazione che si batte contro la pena di morte nella Repubblica islamica, citando fonti "attendibili". Ihr ha ricordato che sabato 25 detenuti sono stati trasferiti nell'ala del carcere destinata ad ospitare i prigionieri in procinto di essere giustiziati. Ad essi si sono aggiunti poi altri 22 detenuti trasferiti a Ghezel Hesar dalle carceri di Rajai Shahr e di Teheran. Secondo l'organizzazione, altre condanne a morte saranno eseguite a Karaj nei prossimi giorni. Tutti i detenuti giustiziati oggi erano stati condannati a morte per traffico di droga. Dal 6 maggio, almeno 67 sentenze capitali sono state eseguite a Ghezel Hesar. L'ultima ondata di esecuzioni risale al 26 maggio, quando vennero impiccati 22 detenuti a seguito di una manifestazione non autorizzata. I detenuti avevano rivolto un appello alla Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, chiedendo la commutazione della pena di morte nell'ergastolo. Eritrea: l'Onu denuncia "sistema totalitario, responsabile di crimini contro l'umanità" Adnkronos, 9 giugno 2015 Un sistema totalitario che si macchia di crimini contro l'umanità e perseguita la popolazione. È quello che vige in Eritrea, secondo la denuncia lanciata dalle Nazioni Unite nel rapporto finale della Commissione di indagine dedicata allo stato dell'Africa orientale. Dove, si legge, "non è la legge a regnare ma la paura". Un vero e proprio meccanismo totalitario, segnala il rapporto, che ha costretto centinaia di migliaia di persone ad abbandonare la propria terra e ha fatto degli eritrei uno dei maggiori gruppi etnici in fuga sui barconi nel Mediterraneo. Per questo, la richiesta avanzata alla comunità internazionale è di trattare gli eritrei come rifugiati. "Questo popolo sta fuggendo dalle gravi violazioni dei diritti umani in atto nel Paese e ha bisogno della protezione internazionale", ha detto la Commissione. Dissenso soffocato, movimenti dei cittadini controllati, opinioni sorvegliate: è questa la linea di un "governo totalitario" che, si legge nel report basato su 550 interviste a eritrei esiliati, infligge severe punizioni. Come ad esempio violazioni nell'area delle esecuzioni extragiudiziali, le torture (anche di tipo sessuale) e i lavori forzati, che "possono essere considerati crimini contro l'umanità". Secondo il rapporto, infine, molti detenuti, studenti e militanti sono sottoposti a lavori forzati che sfiorano la schiavitù. Stati Uniti: liberato l'ultimo dei "tre dell'Angola", dopo 43 anni in cella d'isolamento La Repubblica, 9 giugno 2015 L'uomo era accusato di aver ucciso una guardia carceraria durante una rivolta nel penitenziario della Louisiana. Si era sempre proclamato innocente. Il giudice ha stabilito che non potrà più essere incriminato per quel delitto. L'ultimo dei "3 dell'Angola" è stato definitivamente rilasciato negli Stati Uniti dopo 43 anni passati in isolamento in carcere. Albert Woodfox, 68 anni, era stato condannato due volte per l'omicidio della guardia carcere Brent Miller, morta nel 1972 ad Angola, il penitenziario di Stato della Louisiana durante una rivolta. Lui, unico prigioniero si è sempre proclamato innocente e a credergli sono stati i due tribunali che in appello avevano rovesciato l'esito delle sentenze di condanna. Adesso il giudice federale James Brady ha emesso un ordine che non solo mette in libertà il prigioniero ma lo blinda da qualsiasi altro procedimento, come quello che contro di lui stavano preparando la procura di Louisiana, dove Woodfox si trovava dietro le sbarre. Woodfox era uno dei "3 dell'Angola", ovvero quel gruppo di detenuti (gli altri erano Robert Hillary King ed Herman Wallace, anche loro di pelle nera) il cui isolamento ventennale in celle di due metri per tre venne alla luce nel 1997 e scatenò un'ondata di indignazione pubblica. Di loro si è occupata spesso anche Amnesty International. I processi ai tre sono tutti risultati, alla luce di quanto successivamente emerso, poco equi e impostati sul pregiudizio razziale e politico, poiché collegati - seppur in tempi diversi - al gruppo delle Pantere Nere. Esulta Amnesty international: "Dopo quattro decenni di isolamento, la decisione del giudice Brady di garantire ad Albert Woodfox il rilascio incondizionato segna un passo importantissimo verso la giustizia", commenta l'organizzazione in una nota. "Woodfox ha trascorso 43 anni rinchiuso per un processo legale pieno di pecche. L'unica azione umana che ora le autorità della Louisiana possano fare è garantire il suo rilascio immediato". Stati Uniti: caccia evasi dal Clinton Correctional Facility, si cercano complici nel carcere Adnkronos, 9 giugno 2015 Si sta dando la caccia in tutto lo stato di New York ai due detenuti protagonisti nel weekend della spettacolare evasione, degna di un film di Hollywood, dal Clinton Correctional Facility, prigione di massima sicurezza nel nord dello Stato, a poche decine di chilometri dal confine con il Canada. E la polizia intanto sta indagando anche all'interno del carcere, dove si sospetta che i due detenuti - Richard Matt, 48enne e David Sweat, 34 anni, entrambi condannati per omicidio - siano stati aiutati da qualcuno per realizzare il loro piano di fuga. Un piano che ha fatto tornare alla mente di tutti "Fuga da Alcatraz": per ritardare la scoperta della loro fuga, Matt e Sweatt hanno infatti lasciato sotto le coperte dei manichini improvvisati, proprio come faceva Frank Morris, alias Clint Eastwood, nel film del 1979 di Don Siegel. Centinaia di poliziotti stanno battendo palmo a palmo le zone rurali prossime al confine con il Canada, mentre il governatore Andrew Cuomo ha messo una taglia di 100mila dollari sui due evasi, dichiarando che la loro fuga è "una situazione di crisi per lo Stato", vista la pericolosità dei due fuggitivi. Ieri è stata interrogata una dipendente del carcere che, secondo quanto riporta il New York Post, potrebbe essere stata convinta da Matt, che gli investigatori descrivono come un uomo che ha successo con le donne, ad aiutarlo. Le autorità ritengono che i due sono riusciti a scappare nella notte tra venerdì e sabato attraverso un buco nel muro con trapani elettrici ed altri attrezzi di lavoro sottratti ad un cantiere in corso all'interno del carcere. I due hanno dovuto abbattere un muro di mattoni, una parete di metallo e tagliare anche dei tubi per potersi aprire un varco e gli inquirenti non escludono che qualcuno li abbia aiutati nel lavoro. "Guardate questi tagli nei tubi, sono perfetti, non è normale: qualcuno li ha aiutati", hanno detto ancora fonti degli investigatori, che stanno concentrando le indagini anche sulle squadre di operai esterni impegnati nel cantiere. Cina: per lotta alla corruzione, funzionari cinesi in visita obbligatoria nelle carceri di Elisabetta Iovine Italia Oggi, 9 giugno 2015 La lotta alla corruzione è uno dei cavali di battaglia del presidente Xi Jinping. Dopo la crociata contro i regali ai funzionari pubblici, che ha provocato una caduta del fatturato fra le aziende del lusso, ora è la volta delle visite educative in carcere. Gli alti funzionari dovranno obbligatoriamente entrare nelle carceri del loro paese, accompagnati dalle mogli, per rendersi conto della fine che potrebbero fare se fossero beccati con le mani nella marmellata. Un modo per invogliarli a rigare dritto e a scansare tangenti e bustarelle. L'operazione è cominciata il mese scorso, quando una settantina di quadri del Partito comunista è stata invitata a far visita a ex colleghi che si trovano nel carcere di Shiyan, nella provincia di Hubei, condannati per abuso d'ufficio e per corruzione. In particolare uno dei prigionieri, Lu Xingguo, un tempo a capo della gestione del territorio e delle risorse nel distretto di Fan, ha raccomandato ai funzionari in visita di vigilare sulle loro relazioni sociali, di esaminare attentamente le loro amicizie e di correggere i rapporti di lavoro. La Commissione centrale del partito che si occupa di disciplina ha evidenziato la valenza educativa di un simile intervento, che serve a far prendere coscienza dei crimini legati alla corruzione, affinché i dirigenti pubblici esercitino correttamente il loro potere e vengano esaminati attentamente nella loro condotta. Anche perché, per ammissione stessa dei controllori, tuttora la bella vita è all'ordine del giorno fra molti quadri comunisti, nonostante che il vento ai vertici stia soffiando in tutt'altra direzione. È difficile sradicare abitudini consolidate. Anche perché le pratiche fuorilegge sono diventate più nascoste e sofisticate di un tempo. Ma le reti sociali hanno risposto con ironia all'iniziativa moralizzatrice degli organi statali. Un internauta ha scritto che si tratta dell'ennesimo spettacolo per ingannare i cinesi. Fatto sta che, dall'avvio della campagna anti-corruzione, oltre 100 funzionari pubblici di alto livello e migliaia di quadri sono stati rinchiusi in cella. Per i diretti interessati è difficile pensare che si tratti di una semplice sceneggiata e che l'obiettivo fosse unicamente quello di individuare dei capri espiatori.